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“I tre macigni sulla strada della crescita al rallentatore”, di Luigi Guiso

Prevedere i punti di svolta del ciclo economico è un esercizio molto difficile. Si riesce, dall’esame degli indicatori, a capire la tendenza ma localizzare quando il ciclo invertirà, manifestando una ripresa dopo una recessione, è piuttosto arduo. Ne abbiamo una prova anche in questa fase: nel 2012 la ripresa era annunciata per gli inizi del 2013, è stata poi spostata a metà di quest’anno, passata la quale è ora attesa per l’autunno o (per i più pessimisti) per l’inizio del prossimo anno. Se vi è incertezza sul quando la ripresa avverrà, vi è invece maggior certezza (e non è una buona notizia) sulle caratteristiche che questa avrà: sarà molto lenta. In uno scenario realistico, alla fine del 2018 – ovvero alla fine di questa legislatura (se verrà portata a compimento) – l’Italia avrà recuperato il livello di prodotto del 2008. Undici anni per tornare al punto di partenza. Undici anni senza il minimo progresso economico. Neppure quello già di per sé insoddisfacente del decennio pre-crisi. La lentezza prevista della ripresa è a sua volta figlia della profondità e durata della recessione. Vi concorrono diversi fattori. Qui ne cito tre che è bene tenere ben presenti. Primo, la difficoltà delle imprese di ottenere credito sul mercato è fenomeno che si protrarrà a lungo, anche quando le condizioni del mercato del credito si saranno parzialmente normalizzate. L’offerta di credito bancario è destinata a contrarsi negli anni a venire, per consentire alle banche di ricostruire i propri bilanci e ridurre la leva finanziaria. La bassa redditività delle banche comporterà una forte ristrutturazione e una contrazione pronunciata del l’intermediazione bancaria. La dipendenza delle imprese italiane dal credito bancario e la mancanza di forme dirette di finanziamento delle imprese, innanzitutto un mercato sviluppato dei corporate bonds, accentuerà le conseguenze di questo processo sulla disponibilità di credito, rallentando la ripresa e limitando il potenziale di crescita delle imprese più dinamiche e innovative (che pure esistono). Con Guido Tabellini abbiamo richiamato più volte su queste colonne l’importanza di avviare un processo di riorganizzazione dei flussi dei fondi in modo da spostare il baricentro dell’offerta finanziaria rendendolo meno banco-dipendente. Il secondo elemento che contribuirà a rendere la ripresa lenta riguarda il comportamento di consumo delle famiglie e quindi la dinamica della componente più importante della domanda interna. Le famiglie italiane hanno fronteggiato i cinque anni di recessione trascorsi attingendo a piene mani alla ricchezza accumulata nei decenni precedenti. Nei cinque anni di crisi, tra il 2008 e il 2013, la famiglia media ha speso oltre 50 mila euro dei risparmi passati per mantenere gli standard di consumo, aiutare un membro che aveva perso il lavoro, sostenere l’impresa di famiglia e perfino finanziare l’aggravio di imposte chiesto dal governo per gestire la crisi di fiducia sul debito. Il sacrificio è notevole, pari a più di un anno del reddito disponibile della famiglia media. La grande recessione lascia in eredità alle famiglie il compito di ricostituire i risparmi per non dover rinunciare agli obiettivi che avevano in mente di perseguire, non ultimo la creazione di una riserva per la pensione. Ma questo implica che negli anni a venire assisteremo a una compressione della propensione alla spesa al di sotto del livello medio tradizionale fintanto che l’obiettivo di risparmio non verrà conseguito. Ne seguirà una domanda interna blanda e una ripresa lenta. Il più difficile accesso al credito che anche le famiglie dovranno affrontare negli anni a venire contribuirà ad accentuare la necessità di ricostituire scorte di risparmio precauzionale, frenando la ripresa. Il terzo elemento che contribuirà a rallentare la ripresa opera dal lato dell’offerta. Molte imprese sono state spazzate via dalla recessione. Alcune hanno cessato perché particolarmente deboli e non più capaci di stare sul mercato. Lo spazio occupato da queste è probabile che sarà riempito facilmente da concorrenti italiane più efficienti. Molte però sono uscite dal mercato perché il calo di attività è stato violento e le ha portante sotto la soglia minima di profittabilità; esso è durato troppo a lungo per resistere sul mercato finanziando le perdite con le riserve accumulate o con il ricorso al credito (sempre più difficile) in attesa della ripresa. Si tratta in questo caso di imprese efficienti che sarebbero sopravvissute in condizioni cicliche normali o di fronte a una recessione meno acuta e persistente, o anche a questa recessione se no fosse stata accompagnata da un credit crunch. La sostituzione delle loro produzioni da parte di altre non è né facile né immediata. Il loro rientro sul mercato una volta avviata la ripresa non sarà affatto garantito. Alcune si sono riallocate fuori dai confini nazionali, per quelle rimaste e disposte a ricominciare, farlo sarà arduo. In parte perché l’uscita dal mercato ha reso le loro conoscenze obsolete, ma ancor più perché non hanno capitali propri (avendoli spesi per far fronte alla grande recessione) e ottenere fondi esterni sarà difficile. La domanda per le loro produzioni, sia proveniente dall’estero che dall’interno rischia di non essere soddisfatta per carenza di offerta, ostruendo la ripresa. Ritorniamo ancora una volta al problema del credito. Affrontarlo di petto ancor più di quanto il governo non stia facendo è condizione sine qua non per non morire di inedia.

