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“La politica capovolta”, Claudio Sardo

Nonostante la calura, sono giorni di duro scontro politico. È in gioco il destino del governo, della legislatura, delle riforme. L’esito di questo scontro segnerà l’uscita o meno dalla seconda Repubblica e condizionerà il ruolo dell’Italia in Europa, a partire dalla sua capacità negoziale e dalle variabili legate alle politiche di bilancio. Berlusconi fa l’incendiario dopo la sentenza della Cassazione che ha confermato la condanna per reati comuni e, di conseguenza, ne ha delegittimato la leadership politica. Tuttavia, è diffusa l’impressione che la chiamata alle armi del Cavaliere mobiliti solo una cerchia ristretta di cittadini Una cerchia molto più ristretta del passato. Perché i pensieri, le preoccupazioni degli italiani oggi sono rivolti altrove. Ai figli che non trovano lavoro, alla crisi che minaccia le famiglie, alla società che perde fiducia, alle diseguaglianze che sottraggono diritti e anche competitività.
La condanna di Berlusconi resta uno spartiacque politico. La scelta che ha di fronte il Pdl, e anzitutto il suo leader-padrone, è strategica. Se verrà imboccata la strada della successione dinastica, o quella del conflitto istituzionale, o ancora quella di un’evoluzione democratica della destra, le conseguenze riguarderanno l’intero sistema. Ma tutto ciò che attiene alle dinamiche della politica appare oggi autoreferenziale, tremendamente di- stante dai cittadini e dalla loro vita reale. Non è solo colpa dei partiti e dei governi. È un fenomeno epocale la crescente impotenza della politica. Berlusconi, vero apripista dell’anti-politica, ha beneficiato di questa divaricazione tra la capacità di guida democratica e la pretesa di autogoverno dei mercati, della finanza, dei poteri «reali». Berlusconi ha prosperato nella contrapposizione tra società civile e politica. Si è proposto come l’uomo nuovo che veniva dall’impresa e nulla aveva a che fare con le convenzioni costituzionali e democratiche.
E oggi proprio questo dualismo ne accentua la sconfitta. Berlusconi ora si fa paladino del primato della politica (sulla magistratura e i poteri neutri). Alza la bandiera della riforma della giustizia (dopo averla fatta marcire per anni nell’inefficienza). Reclama niente- meno che «agibilità politica» (espressione cara all’estremismo a partire dagli anni 70). La società reale però guarda altrove. L’incantatore non incanta più come prima. Non riesce a distinguersi da quel «teatrino della politica» che ha disprezzato per due decenni. Il mix di sfiducia e di ripiegamento individuali- sta – che Berlusconi è riuscito a catalizzare in chiave anti-comunista, anti-tasse, anti-pubblico – oggi è il vento che soffia sulle vele di Grillo.
Tutto ciò rende la battaglia politica di oggi molto difficile per una sinistra che non intenda rinunciare alla propria missione nazionale. Perché la politica è fatta di compromessi, di istituzioni da tenere vive, di procedure. Ma le domande più forti nella crisi sono quelle che riguardano la vita sociale, le opportunità concrete di lavoro, le speranze di futuro, i diritti negati. È a queste domande che deve rispondere la politica se vuole guarire dall’impotenza e tornare ad essere significativa per i cittadini e legata a un’idea di comunità. Da questo dipendono non solo le sorti di un partito, ma quelle della democrazia, e probabilmente dell’intera Europa.
Si può stare al governo con il partito di Berlusconi? Si può andare al voto senza una riforma elettorale decente? Che senso ha cambiare solo la legge elettorale, se il bicameralismo paritario rischia di favorire comunque l’ingovernabilità? A sinistra si risponde in modo diverso a queste domande. Tutti sanno che, se il governo Letta arrivasse fino alla fine del 2014, potrebbe condurre al meglio la sua partita in Europa e potrebbe anche restituire al Paese un sistema politico più funzionante (parliamo di una forma di governo parlamentare razionalizzato, non certo dell’assurda pretesa di riscrivere in nome del presidenzialismo l’intera seconda parte della Costituzione). Tutti però sanno anche che non si può tenere in vita il governo a tutti i costi, che ci sono limiti invalicabili.
Uno di questi limiti è il rispetto della legalità costituzionale: le condanne definitive vanno rispettate ed eseguite; le modalità di esecuzione sono decise in autonomia dai magistrati; la politica non può interferire pena lo stravolgimento del principio di uguaglianza della legge. Un altro limite è il buon senso e l’equità delle politiche economiche: sia pure in un contesto di governo senza intese – sostenuto per necessità da forze politiche antagoniste – il compromesso non può tradire la ragionevolezza. Non è possibile esentare per due miliardi la prima casa del 7% più ricco della popolazione, e far pagare questo costo ai cassintegrati e agli esodati. Se il governo fosse sotto la responsabilità della sinistra, si dovrebbero cominciare la detassazione dall’Irpef e dal cuneo fiscale del lavoro. Visto che la destra partecipa alla maggioranza, si discuta pure di Imu. Tuttavia, non si può accettare un impianto così classista e anti-economico.
Può darsi che le intenzioni di Berlusconi siano tutte politiche e dipendano dal desiderio di oscurare, per qualche giorno, la condanna. La sostanza però non cambia. Il governo Letta può dare ancora al Paese. Ma la verifica sta nei fatti. Nella capacità di incidere sulla società. Di legare, come lo stesso premier ha auspicato, nuova occupazione con questa timida ripresa economica. Lo chiedono i cittadini. Lo chiedono anche gli elettori del Pd, che badano molto più alla sostanza che non alle regole congressuali. La prova del fuoco sta nelle politiche reali assai più che nelle tattiche e nei posizionamenti. L’Italia ha bisogno di politica. Domanda politica più di quanto non sembri. La politica però deve rimettere i piedi per terra.

