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“Il rapporto, l’acqua italiana mai così cara (e un terzo si perde nelle tubature)”, di Antonio Ricchio

L’acqua che sgorga dai rubinetti italiani è sempre più cara. Negli ultimi sei anni le tariffe sono aumentate del 33%. Lo certifica l’indagine annuale realizzata dall’osservatorio prezzi e tariffe di «Cittadinanzattiva», che ha raccolto e messo assieme i dati (relativi al 2012) di tutti i capoluoghi di provincia. Viene fuori che le spese (rispetto alle cifre del 2007) sono raddoppiate o quasi a Benevento (+100%), Viterbo (+92,7%), Carrara (+93,4%) e più che raddoppiate a Reggio Calabria (+164,5%) e Lecco (+126%). In altre 35 città gli incrementi hanno superato il 40%. Aumenti consistenti si sono registrati anche nel raffronto tra il 2012 e l’anno precedente: i costi sono cresciuti, in media, su base nazionale, del 6,9%, con oltre 80 città che hanno visto le tariffe ritoccate all’insù. I numeri si riferiscono al servizio idrico integrato per uso domestico: acquedotto, canone di fognatura, canone di depurazione e quota fissa (o ex nolo contatori).

Acqua: spese a confrontoAcqua: spese a confronto
Il caro bollette viaggia più spedito al Centro (+47,1% rispetto al 2007, +9% sul dato del 2011). Seguono le regioni del Nord (+32,1% rispetto al 2007, +5,2% di rincaro sul 2011) e quelle del Sud (+23,8% sul 2007, +8,5% rispetto al 2011).

«CARENTI NEL SISTEMA DEPURAZIONE» – «In realtà – commenta Giorgio Pineschi, tecnico del ministero dell’Ambiente – l’Italia è tra i Paesi dell’area Ocse con le tariffe più basse. Gli aumenti di cui si parla spesso sono più che altro legati alla programmazione degli interventi sul territorio. Noi siamo ancora indietro nel settore della depurazione, mentre siamo a buon punto per approvvigionamento e potabilità dell’acqua».

SPESA MEDIA – La spesa media di una famiglia-tipo di tre persone, con un consumo annuo di 192 metri cubi di acqua, ammonta a 310 euro all’anno. La Toscana, con ben 8 città tra le prime 10 più care del Paese, si conferma la regione con le tariffe mediamente più alte (470 euro). Costi più elevati della media nazionale anche nelle Marche (403), in Umbria (392), in Emilia Romagna (388) e in Puglia (366). Ma capita di trovare grandi differenze tra le tariffe anche all’interno della stessa regione. L’esempio più evidente è la Calabria dove tra il canone pagato dagli abitanti di Reggio Calabria e quello versato dai residenti a Cosenza si registra un gap di ben 286 euro.

L’ACQUA PERSA – Capitolo a parte quello relativo alla dispersione idrica. Nel nostro Paese, secondo il rapporto «Legambiente-Ecosistema Urbano 2012», in media il 33% dell’acqua introdotta nelle tubature va persa. Il problema è particolarmente accentuato al Sud (43% di acqua che si «perde» lungo il tragitto) e al Centro (33%). Va un po’ meglio al Nord, dove le percentuali di acqua perduta sono inferiori alla media nazionale (26%). «La soluzione a questo problema – spiega Marco Mancini, docente di Costruzioni idrauliche del Politecnico di Milano – può essere rappresentata da una ricerca delle perdite d’acqua, non solo quelle fisiche ma anche quelle dovute agli allacci abusivi, e da lavori di ammodernamento degli impianti».
Nella poco invidiabile classifica delle città colabrodo spiccano L’Aquila (69% di dispersione idrica), Cosenza (68), Campobasso (65), Cagliari (63) e Latina (62). Seguono altre 9 città nelle quali almeno metà del liquido immesso nelle tubature – anche a causa di una manutenzione insufficiente delle condotte – va a finire non si sa dove: Gorizia, Trieste, Avellino, Pescara, Potenza, Grosseto, Matera, Palermo e Siracusa.

