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“Partiti in crisi ma la domanda di politica è forte”, di Carlo Buttaroni

La conferma della condanna di Silvio Berlusconi è il detonatore che riaccende la crisi politica. Una crisi che si trascina da oltre vent’anni e che si riflette nella sofferta geografia del consenso degli ultimi anni e nel progressivo calo della partecipazione, che ha assunto, a tratti, i caratteri di un vero e proprio abbandono, perlomeno nelle sue forme tradizionali. La crisi della politica non è un fenomeno nuovo, quindi, e non riguarda solo l’Italia ma gran parte delle democrazie avanzate. Eppure nel nostro Paese, ha assunto forme inedite e pericolose negli effetti che ha prodotto. Se dovessimo sinteticamente connotare la politica a partire dalla percezione che offre di sé, troveremmo come frammentarietà e incertezza siano parte integrante di essa, al punto da essere diventate, ormai, qualcosa di costitutivo e insuperabile. Elementi imprescindibili di un quadro che sembra progressivamente deteriorarsi. Altra caratteristica della crisi politica è una generalizzata caduta delle tensioni progettuali e ideali, il venir meno dei fondamenti di un pensiero forte, l’abbandono di qualsiasi idea universalistica, cui si oppone un buonismo tollerante, che altro non è che la perdita di ogni criterio di demarcazione e di capacità di sanzione sociale, proprio mentre la politica si trova a fare a meno delle categorie forti del Novecento e le problematiche confluiscono in un pensiero negativo, in un nichilismo che può essere efficacemente riassumibile nelle parole di Nietzsche quando lo descrive come un processo dove i valori supremi si svalutano, dove manca lo scopo e una risposta ai perché. È un pensiero debole quello che, oggi, pervade la politica, dove il relativismo finisce per essere una sorta di premessa largamente condivisa, perché le procedure non obbediscono ad alcun criterio riconoscibile come oggettivo. Non ci sono più i fatti, né i metodi, né le certezze, ma solo interpretazioni. Al grande racconto del Novecento si sono sostituite una pluralità di narrazioni, e le grandi passioni e i valori universali sembrano ormai fare parte del passato. E questa frammentarietà della politica fa sentire i suoi riflessi non solo sulla grande storia (le epoche), ma anche sulla storia piccola, quotidiana, quella che ha a che fare con quotidianità di ciascuno e con la percezione che ognuno acquisisce della propria identità personale, attraverso le esperienze più o meno significative della propria vita. Persino nelle storie personali si riflette, infatti, l’idea che la politica non sia più orientata, che abbia perso il senso in rapporto a una missione da compiere, a un progetto da portare avanti, impossibilitata a organizzare il passato e il futuro in un’esperienza coerente. E’ proprio l’assunzione del presente come unico orizzonte storico, e dunque la scomparsa del futuro, che esclude politiche di emancipazione e di liberazione, perché il programmare, il progettare grandi mete, non si addice a un pensiero debole come quello attuale. L’avvenire resta interrogativo senza tentativi di risposte per una politica timorosa di inoltrarsi in un futuro che non ha più la forma di una meta da raggiungere o di un criterio cui uniformare le condotte. La stessa importanza del passato cambia di segno. Non si tratta di dimenticarlo attraverso un azzeramento delle esperienze e delle verità storiche, ma di liberarsi da un’idea della storia come di un corso omogeneo e necessario che ci avrebbe sospinto fin qui e che, con lo stesso impeto ci porta verso il futuro. Al modello di ragione universale e forte del Novecento si contrappone ormai una costellazione di razionalità parziali e di nuovi linguaggi che fanno irruzione nella vita sociale. Foucault l’ha chiamata “morte dell’uomo”, altri si sono limitati a parlare di fine della ragione, per