L’Unità 11.08.13

“Dalla crisi un Paese diverso”, di Mario Deaglio

Sul finire del 2008, mentre le Borse precipitavano e le imprese del suo paese denunciavano perdite stellari, il presidente americano George W. Bush fece di tutto, nei suoi discorsi e nei documenti pubblici, per non usare mai la parola crisi, preferendo termini più blandi e meno allarmistici come «rallentamento produttivo» o «inversione di tendenza». Il che fu negativo, per gli Stati Uniti e per il mondo, in quanto portò a un’iniziale sottovalutazione di quanto stava effettivamente succedendo e determinò un grave ritardo negli interventi per arginare gli sviluppi negativi.
Nell’Italia (e nell’Europa) di oggi, succede l’esatto contrario: gli operatori della politica e i mezzi di informazione hanno improvvisamente scoperto «la ripresa». Mentre fino a qualche settimana fa si affannavano a raccontare che stiamo vivendo la peggiore contrazione di produzione e consumi dai tempi del dopoguerra, ora la «ripresa», pur indefinita e impalpabile, riempie i discorsi e comincia a colorare di rosa, sia pure di un rosa pallidissimo, aspettative e speranze.

E così come per gli Stati Uniti fu dannoso non parlare mai di una crisi in atto trattandola come non esistente, per l’Italia (e l’Europa) può risultare molto dannoso parlare ossessivamente di una probabile ripresa futura trattandola come già presente.

Su queste colonne, più di un mese fa, si pose l’accento sui segnali positivi trascurati dell’economia, i «fili d’erba» che crescevano in silenzio. Questi fili d’erba si stanno moltiplicando e il prato non è di un triste color marrone; si può dire con una certa sicurezza, però, che l’economia «va» non già quando l’erba sta crescendo ma solo quando il fieno è stato falciato e raccolto e ci si prepara a seminare per l’anno successivo.
Secondo il filone tradizionale degli studi sulla congiuntura, una crisi può considerarsi superata solo dopo tre trimestri consecutivi di crescita del prodotto interno lordo, ossia dopo nove mesi di gestazione. Il che porta a concludere che nel migliore dei casi – se il terzo trimestre 2013 mostrerà un primo (necessariamente timido) segno positivo – solo alla fine di marzo del 2014 potremmo festeggiare la nascita del «nuovo bambino» che viene concepito in questi mesi, ossia della nuova fase espansiva. Di qui ad allora, un aborto, per cause nazionali o internazionali, è purtroppo possibile in qualsiasi momento.

Il motivo per cui politici, mezzi di informazione e normali cittadini si affannano a sperare e ad annunziare l’immediata uscita dalla crisi sembra essere di tipo emotivo: è convinzione molto diffusa, aperta o inconsapevole, che, passata la crisi, potremo tornare a spendere come prima: potremo mandare in soffitta la «spending review» e l’Imu, regalarci una riduzione del carico fiscale e quant’altro. L’uscita dalla crisi viene, spesso inconsciamente invocata, come la restaurazione del passato mentre dovrebbe rappresentare l’abbozzo del futuro.

