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“Lasciate che gli stranieri vengano a noi”, di Stefano Lepri

Il governo non cade e l’agosto può trascorrere tranquillo, senza burrasche sui mercati finanziari. Però la tenue ripresa economica che si comincia a intravedere non ci porterà grande sollievo, se Enrico Letta e i suoi ministri continueranno settimana dopo settimana, mese dopo mese, ad essere paralizzati dai ricatti di una campagna elettorale permanente. La sfiducia tornerebbe a crescere, all’interno come all’estero.

Non si può governare bene quando chi fa parte della maggioranza, invece di puntare su ciò che è realizzabile (in modo da rivendicare poi: «Per merito nostro sono state fatte cose buone») punta quasi soltanto su ciò che è irrealizzabile («Per colpa degli altri non si è concluso nulla»). Al di là della disordinata rissosità degli alleati-rivali, e delle loro divisioni interne, c’è un motivo di fondo per cui questo avviene.

Purtroppo con una amministrazione pubblica nello stato in cui si trova, non fare è molto più facile che fare. E’ scarsa la capacità di prendere in breve tempo misure i cui risultati vengano percepiti dagli elettori.

Lo vedono anche gli stranieri: alla nascita dell’attuale governo un editoriale del «Financial Times», con freddo paradosso, lo esortava a lasciare l’economia a se stessa e a concentrarsi sulle riforme politiche.
Quel consiglio anglosassone non poteva essere seguito, in un Paese come il nostro dove tra gli operatori economici è assai raro l’invito alla politica di «lasciarli fare». Ma già ascoltare ciò che le forze sociali chiedono – meno tasse sui redditi bassi, i sindacati; togliere l’Irap dal costo del lavoro, la Confindustria – sarebbe un passo avanti rispetto al dibattito politico corrente su Imu e Iva.

Oltretutto la ricerca affannosa di spunti di propaganda rende ancor più difficile ai funzionari pubblici compiere il loro dovere. All’indomani dei controlli anti-evasione in alcuni luoghi di vacanza uno dei maggiorenti del Pdl, Maurizio Gasparri, afferma che sarebbe stato meglio evitarli. Già nel Pd, indizio certe recenti parole del viceministro Stefano Fassina, serpeggiava il timore di restare scoperti su questo fianco.

Mostrare che lo Stato esiste, che le leggi vengono rispettate, è un requisito essenziale perché l’economia di mercato funzioni, e dunque anche per la ripresa. La burocrazia intralciava il governo Monti perché teme i tecnici meno dei politici; il rischio adesso è che debba barcamenarsi tra pressioni contrastanti delle diverse forze di maggioranza, e di nuovo tuteli il proprio potere con i rinvii.

Paralisi o decisioni sbagliate potrebbero portare danno nei prossimi mesi. Per ora sui mercati prevale l’impressione che la crisi europea sia, benché con lentezza, in via di superamento. Agli interrogativi che circolavano sul nostro sistema creditizio, Governo e Banca d’Italia hanno ribattuto ieri con un messaggio di fiducia. Le banche italiane non corrono pericoli; tuttavia, va detto che se avessero più capitale farebbero meglio il loro mestiere di fornire credito alle imprese.

Sia per le banche, sia per le industrie, sarà meglio evitare di stracciarsi le vesti nel caso si presentino investitori stranieri. Il sistema economico italiano soffre di carenza di capitale e i capitali sono altrove. Magari si diffondesse nel mondo abbastanza fiducia nell’Italia – una burocrazia non paralitica, una magistratura che fa rispettare le leggi – perché altri si accorgano che ci si possono fare buoni affari.