l’individuo decentrato dal proprio passato e dal proprio futuro, cosciente del “non senso” del vivere in un mondo di dissolvenze dal quale, però, sembra travolto. Persino l’elogio del “governo del popolo” suona ormai stanco e rituale, nel momento in cui si spegne la passione di una scelta che ormai troppo spesso appare solo quella del male minore, tra alternative dai profili incerti, che spesso tendono a confondersi e confondere. La democrazia, che, come insieme equilibrato di poteri e contropoteri, ha i suoi fondamenti nella partecipazione popolare e nella classe politica, si è trasformata inevitabilmente in un’iperdemocrazia, basata esclusivamente sul voto e sull’opinione pubblica. Il risultato è la rarefazione della partecipazione politica, ridotta a scelte sempre più connotate da opposizioni schematiche tra avversari e da una nuova visione surrogata secondo la quale la democrazia politica consisterebbe, ben più che nella rappresentanza della pluralità degli interessi sociali e nella loro mediazione parlamentare, nella scelta elettorale di una maggioranza di governo e con essa del capo della maggioranza. Chi conta è solo il capo della coalizione vincente, identificato ormai nel senso comune, con l’espressione diretta ed organica della volontà popolare, concepita a sua volta come la sola fonte di legittimazione dei pubblici poteri. È così che, nel pensiero corrente, la scelta della maggioranza e del suo capo è concepita come un fattore di valorizzazione e di rafforzamento della rappresentanza politica, tanto da far parlare, addirittura, come della forma di democrazia più diretta, più decidente e più partecipativa. Ne è risultata invece una deformazione in senso plebiscitario della democrazia rappresentativa che ha progressivamente svalutato i limiti e i vincoli imposti dalla Costituzione ai poteri della maggioranza riproducendo, in termini parademocratici, una tentazione pericolosa, che è all’origine di tutte le demagogie populiste e autoritarie: l’idea del governo degli uomini o, peggio, di un uomo. Ma un organo monocratico non può rappresentare la volontà del popolo intero e la sua assunzione ideologica serve a mascherare il contrasto d’interessi, effettivo e radicale, che si esprime nella realtà dei partiti politici e nella realtà, ancor più importante, del conflitto di classe che vi sta dietro. Per questo, come scrive Hans Kelsen, l’idea di democrazia implica assenza di capi. E nel farlo ricorda le parole che Platone, nella sua Repubblica, fa dire a Socrate, in risposta alla domanda su come dovrebbe essere trattato, nello Stato ideale, un uomo dotato di qualità superiori: “Noi l’onoreremmo come un essere degno d’adorazione, meraviglioso ed amabile; ma dopo avergli fatto notare che non c’è uomo di tal genere nel nostro Stato, e che non deve esserci, untogli il capo ed incoronatolo, lo scorteremmo fino alla frontiera”. Eppure solo la politica può offrire la soluzione per uscire dalla crisi. Per farlo deve abbandonare l’idea che la soluzione passi attraverso “un governo forte di un uomo forte”, trovando invece riserve di senso, di speranza, d’impegno dentro di sé, nelle comunità, nei movimenti religiosi, nelle minoranze attive, nelle università, nel mondo delle aziende, nel confronto tra generazioni. Riscoprendo che la buona politica ha bisogno dei partiti. Da attori principali della democrazia rappresentativa, i partiti si sono progressivamente avvicinati alle istituzioni e allontanati dalla società civile, riducendo la loro capacità di ascolto e la funzione di promotori d’identità collettive in grado di incanalare all’interno delle istituzioni le crescenti domande sociali. Ora bisogna invertire la direzione e i partiti devono ripensarsi e trovare le giuste modalità per portare a sintesi una comunità complessa, canalizzando le sue pulsioni, positive e negative, in percorsi che producano partecipazione, condivisione e consenso.