L’Italia del dopo-crisi non potrà quasi mai risuscitare i negozi che sono stati chiusi in questi mesi, dovrà progettare un sistema di distribuzione diverso; non potrà far ripartire un gran numero di fabbriche ormai smantellate ma le toccherà di inventare altri tipi di unità produttive, di maggiore efficienza, in grado di resistere sui mercati mondiali; non potrà tollerare i macroscopici sprechi del settore pubblico, evidenti soprattutto a livello regionale, ma dovrà disegnare in maniera radicalmente diversa il sistema produttivo, il sistema finanziario-creditizio e il sistema fiscale.

L’uscita dalla crisi deve necessariamente rappresentare un punto di partenza, non un punto di arrivo, un momento di problematicità, di scommessa, di nuova energia, non certo il recupero di antiche certezze, di antichi «diritti acquisiti», come quelli delle «pensioni d’oro» degli alti gradi della burocrazia, per i quali non esistono più né le basi né le risorse. Se non si farà così il «nuovo bambino» che vedrà definitivamente la luce alla fine dell’inverno potrebbe essere troppo gracile e avare una prospettiva di vita molto breve.
Per questi stessi motivi la ripresa non porterà a immediate inversioni di tendenza per l’occupazione.

L’economia italiana ha perso competitività per vent’anni rispetto ai suoi partner/concorrenti mondiali; recuperare quella competitività significa, nelle prime fasi di un ciclo espansivo, che da un determinato numero di occupati deve inizialmente provenire una maggiore produzione, in gran parte grazie a nuovi investimenti e nuovi prodotti. Una tendenza durevole all’aumento di un’occupazione negli anni futuri non avverrà per caso ma dovrà essere il risultato del ridisegno di un’intera società, di scelte e di programmi di investimenti nazionali ed europei frutto di riflessioni e dibattiti di cui non si vede traccia. Purtroppo il dibattito politico italiano si è arenato su problemi relativamente secondari come l’entità delle riduzioni dell’Imu e non affronta i problemi principali come le politiche di stimolo dei consumi e degli investimenti.

Questo discorso italiano può essere applicato, con le necessarie varianti, a gran parte dell’Europa. Sono largamente carenti riflessioni su ciò che vorrà o potrà essere l’Unione Europea dopo questa ripresa; proprio per la presenza di simili carenze è possibile che la ripresa futura si limiti a essere un piccolo e breve fuoco di paglia. Deve far riflettere l’esperienza giapponese: un ventennio costellato di false partenze. C’è da sperare, per l’Italia e per l’Europa che la prossima partenza, alla quale dobbiamo prepararci da subito, sia una partenza vera.

