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“Se la diversità è una vergogna”, di Natalia Aspesi

Un ragazzino si uccide, come hanno fatto altri, perché omosessuale, perché emarginato e schernito dai compagni in quanto omosessuale, perché non sa come dirlo ai suoi genitori che immagina non lo capirebbero.
Perché alla fine nel mondo, anche nel suo mondo di riferimento adolescenziale, i gay sono sempre di più: belli, celebri, accettati, capiti, amati, venerati, stilisti e registi, cantanti e attori, nuotatori e tennisti, calciatori e politici. Una élite che vive in un contesto privilegiato dove contano le persone e non le loro preferenze sessuali: persone che sono se stesse, che non si nascondono, che vivono in coppia, che fuori dall’Italia si sposano e adottano figli.
Questi modelli vincenti non sono di aiuto, non danno accettazione e sicurezza a un ragazzino che si immagina diverso, o teme di esserlo: e che si sente troppo lontano da quelle figure irraggiungibili che lo fanno sentire un escluso, colpevole di una diversità senza via d’uscita, senza luce, senza amore, senza riconoscimento, nel suo ambiente quotidiano: una diversità imperdonabile, vergognosa, che non si può né nascondere né mostrare, né vivere serenamente, come capita nel vasto mondo dei gay che hanno successo malgrado siano gay o proprio perché gay, o perché non ha nessuna importanza che siano gay.. Ma se hai 14 anni, e vivi in una borgata dove le scritte sui muri sono di rabbia razzista contro tutto e tutti, quindi anche contro gli omosessuali, se gli insegnanti non si accorgono del capro espiatorio della classe, la ragazzina brutta, il ciccione, il nero, quella che subisce le molestie sessuali, il ragazzo con i modi e la voce gentile e le unghie pulite, che non fa a cazzotti e che dunque esce dalla normalità del crudele, vecchio, rozzo immaginario macho, dei giovanissimi ancora più che degli adulti, allora puoi sentirti perduto: un mostro che non ha diritto di esistere. Le leggi non impediscono i reati, ma li rendono tali, non cambiano i cervelli ignoranti e violenti, ma possono spaventarli, e metterli davanti al fatto che perseguitare un gay, con le parole o coi fatti, è un’aggravante che porta diritto in galera. La discussione chiacchierona e inutilmente protratta con ogni tipo di cavillo e filosofia, su una legge antiomofobia, si è interrotta il 5 agosto causa vacanze, e riprenderà in settembre. Nel frattempo si spera che altri gay non si ammazzino. E sì che non ci vogliono tanti pensieri,
perché basterebbe aggiungere alla legge che già considera un’aggravante la violenza fisica perpetrata per motivi di razza, etnia, religione, solo un paio di parole, “e per odio omofobico e transfobico”. Naturalmente tutti la vogliono questa legge, con cautela però, per non impensierire quell’elettorato che non ce l’avrebbe con quelli che chiama diversi o froci, se però se ne stessero in disparte, senza pretendere una particolare difesa, e soprattutto non aspirassero a quella cosa che fa rizzare i capelli in testa anche a parecchi politici, addirittura il matrimonio e l’adozione, o anche solo i patti civili di convivenza. Quando in parlamento un cosiddetto onorevole, il leghista Buonanno, parla di lobby sodomita, ha le sue ragioni, perché si assicura qualche voto, e magari non solo leghista. Resta da chiedersi se basterebbero queste leggi, in Italia, per impedire a un ragazzino che teme di non essere quello che si vantano di essere gli altri, come se fosse merito loro, di buttarsi da un terrazzo, nel vuoto del disamore e dell’indifferenza degli altri, della sua fragilità e infelicità vissuta nel silenzio e nella solitudine.