«Non esiste il salvacondotto deve lasciare il Parlamento», di Osvaldo Sabato

Il Pdl è a caccia di un salvacondotto parlamentare per Silvio Berlusconi. Ieri Renato Brunetta e Renato Schifani, capogruppo alla Camera e Senato, sono saliti al Quirinale per parlare con Giorgio Napolitano. «Non capisco in che cosa potrebbe consistere questo salvacondotto» commenta Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale. I legali dell’ex Cavaliere non pensano alla «grazia» bollata subito da Napolitano come «analfabetismo istituzionale», ma ad un differente atto di clemenza o al ritocco della Severino. O alla commutazione della pena da detentiva a pecuniaria. Quanto alla possibilità che Berlusconi resti senatore, dopo la condanna della Cassazione, il costituzionalista non ha dubbi: «Deve lasciare il Parlamento».
Professore, la «grazia» all’ex premier è possibile?
«Sul piano giuridico non è impossibile. È impensabile, perché sarebbe assurdo che si adottasse un provvedimento di questo genere all’indomani del passaggio in giudicato della sentenza di condanna e senza che sussistano quelle eccezionali ragioni umanitarie che stanno alla base dell’istituto della grazia, come ha detto la Corte Costituzionale nella sentenza n. 200 del 2006, né altre apprezzabili ragioni di interesse pubblico. Per questo, dico che è impensabile».
Gli avvocati di Berlusconi pensano anche alla richiesta di commutare la pena detentiva in pecuniaria. Viene richiamato il cosiddetto “modello Sallusti”.
«In quel caso c’era come ragione giustificatrice il fatto che, secondo molti, la pena carceraria per fatti di diffamazione non è giustificata. Qui non è che la pena prevista dalla legge e concretamente inflitta sia inadeguata rispetto al reato commesso».
Ma nel Pdl si grida al «vulnus democratico» con Berlusconi escluso dalla politica.
«Non è che non può fare più politica, anche se decade da senatore. Guardiamo Grillo: non è né deputato e né senatore, non fa politica? Eccome, se la fa». Quindi non cambia niente.
«Ma andiamo alla sostanza…».
In che senso?
«Il vero problema è che non può esistere un intero schieramento politico, elettoralmente forte e rappresentato in Parlamento, e persino nel Governo, che faccia dipendere le proprie sorti e le proprie scelte esclusivamente dalla posizione e dagli interessi personali del suo attuale leader. Il nostro vero problema è che occorre si manifesti una destra capace di liberarsi da questa ipoteca personalistica, ne abbiamo bisogno. Probabilmente c’è nel Paese, e magari anche in Parlamento».
Nel frattempo il Pdl detta le condizioni a Letta per continuare a stare nel Governo.
«Questo dipenderà da cosa faranno anzitutto i ministri del Pdl. Domenica non erano nella piazza dove parlava Berlusconi, e questo è un fatto positivo. Se continueranno a fare i ministri nell’interesse della Repubblica, finalmente potrebbe avviarsi il processo di liberazione del centro destra da questa ipoteca personalistica».
Berlusconi condannato a quattro anni in base alla Legge Severino – Monti dovrebbe decadere anche da senatore. «È così. In base a questa legge ricade nella ipotesi di incandidabilità sopravvenuta».
Ma per i berlusconiani questa ipotesi non dovrebbe scattare. «E perché non dovrebbe essere applicata?».
Secondo il costituzionalista Giovanni Guzzetta e per il Pdl la legge Severino non si potrebbe applicare a Berlusconi. «Questa non è una norma penale in senso stretto, che stabilisce cioè una sanzione penale, per la quale valga il principio di irretroattività rispetto al momento del fatto commesso. Questa è una norma sulla eleggibilità, che stabilisce un requisito negativo (l’assenza di condanne definitive di un certo tipo), già previsto nel momento in cui l’elezione è avvenuta (abbiamo votato a febbraio e la legge Severino è precedente). Un requisito di eleggibilità deve sussistere nel momento dell’elezione e permanere per la durata del mandato. Non ha niente a che fare con il momento in cui è stato commesso il fatto che ha provocato la condanna penale definitiva. Il principio di irretroattività dei reati e delle pene qui non c’entra. Conta dunque non il momento del fatto commesso e penalmente rilevante, ma il momento in cui è stata pre- vista, prima delle elezioni, la causa di ineleggibilità, cioè l’esistenza o la sopravvenienza di una condanna definitiva di un certo tipo».
In ogni caso l’ultima parola spetta al Senato.
«L’assemblea del Senato deve pronunciarsi. Ma secondo me non può che prenderne atto. Poi tutto può essere quando si decide non in base al diritto, ma in base a interessi politici. Io direi che la deliberazione di decadenza dovrebbe essere obbligata. Quindi, sarebbe bene che l’interessato si dimettesse spontaneamente, come ha fatto Previti a suo tempo».
E se il Senato decidesse diversamente?
«Commetterebbe una illegalità».
Eppure Berlusconi continua a parlare di persecuzione giudiziaria nei suoi confronti.
«Ogni qualvolta c’è una condanna o un processo a suo carico si parla automaticamente di una scelta politica persecutoria. Tutto ciò è assurdo. Anche se può essere vero che in qualche caso qualche Procura abbia manifestato nei suoi confronti un certo “accanimento” (d’altronde è il destino degli uomini pubblici quello di essere esposti, più dei comuni cittadini, all'”occhio” severo della legge e della giustizia), nel nostro caso siamo di fronte ad un giudizio definitivo e motivato, cui hanno concorso un Tribunale collegiale, una Corte di Appello egualmente collegiale e un collegio della Cassazione con cinque componenti».