“Così America ed Europa dicono addio alle fabbriche”, di Enrico Moretti

La cartina economica del mondo sta cambiando rapidamente e radicalmente. Nuovi centri di propulsione economica stanno soppiantando i vecchi. Città che fino a qualche decennio fa non erano che minuscoli punti a stento percepibili sulle cartine si sono trasformate in floride megalopoli con migliaia di nuove aziende e milioni di nuovi posti di lavoro.

In nessun luogo al mondo tale fenomeno è più evidente che nella cinese Shenzhen. Se non l’avete mai sentita nominare, prendetene nota. È uno dei centri urbani con il più rapido ritmo di crescita a livello mondiale.
In trent’anni si è trasformata da piccolo villaggio di pescatori a immane metropoli di oltre 15 milioni di persone. Shenzhen ha visto crescere la propria popolazione di 300 volte; e in questo processo è diventata una delle capitali dell’industria manifatturiera del pianeta.

Il suo destino fu deciso nel 1979, quando le autorità cinesi si risolsero a farne la prima «Zona Economica Speciale» del Paese. In breve tempo le aree di questo tipo cominciarono a calamitare investimenti esteri. Il flusso degli investimenti fece sorgere migliaia di nuove fabbriche che producono una parte sempre crescente dei beni di consumo dei paesi ricchi. Una porzione consistente dell’industria manifatturiera americana si è trasferita in quelle fabbriche. Mentre Detroit e Cleveland perdevano posti di lavoro e si avviavano al declino, Shenzhen prendeva quota. Oggi è disseminata di grandi stabilimenti produttivi. È al primo posto tra i centri della Cina per volume di esportazioni e vanta uno dei porti più trafficati del mondo, pieno di gru enormi, camion imponenti e container di tutti i colori, che vengono trasferiti su navi da carico pronte a salpare per la costa occidentale degli Stati Uniti o per l’Europa. Ogni anno lasciano il porto venticinque milioni di container: quasi uno al secondo. In poche settimane la merce arriva a Los Angeles, Rotterdam o Genova e viene immediatamente caricata su un camion diretto verso un centro di distribuzione Walmart, un magazzino Ikea o un Apple store.

Shenzhen è il luogo dove vengono assemblati l’iPhone e l’Ipad, esempi iconici della globalizzazione. La Apple è nota per dedicare grande attenzione e risorse alla progettazione e al design. Nel caso dell’iPhone e dell’iPad, la Apple ha dedicato la stessa attenzione alla progettazione e all’ottimizzazione della catena di produzione globale. Capire come e dove si svolge la produzione di celebri smartphone e tablet è importante per capire come la nuova economia globale stia ridisegnando la localizzazione dei posti di lavoro e quali siano le sfide del futuro per i lavoratori dei Paesi occidentali.

L’iPhone e iPad sono stati concepiti e progettati dagli ingegneri della Apple a Cupertino, in California. Questa è l’unica fase del processo di produzione realizzata negli Stati Uniti. Vi rientrano il design del prodotto, lo sviluppo di software e hardware, la gestione commerciale, il marketing e altre funzioni ad alto valore aggiunto. In questo stadio i costi del lavoro non rappresentano il fattore principale. Gli elementi chiave sono piuttosto la creatività e l’inventiva degli ingeneri e dei designer. I componenti elettronici dell’iPhone – sofisticati, ma non innovativi quanto il design – sono fabbricati in gran parte a Singapore e Taiwan. L’ultima fase della produzione è quella a più elevata intensità di manodopera, con gli operai che assemblano a mano le centinaia di componenti che costituiscono il telefono e lo predispongono per la distribuzione. Questo stadio, in cui il fattore essenziale è il costo del lavoro, si svolge nella periferia di Shenzhen. Lo stabilimento è uno dei più grandi al mondo e le sue dimensioni sono già in sé qualcosa di straordinario: con 400.000 dipendenti, supermercati, dormitori, campi da pallavolo e persino sale cinematografiche, più che una fabbrica sembra una città. Se comprate un iPhone online, vi viene spedito direttamente da Shenzhen. E quando raggiunge il consumatore americano il prodotto finale è stato toccato da un solo lavoratore americano: l’addetto alle consegne dell’Ups. È naturale, quindi, domandarsi che cosa resterà ai lavoratori americani (e per estensione, europei) nei prossimi decenni. L’America e l’Europa stanno entrando in una fase di irreversibile declino? La risposta, almeno per l’America, è ottimistica. Per l’Europa, un po’ meno. Nel XX secolo, la ricchezza di un Paese era in gran parte determinata dalla forza del suo settore manifatturiero. Oggi questo sta cambiano. In tutti i Paesi occidentali, l’occupazione nell’industria manifatturiera sta calando ormai da trent’anni. Come si vede dalla figura, questo trend accomuna un po’ tutte le società avanzate, dagli Stati Uniti al Giappone, dalla Gran Bretagna all’Italia e persino la Germania. Oggi l’impiego nell’industria rappresenta più l’eccezione che la regola: in America, meno di un lavoratore su dieci lavora in fabbrica. E’ molto più probabile che un americano lavori in un ristorante che in una fabbrica. Dal 1985 negli Stati Uniti l’industria manifatturiera ha perso in media 372.000 posti di lavoro all’anno.