La Repubblica 12.08.13

“Una questione che ci riguarda”, di Alfredo Reichlin

Ne vedremo delle belle ma anch’io sono convinto che con la condanna di Silvio Berlusconi si chiude una lunga pagina della vicenda italiana. Si aprono nuovi scenari. Penso al bisogno crescente di una forza politica capace di porsi come garante della tenuta e ricostruzione del sistema democratico e parlamentare.
Cresce quindi lo spazio per un partito come dovrebbe essere il Pd. Il passaggio è molto stretto, e per affrontarlo non basta la fermezza sui principi. Occorre anche una visione più complessiva degli interessi nazionali e delle conseguenze che comporterebbe il collasso del sistema politico. Ammetto che la mia cultura politica è vecchia. Non posso però fare a meno di ricorda- re agli amici diventati ultra-protestatari e ultra-sinistri che la lotta intorno alle istituzioni non è un fatto che riguarda il Palazzo, ma è «il concentrato della lotta di classe»: mi pare lo dicesse Lenin.
Guardiamo le cose italiane così come stanno. Dopotutto non è per caso che il Cavaliere ha dominato la politica per tanti anni. Complicità? «Inciuci»? Quante sciocchezze e stupide accuse. Non è la polemica, anche la più aspra, contro quest’uomo ciò che è mancato. Non si è parlato d’altro e c’è un mondo intero di giornalisti e intellettuali che è campato su questo. Allora che cosa ha fatto la forza di quest’uomo? È su questo punto che ormai bisognerebbe riflettere meglio, se vogliamo aprire davvero un pagina nuova.
La risposta si trova, secondo me, in una analisi più ampia e più severa della crisi che tormenta l’Italia da almeno venti anni, cioè anche da prima di Berlusconi. Detto in breve, al fondo c’è la straordinaria pochezza delle classi dirigenti italiane, l’incapacità di affrontare le riforme che diventavano ineludibili a fronte della prova, l’inedita prova di un vero e proprio State building, cioè inserire questo antico Paese nel nuovo ordine europeo e mondiale. Ci siamo difesi arretrando, cedendo alle logiche del mercato e spesso dell’economia sommersa, delle rendite e dell’egoismo sociale. La sinistra ha resistito ma non molto efficacemente, spesso non ha capito. In parte si è trasformata nel «popolo viola» o nella gestione dell’esistente. Intanto Berlusconi costruiva sul degrado del tessuto sociale la sua straordinaria narrazione della realtà. In base alla quale era lui che liberava gli italiani dai lacci e laccioli di uno Stato inefficiente e oppressore perché su questa base si era costruito il «potere dei comunisti».
Il bilancio è stato catastrofico. Parla da solo. Una crisi economica di natura mondiale subìta nel modo più irresponsabile, gettando il peso maggiore sui salari e sulle forze produttive. Ma il prezzo più pesante è il degrado ulteriore dello Stato. Il problema fondamentale è questo. Proviamo a guardare con freddo distacco al sistema politico e a quell’insieme di regole, leggi poteri, parti sociali e scambi politici che rappresentano la trama di una compagine nazionale in cui convivono persone, culture, sto- rie così diverse come i veneti e i siciliani. Lo Stato italiano, insomma.
Mi pare che sia qui la spiegazione fondamentale del problema italiano in base al quale la nostra democrazia, anche dopo il fascismo, resta una democrazia «difficile» (Aldo Moro). Una Repubblica retta dal «governo delle leggi», ma fino a un certo punto. Fino a quando non subentra il cosiddetto «governo degli uomini», ovvero la concentrazione del potere nelle mani di un capo carismatico che si pone al di sopra della legge. Siamo ancora una volta di fronte a una simile stretta drammatica? Io spero di no. Ma se guardo alla frammentazione delle forze democratiche tutto mi spinge a dire che dobbiamo parlare più apertamente al Paese con un tono più alto ed egemonico, e quindi con un animo non partigiano. Il problema che poniamo non è quello di una vendetta su una persona ma di dove va lo Stato, «la casa di tutti», ove si cedesse al ricatto del Cavaliere. In quale angolo dell’Europa e del mondo l’Italia finirebbe? È su questo terreno che si gioca la carta delle nuove generazioni. Chi scommetterà su un Paese nel quale non si sa chi comanda ed è incerta la divisione dei poteri? Un Paese senza regole che verrebbe commissariato come la Grecia e dove diventerebbe Maramotti
sempre più difficile lavorare, pensare, intraprendere.
È con questo animo che il Pd deve parlare agli italiani, a tutti gli italiani. A cominciare dalla destra. Dove va la destra? La questione riguarda tutti. Perché una destra in un Paese come l’Italia esiste e continuerà ad esistere. Ciò che è decisivo per le prospettive democratiche è che la destra non si riduca a quelle scene, francamente pietose, che abbiamo visto sotto il balcone dell’ex «unto del Signore». C’è un gran bisogno di un’altra destra, una forza seria, moderata, che possa isolare quello fondo sovversivo razzista e fascista che esiste da sempre. Una destra con la quale sia possibile un confronto aperto e responsabile sul terreno democratico e che possa riprendere la parola in Europa senza essere dileggiata. Molto dipende da noi: ma da noi chi?
Assisto con sofferenza al modo come una sinistra confusa, divisa, non riesca a fa- re serie analisi. Nessuno fa più analisi: si lanciano solo accuse moralistiche, spesso menzognere e vergognose. Mi viene alla mente un interrogativo terribile che si pose Antonio Gramsci, ormai rinchiuso nel carcere, sul perché il fascismo avesse vinto. Noi – egli si chiese parlando del suo partito – fummo un elemento positivo nella lotta contro il fascismo oppure fummo di fatto un fattore che contribuì alla dissoluzione della democrazia?