Il Sole 24 Ore 10.08.10

“Sicurezza senza grande fratello”, di Federico Rampini

E alla fine Barack Obama ha detto una cosa di sinistra sul Datagate. «La difesa dei nostri interessi deve coincidere con il rispetto dei nostri valori». Dunque, il fine non giustifica i mezzi, la difesa degli americani contro le minacce terroristiche non può giustificare le invasioni sistematiche e arbitrarie della privacy. È una svolta, che giunge quasi inattesa: proprio mentre l’asilo “politico” concesso da Vladimir Putin alla “gola profonda” Edward Snowden getta nella più grave crisi post-guerra fredda le relazioni tra Russia e Stati Uniti. Poche ore prime di partire per una settimana di vacanza Obama annuncia una svolta importante sui temi della sicurezza nazionale. Di fatto, con questo discorso può aprirsi un’era nuova, dopo 12 anni di “guerra totale” al terrorismo. Il presidente chiederà al Congresso di riformare il Patriot Act, la più importante legislazione di emergenza che fu varata dopo l’attacco alle Torri gemelle: un apparato di norme che ha favorito la costruzione di un Super-Stato di polizia, certo dentro una cornice liberale e democratica, ma pur sempre con dei “corpi separati” dalla potenza via via smisurata. Uno di questi è proprio la National Security Agency, per la quale lavorava Snowden. Obama nominerà una task force di esperti per aiutare la Casa Bianca e il Congresso a rivedere le leggi speciali: gli specialisti dell’anti-terrorismo saranno affiancati da studiosi e attivisti dei diritti civili. L’obiettivo, nelle parole del presidente, è una riforma onnicomprensiva delle attività di spionaggio, che bilanci con cura le esigenze di sicurezza dei cittadini e quelle di protezione della loro privacy. Dovranno cambiare anche i metodi di funzionamento del “tribunale segreto” che autorizzava fin qui le attività di monitoraggio di tutte le comunicazioni (telefoniche, email) in base al Foreign Surveillance Act. Va ricordato che questa corte federale segreta fu istituita in base a una legge del 1978: quando alla Casa Bianca c’era un altro democratico, Jimmy Carter. Ma col tempo le funzioni di quel tribunale si sono ingigantite, per effetto dello shock dell’11 settembre e della nuova dimensione dei rischi per la sicurezza nazionale, a cui ha fatto seguito una dilatazione ipertrofica degli apparati di intelligence. Non sempre, comunque, con un beneficio in termini di efficienza: basti pensare all’attentato alla maratona di Boston, i cui preparativi passarono ben al di sotto di tutti gli schermi radar dei servizi (malgrado la crescente irrequietezza dei due terroristi ceceni negli anni precedenti, segnalata anche dai servizi segreti russi).
Un passaggio cruciale, nel discorso di ieri, è quello in cui il presidente riconosce di avere sbagliato nell’interpretare le preoccupazioni dei suoi concittadini. Ammette cioè di avere dato per scontato che la maggioranza degli americani si fidi senza riserve dello Stato, e si senta tutelata dal sistema attuale. Dalle prime rivelazioni di Snowden, non c’è dubbio che il clima è cambiato. All’inizio l’opinione pubblica sembrò davvero poco preoccupata: i primi sondaggi rilevavano un riflesso di “ordine e sicurezza anzitutto”, quasi pavloviano. Se in questi due mesi l’atmosfera è cambiata, lo si deve a due fattori: le forti critiche degli europei; e il ruolo della stampa americana che non ha voluto accodarsi al conformismo post-11 settembre e ha dato ampio spazio alle critiche per la mancanza di trasparenza della Nsa. Più trasparenza, è proprio quello che Obama promette adesso.
La svolta di Obama è tanto più interessante, in quanto coincide con una fase di nuovo allarme per la sicurezza degli americani. Decine di sedi diplomatiche Usa sono state chiuse in diversi paesi del Nordafrica e Medio Oriente. Nuove segnalazioni di possibili attacchi terroristici sono avvenute in Pakistan. E pochi giorni fa, in una evasione di massa che appare coordinata, molti militanti di Al Qaeda sono fuggiti dalle carceri di diversi paesi arabi. Il pericolo per gli Stati Uniti e per tutti i paesi occidentali non è certo tramontato. E tuttavia Obama si è convinto che l’America di oggi possa affrontare queste minacce senza dare deleghe in bianco al suo Grande Fratello, ai maghi delle tecnologie avanzate che lavorano dietro le quinte per estendere il raggio di azione dell’intelligence. Il controllo democratico dovrà estendersi su queste operazioni, che non devono sfuggire ai principi dello Stato di diritto.