L’Unità 06.08.13

Beni culturali, Ghizzoni “Ecco il testo della legge sulle professioni”

Chiuso il Comitato ristretto sulla proposta di legge di cui la deputata modenese è relatrice. E’ pronto il testo base della nuova legge che, modificando il Codice dei beni culturali e del paesaggio, dà riconoscimento giuridico a una vasta gamma di professionisti del settore. Oggi, infatti, si sono conclusi i lavori del Comitato ristretto, come conferma la deputata modenese del Pd Manuela Ghizzoni, relatrice della proposta di legge. “L’obiettivo – conferma l’on. Ghizzoni – è quello di approvare direttamente la proposta di legge in Commissione senza dover passare dall’Aula. E dare così al più presto una risposta a un mondo che, fondamentale per la tutela del nostro patrimonio artistico e culturale, fino ad ora, era confinato nell’indeterminatezza legislativa”.
Ancora un passo avanti nell’iter legislativo della proposta di legge sulle professioni dei beni culturali di cui è relatrice la deputata modenese del Pd Manuela Ghizzoni, vicepresidente della Commissione Cultura, Scienze e Istruzione della Camera. Attorno alla proposta di legge si è costruito un clima di assenso complessivo: con questo testo, infatti, si dà riconoscimento giuridico a una serie di professionisti nel campo dei beni culturali che, fino a questo momento, ne erano privi. Si parla esplicitamente, infatti, di archeologi, archivisti, bibliotecari, demoetnoantropologi, antropologi, restauratori di beni culturali e collaboratori restauratori di beni culturali, esperti di diagnostica e di scienze e tecnologia applicate ai beni culturali e storici dell’arte. “Si è chiuso oggi il comitato ristretto – spiega l’on. Ghizzoni – Adesso abbiamo il testo base della proposta di legge che sarà mandato alle altre Commissioni per un parere per poi procedere in sede legislativa. L’intenzione dei gruppi – conclude Manuela Ghizzoni – è infatti quella di approvare direttamente la proposta di legge in Commissione senza dover passare dall’Aula. E dare così al più presto una risposta a un mondo che, fondamentale per la tutela del nostro patrimonio artistico e culturale, fino ad ora, era confinato nell’indeterminatezza legislativa”.