Il Corriere della Sera 07.08.13

“Isee più attento alle famiglie numerose”, di Matteo Prioschi

Il Governo recepirà le richieste delle commissioni per favorire i nuclei con più figli e i disabili. Il viceministro Guerra: il testo definitivo pronto in poche settimane Debutto a gennaio per il nuovo strumento. Via libera con osservazioni da parte del Parlamento al nuovo riccometro. Ieri le commissioni riunite Finanze e Affari sociali della Camera hanno dato parere positivo, dopo quello giunto il 1° agosto dalle commissioni Finanze e Lavoro del Senato, allo schema di decreto del presidente del Consiglio dei ministri che aggiorna profondamente l’indicatore della situazione economica equivalente. Ora il testo dovrà tornare al Consiglio dei ministri per il via libera finale e l’applicazione che potrebbe avvenire a gennaio. Alcune delle osservazioni sono condivise da entrambi i rami del Parlamento. In particolare si chiede che siano escluse dal campo di applicazione dell’Isee le prestazioni assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario. Suscita perplessità, inoltre, il meccanismo previsto per il trattamento delle persone disabili e non autosufficienti in quanto, in presenza di un reddito dell’interessato molto basso o nullo ma con beni patrimoniali, la detrazione prevista dall’Isee potrebbe non operare pienamente. Il Governo viene invitato anche a riconsiderare quanto previsto per i proprietari di casa, perché l’aver portato le franchigie in conto reddito invece che sul patrimonio può comportare distorsioni a svantaggio di chi, pur proprietario, si trova in condizioni di basso reddito. Per questo motivo le commissioni di Camera e Senato auspicano che la franchigia per i proprietari della prima casa torni in conto patrimonio. Per le famiglie più numerose, invece, si ritiene opportuno rivedere la franchigia sulla prima casa e quella massima di 10mila euro prevista per la determinazione del patrimonio immobiliare.
Soddisfazione per il parere favorevole è stata espressa dal viceministro al Lavoro Maria Cecilia Guerra che ha seguito passo passo la nascita del nuovo indicatore: «Sono molto contenta di aver ricevuto parere positivo da entrambe le Camere e che il provvedimento possa procedere. Le osservazioni delle Commissioni sono state ampie ma rispettose del nostro lavoro e non mettono in discussione le scelte di fondo, per esempio in relazione ai controlli e all’Isee corrente, che sono due punti tra i più innovativi del provvedimento».
Il nuovo riccometro in effetti nasce per individuare meglio la condizione economica delle famiglie e modulare di conseguenza la compartecipazione delle stesse alle prestazioni sociali con l’obiettivo di una maggiore equità, nonché per ridurre il fenomeno delle truffe, oggi favorito dal fatto che molti dati rilevanti ai fini Isee sono autodichiarati e i controlli non sono sistematici. In questa prospettiva è stato previsto che in futuro si utilizzeranno anche le informazioni già disponibili negli archivi Inps e dell’agenzia delle Entrate, finiranno sotto la lente i patrimoni mobiliari e verrà valutato diversamente rispetto al passato quello immobiliare.
Il Governo, comunque, terrà conto di alcune richieste delle commissioni parlamentari: «Le osservazioni – prosegue il viceministro Guerra – ci portano a rafforzare alcune attenzioni che erano già presenti nel decreto operando una parziale ridefinizione di alcune franchigie e un maggior attenzione per la disabilità». Altro aspetto che sarà valutato riguarda le famiglie più numerose, quelle con almeno tre figli: «Già la norma di legge ci invitava a fare attenzione alla disabilità alle famiglie numerose quindi se Camera e Senato ritengono che tali aspetti vadano più accentuati, rispetteremo le indicazioni».
Il tutto con tempi molto rapidi, perché i tecnici del ministero del Lavoro si sono mossi già dopo le indicazioni del Senato. «All’inizio di settembre – precisa il viceministro – licenzieremo il provvedimento e cercheremo di avere velocemente il parere del Mef, così da poter avere la prima applicazione a gennaio-febbraio». Quanto, invece, a un utilizzo dell’Isee anche per calcolare l’Imu, il viceministro sottolinea che tale ipotesi richiede comunque una norma specifica dato che ora per legge il riccometro si può utilizzare solo per le prestazioni sociali.

