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“Prevenire è rieducare”, di Concita De Gregorio

Inasprire le pene non basta, naturalmente, e forse non serve. Le buone leggi non sono quelle che nascono dalle pessime abitudini e tentano di sanarle, condonarle, depenalizzarle, regolarle e infine punire, sì, chi davvero esagera. Di quelle siamo pieni. Le buone leggi sono quelle che provano a indicare una rotta, e la tracciano. Sono quelle che tentano di definire il perimetro di ciò che la cultura civile deve (dovrebbe) ritenere giusto e lecito e non nascono allo scopo di contenere il danno dei comportamenti diffusi, illeciti o criminali, ma hanno l’ambizione di cambiare le regole della convivenza nella testa e nel cuore dei cittadini prima che nelle aule di tribunale. In questo caso inasprire la pena è eventualmente un segnale, appena un inizio. Forse un deterrente, in qualche raro caso, ma non basta e non serve. È piuttosto difficile difatti immaginare che chi massacra di botte una donna sia dissuaso dal farlo dalla consapevolezza, ammesso che ce l’abbia, che rischia cinque o dieci anni in più di galera. Non è l’ergastolo eventuale a fermare la mano di chi fa a pezzi la moglie e la seppellisce in giardino, né l’eventualità di un arresto può cambiare l’atteggiamento di chi picchia abitualmente la donna con cui vive, e se ci sono i figli ad assistere pazienza, anzi meglio così imparano subito come va il mondo. È semmai, caso per caso, l’educazione che quell’uomo ha ricevuto in famiglia e a scuola, le parole e i gesti che ha visto e sentito per decenni tutto attorno a sé, da suo padre e sua madre, nella vita e in televisione, è lo sguardo degli altri sul suo. Lo sguardo degli altri: se sia indulgente, indifferente o feroce. La disapprovazione sociale, il disprezzo di chi ti sta intorno: questo sì, forse, può fermarti.
In questo senso la parte più interessante del decreto che vuole combattere la violenza
sulle donne – violenza che dilaga da anni dietro una soglia di vigilanza laschissima, un generale compatimento compiaciuto – non è la prima, pene più severe, ma la seconda e la meno nitida, quella che parla del “pacchetto di provvedimenti di prevenzione”. Certo. È più difficile e ci vuole più tempo. Eppure non c’è altro modo che non sia quello di cominciare dalle scuole, dall’educazione in classe, dal non consentire alle femmine quello che è consentito ai maschi, dalla formazione di personale che sappia parlare ai più piccoli perché sono i bambini quelli che tornano a casa e insegnano severi agli adulti: questo non si fa. Dal rifinanziamento dei centri antiviolenza, in via di scomparsa. Dall’evitare, quando vai a denunciare che il tuo ex ti perseguita o che il tuo compagno ti riempie di botte, che non ci sia solo, come spesso accade, qualcuno al commissariato che ti dice “Signora, torni a casa”. Ci vogliono molti soldi, per fare tutto questo, ma prima ancora ci vuole la consapevolezza che si tratta di una priorità assoluta: culturale, non giudiziaria.
Perché poi le regole, quando sono da sole a combattere la loro guerra, sembrano ingiuste anche quando sono giuste. Dire che la pena sarà di un terzo più severa nel caso in cui le vittime siano incinte o mogli o compagne o fidanzate del carnefice è comprensibile, dal punto di vista del legislatore, perché sì che battere una donna che aspetta un bambino o che ha un vincolo di fiducia con chi la aggredisce è più grave. Ma stabilisce anche una discriminazione culturalmente delicatissima verso le donne che non fanno figli e non hanno legami con un uomo. In che senso uccidere una donna non sposata e non madre è meno grave? Vale forse di meno per la società?
Infine. Che la querela non sia ritirabile è decisione ottima, giacché chi è vittima di violenza è anche in genere vittima di intimidazione. Tuttavia nella grande maggioranza dei casi le donne offese non sono in condizione di denunciare. Perché non sanno, non possono, a volte perché non vogliono. Ciò che emerge alle cronache è una parte minima di ciò che accade. Ci sono dunque casi in cui si dovrebbe poter procedere d’ufficio. Non lasciare sole le donne che subiscono violenza significa anche alleggerirle dal peso di una scelta a volte tremenda, in specie se ci sono figli piccoli o se la donna dipende economicamente dall’uomo. Andare a controllare, verificare, assisterla anche se non è lei a chiederlo.
Trattare poi le minacce verbali, quando avvengono per scritto su Internet attraverso i social media, alla stregua dei vecchi biglietti sotto la porta o delle scritte sul finestrino della macchina, è semplicemente prendere atto del fatto che esistono forme di comunicazione ormai non più così nuove, adeguarsi a una realtà evidente e prenderla finalmente in considerazione.
È una buona notizia, che questo decreto ci sia. Che Josefa Idem l’abbia voluto come primo atto del suo breve mandato, sarebbe stata un buon ministro e lo sa bene Enrico Letta che dopo averla invitata a dimettersi con intransigenza fortemente diseguale ieri l’ha pubblicamente ringraziata. È una buona notizia che tenga conto della convenzione di Istanbul ratificata poche settimane fa in un’aula parlamentare deserta. Quell’aula era deserta, però. Come se questi fossero atti dovuti che non cambiano le cose, non interessano nessuno. È da quel vuoto, da quel che c’è nella testa di chi si volta dall’altra parte, che si deve partire.