“Beppe è coerente. Gli editorialisti si rassegnino

Per una volta che Grillo è coerente, e non è fraintendibile, non sarebbe il caso di non discutere almeno su questo? A leggere i giornali di questi giorni, a metà tra il sogno o i desiderata di qualche editorialista e di alcuni parlamentari, sembrerebbe esistere da qualche parte una qualsiasi dichiarazione di anche minima apertura di Beppe Grillo a qualsiasi forma di collaborazione con il Pd. Persino a me è venuto il dubbio, e vi assicuro, sono andato a cercare, in giro, ovunque. Ma proprio non ho trovato una sola riga di un solo post o di una sua dichiarazione in cui in forma anche lieve, almeno dal 2009, Grillo abbia dimostrato non dico una «apertura politica» ma la minima intenzione di collaborazione parlamentare nell’interesse del Paese. Questa forse è l’unica notizia e novità nel panorama politico italiano, mai nessuno per così tanto tempo è stato tanto coerente e ostinato – anche sbagliando, anche andando contro il proprio elettorato e il buon senso e anche solo l’immagine dell’interesse nazionale – nel dire no a qualsiasi collaborazione, fosse anche un semplice «appoggio esterno». In che lingua dovrebbe scriverlo? Credo che il concetto sia chiaro anche nella traduzione giapponese del suo blog! Certo, continuare a indicare questa collaborazione – mirata e per obiettivi – come la strada maestra per il bene del Paese è una bella scoperta, che però è bene ricordare che su quella linea (costruttiva e politicamente generosa e seria) fu proprio Bersani a rinunciare all’incarico di governo. Se quella volta quel tentativo, tra mille distinguo, fosse andato in porto, è probabile che non parleremo più da mesi né di inciucio, né di compromesso a ribasso, né del ruolo di Berlusconi – che torna centrale e determinante nonostante tutto sulla scena politica nazionale proprio grazie al rifiuto cieco e ostinato di Beppe Grillo. Non bastava quello a chiarire definitivamente due concetti ripetuti fino alla noia? Il primo, che il vero «nemico da abbattere» per Grillo è il Pd, senza se senza ma e senza alcun distinguo. Il secondo, che a Grillo i problemi non interessa affatto risolverli, lui ne ha bisogno. Ha bisogno della tensione sociale, per accreditarsi come il leader che – solo e unico – può tenere a bada le masse inferocite. Ha bisogno di alzare la tensione sociale – che già c’è, esiste ed è concreta – perché altrimenti le sue grida non si sentono sopra le altre. Grillo vive di antipolitica, e la sua abilità è stato dare l’illusione a migliaia di persone che lui – almeno – gli potesse dare voce. Ma proprio per non perdere questa forza, Grillo non può proporre nulla di concreto, né operare in questa direzione. Se poi vogliamo aggiungere un terzo elemento, questo richiamo all’autunno caldo e la spinta ad elezioni tra ottobre e febbraio, è il solo sistema che Grillo ha per evitare che venga cambiata una legge elettorale che per lui è indispensabile: non solo gli consente di nominare lui i suoi parlamentari, ma impedisce un dibattito vero in campagna elettorale e non richiede le preferenze e il confronto tra candidati. Infatti anche se argomento molto popolare nei suoi 20 punti non si parla di riforma elettorale e Grillo dopo le amministrative è ben consapevole di cosa rischia con una autentica partecipazione e selezione dei candidati. Per di più non c’è un solo atto parlamentare del Movimento 5 Stelle che possa anche solo essere interpretato come un’apertura o come forma di collaborazione, e tutte le volte che qualcuno del Pd ha mostrato una certa disponibilità su temi specifici è puntualmente arrivato il «passo indietro» o la smentita di Grillo e di Casaleggio. Certo a meno di non voler vedere un’apertura nella dichiarazione di Morra che disse “se si trasformano nel M5S, ci rendiamo disponibili a realizzare il nostro programma di Governo” o quella confusa di Nuti subito smentita dal blog del leader-padrone. Ora sarà il caldo, la voglia di creare notizie estive, il voler essere stimolo alla proposta politica, ma qui l’unica notizia vera è che Grillo è coerente con se stesso e che l’unico suo obiettivo è vivere sulle spalle (politiche e sociali) del Partito Democratico. Semmai l’effetto unico di parlare di inesistenti aperture e non fare alcun vero affondo sul tema reale: serve davvero al Paese, e ai problemi veri delle persone, un gruppo parlamentare che obbedisce ciecamente, incapace di qualsiasi tipo di mediazione costruttiva e di collaborare ad una qualsiasi alternativa di governo, in cui tornino al centro le questioni della vita quotidiana delle persone e delle imprese?

L’Unità 06.08.13

“Bimbi senza mamma e papà. L’altra faccia dei femminicidi”, di Raphael Zanotti

Marina di Massa, 28 luglio 2013. Marco Loiola, accecato dalla gelosia e da una storia che non accettava fosse finita, spara al presunto rivale lasciandolo in coma. Poi si reca al ristorante dove lavorava la moglie Cristina Biagi e la uccide. Quindi rivolge l’arma contro di sé e si suicida. Una famiglia sterminata. Restano due bambini, di 3 e di 10 anni. Soli. San Tammaro di Caserta, 20 luglio 2013: il corpo di Katia Tondi, donna di 31 anni, viene trovato in casa privo di vita. Qualcuno l’ha uccisa. Indiziato del delitto il compagno, Emilio Lavoretano. In casa, al momento del delitto, c’era anche il figlioletto di Katia, 7 mesi. Solo.