La Stampa 11.08.13

“Gli stranieri d’Italia tra drammi e integrazione”, di Chiara Saraceno

Le drammatiche immagini degli sbarchi a Lampedusa, la tragedia di ieri a Catania, lo stillicidio dei dispersi in mare, le facce scoraggiate di coloro che sono ammassati nei centri di accoglienza – tutto questo continua ad alimentare nel nostro paese una visione pressoché solo emergenziale dei migranti. Eppure, senza negare per nulla la drammaticità di questi fenomeni, da anni il flusso di cittadini stranieri nel nostro Paese non è solo questo: non lo è né per il modo in cui le persone arrivano (per lo più via terra o in aereo, con visti turistici), né per i modi della loro permanenza. Continuare a considerare solo l’emergenza può contribuire alla retorica politica, non alla comprensione e, soprattutto, alla elaborazione di strategie di inclusione efficaci. Eppure non mancano, ormai, dati e analisi che offrono un quadro più preciso del fenomeno, (come dimostrano tra l’altro anche i testi raccolti in Stranieri e disuguali, il saggio edito dal Mulino curato da N. Sartor, G. Sciortino e da me per la Fondazione Ermanno Gorrieri).
La popolazione straniera – circa quattro milioni solo i legalmente residenti – costituisce ormai una porzione significativa della popolazione residente in Italia, di cui ha contribuito a cambiare il profilo demografico (ringiovanendolo) e sociale. La maggioranza degli stranieri si trova nel nostro paese da decenni e una parte crescente, i minori, è nata qui. Si tratta di una popolazione sempre meno “irregolare”, anche se può esserlo stata nel passato, stabilmente inserita nei segmenti meno qualificati del mercato del lavoro. Per quest’ultimo motivo, pur con notevoli differenze interne per paese di provenienza e caratteristiche personali, presenta netti profili di svantaggio sociale rispetto alla media della popolazione italiana. Ciò deriva solo in parte dall’origine migratoria. In larga misura dipende dal fatto che gli immigrati che arrivano in Italia, a differenza di quelli che si dirigono verso altri paesi, hanno prevalentemente caratteristiche di qualificazione professionale simili a quelle del segmento più basso della popolazione italiana e sono occupati nei lavori a più bassa qualifica e remunerazione.
Eccezione tra gli altri paesi europei, stante le caratteristiche della domanda di lavoro, l’Italia è divenuta un paese che esporta forza lavoro altamente qualificata (la famosa “fuga dei cervelli”) e importa forza lavoro a bassa qualifica. Nel caso degli immigrati, inoltre, ancora più che per gli italiani, l’Italia non favorisce una mobilità ascendente che consenta di passare da lavori a bassa qualifica a lavori un po’ più qualificati e, in generale, di ridurre le disuguaglianze sociali. Nel nostro paese, quindi, gli immigrati e i loro figli cumulano gli svantaggi derivanti dal doversi adattare ad una cultura diversa e dall’avere in loco reti famigliari e sociali più ridotte degli italiani più poveri e meno qualificati. Le loro retribuzioni medie sono inferiori di oltre un quinto a quelle medie degli italiani; e il loro reddito famigliare è inferiore del 40 per cento rispetto a quello degli italiani.
Per questo hanno una elevata incidenza di povertà, che nel caso dei minori supera il 50 per cento. Hanno riserve (risparmio) più ridotte e perciò sono molto più vulnerabili di fronte a una improvvisa perdita di reddito. Vivono più spesso in affitto; e devono pagare affitti mediamente più alti. Questo svantaggio è solo parzialmente compensato dall’accesso alle abitazioni di edilizia popolare a livello locale, stante la vera e propria penuria che caratterizza le politiche abitative pubbliche (che non gestiscono neppure la domanda, percentualmente più ridotta, degli italiani) e per la loro forte eterogeneità locale.
Il basso reddito delle famiglie straniere, unito alla minore competenza linguistica dei genitori e alla difficoltà di utilizzare efficacemente nella società d’inserimento il capitale sociale e culturale familiare, hanno effetti anche sulle chance delle generazioni più giovani. In particolare, con maggiore intensità che per gli italiani le cui famiglie sono in condizioni economiche più sfavorite, i figli degli immigrati, benché pienamente inclusi dal punto di vista relazionale, hanno percorsi scolastici più brevi, frequentano maggiormente scuole tecnico-professionali e hanno rendimenti più bassi dei loro coetanei italiani.
Infine, più poveri e più svantaggiati in media della popolazione italiana, contrariamente all’opinione comune gli stranieri, specie di prima generazione, sono tuttavia contributori netti alle finanze pubbliche, nella misura in cui restituiscono in tasse e contributi più di quanto ricevano nel corso della vita, e più degli italiani. Il riequilibrio avviene solo con le seconde generazioni.
Dall’insieme di queste analisi emerge che efficaci politiche di integrazione non sarebbero, in realtà, molto diverse da politiche intese a ridurre le disuguaglianze economiche e sociali nella popolazione nel suo complesso. Lungi dal configurare un conflitto tra poveri, un tale approccio sarebbe a favore delle fasce più svantaggiate della popolazione, italiana o straniera che sia.