L’Unità 12.08.13

“L’arma del lavoro contro la recessione”, di Ronny Mazzocchi

Alcuni mesi fa il Ministro dell’Economia e delle Finanze Fabrizio Saccomanni affermò che la crisi degli ultimi cinque anni è addirittura peggiore di quella del 1929. Non è questa la sede più appropriata per stilare una classifica delle varie crisi che si sono succedute nell’ultimo secolo e mezzo nel mondo occidentale. Tuttavia già il fatto che si sia potuto ripetere un episodio anche solo lontanamente paragonabile a quella che è passata alla storia come il più grave crisi del XX secolo dovrebbe essere sufficiente a mettere in discussione quei paradigmi teorici tutt’ora dominanti che considerano il capitalismo un regime economico e di produzione sostanzialmente stabile e quindi non bisognoso di essere controllato, vincolato e guidato. Ma purtroppo c’è di peggio. Lo storico dell’economia Robert Skidelsky, noto soprattutto per essere il biografo di Keynes, scrisse nel 1967 un agile volumetto dal titolo «Politicians and the Slump» in cui raccontò con grande abilità narrativa e con dovizia di particolari l’esperienza del governo laburista inglese del 1929-31 alle prese con la Grande Depressione. A rileggerlo oggi si ritrovano gli stessi errori e le stesse discussioni a cui abbiamo assistito negli ultimi due anni e mezzo nel nostro Paese. Cambiano i nomi delle cose – «austerity» invece di «treasury view» – ma la sostanza è identica. Così come i risultati, purtroppo. Da questo punto di vista il Libro Bianco per il Piano del Lavoro della Cgil («Tra crisi e Grande Trasformazione», Ediesse, 2013, pp. 630, ¬30,00) segna una netta discontinuità di impostazione, ben evidenziata dal saggio introduttivo di Laura Pennacchi, che del volume è anche la curatrice. Il libro non si limita soltanto ad una netta e ben argomentata presa di distanza dalle politiche di austerità e di critica alle tendenze ulteriormente restrittive incarnate sia dalla riforma della governante economica europea sia dal Fiscal Compact. Al contrario, scorrendo i vari articoli che compongono il volume è evidente che si tratta di un piano che punta ad un rilancio dello sviluppo economico del Paese attraverso il lavoro. Il rischio sempre più concreto che il tanto auspicato superamento della recessione non porti con se una contemporanea riduzione del numero dei disoccupati rende del tutto velleitaria l’idea che sia sufficiente un generico rilancio della crescita per alleviare il dramma sociale e personale dei molti che con la crisi hanno perso la loro occupazione. Nel Piano per il Lavoro viene così invertito l’ordine dei fattori: non il rilancio della crescita per creare lavoro, ma creare lavoro per rilanciare la crescita. Interessanti sono in tal senso due direttrici su cui si muove l’intero volume: la creazione diretta di lavoro nei vari settori economici e l’ambizione a creare del buon lavoro (e fra questo vanno segnalati in particolar modo i saggi sulla democrazia nei luoghi di lavoro). Molto apprezzabile il fatto che, nel parlare di lavoro, ci si sia definitivamente emancipati dalla dittatura giuslavoristica degli ultimi vent’anni, ovvero dall’idea che disoccupazione e precarietà fossero un problema di errato design contrattuale e che fosse sufficiente inserire sempre maggiori dosi di flessibilità interna o esterna per rilanciare occupazione e produzione. La disoccupazione è tornata ad essere quello che in realtà è sempre stata: un problema economico, con drammatiche ricadute sociali. L’altra cosa da cui ci si è emancipati – per altro strettamente connessa alla prima – è l’idea che la mancanza di lavoro sia dovuta a malfunzionamenti del mercato del lavoro. Il libro affronta invece molto attentamente i problemi presenti sugli altri mercati – sia quello finanziario e bancario che quello dei beni e servizi finali – con un ventaglio di soluzioni davvero vasto e di sicuro interesse. Infine è degno di nota il tentativo di coniugare le politiche di breve periodo con quelle di lungo periodo in un modo da inserire gli interventi legati all’attuale emergenza occupazionale in un quadro di medio/lungo termine volto a fare del lavoro uno – se non addirittura il principale – dei motori della crescita. Il Piano per il Lavoro si presenta quindi come un contributo interessante per quel dibattito sui temi del rilancio economico che dovrebbe coinvolgere tutte quelle forze politiche e sociali stanche di tutte quelle vecchie ricette ormai incapaci di dare risposte ai problemi del nostro Paese.