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Femminicidio, sì al giro di vite via da casa gli uomini violenti, di ALBERTO CUSTODERO

Il governo ha approvato il pacchetto di provvedimenti per fermare la violenza contro le donne vittime degli stalker. Il decreto legge prevede l’arresto obbligatorio in flagranza per maltrattamento familiare e stalking; l’aumento di un terzo della pena se alla violenza assistono minorenni o se la donna è incinta; il patrocinio gratuito; l’irrevocabilità della querela; l’allontanamento da casa del coniuge violento se l’integrità della donna è a rischio. «È lotta senza quartiere al femminicidio». Parola di Enrico Letta che così ha commentato il decreto legge approvato ieri dal governo. Il premier ha ricordato, ringraziandola, che il lavoro per il varo dei provvedimenti a tutela delle fasce deboli fu avviato dall’ex ministro per le Pari Opportunità Josefa Idem, dimessasi il 24 giugno.
Il decreto legge fornisce nuove e più efficienti armi a forze dell’ordine e magistratura per la repressione dei maltrattamenti in famiglia, delle violenze sessuali e dei reati di stalking. Insomma, si tratta di un forte segnale politico affinché non si verifichi più la tragedia «delle ferite a morte», per dirla con il progetto teatrale dedicato al femminicidio di Serena Dandini. È il ministro dell’Interno a spiegare lo spirito della norma che tutti si aspettavano visto il dilagare del femminicidio.
«Gli obiettivi sono tre — ha detto Angelino Alfano — prevenire la violenza di genere, punirla in modo certo e proteggere le vittime». Come? «Intervenendo tempestivamente prima — ha aggiunto il titolare del Viminale — proteggendo la vittima, punendo il colpevole. E, infine, agendo perché la catena persecutoria non arrivi all’omicidio».
Fra le misure varate dall’esecutivo, ci sono l’aggravante per il cyberbullismo, ovvero la violenza esercitata con i mezzi del web. Quindi, l’arresto obbligatorio per delitti di maltrattamento familiare e per gli stalker, l’irrevocabilità della querela per le violenze. E l’allontanamento del marito violento dai luoghi domestici con la forza pubblica. Per fermare l’escalation della violenza domestica (che in molti casi sfocia nell’omicidio), sarà possibile togliere la patente allo stalker — potenziale
assassino — per impedirgli di recarsi sul posto della vittima. Poiché molti casi di maltrattamenti si consumano nelle famiglie degli immigrati, è stato previsto un particolare sostegno alle vittime straniere
anche attraverso il rilascio di un apposito permesso di soggiorno umanitario. L’approvazione del decreto è stato accolto con un plauso bipartisan e unanime di tutte le forze politiche. Ma, inaspettatamente, ha incontrato le critiche degli avvocati.
Di misure «demagogiche» hanno infatti parlato i penalisti. «La materia dei rapporti familiari — spiega l’Unione della Camere Penali — si presta anche ad accuse strumentali sulla base delle quali domani si andrà direttamente in galera senza alcun filtro preliminare». «È, questo, uno scenario preoccupante — aggiungono i legali — che, se accontenta le istanze dei forcaioli equamente distribuiti tra maggioranza ed opposizione, certamente imbarbarisce il sistema».

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“Un grande passo avanti ma le donne siano libere anche di cambiare idea”, di MARIA ELENA VINCENZI

«Credo sia un passo avanti significativo per difendere le donne». Questo il commento della scrittrice Michela Murgia. «L’unico dubbio che mi rimane è quello sulla revocabilità della denuncia ».
Per quale motivo?
«Perché spesso davanti alla ribellione della donna, e quindi davanti alla sua denuncia, si assiste a un’escalation della violenza. È una grande responsabilità che lo Stato si assume perché chi impedisce alla vittima di revocare la denuncia deve poter garantire che l’inasprimento degli abusi non ci sarà. O che se ci sarà, la donna verrà protetta. Lo dico perché nella stragrande maggioranza dei casi dal momento della querela le cose per chi ha subito violenze cominciano a peggiorare».
Quindi per lei le vittime dovrebbero poter ritirare la querela?
«Io ho sempre creduto che una donna debba avere la libertà di decidere se vuole o meno denunciare. Per questo non sono molto d’accordo con la procedibilità d’ufficio che prevede anche che possa essere il pronto soccorso a inviare una segnalazione a polizia e carabinieri. Questo vale ancora di più oggi: se una donna, a un certo punto, non se la sente di continuare l’iter processuale, deve poter fare un passo indietro. Non è giusto trasferire questo diritto alle forze dell’ordine. È un’ulteriore sottrazione che
si fa a chi di violenze già ne ha subite parecchie».
Le nuove disposizioni prevedono anche altre cose, ad esempio l’arresto in flagranza per stalking e maltrattamenti in famiglia.
«Sono d’accordissimo con tutto il resto del provvedimento approvato dal governo. Le nuove norme sono una buona cosa. Era ora».

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“Oggi mi sento felice finalmente si è capito quanto vale la prevenzione”

«La mia è una felicità quasi intima, personale. Come fondatrice di “Se non ora quando” ma anche come donna. È un cambio di passo importante che arriva in giorni in cui ci si ritrova a chiedersi cosa è uno Stato perché ci sono rappresentanti dello Stato che insultano donne rappresentanti dello Stato. Ora, finalmente, questa misura spunta come una risposta». È un fiume in piena la registra Francesca Comencini.
Una buona notizia, dunque.
«Il comportamento che ci si aspetta da uno Stato per risolvere quella che ormai è un’emergenza del Paese: la violenza sulle donne. Storie sempre più frequenti che, finora, ci hanno raccontato che le misure preventive sono insufficienti. Moltissime volte la denuncia c’era già stata. Ora forse qualcuno ha capito che è il caso di attrezzarsi un altro modo».
Ci sono diverse novità. Qualcuna la colpisce in particolare?
«Trovo importante il fatto di dare il permesso di soggiorno alle donne migranti vittime di violenza. Perché siamo di fronte a una complicazione maggiore rispetto all’essere “solo” una donna vittima di violenza».
Che già di per sé non sarebbe poco.
«Il concetto che vorrei che passasse è che le donne picchiate hanno bisogno di essere sostenute e tutelate, ma non sono deboli. C’è il rischio che questa campagna contro il femminicidio faccia prevalere una visione della donna come soggetto debole. Si deve invece raccontare la forza della donne. Anche di quelle che subiscono violenza e denunciano, intraprendendo un percorso coraggioso. Letta ha ringraziato Josefa Idem. Io vorrei ringraziare lei e tutte quelle donne dello Stato che, aldilà della loro opinione politica, dicono la loro con autorevolezza. Donne che parlano anche di violenze ma che raccontano anche la forza delle donne e la debolezza degli uomini».