La Repubblica 10.08.13

“Un ricatto inaccettabile”, di Claudio Sardo

La proposta di Berlusconi è profondamente iniqua. Dietro la demagogia sulle tasse c’è una sostanza duramente classista: togliere ai poveri e alle classi medie per dare ai più ricchi. I numeri: l’Imu sulla prima casa vale quattro miliardi. Il 40% della popolazione non paga, o perché non è proprietario o perché è esente in virtù delle detrazioni vigenti. Sul 43% degli italiani gravano due miliardi di Imu e i restanti due sono a carico del 7% più facoltoso. Il governo Letta è intenzionato, giustamente, a ridurre il peso dell’Imu (anzi, a riformulare la tassa per evitare le tante storture di oggi). In un Paese con l’80% di proprietari dell’abitazione di residenza, una detassazione può avere anche effetti anti-congiunturali. Ma l’idea del governo è di dimezzare il gettito sulla prima casa: in questo modo oltre il 90% della popolazione verrebbe esentata, mentre l’onere della solidarietà fiscale resterebbe solo a carico dei più ricchi. Il capo della destra invece vuole azzerare tutto e fa della redistribuzione alla rovescia (dalle classi medie ai più ricchi) la propria bandiera. Fino a minacciare la vita del governo. Tutto ciò è inaccettabile. E non certo per una ragione classista, uguale e contraria a quella del Pdl. È inaccettabile per una ragione elementare di giustizia sociale e di efficacia della strategia anti-crisi. I due miliardi che Berlusconi vuole girare al 7% dei proprietari più ricchi sono il corrispettivo dell’aumento di un punto di Iva (che pagherebbero anche i più poveri, attraverso l’aumento dei beni di prima necessità), oppure del rifinanziamento della Cassa in deroga. Cosa pretende Berlusconi? Che venga esonerato dall’Imu il proprietario di una villa con piscina oppure di un’appartamento di lusso e che a pagargli lo sconto siano i cassintegrati e gli esodati?
Nessun governo potrebbe accogliere oggi, nel pieno di questa crisi, una simile proposta. Neppure se fosse in gioco la sua sopravvivenza. Il no alla tesi Pdl che ieri il ministro Saccomanni ha fatto filtrare dal sito del ministero dell’Economia e il no che oggi il segretario del Pd Epifani ribadisce sul nostro giornale sono la sola risposta possibile. Anzi, la sola compatibile con la continuità del governo. Si usi piuttosto l’ingegno per riformulare la tassa, per adeguare il catasto, per aiutare i Comuni, per andare incontro ai redditi più bassi e alle famiglie più numerose.
E qui veniamo alle ragioni politiche dello strappo di Berlusconi. A differenza di ciò che è stato scritto, il leader del centrodestra non ha affatto deciso se investire ancora sul governo Letta o se puntare ad elezioni anticipate. Vorrebbe «agibilità politica» (singolare espressione, presa in prestito dall’estremismo degli anni 70) nonostante la condanna e i suoi inevitabili derivati. Ma ha capito che non l’avrà. O meglio, non avrà nulla che non sia rispettoso della legge. Uno strappo alla legalità comporterebbe, questo sì, la fine automatica del governo. Per responsabilità sua. E allora non sa Berlusconi se far saltare il tavolo e tentare un’avventura elettorale con l’obiettivo di rendere ingovernabile anche la prossima legislatura. Ovviamente per questo confida nella sponda di Grillo (che non vuole leggi elettorali maggioritarie). Comunque sia, decida al più presto. All’alibi dell’Imu per far nascondere la condanna e i suoi effetti non crede nessuno. Il governo Letta, per parte sua, non potrà mai aumentare l’Iva o lasciare senza soldi i cassintegrati per azzerare la tassa sulla prima casa ai più ricchi. Piuttosto è Berlusconi che, se non ci sarà il voto immediato, dovrà fare i conti con la successione alla guida della destra.