L’Unità 12.08.13

“Privilegi e ingiustizie delle pensioni italiane”, di Massimo Franchi

Un grafico a forma di burrone. Dai 91mila euro di Mauro Sentinelli, l’ex manager Telecom che grazie alla Corte Costituzionale ha la certezza di continuare a riceverli ogni mese, ai 236 euro al mese di Elisabetta, che se va bene li vedrà fra 29 anni e ha la certezza che si riducano perché è stata licenziata e non versa più contributi. Per finire con i zero euro che prende Beppe, nonostante 38 anni di lavoro e la certezza ormai sfumata di vederne 1.100 al mese dal 2012. I dati si riferiscono ad un pensionato d’oro, al calcolo dell’assegno pensionistico di una 40enne precaria e a quello di un esodato. Numeri che certificano come il sistema pensionistico italiano, nonostante (e anzi, in parte proprio per) la riforma Fornero, sia uno dei più ingiusti al mondo.
Si dirà: «Però questi sono casi limite». Vero. Ma è vero anche che la stragrande maggioranza delle 14 milioni 635mila pensioni hanno un importo medio mensile di 881 euro (e dunque in fondo al grafico-burrone) per di più in costante calo. Con 6 milioni di pensionati che hanno la prospettiva di vedersi erodere ulteriormente il potere d’acquisto del loro già misero assegno mensile a causa della probabilissima proroga allo stop all’indicizzazione delle pensioni sopra i 1.382,91 euro anche per il 2014.
Un sistema quindi ingiusto con tutti tranne che i privilegiati. La settimana scorsa ha destato scalpore la pensione del già citato Mauro Sentinelli. Ma il vero scandalo è che, al contrario delle milioni di pensioni basse già erogate e di quelle degli italiani ancora al lavoro, i loro assegni aumenteranno. Succede perché molti di questi continuano a lavorare e, soprattutto, perché non si è ancora trovato un modo per chiedere loro un sacrosanto contributo di solidarietà. Tutti figli degli ultimi anni di vacche grasse e del sistema retributivo, i loro assegni si calcolano in percentuale rispetto all’ultimo stipendio percepito. Il piccolo contributo di solidarietà è stato dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale e, con fin troppa solerzia, saranno rimborsati dall’Inps proprio questo mese. Il principio ribadito dalla Consulta è quello del diritto acquisito e della disparità di trattamento rispetto ai lavoratori che non vengono toccati.
Ora il Parlamento, con il Pd in testa, ha chiesto al governo di intervenire e trovare un modo per ridurre queste scandalose pensioni. L’ipotesi al vaglio è quella di ricalcolare con il sistema contributivo gli assegni, in modo da ridurli in modo anche più sostanzioso. E per sempre.