Il Sole 24 Ore 07.08.13

“Gli italiani all’estero e la lezione di Marcinelle”, di Eugenio Marino

Il disastro di Marcinelle, di cui ricorre oggi il 57° anniversario (262 minatori morti, 136 italiani), dovrebbe essere l’occasione per ragionare, senza retorica, sugli italiani all’estero di oggi e sulla politica dell’Italia verso i suoi cittadini nel mondo. Vorrei partire da una doppia ferita che oggi come ieri incide la carne dei nostri migranti: da un lato lo sfruttamento e l’esclusione subiti nei Paesi ospiti, dall’altro l’abbandono da parte della Madrepatria. Ferite mai sanate che segnano le vite di tutti i migranti, come dimostra oggi la condizione degli immigrati in Italia. Certo l’emigrazione cambia nei numeri e nella qualità. Ai vecchi emigrati, operai o pensionati delle miniere e dei cantieri, si sono aggiunti i nuovi: ricercatori, ristoratori, tecnici specializzati e persino imprenditori. Questo mondo – circa 4 milioni mezzo di cittadini e 60 milioni di discendenti – aspetta risposte dallo Stato italiano e dal politica che troppo spesso rivela una totale assenza di strategia quando non un vero e proprio disinteresse nei confronti di questa realtà. La scelta dei tagli lineari, adottata negli ultimi anni, ha fatto in questo come in altri settori danni gravissimi. Un esempio per tutti: le risorse destinate alla diffusione della lingua e cultura italiana nel mondo sono state incomprensibilmente falcidiate quando questo è un settore strategico quanti altri mai per l’internazionalizzazione dell’Italia e la diffusione dei suoi prodotti sul mercato globale.
In tempi di crisi, poi, come è successo anche in passato, le comunità di emigrati sono un’opportunità economica che l’Italia oggi non sta cogliendo. La lezione di Marcinelle ci parla ancora oggi.
Quella immane tragedia diede all’Europa, che muoveva allora i primi passi, una spinta importante verso l’affermazione dei diritti dei lavoratori a partire dalla sicurezza e che portò alla costruzione di uno Stato sociale inclusivo e avanzato. Così oggi, la memoria di quella vicenda dovrebbe promuovere un dibattito serio e consapevole su una nuova idea di cittadinanza europea.
A Marcinelle a rappresentare l’Italia c’è la Presidente della Camera, Laura Boldrini. È un segnale importante, che – ne siamo certi – saprà andare al di là della sola dimensione celebrativa, legando quella partecipazione a un’agenda di impegni parlamentari che assicurino una riflessione e un rilancio della politica verso gli italiani all’estero e gli immigrati in Italia.
Abbiamo bisogno di incardinare politiche e strategie a livello nazionale ed europeo, capaci di assicurare diritti e dignità ai nuovi immigrati in Italia e a tutti i lavoratori italiani all’estero. Ma anche valorizzare, finalmente nei fatti e non solo nelle enunciazioni di principio, il ruolo delle nostre comunità e delle nostre rappresentanze nel rapporto con l’Italia, a cominciare dai Comites, che vivono da anni una condizione intollerabile di sospensione democratica: nel 2009 è scaduta la legislatura senza che si siano indette nuove elezioni. Confidiamo che la Presidente Boldrini vorrà seguire in Parlamento la discussione sulla riorganizzazione della rete consolare, che dovrebbe segnare un’inversione radicale del senso di marcia seguito negli ultimi anni. L’obiettivo dovrebbe essere la semplificazione della rappresentanza diplomatica (soprattutto nell’Europa unita) a favore di un mantenimento e una riforma dei servizi ai cittadini e alle medie e piccole imprese.
Se si discuterà seriamente di italiani all’estero e di lavoro, il sacrificio dell’8 agosto e la cerimonia di Marcinelle saranno serviti a qualcosa, altrimenti si rimarrà nella routine della celebrazione e, paradossalmente, non si renderà omaggio a quei caduti.

l’Unità 07.08.13

“Non esistono salvancondotti”, di Federica Fantozzi

La sentenza andrà eseguita. Anche il Pdl inizia a comprendere che non esistono immunità capaci di garantire una «agibilità politica» al Cavaliere. La risposta politica di Berlusconi è la candidatura della figlia Marina. Intanto Napolitano chiede che non ci siano intrusioni nella sfera del presidente.