L’Unità 10.08.13

“L’insidia inaspettata per Letta”, di Luigi La Spina

Non si è mai visto un presidente del Consiglio pessimista sulla durata del suo governo, ma Enrico Letta, prima del breve periodo di vacanza, forse potrebbe aver ragione nel sostenere che l’esecutivo sia più solido di quanto appaia.
I motivi della sua fiducia, oltre a quello d’obbligo per ragione d’ufficio, si basano sostanzialmente sulla mancanza di vere alternative.
Mancanza di vere alternative che derivano dalla composizione dell’attuale Parlamento e dall’impossibilità di chiedere agli italiani di cambiarla, con un nuovo voto, senza l’approvazione di una diversa legge elettorale.

Governo obbligato, dunque, governo fortunato? Mica tanto, vista la quotidiana sorte di dover sopportare le continue polemiche tra i due principali partiti della sua maggioranza, alleati per forza e avversari per vocazione. Con l’effetto concreto di essere costretto a rinviare le scelte fondamentali, quelle sui nodi dell’economia che più interessano agli italiani, come le tasse sulla casa o l’Iva, e di limitarsi al varo di provvedimenti sui quali difficilmente si potrebbe essere contrari. Ultimo esempio in ordine di tempo, l’inasprimento delle pene per le violenze sulle donne.

All’apparenza, vengono dal Pdl le minacce più serie per il governo, come l’ultimatum di Berlusconi sull’abolizione totale dell’Imu per la prima casa, ripetuto ieri, sembra dimostrare. E’ evidente la scelta di ipotizzare l’apertura di una crisi e nuove elezioni, da parte di quel partito, su un tema così popolare e non sulla richiesta agli italiani di approvare, con il voto, un salvacondotto giudiziario per il suo leader. Ma è discutibile il vantaggio, per Berlusconi, della sostituzione di questo governo Letta con un qualsiasi altro, vista la notoria e assoluta contrarietà di Napolitano a elezioni anticipate e l’impraticabilità di indirle con una legge elettorale che la suprema Corte si appresta a dichiarare incostituzionale.

Più insidioso per Letta, invece, è l’atteggiamento del suo partito. Il Pd pare, in questo momento, del tutto disinteressato alle sorti del governo e tutto concentrato sull’esito di un nuovo «duello infinito». Come quello che, per gli ultimi vent’anni, ha paralizzato il maggior partito della sinistra italiana, la competizione tra D’Alema e Veltroni, così, magari per i prossimi vent’anni, si annuncia la sfida tra gli eredi della nuova generazione, Letta e Renzi. I prodromi dello stesso infausto destino ci sono tutti e il surreale andamento dell’ultima direzione Pd, con il balletto di annunci e smentite sulla data delle primarie, conferma i peggiori pronostici. Da mesi, in quel partito, si parla solo di calendari e di regole, questioni certamente appassionanti per gli italiani oppressi dalla crisi e dalla disoccupazione. Da mesi, non appare una proposta chiara e concreta di politica economica che possa far interessare e, magari, far discutere i cittadini.