Passiamo al dramma degli esodati. Tra tanti impegni mantenuti, il ministro Enrico Giovannini è andato in vacanza mancando quello di fare il punto reale sui numeri della vergogna prodotta dal suo predecessore. Ad oltre due anni e mezzo dall’entrata in vigore della riforma Fornero non sappiamo quanti italiani sono rimasti senza stipendio, senza pensione e senza ammortizzatori a causa dell’innalzamento di almeno 5 anni dell’età pensiona- bile. La stima dei 392mila, fornita dall’Inps ad Elsa Fornero nel 2012, è sempre stata contestata dalla ministra. Giovannini ha ricucito il rapporto con l’Inps, ha chiesto e ottenuto i dati sui primi salva- guardati, ma non ha ancora reso pubblico il dato dei dati: il totale degli esodati e dunque dei mancati salvaguardati.
Anche su questo termine, inventato da Elsa Fornero per indorare la pillola della vergogna esodati, ci sarebbe da discutere. I tre provvedimenti che permettevano di mandare in pensione rispettivamente 65mila, 55mila e 10.130 esodati sono ancora in gran parte sulla carta. Solo 7.254 dei 130.130 salvaguardati ricevono la pensione, mentre è già certo che dei primi 65mila solo 62mila hanno diritto a ricever- la a causa dei paletti troppo stretti messi dalla Fornero per ridurre le platee, prima fra tutte la norma che escludeva tutti coloro che dopo l’esodo dalle aziende hanno prestato qualunque attività lavorativa.
Ora tutti, con in testa Cesare Damiano e Luisa Gnecchi del Pd, chiedono a gran voce al governo una soluzione definitiva del problema. Attingendo ai 80 miliardi di risparmi che la riforma Fornero produrrà entro il 2021 e utilizzando un Fondo già previsto nell’ultima finanziaria. Ma per ora il governo non ha affrontato il tema. E, come un cane che si morde la coda, non potrà farlo finché non si saprà quanti sono gli esodati, così da calcolare quanti soldi serviranno.
L’ultimo capitolo del libro delle ingiustizie pensionistiche è forse il più amaro. Riguarda i milioni di giovani precari che oggi non trovano neanche un co.co.co sfruttato, senza diritti e mal pagato. I prodigi della tecnologia ora consentono ad ogni italiano di poter calcolare il proprio assegno. Anche chi, come Elisabetta lavora da vent’anni (e se fossimo negli anni ‘80 poteva già essere in pensione) con 11 contratti diversi, non ancora stabilizzata, che ad oggi andrebbe in pensione nel 2042 a 236 euro al mese. Naturalmente lordi. Ecco per loro, per i 3 milioni di para- subordinati, la riforma Fornero qualcosa ha fatto. Alzare progressivamente i contributi dal 27,72 al 33,72% nel 2018. Peccato che nella maggior parte dei casi gli au- menti ricadano sugli stessi stipendi dei lavoratori in quanto «costi» per i loro datori, specie negli studi professionali. L’intervento necessario per loro è quello di un aumento dei coefficienti che tramutano i loro contributi nell’assegno finale. Ma, nonostante parecchi progetti di legge, la questione non è una priorità per nessuno.