Il tormentone dell’estate è già coniato: garantire l’«agibilità politica» di Silvio Berlusconi. Espressione pudica con cui si tenta di veicolare l’estrema delle forzature: lasciare libertà personale e diritto di elettorato passivo a un leader politico condannato in via definitiva, del quale la camera di competenza (il Senato) sta per sancire la decadenza da parlamentare, e che a prescindere dall’interdizione dai pubblici uffici (comminata come pena accessoria del- la condanna a 4 anni e che la Corte d’Appello ricalcolerà nei prossimi mesi) è già incandidabile in base alla legge Severino-Monti.
Già: come garantirne l’agibilità politica allora? La risposta è: in nessun modo. E il Pdl lo sa. Al punto che, al di là dei proclami di falchi e pitonesse, in trentasei ore tutto è rientrato nei ranghi: il Cavaliere, come sempre al momento di prendere decisioni operative, non ha ancora staccato la spina al governo; i ministri non erano alla (semideserta) manifestazione in via del Plebiscito; l’incontro con il presidente della Repubblica si è chiuso con un nulla di fatto. Si valuterà, non esistono «posizioni prede- finite», bisogna evitare «intrusioni». Insomma: state tranquilli, se non rassegnatevi. Con buona pace dei fulmini di Brunetta sulla «democrazia da ripristinare» perché «se ci dicono no, la difenderemo noi». Gli avvocati studiano le carte, i pasdaran promettono battaglia, i peones si disperano: «È finita. In Parlamento non tornerà più. Come finirà questa storia?»
Il punto è che la strada principale è quella di una condanna di terzo grado, con tutto ciò che ne consegue. Mentre le strade secondarie sono tutte – per un motivo o per un altro – altamente impervie. La grazia, ormai, è fuori dal tavolo. Lo stesso capo dello Stato lo ha premesso ai capigruppo azzurri saliti al Colle, dopo aver bollato con parole durissime come «sguaiatezza e analfabetismo istituzionale» le speranze di Maurizio Bel- pietro su “Libero”. Possibile sul piano strettamente giuridico, non lo è in questo caso: troppo recente la sentenza, con in più altri giudizi pendenti; troppo smaccata la somiglianza con un inaccettabile quarto grado di giudizio; palesemente inesistenti «eccezionali ragioni umanitarie». Per non parlare del com- portamento tenuto dal condannato: schiantatasi la linea Coppi che aveva imbrigliato Silvio nel «modello Andreotti», nel video-messaggio a botta calda il Cavaliere ha attaccato la magistratura «fuori controllo» e minacciato le urne. Non proprio il viatico migliore per pro- seguire nella finzione della «pacificazione nazionale». Sia pure intesa come un uomo solo legibus solutus.
Altrettanto complicato lo scenario di una soluzione non istituzionale ma parlamentare. Come l’amnistia. Che toglierebbe il problema dalle mani del Quirinale, ma incontrerebbe le resistenze di quasi tutto il Parlamento, dal Pd a Sel al M5S. Nell’entourage berlusconiano c’è chi spera nella proposta di legge Manconi, per reati fino a quattro anni di pena. Ma è la cruda legge dei numeri a renderlo impossibile: la richiesta maggioranza dei due terzi. Quanto alla vagheggiata riforma della giustizia, non ci sono i tempi, né tantomeno il clima per mettere mano a una materia incandescente. Insomma, un vicolo cieco.
Neppure le altre ipotesi presentate dal Pdl sono realistiche. È caduta nel vuoto, bocciata dai maggiori costituzionalisti, la suggestione dell’inapplicabilità della Legge Severino perché non esisteva quando è stato commesso il fatto. Il principio dell’irretroattività non si applica perché essa non è una norma penale in senso stretto.Idem per il «lodo Sallusti», rilanciato dal “Giornale”, che punterebbe alla commutazione della pena sull’esempio di quanto avvenuto per il direttore del quotidiano: condannato a un anno e due mesi per diffamazione, ha ricevuto una moderata pena pecuniaria. Già, ma una cosa è la diffamazione, reato per il quale molti ritengono sproporzionato il carcere, altro è la frode fiscale, reato ritenuto unanime- mente odioso. Piuttosto, l’esempio di Sallusti potrebbe fare scuola in senso opposto ai desiderata del Cavaliere: pur evaso dai domiciliari, il giornalista si è visto respinta l’istanza dei legali per andare in carcere con l’argomentazione che «organizzare l’efficienza delle carceri opera indipendentemente da una specifica istanza di parte». Insomma, altro che gesti eclatanti come rifiutare i servizi sociali e finire in cella. «Perché abbassare la tensione dicendo che sta tanto bene nella sua villa meravigliosa?» si è chiesta previdente la Santanché. Ebbene, il destino potrebbe essere proprio quello: un anno tra Arcore, Grazioli (c’è la richiesta di trasferimento della residenza a Roma) e Villa Certosa. In attesa che il processo Ruby e quello per la compravendita dei senatori facciano il loro corso. Alla fine del quale, se non cambiano le pene, si affaccia davvero il carcere. Ma quella sarà, eventualmente, un’altra storia.