La Repubblica 09.08.13

“La bandiera dell’equità fiscale”, di Massimo Giannini

Sommersa dalle grida berlusconiane contro la magistratura, riaffiora dunque l’“altra emergenza”. Quella che morde la carne viva di famiglie e imprese, che incide sul futuro collettivo di un’intera nazione e conta molto di più del destino personale di un pregiudicato eccellente. Entro il 30 agosto il governo deve decidere se confermare l’eliminazione dell’Imu, o se rimodulare il prelievo sugli immobili. È una scelta fondamentale, che può decidere la vita del governo quanto una sentenza di condanna per il Cavaliere. A dispetto di un “pensiero debole” ricorrente e purtroppo dominante, incline ad annullare le distanze e ad azzerare le differenze, il Fisco è una frontiera che può dividere la sinistra dalla destra. Esattamente come la Giustizia, che esige tutti i cittadini uguali di fronte alla legge, anche il Fisco è uno strumento che aiuta a combattere le disuguaglianze.
La “cifra” politica dell’Imu è dunque elevatissima. E il documento diffuso dal ministro dell’Economia lo conferma plasticamente, e quasi drammaticamente. In un testo di oltre cento pagine, Saccomanni fotografa la realtà, e poi descrive i nove possibili scenari di cambiamento, che vanno dalla “totale abolizione” dell’imposta fino alla “derubricazione della revisione Imu sulla prima casa con destinazione di risorse per la parziale abolizione dell’imposta all’allentamento del patto di stabilità dei comuni e la service tax”. Per depotenziare la questione dalla sua alta intensità politica, sembra quasi che il governo ne voglia aumentare di proposito la densità “tecnica”. Ciascuna delle ipotesi esaminate viene valutata in base al costo per le casse dello Stato, all’efficienza, all’equità nell’impatto redistributivo, alla responsabilizzazione dei livelli di governo, al costo della “compliance” per i contribuenti e ai costi amministrativi.
Qui sta, allo stesso tempo, la forza e la debolezza del documento. La forza è nell’oggettività dei numeri che espone e che finalmente, dopo tante chiacchiere, definisce in modo esaustivo e definitivo la base tecnica e l’oggetto della “contesa” politica. La debolezza sta nella neutralità del testo, che si limita a squadernare doviziosamente le opzioni, senza privilegiarne esplicitamente una. Ma questo limite non deve stupire. È per così dire “strutturale”. Va al di là dell’Imu. È intrinseco alla natura anomala di questo governo di Larghe Intese. La difficoltà di scegliere tra una o l’altra misura di revisione del prelievo sugli immobili (come quella di decidere se rinviare definitivamente l’aumento dell’Iva, di stabilire se si debba riformare l’amministrazione giudiziaria o di accordarsi su come si possa cambiare la legge elettorale) riflette geometricamente la difficoltà di conciliare le diverse idee, e persino le diverse costituency elettorali, che dominano i due schieramenti.
Come spiega lo stesso Saccomanni, il confronto tra i partiti sull’Imu, cominciato dopo l’istituzione della cabina di regia e gli incontri bilaterali, ha fatto emergere distanze siderali tra Pd e Pdl. Per questo il ministro ha deciso di mettere tutti di fronte ai dati della realtà, descrivendo costi e benefici di tutte le scelte possibili che la politica, di qui alla fine del mese, sarà chiamata a fare. Può sembrare una mossa pilatesca. Ma lo è solo in parte. Basta leggere il dettaglio delle singole misure proposte, nel quadro sinottico di pagina 74 del testo, per rendersi conto che nella valutazione del governo le due opzioni peggiori, sul piano economico e sociale, sono quelle sostenute dal Pdl. L’abolizione totale dell’imposta sull’abitazione principale ha un costo in termini di gettito “alto” (4 miliardi), un’efficienza “scarsa, un “impatto regressivo rispetto al reddito”, una responsabilizzazione dei livelli di governo “scarsa”, un costo di “compliance” per i contribuenti “nullo” e un costo amministrativo “alto”. L’abolizione della prima rata dei versamenti Imu sospesi per decreto a maggio ha le stesse caratteristiche negative, con la sola differenza di un costo più basso in termini di gettito (2,43 miliardi).
È dunque improbabile che l’Imu sia
cancellata per sempre, come chiedono i liberisti alle vongole passati dalla scuola di Chicago al doposcuola di Arcore. Con un debito pubblico al 130,3% del Prodotto interno lordo, e nonostante un avanzo primario al 2,4%, l’Italia purtroppo non può permettersi di ridurre drasticamente le tasse, e meno che mai tornando ad allargare il suo deficit. Gli impegni assunti con l’Europa continuano a pesare, e se ne avrà una prima traccia già al G-20 di San Pietroburgo del 5-6 settembre, e poi all’Ecofin immediatamente successivo. Lo spread a quota 250 è una bella nota estiva, ma non può e non deve ingannare. Come ricorda la Bce di Mario Draghi, che invita i Paesi periferici dell’Eurozona a “non vanificare gli sforzi già compiuti allo scopo di ridurre i disavanzi pubblici”.
Se sarà confermato il parziale miglioramento del Pil del secondo trimestre (diminuito dello 0,2% invece del temuto 0,4%) e se l’andamento delle entrate del secondo semestre confermerà il trend di quelle del primo, l’eventuale extra-gettito da 8-10 miliardi dovrà essere impiegato per ridurre il cuneo fiscale, non certo per eliminare un’imposta sugli immobili che (sia pure graduata in modo diverso e magari in funzione della condizione economica del nucleo familiare) esiste in tutti i Paesi d’Europa. Chi ha case d’altissimo pregio e redditi molto elevati è giusto che paghi un tributo. Ne va dell’equità sociale del sistema che il governo tecnico di Monti ha colpevolmente ignorato e che invece il governo politico bipartisan non può assolutamente dimenticare. Ma questo, nei prossimi giorni e spurgata la prima ondata di polemiche, l’esecutivo dovrà dirlo chiaro, e scriverlo nero su bianco in un decreto legge. Per quanto completo e accurato, un documento non basta a salvarsi l’anima. Letta e Saccomanni dovranno assumersi le loro responsabilità di fronte alla maggioranza e di fronte agli italiani.
Le reazioni della destra sono già furenti, anche se inconcludenti. Prima, in campagna elettorale, il Pdl ha trasformato la soppressione della tassa sulla prima casa in un vessillo ideologico e demagogico, da agitare al cospetto di un elettorato disincantato e deluso, dopo l’ubriacatura bugiarda degli anni 2000, quando Berlusconi sbancava le urne promettendo “meno tasse per tutti”. Poi, dopo il voto, l’ha trasformata nell’atto “fondativo” della Grande Coalizione, giudicandola indiscutibile e irrinunciabile per recuperare terreno nelle categorie più abbienti, dove l’emorragia elettorale è stata più copiosa. Per le tasse come per le condanne del Cavaliere, il partito berlusconiano, disperato e disarticolato, continua dunque a far crescere le tensioni, anche se non riesce a farle esplodere. Di qui al 30 agosto sentiremo ripetere fino alla noia “o salta l’Imu, o salta Letta”. Per ora non saltano né l’uno né l’altro. Ma resistere a questo logoramento continuo, e a questo stillicidio quotidiano di penultimaum, è sempre più difficile. Anche per un governo che non ha alternative. Non basta una necessità per fare una virtù.