La Repubblica 11.08.13

“Il 25 luglio è arrivato il cavaliere si rassegni”, di Eugenio Scalfari

Ho già ricordato qualche giorno fa quanto accadde a Roma il 25 luglio del 1943 di cui ricorre quest’anno il 70° anniversario. Mi sembrava attuale: la liquidazione di Mussolini votata con larga maggioranza dal Gran Consiglio del Fascismo, il supremo organo del regime, ben più importante d’un Parlamento che da tempo era di fatto inesistente. Nello Ajello ha ripercorso quella vicenda con dovizia di particolari e di riflessioni politiche e psicologiche, descrivendo un Duce ormai diventato consapevole d’una sconfitta storica e della rovina che incombeva tragicamente sul paese che per vent’anni aveva ipnotizzato e magato col carisma della sua egolatria e la religione del Capo inviato dalla Provvidenza a riportare l’Impero sui colli fatali di Roma.
Nel frattempo è arrivata la sentenza della corte di Cassazione che condanna definitivamente il “boss” di Arcore a quattro anni di reclusione e alla pena aggiuntiva dell’interdizione dai pubblici uffici; il tema del 25 luglio è così diventato ancora più attuale.
Berlusconi ha ancora cinque processi che incombono sulle sue vicende pubbliche e private, uno più gravoso dell’altro. Le possibilità di scamparla sono inesistenti, i salvacondotti immaginati privi d’ogni consistenza. Ai suoi seguaci non resta che separare la sua sorte personale da quella d’un partito che da vent’anni ha riscosso il consenso di milioni di italiani, conservatori o liberali,
moderati o estremisti.Erano tutti stregati dall’ennesimo uomo della Provvidenza capace di creare ricchezza, gloria, prestigio internazionale, pari opportunità per tutti, solo che lo amassero e riponessero in lui la massima fiducia votandolo di conseguenza.
Il 25 luglio del ’43 restituì al Re i poteri che il fascismo gli aveva confiscato. I suoi promotori speravano che la monarchia – restaurata da quel voto – affidasse a loro il compito di riportare l’Italia sulla giusta via costituzionale e alla fine d’una guerra ormai perduta. Non sapevano che il Re aveva già incaricato Badoglio e con lui l’esercito di accudire al compito disperato della resa e del cambiamento del fronte di guerra.
Ma qui ed ora tutto sarebbe molto più facile. Il capo dello Stato è nel pieno esercizio delle sue prerogative repubblicane, un governo legittimo è in carica con la partecipazione anche del partito fondato da Berlusconi, le sorti di quel governo e il programma ad esso affidato è ampiamente gradito a tutte le potenze occidentali a cominciare dall’Unione europea della quale siamo uno dei principali paesi costitutivi e costituenti.
C’è soltanto da superare il generale discredito riguardante il carismatico buffone che ancora farnetica della sua indispensabilità.
Ma nessuno tra i “berluscones” pensa al ravvedimento. L’ipnosi ancora continua e condurrà al peggio se non sarà interrotta. Il tempo è quasi scaduto, venti giorni per decidere di sgombrare il campo dal gangster che ancora lo occupa o la rissa civile che accrescerà i guai della crisi anziché rafforzare i primi segnali di ripresa che cominciano finalmente a manifestarsi.
Napolitano è deciso, Letta è deciso, Epifani è deciso e con lui maggior parte del Partito de-
mocratico. Occorre risolvere difficoltà non lievi ma tutt’altro che insuperabili, con quelli di loro disposti ad un operoso ravvedimento o senza di loro. È da loro che dipende l’alternativa.
L’incontro di due giorni fa a Castel Porziano tra Napolitano e i rappresentanti del Pd ne ha chiarito le premesse e le fasi di svolgimento. Non si naviga al buio ma con una rotta definita e timonieri capaci.
* * *
I segnali congiunturali – l’abbiamo già detto – tendono finalmente al meglio. L’Europa nel suo complesso è di nuovo al segno positivo per quanto riguarda il Pil, la produzione di beni e servizi, gli ordinativi delle imprese e le riserve. Gli Usa sono ancor più avanti, anche le cifre dell’occupazione registrano una costante ripresa. Qualche rallentamento si manifesta in Cina e in Brasile ma del tutto fisiologico e governabile.
In Italia fenomeni analoghi si manifestano ma con molta timidità, tuttavia dimostrano una continuità che non conoscevamo da molto tempo. Non ancora sul livello del reddito e dei consumi di massa, e tanto meno sull’occupazione, ma sicuramente nella produzione industriale, negli ordinativi e nelle esportazioni.