L’Unità 07.08.13

“Il passo che manca per la ripresa”, di Franco Bruni

Enrico Letta celebra i primi cento giorni del suo governo documentando gli sforzi per far riprendere il Paese. Sforzi fatti, anche sulla scia del governo precedente, in una situazione politica difficilissima e in un quadro economico internazionale ancora debole. Giustamente il premier chiede fiducia e perseveranza per continuarli.

Si diffonde l’idea che la congiuntura economica italiana stia smettendo di peggiorare. Un’idea supportata da dati aggregati e ufficiali, come l’andamento della produzione industriale, il cui lieve miglioramento, già avvertito da qualche settimana, è stato ora ufficializzato dall’Istat. Da tempo Saccomanni, che ieri ha detto di pensare che «la recessione sia finita», raccomanda di non sottovalutare l’effetto positivo dell’accelerazione dei pagamenti arretrati della Pubblica amministrazione.

Miglioramenti risultano anche da evidenze meno ufficiali. Vanno bene numerose imprese, soprattutto nei settori dell’export di qualità, che stanno reagendo alle difficoltà degli ultimi anni con innovazione, ricerca, nuovo marketing, migliori relazioni con le organizzazioni sindacali.

Con grande travaglio e attorno al triste serbatoio della disoccupazione, cambiano le imprese, la gente cambia mestieri, si adatta ai cambiamenti del mondo. Anche le banche, pur mediamente bloccate, dalle sofferenze dei loro prestiti passati, nell’erogazione di nuovi crediti alle imprese, vanno differenziandosi: le migliori cominciano a respirare e a far respirare la loro clientela.

Siamo «a un passo dal possibile» ha detto Letta. Ma per il passo che manca – e perché non si torni indietro – servono condizioni, esterne e interne al nostro Paese. La crescita di alcune delle locomotive globali non deve rivelarsi un bluff prodotto da stimoli monetari e fiscali artificiali e pericolosi. L’Europa deve proseguire verso la maggiore integrazione che ha avviato negli ultimi due anni: è la condizione per mostrare a un Paese come il nostro, che cerca di ricostruire la sua politica e rianimare la sua economia, che i suoi travagliati sforzi lo portano verso una meta comunitaria dove saremo tutti più forti e solidali. Il disegno di un’Europa più unita è avanzato; la sua realizzazione deve proseguire; il semestre di presidenza italiana dell’Ue dell’anno prossimo sarà cruciale.

Quanto alle condizioni interne, alcune sono urgentissime e dovrebbero accavallarsi subito ai piccoli miglioramenti statistici che stiamo osservando. Va risolto definitivamente, meglio se prima delle scadenze obbligatorie, il nodo delle imposte in sospeso: l’Imu e l’Iva. Famiglie e imprese non devono continuare a pagare i costi dell’incertezza su che cosa si deciderà. Anche perché è un’incertezza che si diffonde all’insieme delle decisioni fiscali e di bilancio che vengono comunque coinvolte dai non pochi miliardi in ballo per quelle imposte.

C’è un’eccezionale convergenza di vedute, dal Fmi, all’Ocse, alla Commissione Europea, alle banche centrali, alla Confindustria e ai sindacati: la tassazione sulla prima casa non va eliminata. L’Imu si può riformare, alleggerire per i più poveri, si può cambiarle il nome e ricomporla con altre imposte, ma le promesse di chi ha basato sulla sua abolizione la campagna elettorale non possono essere mantenute. Il premier deve ora dirlo chiaro e sfidare anche su questo la sua maggioranza. Sull’Iva il consenso è meno compatto; ma sono fra i molti che pensano che l’aumento che scatterebbe automaticamente in assenza di altre decisioni vada accettato, con eventuali rimodulazioni delle aliquote agevolate, e che tutta la detassazione possibile vada concentrata per ridurre il cuneo fra salari e costi del lavoro e le aliquote dell’imposta sui redditi personali di chi guadagna meno.