La Repubblica 09.08.13

Docenti Inidonei: l’impegno dei deputati

Nell’ultima seduta prima della pausa estiva, é stata approvata all’unanimità una risoluzione che impegna il Governo a risolvere la questione dei docenti inidonei.
Ecco il testo.
Le Commissioni riunite VII e XI,
premesso che:
il decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, cosiddetto decreto sulla spending review, all’articolo 14, relativo alla «Riduzione delle spese di personale», prevede:
1) al comma 13 che: «Il personale docente dichiarato permanentemente inidoneo alla propria funzione per motivi di salute, ma idoneo ad altri compiti, (…) transita nei ruoli del personale amministrativo, tecnico e ausiliario con la qualifica di assistente amministrativo o tecnico (…)»;
2) al comma 14 che: «Il personale docente attualmente titolare delle classi di concorso C999 e C555, (…) transita nei ruoli del personale non docente con la qualifica di assistente amministrativo, tecnico o collaboratore scolastico in base al titolo di studio posseduto. (…)»;
3) al comma 15 che: «Con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di concerto con il Ministro per la funzione pubblica e con il Ministro dell’economia e delle finanze, (…) sono stabiliti i criteri e le procedure per l’attuazione dei commi 13 e 14»; in conseguenza di ciò, il precedente Governo ha elaborato un decreto attuativo del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca Profumo, in attesa di adozione definitiva; quanto disposto dal suddetto decreto danneggia significativamente la funzionalità degli istituti scolastici e l’utilizzo di un corretto e adeguato servizio scolastico da parte degli alunni e delle rispettive famiglie nelle scuole di ogni ordine e grado, oltre ovviamente a penalizzare il personale docente permanentemente inidoneo, gli insegnanti tecnico-pratici delle classi di concorso C555 e C999, i quali saranno, in conseguenza dell’adottando decreto interministeriale, dirottati sui ruoli del personale amministrativo, tecnico e ausiliario (ATA);
con il decreto suddetto, gli standard di funzionalità di tutti gli uffici scolastici, in particolare quelli delle segreterie alle quali si rivolgono gli alunni e le rispettive famiglie per l’acquisizione degli adeguati e completi servizi scolastici, saranno senz’altro compromessi dalla diminuzione di personale formato ed esperto nelle procedure amministrative, finanziarie e organizzative gestite dalle scuole per l’attuazione dell’offerta formativa con un danno rilevante per tutto il settore scolastico;
appare altamente probabile che i dipendenti affetti da gravi patologie, fisiche e o psichiche che siano, necessitino di soventi visite mediche, oppure possano incorrere in aggravamenti delle proprie condizioni di salute, essendo costretti ad assentarsi frequentemente per le cure, circostanza che costringerebbe l’istituzione scolastica a ricorrere nuovamente a figure supplenti, con un’ulteriore penalizzazione del servizio scolastico per alunni, docenti e operatori del settore tutti; l’adozione del decreto interministeriale non potrà che essere foriera di conseguenze nefaste sui piani dell’offerta formativa (POF) delle singole istituzioni scolastiche, le quali, evidentemente, non potranno più vantare, tra l’altro, la possibilità di offrire i servizi di biblioteca ed organizzazione di conferenze, attualmente gestiti dalla maggior parte dei docenti inidonei, nonché delle cosiddette funzioni strumentali, ovvero delle esercitazioni di laboratorio, attualmente gestite dagli insegnanti tecnico pratici (ITP) delle classi di concorso citate;
le disposizioni di cui all’articolo 14 del decreto-legge riuscirebbero nel difficile obiettivo di danneggiare tutti gli operatori del settore scolastico coinvolti, tra gli altri, in particolare: i docenti idonei i quali, oltre al cambio di ruolo, rischiano di non svolgere adeguatamente il servizio richiesto dagli alunni e dalle rispettive famiglie, con un forte disservizio per tutto il settore scolastico ed il personale ATA precario, il quale rischia di vedere vanificata la propria aspirazione ad un adeguato riconoscimento della professionalità a causa dell’occupazione di tutti i posti vacanti e disponibili da parte del personale transitato da altri ruoli,
in base alle considerazioni di cui in premessa,