Da una parte, Berlusconi vellica i magri portafogli dei nostri connazionali, occupa sempre da protagonista il dibattito politico, costringendo gli altri a seguire la scia dei suoi temi, contestando le ricette economiche dell’Europa e del Fondo monetario e riscuotendone i relativi vantaggi demagogici. Dall’altra, si ode un balbettìo confuso e incerto tra omaggi rituali ai rigori monetari delle autorità politiche ed economiche internazionali e timide obiezioni sull’efficacia di quelle ricette. Così, l’unica cosa comprensibile è la condanna a un compromesso continuo, prima sull’alleanza con Berlusconi, poi sull’Imu, poi sul possibile aumento dell’Iva e, infine, persino sulle sorti del ministero retto dall’ex vicesegretario del partito. Un atteggiamento che ricorda quello della Dc, all’epoca della prima Repubblica, nei confronti dell’occasionale «governo amico».
Ecco perché, quasi insensibilmente, quasi inconsapevolmente, quasi involontariamente, l’autismo del Pd, una malattia dalla quale quel partito non riesce a guarire, potrebbe coinvolgere il presidente del Consiglio, dal momento che Letta è anche uno dei duellanti per la futura leadership, e le conseguenze dello scontro con Renzi potrebbero avere decisivi riflessi sulla sua poltrona a Palazzo Chigi.

Alla vigilia della settimana di ferragosto, ci si potrebbe chiedere se la durata del governo, nel prossimo autunno, sia augurabile o no. La risposta è difficile, perché dipende dalla soluzione delle scelte economiche finora rinviate. Quella timida ripresa internazionale che si annuncia non sarà agganciabile anche dall’Italia senza misure, da parte della politica, concrete e rilevanti sul piano dell’occupazione e degli investimenti. L’unica consolazione è che, a fine mese, avremo quella risposta, perché il tempo dei rinvii è scaduto.