La pubblica amministrazione ha finalmente erogato 16 miliardi alle imprese creditrici, altri 20 saranno pagati entro la fine dell’anno; per un sistema strozzato dalla sua dipendenza dal credito questa liquidità è preziosa.
Tanto più lo sarà l’ingresso della Cassa depositi e prestiti sul mercato dei crediti a tassi accettabili e sul finanziamento di nuove infrastrutture con una disponibilità aggiuntiva di 97 miliardi, una cifra che può avere un effetto determinante sul mercato non solo della crescita ma del lavoro.
Infine il collocamento dei nostri titoli di Stato e delle emissioni obbligazionarie delle imprese. Il Bpt a medio termine va molto bene, il termometro dello “spread” è sceso a quota
250, con i risparmi che ciò comporta sugli oneri del Tesoro.
Insomma i segnali non mancano e le aspettative neppure; gli investitori esteri affluiscono, il turismo invece è ancora fiacco e quello è un punto che chiama soprattutto in causa le autorità territoriali. Incontri proficui avverranno questa settimana fra il Tesoro e i rappresentati dei sindaci. Per quel che si sa le prospettive di un accordo sono positive.
Sarebbe molto urgente una vera semplificazione burocratica. La legge sul “fare” è stata finalmente approvata ma è soggetta ad un’ampia serie di provvedimenti attuativi. Uno degli obiettivi è appunto la semplificazione, giustamente richiesta da economisti e operatori. Mi permetto solo di ricordare che l’economia Usa annovera una quantità di adempimenti burocratici diversi e moltiplicati dalla struttura federale che non ha riscontro in nessun paese del mondo; eppure la sua efficienza operativa è fuori discussione.
Il nostro vero problema (in questo giornale l’abbiamo segnalato da anni) sta soprattutto nella pluralità delle anime (uso volutamente questa parola per alludere alla molteplicità delle intenzioni) annidate nel Consiglio di Stato. Quello è il vero problema sul quale bisognerebbe intervenire rafforzando l’anima giurisdizionale di quel consesso e riducendo o addirittura annullando tutte le altre.
Quello che con brutta parola viene chiamato cronoprogramma di questo governo è comunque uscito rafforzato dall’incontro di Letta con i suoi più stretti collaboratori e di Napolitano con i rappresentanti del Pd.
L’Imu sarà abolita ma sostituita da una nuova imposta che avrà anche la casa come elemento ingrediente. L’aumento dell’Iva è praticamente scongiurato. Se non interverranno improvvisi tsunami Letta presiederà il semestre europeo di spettanza italiana e probabilmente nel 2015 il governo di scopo, o meglio il governo-istituzione, vedrà il suo termine.
Nel frattempo, in questo prossimo ottobre
dovrebbe essere approvata la nuova legge elettorale con la maggioranza del “chi ci sta ci sta”. Quanto alla riforma costituzionale, premono la riforma del Senato, il taglio nel numero dei parlamentari, l’abolizione delle Provincie. Entro quest’anno si deve anche approvare l’abolizione del finanziamento dei partiti, la legge sull’omofobia e il lavoro giovanile con il concorso finanziario europeo.
La presidenza semestrale italiana sarà essenziale per proiettare l’Unione europea verso un percorso federale e l’Unione bancaria.
Queste sono le “cosucce” che attendono Letta e scusate se è poco.
* * *
Non mi viene molto da dire sul congresso del Pd. La data è stata praticamente fissata, la partecipazione alle primarie sul nuovo segretario sarà aperta, ma si vota per il segretario e non per il candidato premier. Questa carica è palesemente inopportuna mentre l’attuale presidente del Consiglio proviene dal Pd ed ha un impegno che – salvo sorprese – durerà due anni, strettamente abbinato con l’Autorità che ha il compito di nominare i presidenti del Consiglio e i ministri nonché quello dello scioglimento anticipato delle Camere quando ne ricorrano le condizioni e solo in quei casi.
I candidati alla carica di segretario sono numerosi, ciascuno con pregi e difetti come sempre e dovunque accade. La scelta è libera e il numero di possibili concorrenti è ampio. Quando saremo vicini al voto nei gazebo sceglieremo. Personalmente non sono tra quelli che considerano un logoro e inservibile “arnese” il Partito democratico e la sua classe dirigente.
Certo va risvegliata, rinnovata, svecchiata. Ma attenzione: non è l’anagrafe che comanda, è la capacità, la probità intellettuale ed anche l’esperienza. A me non piacciono molto gli uccelli canterini ma di più i seminatori e i coltivatori. Ognuno ha i suoi gusti.