impegnano il Governo

a valutare, attraverso un confronto con le parti coinvolte, prima dell’emanazione del decreto ministeriale attuativo del comma 15 dell’articolo 14 del decreto-legge n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, tutte le iniziative, anche di carattere normativo, volte ad individuare le migliori soluzioni per l’utilizzo e la piena valorizzazione professionale del personale docente dichiarato inidoneo e degli insegnanti tecnico pratici, che assicurino anche piena e corretta funzionalità del servizio scolastico.

(8-00009)

Vacca, Centemero, Coscia, Airaudo, Santerini, Ascani, Battelli, Bechis, Bellenova, Blazina, Bonafè, Bossa, Brescia, Carocci, Cesaro, Chimienti, Ciprini, Coccia, Cominardi, Costantino, D’Ottavio, D’Uva, Di Benedetto, Di Salvo, Fratoianni, Luigi Gallo, Ghizzoni, Giancarlo Giordano, La Marca, Labriola, Lainati, Malisani, Malpezzi, Manzi, Marzana, Melilla, Narduolo, Orfini, Palmieri, Pes, Petrenga, Piccoli Nardelli, Placido, Prodani, Raciti, Rampi, Rizzetto, Rocchi, Rostellato, Tripiedi, Valente e Zampa.

Femminicidio, si comincia a fare sul serio

Arresto obbligatorio in flagranza per delitti di maltrattamento familiare e stalking, querela irrevocabile, aggravanti per coniuge e compagno anche non conviventi. Assistenza legale gratis alle vittime. Norme contro il cyberbullismo. Agostini: “Decreto è impegno serio contro violenza”. Finocchiaro: “è in atto un cambiamento anche culturale che darà sicuramente i suoi frutti”. Fedeli: “Ora introdurre rispetto della parità di genere nelle scuole”.”Le norme contro il femminicidio approvate oggi in Consiglio dei ministri sono una buona notizia. Sono il segno di un impegno serio nel contrasto alla violenza, come molte volte abbiamo discusso in queste settimane nelle aule parlamentari e come abbiamo chiesto approvando la Convenzione di Istanbul”. Così Roberta Agostini, portavoce della Conferenza nazionale delle donne Pd.

“Il Paese e le donne attendono da tempo una seria strategia che tenga insieme prevenzione del reato, protezione della vittima e punizione del colpevole e che affronti con misure adeguate maltrattamenti e violenze avvenute all’interno delle mura domestiche. Sono norme che vanno nella giusta direzione, in particolare quelle che riguardano il reato commesso in presenza di minori o la violenza sulle donne in stato di gravidanza o, ancora, quelle che riguardano donne straniere o che allontanano il coniuge violento. Le istituzioni devono sempre più rendersi protagoniste di quel cambiamento culturale profondo che le donne chiedono e per il quale in tante si stanno impegnando”.

Soddisfazione anche per Anna Finocchiaro, presidente della Commissione Affari costituzionali: “E’ davvero un bel segnale che il Consiglio dei Ministri abbia approvato, nella riunione odierna, un decreto legge contro il femminicidio, dichiarando, con le parole del Premier Letta, ‘una lotta senza quartiere’ alla violenza contro le donne. L’approccio scelto di prevenzione del reato e protezione delle vittime mi sembra quello più corretto.

Oggi il Senato ha anche approvato la modifica al decreto cosiddetto ‘svuota carceri’ che prevede la custodia cautelare in carcere e non più gli arresti domiciliari per gli imputati di reato di stalking. Tutto questo significa che nel contrasto alla violenza sulle donne e al femminicidio si comincia a fare sul serio, che il diritto delle donne a non subire violenza viene assunto come una priorità e che, dunque, è in atto un cambiamento anche culturale che darà sicuramente i suoi frutti”.

“Un’iniziativa di fondamentale importanza” per Valeria Fedeli, che ricorda le cifre del fenomeno: “In Italia, secondo i dati Istat, le donne tra i 16 ed i 70 anni vittime di violenza fisica o sessuale sono circa 6.743.000 e di queste il 14.3% ha subito almeno una violenza fisica o sessuale dal partner.Grazie al decreto legge approvato oggi arriva ora una stretta contro lo stalking e i reati di violenza domestica con maggiori garanzie a tutela delle donne: la querela diventa irrevocabile, sono state introdotte aggravanti per coniuge e compagno anche non conviventi, viene introdotto l’arresto in flagranza per i maltrattamenti e per lo stalking, la possibilità di allontanare da casa il coniuge violento e assistenza legale gratis alle vittime.

Per debellare questo triste fenomeno occorre analizzarne le cause strutturali e lavorare su tre punti per rendere gli obiettivi della Convenzione di Istanbul effettivi: stereotipi, linguaggio, educazione. Introducendo rispetto della parità e della differenza di genere e puntando al superamento degli stereotipi sessisti lì dove essi si formano ovvero la scuola e la famiglia”.