Ci sono altre vittime del femminicidio. Vittime di cui quasi nessuno parla mai, travolti dall’orrore di una violenza che confonde l’amore con il possesso. Vittime che non sono sotto i riflettori, perché minorenni. Ma proprio per questo più a rischio, infilati in percorsi fatti di affidamenti, adozioni, tribunali dei minori. Che fine fanno queste vittime?, che strumenti hanno e che strumenti fornisce loro la società per superare il trauma di un padre che uccide la propria madre?, come crescono?

Orfani, con due genitori scomparsi, o nella migliore delle ipotesi con uno dei due in carcere per ciò che ha fatto all’altro, questi bambini vengono scordati. Sono un esercito, ma nessuno se ne accorge. Oltre 1500 in Italia, secondo uno studio che sta portando avanti la dottoressa Anna Costanza Baldry, docente di Psicologia all’Università Seconda di Napoli, consulente dell’Onu, della Nato e dell’Ocse in materia di violenza contro le donne e i bambini. Lo studio prende in esame i casi di bambini vittime del femminicidio tra il 2000 e il 2013 e dimostra una cosa: in Italia non esistono protocolli, percorsi, strumenti che offrano a questi orfani una vita migliore.

I casi vengono trattati dai tribunali dei minorenni alla stregua degli altri orfani. Ma le loro storie sono completamente diverse. Alcuni non hanno perso entrambi i genitori, o almeno non nel modo tradizionale. «Nel carcere di Lecce è rinchiuso un uomo – racconta uno dei membri della rete Dire che raccoglie i centri antiviolenza sulle donne – che ha ucciso l’ex moglie e la successiva compagna. Quest’uomo riceve spesso visita da una ragazza: è la figlia che ha avuto dal primo matrimonio». Giusto? Sbagliato? Le categorie tradizionali stentano a inquadrare il problema.

Nella maggior parte dei casi, i tribunali dei minorenni affidano questi bambini ai parenti più prossimi, quasi sempre i nonni. Ma non è detto che siano quelli materni, il caso Parolisi insegna. Alla rete Dire conoscono il caso di un bambino affidato ai genitori paterni perché, a giudizio del giudice, l’affidamento alla parte materna della madre avrebbe fatto crescere il minore in un clima di astio nei confronti della parte paterna. La discrezionalità è massima, in assenza di regole.

Ma a volte anche l’affidamento ai parenti prossimi non è possibile. Il figlio di Rosi Bonanno, la donna uccisa a Palermo dall’ex convivente Benedetto Conti, verrà dato in adozione. I genitori di Rosi, infatti, sono considerati troppo anziani e poveri dalla legge italiana perché possano occuparsi del bimbo, che ha compiuto due anni il 12 luglio.

Ancora un caso dai Centri antiviolenza, questa volta nel Milanese. I tre figli della coppia sono stati divisi. La ragazza più grande, quasi maggiorenne, è stata presa in carico da una nipote della vittima, che aveva già due figli. Gli altri due sono stati affidati ai nonni materni, ma i due anziani hanno chiesto, dopo un anno, di trovare un’altra soluzione: avevano problemi economici gravi.

In Italia non esiste alcuna legge che tuteli economicamente gli orfani di femminicidio. Qualche timido passo è stato fatto in Basilicata, con la proposta – presentata nel 2011 – di istituire un fondo regionale. Ma i tempi sono lunghi. Nel caso di Michela Fioretti, l’infermiera dell’ospedale Grassi di Ostia uccisa sulla Ostiense dall’ex marito guardia giurata al termine di un inseguimento, il governatore del Lazio Nicola Zingaretti ha assicurato che presto ci sarà «una legge regionale per garantire il diritto allo studio delle due figlie». Ma sono tentativi sporadici, non organici.