La Stampa 10.08.13

“Una battaglia di civiltà”, di Maria Cecilia Guerra

Gli articoli del decreto approvato ieri dal Consiglio dei ministri dedicati alla prevenzione e al contrasto della violenza di genere rappresentano una prima, molto importante, risposta a un problema di grande rilevanza sociale. Le norme, che sicuramente potranno esse- re arricchite nel passaggio parlamentare, aggrediscono il fenomeno da più punti di vista. Particolare attenzione è posta, in accordo con quanto richiesto dalla Convenzione di Istanbul ratificata dal nostro Parlamento il 27 giugno scorso, sulla violenza domestica, definita come l’insieme di atti, non episodici, di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica, che si verificano all’interno della famiglia o comunque fra persone che sono o sono state legate da relazioni coniugali o affettive. Si prevede, ad esempio, che i responsabili di tali violenze possano essere ammoniti anche in assenza di querela, sulla base di segnalazioni di terzi a cui viene garantito l’anonimato. Si riconosce un permesso di soggiorno umanitario alle persone straniere che ne siano vittime. Si riconosce l’arresto in flagranza di reato per chi se ne rende responsabile. Si dà priorità nei processi ai reati riconducibili a questo tipo di violenza. Si garantisce il patrocinio gratuito alle vittime, indipendentemente dalle loro condizioni reddituali.
Grande è poi l’attenzione dedicata alla tutela della persona vittima di violenza in tutta la fase processuale: se ne accresce la possibilità di difesa, garantendo, ad esempio, che sia tempestivamente informata in caso di conclusione delle indagini, di archiviazione dei reati, di revoca delle misure coercitive adottate nei confronti di chi ha commesso la violenza; se ne acquisisce la testimonianza con modalità protette quando si trovi in condizioni di fragilità e ne faccia richiesta.
Oggetto di intervento sono anche gli atti persecutori, che comprendono minacce e molestie reiterate nei confronti delle vittime, che vengono ora puniti anche quando avvengono attraverso strumenti informatici o telematici. Per lo stalking la querela diventa irrevocabile, per evitare, come già si è fatto nel caso di violenza sessuale, che
la persona violenta metta in atto minacce per spingere quella offesa a ritirarla.
La caratteristica principale del provvedimento è però la filosofia della prevenzione. Anche una norma punitiva, come quella che aggrava le pene nel caso di violenza compiuta alla presenza di minori, può, ad esempio, avere una funzione preventiva: è infatti noto che assistere alla violenza di un genitore sull’altro genera comportamenti imitativi nei figli. Interventi che rafforzano gli strumenti dell’ammonimento e il contrasto allo stalking giocano un ruolo cruciale nel prevenire l’escalation della violenza che può, come purtroppo spesso accade, portare fino al femminicidio.
Ma la violenza di genere ha radici culturali e sociali molto profonde, ed è su queste che principalmente occorre intervenire. E per farlo occorrono azioni, oltre ad atti normativi. Per questo, a partire dai lavori iniziati con la task force istituita dalla ministra Idem e ora da me coordinata, che coinvolge le amministrazioni centrali e d’ora in poi anche Regioni e Comuni, il provvedimento prevede l’urgente definizione di un piano di azione contro la violenza sessuale e di genere: che dia l’avvio a un processo di informazione e sensibilizzazione della collettività, specialmente della componente maschile, sulla violenza contro le donne; che promuova l’educazione alla relazione e contro le discriminazioni di genere nelle scuole; che garantisca la formazione di tutte le professionalità che entrano in contatto con la violenza di genere e lo stalking – forze dell’ordine, servizi sociali, operatori sanitari, per citare i principali – in modo che sappiano come identificare la violenza di genere, anche quando non è ammessa, spesso per paura o per vergogna, dalla vittima, e sappiano individuare il grado di rischio a cui questa è esposta e adottare quindi i provvedimenti necessari, compreso quello di indirizzarla verso le reti di assistenza e i centri antiviolenza; che metta in rete i dati disponibili, perché ancora troppo poco si sa del fenomeno. Insomma, la forza maggiore del provvedimento approvato, è proprio la consapevolezza dichiarata che esso è solo un primo passo per una battaglia culturale e sociale di lungo corso che chiama tutti alle proprie responsabilità.
* Viceministro al Lavoro e alle Politiche Sociali con delega alle Pari Opportunità