L’Unità 11.08.13

“La manifattura vince con l’innovazione”, di Luca Orlando

Investono di più, sviluppano un numero maggiore di brevetti, sono mediamente più grandi. Dal 2009 ad oggi, a dispetto del rallentamento internazionale, della crisi del debito in Europa, della caduta verticale della domanda interna, un numero rilevante di aziende in Italia è comunque riuscito a resistere alla recessione migliorando addirittura i risultati. Il profilo delle aziende “Star” tracciato da Prometeia indica proprio negli investimenti e nella dimensione d’impresa due delle caratteristiche correlate direttamente alla performance, puntellando con la robustezza dell’analisi statistica dei bilanci il ragionamento “intuitivo” sulle scelte strategiche vincenti. Il punto di partenza, scandagliando la banca dati analisi dei settori industriali di Prometeia, è la performance 2009-2011 di 25mila società di capitale con produzione maggiore di due milioni di euro, capaci in media nel triennio di contenere i danni con un calo medio annuo della produzione pari allo 0,5%. Segmentando il campione, Prometeia ha selezionato il 20% di aziende “Star”, quelle cioè con tasso di crescita maggiore, per valutare quali siano le caratteristiche strutturali comuni e quali differenze vi siano rispetto alla media del settore di riferimento. Il 20% dei top performer si è in effetti distanziato notevolmente dalla media, sviluppando nel periodo una crescita media annua della produzione pari all’11,4% con un Roi in crescita media dello 0,8% a fronte invece di un calo superiore ad un punto per la media della manifattura.
L’identikit dei vincenti inizia dalle “spalle”, che mediamente sono più larghe con una dimensione media più elevata. Le aziende “Star” sono infatti sistematicamente più grandi rispetto al proprio settore di riferimento, generalmente del 15%, con livelli ancora maggiori per meccanica (22%) oppure metallurgia (28%) e il picco del 32% per il settore auto e moto. Altro dato comune tra le aziende che hanno resistito alla recessione è la loro capacità media di investimento, dove si trovano livelli medi superiori del 18% rispetto al resto del campione, con picchi del 33% per la metallurgia. Una correlazione positiva che si riscontra anche negli investimenti immateriali, un dato di bilancio utilizzato come approssimazione dello sviluppo di brevetti e marchi. Particolarmente intenso è inoltre il legame tra il vantaggio ricavato da queste scelte strategiche e l’apertura media dei settori di appartenenza agli scambi esteri, sui quali marchi e brevetti hanno probabilmente una maggior riconoscibilità e valenza competitiva.
E la maggiore apertura internazionale, anche se al di fuori del perimetro dell’indagine, pare in fondo la conseguenza diretta delle caratteristiche vincenti esaminate: si vincono gare oltreconfine soltanto con prodotti competitivi, per ottenere i quali servono investimenti in ricerca e sviluppo, accessibili a loro volta solo alle aziende con dimensioni adeguate. Il binomio export-innovazione pare dunque inscindibile e come racconteremo a partire da oggi nell’inchiesta sull’Italia che cresce, è la caratteristica di fondo di chi resiste allo shock.
Lo ha realizzato ad esempio la vicentina Campagnolo, 820 addetti, capace di resistere all’affondo tecnologico della concorrente giapponese Shimano rilanciando proprio sull’innovazione e arrivano ora ad avere il 15% dei ricavi legati al cambio elettromeccanico, l’ultima frontiera tecnologica nel ciclismo. Risultato ottenuto però solo aumentando gli investimenti in ricerca, che nel corso degli anni hanno fruttato ben 233 brevetti ancora attivi.
Altro esempio è la bergamasca Same Deutz-Fahr, capace di migliorare ricavi, utili e premio di risultato ai dipendenti soprattutto grazie all’inserimento di nuovi modelli di trattori, con gamme rinnovate nei motori, nel design e nelle tecnologie. Anche in questo caso però le novità non piovono dal cielo ma sono ottenute raddoppiando il livello di investimenti rispetto ai cinque anni precedenti e prevedendo un esborso di 266 milioni, con un piano che prevede a Treviglio nuove assunzioni proprio nell’area ricerca. Same Deutz-Fahr fattura 1,2 miliardi ma innovazione e successo oltreconfine non sono prerogative dei soli “big”. Perché l’assenza cronica di grandi aziende nel nostro territorio non giustificherebbe l’ampia platea di realtà vincenti su base internazionale e i quasi 400 miliardi di export manifatturiero realizzato dalla nostra economia. Essere “grandi” in assoluto infatti non è necessario, a patto però di essere in grado di presidiare una nicchia specifica di mercato, offrendo un prodotto unico e specialistico ad alto valore aggiunto.È il caso ad esempio delle viti hi-tech di Brugola (si veda l’articolo in pagina), oppure delle decine di aziende di macchinari che si specializzano in produzioni customizzate, o della piccola bergamasca Clay Paky, leader mondiale dei proiettori per eventi sportivi e musicali o ancora della Gemelli di Canegrate (cuffie antirumore), o della ravennate Righini (impianti di posa per oleodotti e gasdotti).