Al di là dei provvedimenti specifici come il riassetto più urgente delle imposte, condizione interna cruciale per confermare la ripresa è convincerci che più che stimoli macroeconomici servono profonde riforme microeconomiche e amministrative. Le quali, è vero, richiedono tempo, ma il cui solo annuncio e disegno credibile, impegnativo e condiviso, concordato con le apposite procedure in sede Ue, farà subito effetto, perché agirà sulle aspettative, permetterà a famiglie e imprese di fare i piani di medio-lungo, rilancerà gli investimenti e l’afflusso di capitali dall’estero. Le riforme sono la chiave per risolvere la contraddizione fra austerità e crescita.

L’elenco è ben noto e in parte già steso in più sedi: riforma del lavoro, della giustizia, delle banche, del decentramento politico-amministrativo, eccetera. Ma è indispensabile che si diffonda maggiormente, fra tutti i cittadini, la consapevolezza che il Paese va cambiato profondamente, che ciascuno deve dare il suo apporto e che la direzione della maggior parte dei cambiamenti necessari non è un fatto ideologico e di parte ma risulta dalla somma del buon senso con la convinzione che l’interesse collettivo deve prevalere su quelli dei singoli e dei gruppi di pressione. E’ indubbio che nel settore privato le imprese e le persone stanno impegnandosi a cambiare. E’ persino questione di giustizia che il cambiamento pervada in modo rapido e radicale anche tutta la pubblica amministrazione.

Cartine di tornasole del cambiamento, a caso, che a qualcuno sembreranno futili: ci serve un Paese dove nel giro di 24 ore qualcuno possa decidere senza appello che le grandi navi non possono avvicinarsi a Piazza San Marco; che i soldi che ancora spendiamo per il Ponte di Messina vadano a Pompei; che il sussidio che mia madre, senza averne bisogno, riceve per la badante, vada a integrare lo stipendio dei giovani medici; che il sottosegretario alla cultura possa, con un ordine di servizio immediato, spostare due uscieri dalla sua anticamera, dove hanno poco da fare, al vicino museo di Palazzo Venezia, dove manca personale. Cose come queste aiuteranno i dati dell’Istat a migliorare davvero e durevolmente.