L’Unità 09.08.13

“La missione di Letta”, di Claudio Sardo

Secondo la propaganda berlusconiana, la conferma della condanna da parte della Cassazione avrebbe provocato la caduta del governo Letta a causa delle inevitabili convulsioni del Pd. Ma pochi giorni sono bastati per smontare l’intero castello. I problemi maggiori sono in casa Pdl, anzi nella testa di Berlusconi. Che non potrà avere sconti nell’esecuzione della sentenza, né nella decadenza da senatore, così come non ha ottenuto salvacondotti per evitare la condanna definitiva. E dunque è anzitutto Berlusconi che non ha ancora deciso se far saltare il banco alla ripresa di settembre. Avevano detto – i grillini, ad esempio – che le larghe intese sarebbero servite per regalare l’immunità al Cavaliere. Invece l’esecutivo guidato da Letta può vivere solo ripristinando l’autonomia dei poteri e il rispetto della legalità.
Il governo non è merce di scambio per garantire la cosiddetta «agibilità politica» ad un Berlusconi condannato per reati comuni. Questo governo semmai può diventare un ponte verso un nuovo sistema politico, con una destra post-berlusconiana al posto dell’attuale partito-azienda. Al fondo, è questa la vera scelta per il Pdl: giocare tutta la posta in difesa del capo, fino a calpestare i principi dell’ordinamento e gli interessi del Paese, oppure avviare un percorso democratico interno, dando una successione a Berlusconi diversa da quella dinastica e contribuendo così a far uscire l’Italia dall’incubo della seconda Repubblica. Molti pensano che il Pdl non possa farcela, che Berlusconi non rinuncerà alla sua «proprietà», che al momento della decadenza da parlamentare (o un minuto prima) scatenerà un’opposizione di sistema, e non solo un’opposizione al governo.
Il destino di Letta è legato a questa scelta. Sbaglia chi pensa che Berlusconi non mollerà comunque la presa, perché le larghe intese sono il solo terreno negoziale rimastogli. Tante, troppe volte in questi due decenni ha ribaltato il tavolo, scommettendo più sulla propria forza «eversiva» che non sul negoziato. Berlusconi senza «agibilità» potrebbe tentare la scorciatoia elettorale per ottenere lo stesso risultato che vuole Grillo: cioè, che anche la prossima legislatura diventi ingovernabile e che il Pd – con o senza Renzi – fallisca di nuovo il suo progetto di cambiamento.
Va anche detto però che il destino del governo non dipende solo da Berlusconi. Il Pd non è uno spettatore passivo. Anzi, o sarà capace di incalzare il governo, di ottenere almeno alcuni dei risultati economici, sociali e istituzionali che si è proposto, oppure il governo Letta crollerà. Il punto non è portare il governo dalla parte del Pd più di quanto non sia oggi. Il punto è la missione dell’esecutivo. Il suo obiettivo nella crisi drammatica che stiamo vivendo. Una crisi – è bene ricordarlo – non solo sociale, ma anche democratica e di fiducia. Ebbene, il governo Letta non può diventare un governo di tregua o di decantazione. È nato senza una vera intesa politica, ma ha bisogno di una rotta e di una forte determinazione per attraversare la tempesta.
La prima emergenza è il lavoro. E le politiche di bilancio, come la politica europea, devono essere orientate a rilanciare i consumi, ad agganciare la ripresa, a ridurre le disuguaglianze mentre si cerca di dare maggiore competitività ai settori trainanti (compresi la scuola e la cultura, con i quali «si mangia»). Ma ci sono anche le riforme istituzionali da fare insieme alla nuova legge elettorale: perché senza un superamento del bicameralismo paritario e senza meccanismi come la sfiducia costruttiva (altro che presidenzialismo), non ci sarà riforma elettorale capace di assicurare di per sé la stabilità. Bisogna inoltre affrontare con energia ed equità i nodi fiscali: a partire dall’Imu. La proposta di bandiera del Pdl (cancellare l’Imu sulla prima casa anche ai più ricchi) ha un costo oggi non sostenibile e un carattere regressivo. Semplicemente: non può essere accolta. Se il governo lo facesse, si condannerebbe alla fine.
Il governo Letta deve invece rafforzare il proprio grado di autonomia. È anch’esso un valore costituzionale, che rimanda al principio della divisione dei poteri e riconduce i partiti negli spazi propri. Dei partiti la democrazia italiana ha bisogno. Di partiti rinnovati, ma non personali. Anche per questo la legge che abolisce il finanziamento pubblico (e non pone vincoli ai versamenti privati, anzi ne depenalizza gli abusi) è una pessima iniziativa del governo, incoerente con i propositi di ripristino della normalità costituzionale, anche se oggi viene venduta come un favore alla piazza.
L’orizzonte del governo Letta è la fine del 2014, cioè lo svolgimento del semestre di presidenza italiana dell’Ue. Nessuno può dire se ci arriverà davvero. In ogni caso, per raggiungere questa data, bisogna dare fin d’ora un’impronta di cambiamento. L’Imu, in realtà, è solo un primo passaggio (vedremo se il Pdl prenderà a pretesto l’inevitabile bocciatura della loro proposta per far saltare il banco). La prova più importante sarà la definizione delle linee di bilancio del 2014: dovrà esserci il segno di una rottura con le vecchie politiche di austerità. Non la richiesta a Bruxelles di un semplice sforamento del 3% nel rapporto decifit/Pil, ma scelte di investimenti selettivi su lavoro, impresa, ricerca, innovazione. Letta ha un vantaggio: un simile negoziato con l’Europa – così vitale per noi – può condurlo solo chi garantisce la stabilità politica. Nell’instabilità il negoziato è già perso. La stabilità, tuttavia, ha senso solo se porta vantaggi all’Italia e a chi in Italia paga oggi i costi più alti della crisi.