«Anni fa mi sono occupata di un femminicidio avvenuto a Napoli – racconta la dottoressa Baldry – La coppia aveva una figlia e un figlio piccoli. Siamo andati a vedere a distanza di anni come si era evoluta la loro vita: la ragazza era finita nel giro della prostituzione ancora minorenne, il ragazzo era entrato nella criminalità».
Problemi economici, nessun supporto psicologico, totale discrezionalità dei giudici minorili: in Italia c’è un’altra categoria di vittime del femminicidio su cui tutti tacciono. Sono un esercito. E sono le più fragili.

La Stampa 06.08.13

“Manager Pa, il Governo impone il taglio del 25% degli stipendi”, di Gianni Trovati

Alla fine il taglio del 25% degli stipendi delle Spa pubbliche passa. A termine di una maratona durata fino a mezzanotte è arrivata infine la soluzione al nodo dei compensi dei manager pubblici: tutti quelli che non rientrano già nel tetto introdotto con il Salva-Italia (circa 300mila euro, il trattamento economico del primo presidente della Cassazione) al prossimo rinnovo si vedranno sforbiciare del 25% tutti i compensi, “a qualunque titolo determinati”. Si tratta dei manager delle società a controllo pubblico diretto o indiretto, quotate e non quotate «che emettono esclusivamente strumenti finanziari, diversi dalle azioni, quotati nei mercati regolamentati». Tra queste Eni, Enel, Finmeccanica, Ferrovie e Poste. È questo il risultato della maratona notturna promossa dalle Commissioni Affari costituzionali e bilancio del Senato, che hanno così completato l’esame del Dl del fare. Al via in Aula la discussione generale sul provvedimento che, considerate le modifiche introdotte, dopo il sì dell’Aula di Palazzo Madama dovrà tornare alla Camera per la terza lettura (è atteso in Aula a Montecitorio già domani).
Regolarità tributaria, salta il Durt
In un primo tempo le commissioni Affari Costituzionali e Bilancio del Senato avevano infatti soppresso a larga maggioranza i tagli introdotti, anche con un emendamento del Governo, nel Decreto del Fare. In serata, però, Esecutivo e maggioranza hanno lavorato al recupero della norma. Via libera anche alla soppressione della norma del provvedimento – introdotta alla Camera – che istituiva il Durt, il documento unico di regolarità tributaria. Si tornerebbe quindi al testo del Governo in materia di responsabilità solidale fiscale. Approvato anche un ordine del giorno che rinvia la questione alla delega fiscale. Prima la bocciatura, poi il Governo detta la linea.
Riepiloghiamo. Le commissioni in giornata non hanno votato l’emendamento del governo al dl Fare che prevedeva per il tetto ai compensi dei manager pubblici un «sistema differenziato» per le società non quotate controllate da società con titoli azionari quotati rispetto a quelle controllate da società emittenti altri strumenti finanziari. Per le società quotate a controllo pubblico il testo dell’esecutivo prevedeva una riduzione del 25% in sede di rinnovo degli organi di amministrazione dei compensi rispetto a quelli deliberati per il precedente mandato. La proposta stabiliva inoltre il divieto per tutte le società a controllo pubblico, a eccezione di quelle emittenti titoli azionari quotati e loro controllate, di corrispondere agli amministratori con deleghe bonus, indennità o benefici economici di fine mandato.

L’irritazione di Franceschini : non possiamo rinunciare
Immediata la replica dell’esecutivo, che tramite il ministro per i Rapporti con il parlamento Dario Franceschini fa sapere che «il Governo non può rinunciare al taglio del 25% agli stipendi dei manager delle società pubbliche quotate e non quotate che emettono titoli (come Eni, Enel, Finmeccanica o Poste, ndr)».

L’annuncio di Lanzillotta: tagli ripristinati
La posizione assunta dall’esecutivo riapre i giochi. Poche ore dopo, in serata, arriva un nuovo annuncio della vicepresidente del senato, Linda Lanzillotta: «Le Commissioni Affari Costituzionali e Bilancio del Senato hanno ripristinato il regime vigente sul tetto agli stipendi dei manager pubblici. Ma la riduzione del 25 per cento, come proposto dai relatori, si applicherà invece, molto opportunamente, ai manager delle società quotate e delle società a queste equiparate che, fino ad oggi, erano rimasti immuni da ogni riduzione».