La Repubblica 11.08.13

La Road map delle riforme costituzionali

Dopo una breve ricostruzione del dibattito sulle riforme costituzionali, il dossier descrive il percorso delineato dal disegno di legge costituzionale “Istituzione del Comitato parlamentare per le riforme costituzionali ed elettorali” (approvato, in prima deliberazione, dal Senato) (AC 1359) che porterà all’approvazione delle modifiche della seconda parte della Costituzione.

La questione delle riforme costituzionali e della legge elettorale si è nuovamente posta fin dalle prime battute di avvio della XVII legislatura ed è stata sottolineata con forza dal Presidente della Repubblica Napolitano nel discorso pronunciato il 22 aprile 2013, dinanzi al Parlamento in seduta comune, in occasione del giuramento per il secondo mandato.
In quell’occasione il Presidente Napolitano ha sottolineato che “non si può più, in nessun campo, sottrarsi al dovere della proposta, alla ricerca della soluzione praticabile, alla decisione netta e tempestiva per le riforme di cui hanno bisogno improrogabile per sopravvivere e progredire la democrazia e la società italiana”

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www.partitodemocratico.it

“Imu Epifani: «Non c`era accordo sull`abolizione. Chi può pagare non può essere esentato», di Bianca Di Giovanni

«Berlusconi confonde le parole di Letta: alla base dell`accordo di governo non c`era esattamente la cancellazione dell`Imu sulla casa principale». Guglielmo Epifani replica così al leader Pdl che torna all`attacco sull`imposta sugli immobili. Un aut-aut inaccettabile per l`alleato «di necessità», che sul tema ha una visione molto distante da quella dei pidiellini. «Per il Pd le priorità sono molte, non ce n`è una sola – spiega il segretario – Naturalmente anche noi vogliamo alleggerire l`imposta, ma ci sono anche i lavoratori, i pensionati, le famiglie impoverite dalla crisi. Se ci fossero le risorse per tutto non ci sarebbero problemi. Visto che bisogna fare delle scelte, è necessario trovare una soluzione condivisa». Il Pd lo ripete da settimane, ma il Pdl continua a cannoneggiare, mettendo nel mirino il ministro dell`Economia. Per loro Fabrizio Saccomanni è quasi un`ossessione, non fosse altro che perché garantisce autonomia alle scelte di politica economica. Berlusconi sostiene che l`abolizione dell`Imu è alla base dell`accordo di governo. «L`espressione usata da Letta in Parlamento dice altro. Il premier ha parlato di superamento dell`attuale tassazione della prima casa, dando il tempo a governo e Parlamento di elaborare insieme e applicare rapidamente una riforma complessiva che dia ossigeno alle famiglie, soprattutto quelle meno abbienti. Non mi pare sia la stessa cosa. Ma c`è anche un altro errore di Berlusconi».

Quale?
«È infondato che l`Imu abbia provocato il crollo dell`edilizia. Semmai quello deriva dalla crisi della domanda dovuta alla mancanza di politiche anticicliche, di cui proprio il Pdl è responsabile».

Sta di fatto che nel sito dell`Economia compare una bocciatura della proposta del Pdl.
«Il problema posto dal ministro Saccomanni è fondato. Tanto più che in Italia abbiamo uno squilibrio nella struttura del prelievo: le imposte su redditi da lavoro e su pensione sono troppo alte, quelle sulle abitazioni sono in linea con gli altri Paesi europei, mentre sono più basse quelle sui consumi. Lo squilibrio penalizza il lavoro: la via maestra è abbassare le tasse su quei redditi».

Ma il programma del governo deve tenere conto di tutte le anime della maggioranza.
«Infatti quel programma prevede di intervenire sull`Imu e sull`Iva. Ma le priorità in questo momento sono molte: c`è l`edilizia scolastica, ci sono gli esodati, gli ammortizzatori sociali. Queste voci sono altrettanto importanti. Nella situazione finanziaria che abbiamo, siamo obbligati a delle scelte. Ecco perché è importante che il governo abbia i margini per lavorare e trovare i punti di equilibrio. Sull`Imu mi pare che ci sia condivisione sul fatto che l`imposta sia ricondotta ai Comuni».

Lei pensa che la mediazione sia vicina, o ancora lontana?
«Il governo si è preso tempo fino al 31 agosto, ci sono ancora un paio di settimane utili. Anche al Pd interessa l`Imu, che è parte anche del nostro programma. Ma un conto è escludere tutti, altro conto è esentare i meno abbienti. Se ci fossero risorse, sarebbe fatta. Ma quando le risorse sono poche, sarebbe davvero singolare che si togliesse un`imposta a chi la può pagare e non si facesse nulla per gli altri, quelli che non possono».

Come giudica questo atteggiamento di Berlusconi?
«Questa uscita sull`Imu mi sembra un modo di riaprire un tema caro al Pdl per uscire da una situazione di difesa in cui si è ritrovato. È evidente che si tratta di un diversivo per tornare a far presa sulla sua base».

Potrebbe essere materia di scambio con il salvacondotto giudiziario?
«Questa ipotesi non esiste. Si tratta di due temi che hanno caratteristiche molto diverse che non vanno confusi. In ogni caso non credo che sia questo il caso. Credo di più alla volontà di riprendere un`iniziativa in campo sociale su un tema caro al centrodestra. Il Pdl ha centrato almeno due campagne elettorali sulle tasse sulla casa. Oggi non vogliono rinunciare a quella bandiera. Ma qui non si tratta di rinunciare: anche noi vogliamo abbassare l`Imu. Ma certo non a chi ha abbastanza risorse da poterla pagare. Questa sì che sarebbe un`ingiustizia».

Le posizioni di Pd e Pdl sembrano alternative: la sintesi non sarà facile.
«Il ministro Saccomanni conosce molto bene la materia, sono certo che saprà trovare la soluzione. È chiaro che il centrosinistra vuole aiutare chi sta peggio. Per noi la priorità che viene prima di tutte è l`equità. Proprio per questo non bisogna dimentica re neanche il capitolo Iva: l`aumento di quell`imposta avrebbe effetti pesanti sull`economia e sulla vita delle famiglie».