“Un giorno storico”. E’ il commento di Silvia Velo, vicepresidente del Gruppo Pd “La legge contro il femminicidio – ricorda Velo – era attesa da tanto, da troppo tempo e innumerevoli sono state le vittime innocenti di una politica fino ad oggi assente nella tutela di donne abusate, maltrattate, schiavizzate. Finalmente l’Italia, grazie alle promesse mantenute dal presidente del consiglio Letta, può entrare nel novero dei paesi civili.

E’ stato fatto – conclude – un importantissimo passo in avanti, nella consapevolezza che la lotta alla violenza non passa solo attraverso le leggi ma anche attraverso una rivoluzione culturale: contrasto e prevenzione devono andare di pari passo per una societá migliore”.

Per Monica Cirinnà “L’iniziativa del governo è di grande importanza perchè interviene su una realtá troppo a lungo ignorata. E’ un segnale che va sostenuto e al quale, con forza, occorre dare seguito. Per questo è necessario fare in modo che venga approvato in tempi brevi anche il ddl sul femminicidio che si trova all’esame del Senato e che punta in modo incisivo sulla prevenzione. Chiederemo che davanti alle commissioni Affari costituzionali e Giustizia si svolgano una serie di audizioni delle associazioni del settore al fine da mettere a punto le migliori e piú efficaci politiche per combattere quest’odioso fenomeno.

C’è da augurarsi che l’impegno del governo in questa direzione si concretizzi nel necessario finanziamento dei centri antiviolenza con risorse adeguate, sará quello il test della reale volontá d’intervento”.

www.partitodemocratico.it

“Le ragioni del nuovo gelo”, di Vittorio Zucconi

Schiaffo e controschiaffo, non proprio Guerra Fredda, ma gelata sui campi di una rivalità mai davvero superata, la decisione presa da Obama di non concedere a Putin il rituale incontro “faccia a faccia” era inevitabile, mentre si alza anche una possibile tempesta attorno alle Olimpiadi invernali di Sochi 2014. Lo era proprio per una questione di “faccia”. Elemento sempre fondamentale per capire i comportamenti russi. E ora anche per gli americani, umiliati dalle rivelazioni di Edward Snowden e dal permesso di soggiorno per un anno – non un vero asilo politico – concesso da Mosca al ricercato dalla giustizia Usa.
E certamente Obama, attentissimo, e indebitato, verso i diritti civili e la lobby gay che tanto lo sostenne alle urne, ha notato la collera suscitata da quella nuova e barbarica legislazione da ancien regime anti-gay voluta da Putin che ha riportato la “Nuova Russia” alle persecuzioni sovietiche contro i “galubòi”, gli omosessuali. Ci sono addirittura refoli gelidi di ricordi del 1980, quando Washington boicottò le Olimpiadi estive di Mosca dopo l’invasione dell’Afghanistan, con nuove pressioni degli atleti e delle atlete americana per non partecipare alle invernali di Sochi 2014.
L’algida ed eufemistica spiegazione data dalla Casa Bianca per questo schiaffo di ritorsione a uno schiaffo dice che «non sono stati fatti sufficienti progressi nella relazione fra Stati Uniti e Federazione Russa per giustificare un incontro», ed è una spiegazione che nega l’assunto della frase. Gli incontri al vertice, visà- vis, privati si tengono proprio, e quando, le relazioni scricchiolano, per tentare di puntellarle e migliorarle, altrimenti sono soltanto “photo opportunities”, santini per il consumo del pubblico.
La gelata infatti non è fra Putin e Obama, ma fra i due capi di governo e le rispettive opinioni pubbliche e forze politiche. Nel momento dell’ennesimo insulto ai diritti civili portato da Putin con la nuova legislazione “soviet – style” contro gli omosessuali e di nuove strette contro la libertà di informazione e di opposizione, il presidente russo ha usato Snowden per distogliere lo sguardo da sé e indirizzarlo sull’America e su quello che avventurosamente, ma molto opportunamente per Putin, è stato definito il “Sakharov americano”.
Obama, a Washington, è sotto attacco tanto dalla destra repubblicana, che vede nella talpa della Nsa il classico “traditore della patria”, quanto dalle sinistre libertarie che lo salutano come colui che ha smascherato le nefandezze orwelliane del Grande Fratello. In pratica, nessuno dei due aveva niente da guadagnare e molti pezzi di faccia da perdere, incontrandosi, sorridendosi e facendosi riprendere in amichevole dialogo. Non essendoci pericoli imminenti o immaginabili di Guerra Calda fra Russia e Usa, lo sgarbo reciproco non precipiterà il mondo su quel proverbiale “orlo del precipizio” nucleare dove due generazioni danzarono dopo la Bomba di Hiroshima, 68 anni or sono. E i due uomini si ritroveranno comunque attorno allo stesso tavolo dei G20, le principali economia del mondo, il 5 settembre proprio a San Pietroburgo, la casa natale di Vladimir Putin.
Snowden è il pretesto, “la talpa dello schermo” usata tanto da Putin che da Obama per nascondere difficoltà interne e una gelata che si estende alla strage siriana, dove Washington non sa bene quel che vuole, ma non vuole quello che Mosca desidera. Si allarga alla questione degli oleodotti e gasdotti e a quello “scudo missilistico” che da 30 anni, da
quando Reagan si infatuò delle “Guerre Spaziali”, tormenta i rapporti fra le due nazioni, senza avere mai dimostrato nei test pratici di servire ad altro che a spendere miliardi in commesse e lanci falliti. E ora investe la brutale e inspiegabile aggressione ai diritti civili degli omosessuali.
Anche se il ragazzo della discordia, l’eroe della libertà, il traditore, il martire, l’infedele, l’eroe pirandelliano Snowden non ha più molto da rivelare – ha già detto tutto quello che sapeva, protestava suo padre in un’intervista televisiva due giorni or sono – è un utile totem attorno al quale Obama e Putin possono organizzare il balletto della nuova “Piccola Era Glaciale”.
Tutto è rinviato di un anno, quando scadrà il visto di soggiorno concesso a Snowden che ha già ricevuto offerte di lavoro dai più popolari social network russi, ansiosi di sfruttarne la popolarità. Qualcosa dovrà fare, per campare, come un altro celeberrimo americano rifugiato in Urss fece, lavorando in una fabbrica di radio a Minsk, Lee Harvey Oswald, prima di tornare negli Usa, nel 1959.
Snowden non è certamente un Oswald e non è neppure il Gary Powers, il pilota dell’aereo spia U2 abbattuto dalla contraerea di Kruscev proprio alla vigilia del vertice con Eisenhower nel 1960, che si svolse regolarmente, nonostante le bugie di Ike e la collera di Nikita. Sembra che ci siano sempre affari di spie e di spionaggio, nell’alzare i venti gelidi che periodicamente tornano a soffiare su due grandi nazioni che non si fideranno mai l’una dell’altra.
Anche se questa volta “la spia è venuta dal caldo”.