Se fosse stata approvata definitivamente dal Senato la norma sul tetto agli stipendi dei manager passata alla Camera «avrebbe comportato il superamento del limite dei 300mila euro, previsto dalla spending review, sia per le società dello Stato che per molte municipalizzate. Sarebbe stato così sterilizzato in cambio di una mera riduzione del 25 per cento dei compensi in godimento prima della spending review», spiega.

Società non quotate direttamente o indirettamente controllate dalla Pa
Con il Salva-Italia si stabiliva che il compenso dei manager delle società non quotate direttamente o indirettamente controllate dalle pubbliche amministrazioni non potesse superare il trattamento economico del primo presidente della Corte di Cassazione (300mila euro, appunto). L’intervento della Camera aveva previsto che il tetto non si applicasse alle società che svolgono servizi di interesse generale, anche di rilevanza economica. Il governo, al Senato, aveva presentato a sua volta un emendamento che introduceva un sistema “differenziato” per le società non quotate e che prevedeva anche un taglio del 25% dei compensi dei manager delle società pubbliche quotate: sull’emendamento non si era trovato un accordo con le forze politiche. Con la soppressione delle modifiche introdotte alla Camera si torna quindi alle norme del Salva-Italia. La stretta viene così confermata, ma viene meno – con una certa irritazione da parte dell’Esecutivo – anche il taglio del 25% dei compensi dei dirigenti delle società pubbliche quotate.

Durt, viene meno la norma introdotta alla Camera
Per quanto riguarda il Durt, la norma introdotta alla Camera, e criticata dalle imprese, prevedeva che, per quanto riguarda le ritenute sui redditi di lavoro dipendente relative al rapporto di subappalto, la responsabilità solidale era esclusa nel caso in cui l’appaltatore verificasse la corretta esecuzione degli adempimenti attraverso l’acquisizione del nuovo Documento unico di regolarità tributaria relativa al subappaltatore. L’appaltatore, fino all’acquisizione del Durt, poteva quindi sospendere il pagamento del corrispettivo. Ora il Durt viene cancellato dalle Commissioni.