La Stampa 07.08.13

“L’Italia non mi ha voluto negli Usa batto il cancro”, di Eugenio Occorsio

Sono ore febbrili nel laboratorio di Antonio Iavarone alla Columbia University Medical School. Ha fatto il giro del mondo la notizia pubblicata da Nature Genetics che l’équipe guidata dal professore italiano ha realizzato una mappatura genetica completa del tumore al cervello, aprendo la strada alle terapie personalizzate. Un annuncio in grado di esaltare la comunità scientifica internazionale e di suscitare insperate aspettative per il terribile male. «Insieme con il tumore al pancreas, quello al cervello purtroppo è il più incurabile con un’aspettativa di vita media di non più di 15 mesi», spiega Iavarone. «Proprio di questo tumore mancava la mappa genetica. Ora stimiamo che il 15 per cento dei malati potrà curarsi selettivamente con farmaci già esistenti. Ecco la svolta». Ma il restante 85 per cento? «Qui scatta la corsa contro il tempo. Noi alla Columbia siamo ora in grado di realizzare in 24 ore una mappatura completa delle alterazioni genetiche in una cellula tumorale, l’operazione per intenderci che ha richiesto dieci anni di lavoro al team di Craig Venter quando tracciò la mappa del genoma umano. Ora, se le case farmaceutiche collaborano, possiamo creare farmaci di volta in volta capaci di colpire ogni singolo tumore. Il problema non è più organizzativo, perché basandoci su tutti i nostri studi la maggior parte del lavoro è già fatta: è solo finanziario. Ma gli investimenti necessari non sono più proibitivi. Specialmente se pensiamo alla posta in gioco».
Iavarone, nato a Benevento nel 1963, questi studi voleva farli in Italia. Aveva cominciato a portarli avanti al Gemelli di Roma, dov’era oncologo infantile, ma inciampava continuamente in episodi di nepotismo e di clientelismo politico-familistico talmente inaccettabili che alla fine, nel 1999, è dovuto venire qui in America per proseguirli. Dal 2002 è alla Columbia, dove oggi è professore di patologia e neurologia. «Vede, questo non è il Paese della perfezione. Ma resta un Paese in cui le comunità si fanno concorrenza perché vogliono avere il
centro scientifico più prestigioso e più competitivo, non per la squadra di calcio. Un Paese dove si valuta esclusivamente il merito ». Mentre parliamo, si avvia verso una specie di frigorifero, dove la temperatura è costante a 37,1 gradi come il corpo umano. Ne estrae una vaschettina apparentemente piena solo d’acqua. «Permette alle cellule di tenersi in vita». La piazza al microscopio elettronico ed ecco apparire le cellule tumorali. «I tessuti ci arrivano direttamente dalla sala operatoria dove è avvenuta l’estrazione chirurgica di un tumore cerebrale. Qui li analizziamo, li “coltiviamo”, fino ad identificare in queste cellule il nucleo davvero pernicioso,
le molecole staminali del tumore. Le quali sono identiche e si comportano alla stesso modo, tendono cioè a riprodursi freneticamente, delle cellule staminali umane “normali”».
Tutto è identificarle e poi andarle a colpire con farmaci specifici. «Resistono a qualsiasi chemioterapia perchésonoimprevedibili », interviene Anna Lasorella, moglie e collega di Iavarone.«Non rispettano i pathways,
i percorsi predefiniti e ordinati con cui le molecole crescono, ne attivano o ne inibiscono un’altra, si separano».È il motivo per qui non c’è da stare tranquilli dopo un’operazione di tumore. «La chemio può aver debellato il 99,9 per cento delle cellule, ma in quello 0,1 che resta si annidano spesso proprio quelle staminali. Per questo è fondamentale la ricerca che abbiamo annunciato: offre una visibilità completa sul patrimonio genetico di ogni singolo tumore e permette di scoprire tutti i segreti del Dna di ogni singola molecola maligna, fino a colpire proprio le cellule killer». Come dire, anziché sparare “acasaccio” ora si può mirare precisamente sull’obiettivo.
«Alla mappatura stavano lavorando altri due centri di ricerca qui in America, ma noi siamo arrivati primi», riprende con orgoglio Iavarone. Che va alla finestra, e indica un altro palazzone di vetro e cemento, stagliato contro un fondale di casette con le scale esterne di ghisa e i mattoncini anneriti della parte di Harlem che non è stata risanata e somiglia ancora a quella che spaventava gli
yuppie di Wall Street nel Falò delle vanità di
Tom Wolfe. «Quel palazzo è il nostro “incubatore”, in cui decine di piccole aziende delle biotecnologie lavorano sui nostri brevetti, e vengono qui proprio perché c’è la Columbia University. È il meccanismo virtuoso di sviluppo che si è riusciti a realizzare qui e che sogno un giorno per l’Italia ». Non sono tutte rose e fiori, intendiamoci: «Questo laboratorio è stato creato ed è mantenuto grazie ai finanziamenti federali, oltre che alle generose donazioni private. Ma ormai anche qui è tempo di tagli e ristrettezze ai bilanci: per questo è indispensabile la collaborazione delle case farmaceutiche. Noi ci mettiamo tutta la nostra esperienza, e il bagaglio delle nostre conoscenze. Nella consapevolezza che qui si combatte una lotta per la vita».

La Repubblica 07.08.13

I 100 giorni di Letta: «Serve stabilità, voto ora sarebbe inutile», di Vladimiro Fruletti

Non ha nessuna intenzione di farsi logorare, come gli ha espressamente chiesto Epifani a nome di tutto il Pd, ma neppure di spingere il Paese sull’orlo del pericoloso precipizio dell’instabilità. Che il governo possa essere fatto saltare dalle mosse eversive del Pdl in difesa del proprio capo, Enrico Letta ne è perfettamente consapevole. Così come si rende conto del crescente disagio del Pd a rimanere in una convivenza forzata con una destra intenzionata ad aprire un nuovo scontro con la magistratura. E tuttavia il premier vede anche che una crisi al buio sarebbe davvero un grosso guaio per l’Italia. Perché aprirebbe le porte all’instabilità, rendendo inutili gli sforzi finora compiuti e vanificando quei primi segnali di ripresa registrati da diversi indicatori.