L’Unità 09.08.13

“Ora servono processi più rapidi”, di Mariella Gramaglia

«Sono orgoglioso, è un cambiamento radicale, un chiarissimo segnale» – così Enrico Letta. «Ci siamo attrezzati per prevenire, punire, proteggere» – aggiunge Angelino Alfano. È stato appena approvato il decreto legge contro il femminicidio. Ambedue hanno lo sguardo fermo e sereno, da veri uomini di Stato: niente ammicchi, niente visi dell’arme. Berlusconi concedente, dopo giorni e giorni che tutti gli occhi erano puntati esclusivamente alla Corte di Cassazione, al Palazzaccio allusivo di sventure, oggi finalmente parlano di nuovo al Paese. E alle donne in particolare, le più insofferenti dei giochi politicanti, le più trascurate nonostante le promesse elettorali.

Che sollievo. Almeno per loro. E per le donne?

Vediamo. Innanzitutto questo è un decreto all’insegna della «sicurezza». Nonostante il lavoro della ministra dimissionaria per le pari opportunità Josefa Idem, che Letta ha cavallerescamente ringraziato, e quello, presumibilmente sotto traccia, della sottosegretaria Cecilia Guerra, è dal Viminale che viene l’impronta. Salvo augurabili sorprese al momento della divulgazione del testo ufficiale, non è stato stanziato un solo euro per il rifinanziamento delle case a tutela delle donne maltrattate, picchiate o violentate. E questo, malgrado il fatto che durante il recente dibattito parlamentare sul recepimento della convenzione di Istanbul, la misura fosse stata considerata uno dei punti più qualificanti di una politica innovativa ed efficace.

Poi è appunto un decreto. Ci siamo talmente abituati a considerare il Parlamento un catino ribollente di interventi sgangherati e di furie incomprensibili, che ci sfugge quanto sia inappropriato un decreto su questa materia in una legislatura dove la parlamentari sono il 30% e non poche di loro si sono costruite competenze e sensibilità degne di essere considerate.

Tant’è che, al momento della conversione in legge del decreto «svuota carceri», sono state proprio le deputate e le senatrici ad accorgersi che, se non si fosse aumentata a cinque anni la pena per lo stalking (persecuzione sistematica), gli stalker avrebbero goduto di un’insperata indulgenza.

L’elemento più positivo è che finalmente il governo ha registrato che più del 70% delle violenze avvengono in famiglia, oppure in relazioni parentali o «affettive», dunque è in quel nucleo, che secondo i vecchi giuristi andava solo lambito e mai aggredito dal diritto penale, che bisogna avere il coraggio di affondare il bisturi con la giusta severità. Questo è il senso delle aggravanti per il coniuge o il compagno, e anche delle aggravanti ancora maggiori se la violenza avviene quando la vittima è in stato di gravidanza o in presenza di minori. E della norma che ha fatto più scalpore: «fuori casa il coniuge violento». Sorvegliato, immaginiamo, e tenuto a debita distanza dalla dimora coniugale.

Resta il problema della procedibilità su cui tanto si discusse prima del 1996, anno dell’approvazione della legge sulla violenza sessuale. Allora si temeva un «doppio regime», querela in famiglia e procedibilità d’ufficio nei rapporti esterni e soprattutto si contava, forse con eccesso di ottimismo, sulla forza delle donne e nella loro ribellione, per cui, una volta decisa la querela, non sarebbero tornate sui loro passi.

Oggi procedibilità d’ufficio e querela irrevocabile spostano sulla collettività molte responsabilità. E bisogna che la collettività tutta – stampa, opinione pubblica, avvocatura, polizia – ne sia degna. Ma soprattutto che ne sia degna la magistratura.

In due terzi dei casi oggi le vittime di violenza non vedono la fine del processo nei confronti dei loro persecutori. A volte addirittura il loro procedimento si perde nelle nebbie e non sanno più a che punto sia arrivato. Da oggi la donna sarà sempre informata del punto in cui è giunto il procedimento e potrà usufruire di una corsia preferenziale per rendere la sentenza più rapida.

Non sarebbe male una road map. Se, con le nuove regole, nel giro di un anno, le vittime che riuscissero a vedere la fine del loro processo diventassero almeno la metà, potremmo davvero congratularci con noi stessi.

La Stampa 09.08.13