Il Sole 24 Ore 06.08.13

“Il ragazzino-imprenditore che dà spazio ai talenti”, di Riccardo Luna

Davide Dattoli ha 22 anni. Te lo devi ripetere mentre ti racconta cosa è stato capace di combinare finora. Un’agenzia per gestire i social media, un’app per aiutare le famiglie ad assolvere ai tanti impegni, e soprattutto Talent Garden (Tag), una catena di spazi dove i giovani di talento vanno per costruirsi un futuro. In un anno ne ha aperti per un totale di 400 ragazzi tondi tondi. Davide Dattoli ha 22 anni. Te lo devi ripetere mentre ti racconta cosa è stato capace di combinare finora. Un’agenzia per gestire i social media, una app di discreto successo per aiutare le famiglie ad assolvere ai tanti impegni, e soprattutto Talent Garden, ovvero Tag, una catena di spazi dove i ragazzi di talento vanno per costruirsi un futuro. In un anno ne ha aperti sette (il primo a Brescia, poi a Bergamo, Padova, Milano, Torino, Pisa e Genova da settembre) per un totale di 5500 metri quadri e 400 ragazzi tondi tondi. Quattrocento ragazzi ottimisti, concreti e iperattivi come lui che dichiara candidamente: «Non è vero che per noi giovani oggi non ci siano opportunità. Basta sapersele creare ». Altri Tag sono imminenti: uno al Sud, uno poi forse addirittura a Bruxelles. Ecco: Davide Dattoli ha solo 22 anni, ma fra qualche giorno ne compie 23. E presto la sua storia apparirà meno incredibile, forse.
In principio era un nerd. In italiano lo tradurremmo «uno smanettone», ma non rende l’idea. Il nerd lo riconosci da due cose soprattutto: è un appassionato di computer e ha gli occhiali con la montatura grande, nera e squadrata. Davide Dattoli la usa ancora, naturalmente. A 16 anni frequentava un liceo scientifico di Brescia, un buon liceo. Ma soprattutto frequentava Facebook. «Era il 2006 e in Italia Facebook non lo usava ancora quasi nessuno ». Dattoli non si limitava ad usarlo: lo studiava: «Notai che negli Usa tante grandi aziende iniziavano a sfruttarlo per fare marketing, creando delle pagine dedicate. E pensai che poteva essere una buona idea farlo in Italia ». Il primo test lo fece in casa: creò la pagina Facebook del ristorante dei genitori, il “Castello Malvezzi” di Brescia, un post dove i bresciani vanno per comunioni, compleanni e matrimoni soprattutto. «Sulla pagina che avevo aperto invece di raccontare del cibo, parlavo delle storie delle persone. Raccontavo i festeggiamenti, il momento in cui lo sposo aveva chiesto alla sposa di dire di sì, le candeline di una torta. Era il lato umano del nostro ristorante e la cosa funzionò: iniziarono a mandarci le foto di matrimoni di trenta anni prima perché le pubblicassimo». Di lì l’idea di costituire, a 18 anni, una società che offrisse alle aziende campagne su Facebook, Viral Farm. «Avevamo tantissimi clienti, anche importanti, e il fatturato fu subito importante tanto che arrivammo a 12 dipendenti, ma fu in sostanza un fallimento. Tra noi soci fondatori non c’era accordo su nulla e dopo un anno ci separammo. Una bella lezione».
A vent’anni, dopo essersi iscritto alla facoltà di Economia di Castellanza e aver lanciato la app Save The Mom, Dattoli è ripartito dal coworking. Nel 2010 in Italia era un territorio ancora quasi inesplorato per questa tendenza che viene da San Francisco. Lui la vede così: «Quando si parla di coworking, si pone l’accento sulla condivisione dello spazio fra le persone come se fosse questo il vero valore aggiunto. Quando in realtà il valore aggiunto sono le persone e i loro talenti». Talenti è la parola chiave del suo progetto che si chiama appunto Talent Garden, giardino di talenti. Tra tutti i talenti, Dattoli cerca solo quelli con la passione per il web in modo che fra di loro possano crearsi interazioni, opportunità: «Un web designer e un web developer non sono in competizione, anzi, lavorando assieme fanno progetti migliori ». Ma chi lo stabilisce che uno è un talento? «La community. Quando uno vuole entrare in Tag si presenta a chi già ne fa parte spiegando in cinque minuti esatti cosa fa e cosa vuole fare. E la community vota. Se la domanda viene accettata, il nuovo ammesso pagherà un contributo mensile massimo di 250 euro». Tutto compreso, in testa banda larga e wi-fi a manetta.
Il primo Tag ha aperto a Brescia, grazie alla partnership con Il Giornale di Brescia
dopo che il Comune aveva rifiutato di sostenere il progetto. «L’editore ci ha dato ad un prezzo conveniente uno spazio che si era liberato a causa della crisi dell’editoria. Noi lo abbiamo trasformato in un Tag». Con quel primo successo alle spalle, Dattoli si è messo a girare l’Italia per spargere “il verbo”. E, complice anche il momento di crisi, la cosa si sta diffondendo ad una velocità incredibile. «Il modello è questo: qualcuno in una città decide di aprire un Tag, troviamo assieme uno spazio adatto, un partner locale che di solito non viene dal digitale, che ha una lunga esperienza imprenditoriale alle spalle e che ha deciso di restituire qualcosa ai giovani in una logica di give back, e partiamo». Una delle cose stupefacenti del progetto è questa alleanza fra giovani digitali ed esperti analogici, come la famiglia Ferretti a Bergamo, o Alfredo Cazzola, già patron del MotorShow e di Smau, che a Milano ha messo a disposizione un grande edificio vicino alla stazione centrale e partecipa al Tag più grande. Nel caso di uno come Dattoli viene proprio da dire che il meglio deve ancora venire. Lui intanto quando si guarda attorno e vede un mondo di giovani disoccupati e spesso rassegnati, i Neet (in inglese, not in education, employment or training: i giovani che hanno rinunciato a studiare e a cercare lavoro), dice: «Se io sto tutti i giorni in un ambiente dove mi dicono che non ho speranze certo che mi rassegno. Ma se mi circondo di ragazzi pieni di idee che stanno provando a realizzare, cambia tutto». Basta poco.

La Repubblica 06.08.13