Da una parte un’altra maggioranza forse numericamente sarebbe anche possibile, ma politicamente appare ardua visto che Grillo continua a tenere sbarrate le porte nei confronti del Pd. E dall’altra la strada dell’immediato ritorno alle urne sarebbe un rimedio forse peggiore del male. Perché con questa legge elettorale, è la convinzione di Letta (ma anche del Quirinale) forse con qualche punto percentuale differente ma si ripeterebbe il voto di febbraio e quindi si ri-fotocopierebbe, aggravandola, una situazione di ingovernabilità. E forse questo sì che sarebbe il colpo di grazia al tentativo del Paese di uscire dalla crisi.

Per questo dopo il vertice col ministro all’economia Fabrizio Saccomanni e il governatore di Bankitalia Ignazio Visco che gli hanno mostrato numeri incoraggianti su un Paese che pur a fatica sta risollevando la testa («Si vedono i primi segni di ripresa – dice – Possiamo sprecarli con scelte sbagliate o far sì che nasca qualcosa di positivo»), Letta in serata da Bolzano per un incontro con il governatore della Provincia di Bolzano Durnwalder, ha fatto sentire la propria voce. Anche per rispondere a Grillo che accusa il governo di non aver fatto nulla nei suoi primi cento giorni di vita.

Solo «propaganda di chi non ha niente da dire» ribatte Letta ricordando le cose fatte fin qui, e dando per fine mese la scadenza per la definitiva soluzione su Imu e Iva. Intanto il presidente del Consiglio sottolinea che tra le misure approvate, ci sono incentivi per le ristretturazioni edilizie, ci sono gli eco-bonus, ci sono nuove misure a favore dell’occupazione, ci sono le 500 assunzioni di giovani per il censimento del patrimonio artistico nazionale. E altri sostegni allo sviluppo arriveranno presto, dice, se la politica non farà mosse suicide. «Non mi farò logorare» del resto è la promessa che il premier fa al Pdl precisa che il tirare a campare non rientra nei suoi obiettivi di governo: «A me non interessa lavorare per durare un giorno in più. Il tema principale è fare, e realizzare il programma, dando agli italiani cose che possano toccare con mano: fare per agganciare la ripresa, così che consenta fatti positivi». Quanto al tema (minato) della riforma della giustizia il premier lascia la palla alla «sovranità del Parlamento» ricordando però che si tratta di questione che richiede larghissima condivisione.

La sua intenzione infatti è di provare a rendere concreti gli impegni presi di fronte al Parlamento e che sia il Pd che il Pdl hanno promesso di voler ottenere. Da parte del suo partito Letta non vede nessuna volontà di ostacolarne il cammino. Giovedì alla direzione convocata da Epfani ci sarà anche lui e già spiega che da quella riunione si attende conferme non sorprese. Del resto dal faccia a faccia col segretario democratico è si emersa la preoccupazione del Pd di non finire schiacciato dal proprio senso di responsabilità nel sostenere il governo, ma anche la convinzione, condivisa da Epifani e Letta («siamo totalmente d’accordo» assicura il premier), che il miglior cemento per tenere in piedi l’esecutivo sono le risposte concrete che verranno date agli italiani in vista di un autunno, ha avvertito l’ex leader della Cgil che si annuncia particolarmente difficile. Risposte sia economiche (i tassi che stanno scendendo è già un gran bel segnale per incentivare gli investimenti e quindi l’occupazione dice Letta), sia politiche.

E qui Letta pone come primo obiettivo la nuova legge elettorale. Col Porcellum, ragiona, «le elezioni darebbero una ulteriore situazione di instabilità». Quindi «occorre una procedura d’urgenza, a settembre in commissione e a ottobre si vada in aula. Occorre dare un segnale – spiega – che si vogliono superare i motivi di instabilità».
Anche per questo il passaggio di giovedì alla direzione Pd per Letta dovrà servire essenzialmente a confermare «l’appoggio del Pd al programma del governo».

L’Unità 06.08.13