Il Sole 24 Ore 11.08.13

“Quando la vita è così lontana”, di Sara Ventroni

Ci sono sei corpi allineati sulla battigia di Catania. Corpi senza nome e senza passato. Il sudario color oro riflette la luce abbacinante di agosto. L’immagine inchioda il nostro sguardo. Siamo davanti all’istantanea di un incubo che si avvera, come una beffa. A pochi metri dall’approdo, dopo giorni di navigazione incerta, forse per l’impazienza di accorciare la distanza dalla salvezza, sei uomini si tuffano in mare, ma il mare li risucchia.Deve essere andata così. Forse è andata così. Ci saranno elementi da verificare nella dinamica dei fatti, ma non possiamo più domandare a quegli uomini cosa li ha spinti a lanciarsi dal peschereccio, appesantiti dai panni e dalla stanchezza, per arrivare a nuoto alla meta. Forse è stata colpa dell’allegria d’aver scampato un naufragio. La smania di toccare terra, bracciata dopo bracciata.
Sono ipotesi. Domande lanciate nel vuoto. Ma le risposte ci riguardano. Perché quei sei corpi senza vita e senza voce non sono finiti nel fondale silenzioso del Mediterraneo. Lontani dal nostro sguardo e dalla nostra coscienza. Sono qui, davanti a noi, distesi ordinatamente sotto il sole. Come uno scandalo. Anche questa volta un motopeschereccio portava il suo carico umano. Centoventi persone in fuga dalla Siria e dall’Egitto. Giorni di navigazione, in attesa di arrivare ad un porto più sicuro.
I sei corpi distesi sulla spiaggia, a pochi metri da tre navi da crociera all’attracco, ci inchiodano al nostro destino. Ci impongono di dire da che parte stiamo. E non è possibile rispondere in modo ambiguo, o tirarsi indietro, come ha fatto il governo di Malta qualche giorno fa, lasciando vagabondare, per tre giorni, un peschereccio carico di 102 profughi eritrei e sudanesi, tra cui cinque donne incinte e un neonato di inque mesi. Dopo ore convulse di trattative, il braccio di ferro tra l’Unione Europea e Malta è stato rotto per volontà di Enrico Letta: l’episodio ci fa onore come italiani, ma ci fa vergognare come europei.
Il principio di assistenza, e di ospitalità, è una legge sacra che viene da lontano; dovrebbe fondare la nostra cultura. E forse anche la nostra missione comunitaria; la nostra umanità. È un dovere, forse anche un precetto morale, più significativo delle obiezioni dei cinici o di quanti – come l’allora eurodeputato leghista Speroni, nel 2011 – pensavano di affrontare la questione mitragliando i gozzi tunisini.
I sei corpi della playa di Catania fanno parte di un ciclo di racconti – una saga tragica – che erode i confini delle acque del Mare Nostrum: si tratta di tragedie internazionali che raccontano di vite in fuga dalla guerra e dalla fame; di fondali sommersi, dove sono sparse le ossa
di migliaia di uomini, di donne, di bambini.
E anche se le storie si assomigliano, abituarsi alla disperazione – o, peggio, difendersi dalla sofferenza degli altri – è il primo male dell’Europa mediterranea.
Non a caso, forse, il primo viaggio di papa Francesco è approdato a Lampedusa. Alla nostra isola, simbolo di tragedia, e di coraggio. Scandalizzando i duri di cuore, Francesco ha detto parole ferme, inequivocabili, contro la «globalizzazione dell’indifferenza».
Inutile girarci intorno. Credenti e non, c’è una, e una sola risposta: accogliere l’altro. Quello che ci fa paura perché ci ricorda che ciascuno di noi è fragile; che ciascuno di noi ha fame e ha sete; che ciascuno di noi potrebbe dover fuggire da una terra di guerra, mettendo in salvo la vita dei figli, anche quelli che si portano in grembo.
In fondo, è questo che imbarazza gli indifferenti: l’amore smisurato per la vita che queste storie ci rimandano. Il Papa ha lanciato una corona di fiori sull’acqua. Un omaggio a quei corpi affondati per scappare dalla miseria, e dalla morte. Quei corpi che non hanno avuto la dignità, dovuta, di una sepoltura.
Quella dignità che Antigone, con le sue leggi non scritte, rivendicava al cospetto di Creonte, il legislatore. L’Europa dell’economia è seduta sul Mediterraneo: ma le leggi non bastano a fondare una civiltà. Senza parole, i sei corpi sulla spiaggia di Catania ci dicono che non si può voltare lo sguardo: solo l’indifferenza è senza scampo.