La Repubblica 08.08.13

“Il ribaltone della destra”, di Michele Prospero

Nel corso della sua esperienza di statista mancato, Silvio Berlusconi ha sempre trasformato le questioni politiche in problemi giudiziari e le grane giudiziarie in emergenze politiche. Anche adesso, che dovrebbe gestire in modo sobrio la sua inevitabile fuoriuscita dalla vicenda istituzionale, il Cavaliere si arrocca in una postazione indifendibile.
E, per resistere ciecamente agli
eventi per lui divenuti assai negativi, confonde in maniera regressiva il piano del diritto e quello della politica.
La sua esperienza, che pure secondo il racconto ufficiale del ventennio si è svolta per intero nella dimora della leggerezza e dell’immaginario, ripropone in realtà l’ambiguità classica, e per certi versi demoniaca, del rapporto tra forma e potenza, tra opportunità e norma. Anche in uno Stato costituzionale di diritto, dei grandi principi che parrebbero scontati e consolidati (certezza della legge, eguaglianza dei cittadini dinanzi alla norma, rispetto delle sentenze giudiziarie ormai definitive) diventano dei momenti controversi. Tutto si complica se i giudici colpiscono un potente con alle spalle un ruolo egemonico nel campo del denaro, dei media, della politica.
Quando una regolare condanna scalfisce la posizione di dominio e minaccia il rango di un grande potente, la vicenda non si chiude certo, come invece dovrebbe, con la lettura della sentenza ma si trasferisce nelle piazze, nelle aule parlamentari, nei media amici, pronti a colpire con macchine del fango. Alla vecchia e costosa (per l’ordinamento liberale) strategia di difendersi dai processi (grazie a pattuglie di deputati-avvocati impegnati nella dura battaglia procedurale per perdere tempo e arrivare così alle prescrizioni; in virtù della emanazione di reiterate leggi ad personam escogitate solo per cancellare dei delitti e delle pene) il Cavaliere adesso intende sostituire una nuova e non meno perversa strategia, quella di avvalersi delle truppe rimaste fedeli per difendersi in aula parlamentare dalla sentenza sgradita.
Un principio che risale ad altri tempi (il diritto del Parlamento ad esprimersi in merito alla sua composizione) e rispondeva ad altri dilemmi, la sovranità dell’aula rispetto all’invadenza di grandi potestà esterne, viene ora
recuperato, e del tutto trasfigurato, per costruire delle inaccettabili situazioni di eccezione e di pregiudiziale ostilità rispetto alla puntuale applicazione della legge. In questa estrema e cupa resistenza del Cavaliere, trova conferma il tratto del tutto anacronistico di un non-partito personale che opera come una potenza privata estranea alla democrazia costituzionale, ed è pronta a inquinare, provocare, minacciare, distruggere.
Un partito proprietario-carismatico è disponibile a sfidare la legge pur di proteggere il capo sventurato. È pronto a respingere le procedure legali pur di obbedire all’azienda di riferimento, insidiata nella sua attività protesa al lucro. Per questo la destra intende ora trasformare la emplice e scontata attuazione di una regolare sentenza passata in giudicato in una grande disputa politica. Ma il Parlamento non deve verificare, in nome della opportunità politica, la sussistenza delle condizioni oggettive per la decadenza di un leader che ha subìto una condanna. Palazzo Madama non può che ratificare la decadenza di Berlusconi da senatore. Non ci sono alibi dopo la sentenza della Cassazione. La politica non può sostituirsi al diritto.
Del resto è piuttosto palese la contraddizione in cui cade il Pdl. Quando la disputa ancora verteva sulla ineleggibilità del Cavaliere per via delle sue concessioni televisive, la destra rifiutava con forza ogni intervento esterno della politica. E, in nome del senso letterale della legge e delle consuetudini, richiamava la piena validità del dispositivo formale del lontano 1957. Ora che in gioco è la decadenza di Berlusconi, il canone formale della norma giuridica è rigettato in nome del primato della politica, sollecitata a dire l’ultima parola, ignorando, in forza delle immediate convenienze, le ragioni del diritto. Il rapporto tra politica e diritto non può però fondarsi sul più sfacciato calcolo delle opportunità.
Certo, in questa delicata materia (eleggibilità, decadenza, doppi incarichi), una possibile riforma dovrebbe riconsiderare i poteri delle assemblee e riconoscere compiti di sorveglianza ad un organo terzo, come la Corte costituzionale. La soluzione di enigmi che non possono prestarsi ai giochi delle maggioranze, alla contrattazione tra i gruppi, al rapporto di forza è più credibile e meno conflittuale se affidata ad un organo di garanzia. Ma ciò non significa che attualmente esistano dei margini di incertezza. Il problema della decadenza è comunque risolto anche nella vigente legislazione. L’aula deve semplicemente prendere atto che Berlusconi non può più sedere tra i banchi di Palazzo Madama.