Dopo la riunione della direzione del Pd, può dire una parola chiara sulle regole?
«In questa intervista preferisco concentrarmi sull`Imu e sul programma economico. Basta parlare di regole».

L’Unità 10.08.13

“Redistribuire per ripartire”, di Paolo Leon

Il presidente del Consiglio si è detto preoccupato, giustamente, del fatto che alla ripresa non seguirà un aumento dell’occupazione. Se l’Europa premierà la buona condotta italiana l’anno prossimo ci saranno risorse sufficienti.Intervenire per l’occupazione in modo massiccio, forse nel 2014, diventerà dunque imperativo. Intanto, nonostante l’ottimismo di Saccomanni, non c’è alcuna garanzia che la ripresa sia effettivamente in atto: i segnali positivi o meno negativi, vengono tutti dai conti con l’estero, che erano positivi anche nel pieno della crisi, senza dimenticare che l’Euro si sta rivalutando rispetto a tutte le altre valute. Non possiamo sperare, perciò, che la domanda estera sia la leva della nuova crescita. Esistono altre leve? Poco o niente nella finanza pubblica, perché nel 2013 e nel 2014 sarà necessario presentare un avanzo primario (le spese al netto degli interessi devono essere inferiori alle entrate), che sottrae domanda all’economia e indebolisce la crescita: manovre molto raffinate, ma fuori dalla realtà, potrebbero scegliere le spese che aumentano la crescita rispetto a quelle che non lo fanno, ma anche se ci fosse una tale opportunità, ci si doveva pensare molto prima, altro che spending review. Gli investimenti delle imprese, in questa situazione, non possono aumentare, se non per riempire i magazzini che nel frattempo hanno svuotato, ma perché questo possa dare un vero contributo alla crescita dovrebbe riguardare la domanda interna, la produzione per la quale ha ancora i magazzini pieni (come testimoniano gli sconti e i saldi). Non resta che operare sulla distribuzione del reddito, visto che la propensione a spendere è maggiore nei redditi bassi che in quelli alti, e minore è la loro propensione ad importare; è per questo che Letta pone l’accento sul disagio sociale – un altro modo per dire che occorre favorire chi ha più bisogno (e perciò spenderà di più). Naturalmente, occorrerebbe una forte redistribuzione, qualcosa da da 3 a 5 punti di Pil tra il 2013 e il 2014. Non so se sia possibile ma ogni mezzo deve essere utilizzato. Roosevelt, per questo stesso scopo, riconobbe il sindacato, il diritto di sciopero, la contrattazione nazionale: la crisi sembrava impedire alle imprese di riconoscere salari più elevati, e la lezione, allora, fu proprio che i salari più elevati avrebbero contribuito alla crescita delle vendite delle imprese, dei loro investimenti e dei loro profitti. Letta dovrebbe, allora, non soltanto redarguire Marchionne, ma chiamare le imprese a un patto del tutto diverso da quello al quale le aveva abituate il centro destra: si deve ridurre il cuneo fiscale sul lavoro, soltanto aumentando le buste paga, non fornendo maggiori margini di profitto alle imprese – perché, come sempre, è la spesa che fa i profitti, non i profitti la spesa. Si tratterebbe in parte di una detassazione che pesa sui conti pubblici, ma peserebbe meno se i salari crescessero a causa di una contrattazione finalmente più favorevole ai lavoratori. Il lamento degli imprenditori va colto, assicurando loro maggior credito: le banche devono far parte dello stesso patto, e ridurre la speculazione sui titoli a vantaggio del finanziamento delle imprese. La redistribuzione deve poi colpire direttamente il sistema fiscale: togliere l’Imu a tutti è come dare un vantaggio ai più ricchi, e questi spendono meno dei poveri; aumentare l’Iva è ai danni dei meno
abbienti, e perciò della loro spesa; lasciare invariata la curva delle aliquote, in presenza di inflazione, punisce di più chi ha un reddito basso, mentre lascia indifferenti i redditi più elevati.
Anche questo programma non assicura nuova occupazione in misura sufficiente, perché le imprese, supponendo che incontrino una domanda crescente, sfrutteranno di più il lavoro che hanno già in azienda. Di nuovo, però, diventa rilevante la contrattazione, in questo caso su orari e straordinari.
Letta, se vuole continuare il suo governo di coalizione, deve dare questo messaggio a Berlusconi, che essendo capace di proposte demagogiche, si troverebbe in difficoltà con un programma di giustizia sociale e di forza sindacale, ma dovrebbe fare buon viso a cattiva sorte: sarebbe un evento, come si vede con le sentenze che lo riguardano.

L’Unità 10.08.13