L’Unità 11.08.13

“La caduta del governo costerebbe alle famiglie 7 miliardi di euro in più”, di A. Bo.

Una stangata da 7 miliardi di euro. A rischiarla sono le famiglie italiane, in caso di improvvisa caduta dell’attuale governo. La cifra sembra astronomica, ma è stata diffusa ieri dal segretario della Cgia di Mestre, che sui numeri ha costruito la propria credibilità. «Nella malaugurata ipotesi che il premier Letta fosse costretto a rassegnare le dimissioni – scrive Bortolussi in una nota – gli italiani si troverebbero a pagare oltre 7 miliardi di euro in più» tra il pagamento dell’Imu sulla prima casa, l’aumento dell’Iva e l’applicazione della Tares. Con un aggravio per le famiglie calcolato tra 149 euro per un pensionato single, 293 per una famiglia bi-reddito e 338 per un nucleo monoreddito.
«In una fase economica così difficile e con il tasso di disoccupazione destinato a crescere, molti non sarebbero in grado di reggere questo
choc fiscale», afferma Bortolussi. Nel caso la maggioranza non reggesse, «i proprietari della prima casa dovranno versare entro il 16 settembre la prima rata Imu e a dicembre il saldo. Così come chi possiede terreni e fabbricati rurali». E questi sono più di 4 miliardi. Per quanto riguarda l’Iva, «dall’1 ottobre è previsto l’aumento dell’aliquota che salirà dal 21 al 22% e per i soli tre mesi di quest’anno saremmo chiamati a pagare un miliardo di euro in più». Sul fronte Tares «è previsto che la nuova imposta sui rifiuti dia un maggior gettito di 2 miliardi circa».
A credere che le famiglie e le pmi stiano già pagando «l’estenuante attesa sugli esiti delle decisioni riguardo Imu, Iva e Tares» è Nunzio Bevilacqua, dell’Anspc: «Il governo non deve cadere non perché ci sarebbe una stangata, ma perché questo è il banco di prova di quelle tanto decantate riforme, il momento di approfittare di quei venti di ripresa che necessitano di “vele” pronte ad accoglierli».

l’Unità 11.08.13