L’Unità 08.08.13

“I fantasmi della sinistra”, di Gad Lerner

Posta di fronte al «fatto enorme» (parola di Epifani) della condanna definitiva di Berlusconi, la direzione del Partito Democratico oggi è costretta a fare i conti con la paura di cambiare che la attanaglia. I primi cento giorni del governo Letta sono vissuti con imbarazzo: lo stesso Epifani parla di un governo con le mani legate dal debito pubblico, ostaggio degli eccessi di rigorismo dell’Unione europea, vincolato dai parametri di bilancio imposti all’Italia.
Insomma, nessuna svolta riformista di cui la sinistra possa menar vanto: il segretario del Pd riconosce che Letta sta facendo solo «piccole cose, buone ma piccole».
Eppure, ben al di là dei rapporti di forza parlamentari con cui il Quirinale l’ha costretto a fare i conti, permane in questo gruppo dirigente un dubbio esistenziale. L’eventualità di governare l’Italia senza la destra, nel bel mezzo di una crisi drammatica e dall’esito ignoto, è davvero augurabile?
Le oscillazioni e l’insicurezza sono sintomi talmente fastidiosi che ci viene fin troppo facile accusare il Pd di autolesionismo. Ma non è certo invidiabile la posizione di chi guida in Italia un partito riformista tuttora sprovvisto di convincenti terapie alternative per la cura della malattia misteriosa che dal 2008 ha ridotto del 25% la produzione industriale, impoverito la maggioranza dei cittadini, aggravato il debito pubblico, diminuito e resi più precari i posti di lavoro. La Grande Depressione non apre certo scenari rivoluzionari in alternativa al fallimento dei riformisti. Ma costringe semmai questi ultimi a fare i conti con gli eccessi di compiacenza mostrati nei confronti della grande finanza globalizzata. Questione scomoda da elaborare. Nel frattempo, messi alle strette, i principali dirigenti del Pd forse si stanno chiedendo se non sia solo velleitaria, ma perfino sconveniente, la fine dell’alleanza col Pdl cui Napolitano li “costringe” dal novembre 2011.
Dietro ai pretestuosi litigi sulle regole congressuali e dietro all’ormai stantio dilemma “Renzi o non Renzi”, s’intravedono motivazioni più profonde che rendono ostico al Pd riconoscersi nel governo Letta. Basti pensare, in estrema sintesi, al paradosso per cui il più “eretico” dei dirigenti economici del partito, Stefano Fassina, è stato chiamato a fare il vice del ministro più “ortodosso” del governo stesso, Fabrizio Saccomanni. Come già nel governo Monti, anche nel governo Letta si è voluto garantire che i processi decisionali in materia economico- finanziaria siano delegati a figure di tramite, rese autorevoli in Europa dalla loro fisionomia tecnica. Il medesimo paradosso rovesciato s’incarna nell’avventura di Fabrizio Barca che durante la settimana lavorativa fa il dirigente al ministero dell’Economia per poi, durante il week end, mettere in guardia i militanti del Pd da quelle stesse compatibilità di cui egli fu portatore come ministro tecnico del governo Monti.
Né per Fassina né per Barca si può parlare di furbizia. Al contrario. Essi personificano il disagio di essere chiamati a recitare in commedia un copione diverso, se non opposto, a ciò in cui credono. Per quanto tempo ancora ha da protrarsi la forzatura di un’ortodossia imposta dall’esterno sulle gracili spalle della sinistra riformista italiana, prima che le tocchi il destino dei socialisti greci del Pasok, ridotti ai minimi termini per lealtà ai diktat europei?
La destra non ha simili problemi di credibilità. Può stare nel governo di unità nazionale per convenienza del suo capo evasore fiscale condannato, e al tempo stesso sparare cannonate contro l’euro e la Merkel. Può condividere con Casaleggio una visione catastrofista del futuro incognito che ci attende, magari pregustando come fa Grillo i vantaggi
elettorali che la sofferenza sociale gli garantirà. La sinistra invece non può essere catastrofista. Nel 2013 non promette rivoluzioni miracolose, è per sua natura europeista, rifiuta di contrapporre i popoli l’uno all’altro. Pesa troppo su di noi la memoria delle tragedie novecentesche. Ma se anche i presagi di ripresa economica amplificati da governo e Bankitalia fossero veritieri, chissà quando, non toccherà alla sinistra poterla rivendicare, dato il contesto di ingiustizia sociale e perdita di diritti in cui s’inserisce.
Succede così che lo stato di necessità in cui il Pd si trova imbrigliato almeno dal novembre 2011 – quando Napolitano nominò Monti senatore a vita e organizzò il sostegno parlamentare al suo governo tecnico – espunga dal suo dibattito interno le questioni più scabrose. Ha senso, come e quanto, pagare gli interessi su un debito pubblico che rimarrà inestinguibile? Dove reperire le risorse per interventi efficaci contro la povertà? È attuabile una “tosatura” della finanza speculativa? Il fiscal compact
è un imperativo categorico? Gli accordi internazionali sottoscritti sulle spese militari sono modificabili?
Mantenersi volutamente ambigui su scelte dirimenti di questa natura, come su tante altre, è certamente spiegabile con la loro estrema difficoltà. Ma il non scegliere ha già condannato la politica all’impotenza e all’eterodirezione. Rassegnarsi all’eccezionalismo come regola induce a perdere la fiducia in se stessi. E spiega perché oggi qualcuno nel Pd viva ancora come necessario perfino l’appoggio di una destra che predica la sospensione del principio di legalità a vantaggio del suo capo.

La Repubblica 08.08.13