Questo declino non è solo l’effetto di fenomeni a breve termine, come le recessioni: l’industria perde posti di lavoro anche durante le fasi di espansione. Le ragioni sono due forze economiche profonde: progresso tecnologico e globalizzazione. Grazie agli investimenti in sofisticati macchinari di nuova concezione, le fabbriche occidentali sono molto più efficienti che in passato e per produrre la stessa quantità di beni impiegano sempre meno manodopera. Oggi, in media, l’operaio americano fabbrica ogni anno beni per 180.000 dollari, oltre il triplo che nel 1978. Per l’economia in generale l’accresciuta produttività è un’ottima cosa, ma per le tute blu ha conseguenze negative. Pensiamo, per esempio, alla General Motors. Negli Anni 50, gli anni d’oro di Detroit, ogni operaio dell’azienda produceva una media di sette auto l’anno. Oggi ne produce 29 all’anno. Il calcolo dei posti di lavoro persi è molto semplice: per fabbricare ogni auto oggi la General Motors impiega un numero di operai quattro volte inferiore a quello del 1950. Gli operai dell’industria producono più che in passato, e di conseguenza guadagnano stipendi più alti, ma sono numericamente ridotti.

La seconda forza che sta decimando l’occupazione manifatturiera dei paesi occidentali è la globalizzazione. Le produzioni più tradizionali sono state le prime a essere delocalizzate. L’industria tessile è l’esempio più ovvio. Provate a guardare dove sono fabbricati gli abiti che indossate. Se si tratta di capi venduti da una ditta occidentale, probabilmente sono stati prodotti da qualche terzista ubicato in Paesi come il Vietnam o il Bangladesh. I brand americani e europei godono di ottima salute, ma solo una manciata di posti di lavoro – nel design, nel marketing e nella distribuzione – sono rimasti negli Stati Uniti e in Europa.

Altre parti della manifattura tradizionale hanno esattamente le stesse dinamiche. Persino la produzione di componenti elettroniche, computer e semiconduttori non è immune da questi trend. Oggi, in America, lavorano nelle fabbriche di computer meno addetti che nel 1975, quando il personal computer non era ancora stato introdotto.

La ragione è che ormai fabbricare computer non è più particolarmente innovativo. L’hardware è diventata un’industria matura, quasi quanto il tessile. L’assemblaggio e la fabbricazione di molti componenti è stata trasferita in Cina o Taiwan. Il primo lotto di duecento computer Apple I fu assemblato nel 1976 da Steve Jobs e Steve Wozniak nel leggendario garage di Los Altos, nel cuore di Silicon Valley. Negli Anni 80 la Apple fabbricava la maggior parte dei suoi Mac in uno stabilimento situato poco lontano, a Fremont. Ma nel 1992 l’impianto fu chiuso e la produzione spostata, prima in aree più economiche della California orientale e del Colorado, poi in Irlanda e a Singapore. Oggi a Shenzen. È lo schema seguito da tutte le altre imprese americane. Tutti conosciamo Apple, Ibm, Dell, Sony, Hp e Toshiba. Quasi nessuno ha mai sentito parlare di Quanta, Compal, Inventec, Wistron, Asustek. Eppure il 90% dei computer portatili e dei notebook venduti con quei marchi famosi è in realtà fabbricato negli impianti di una di queste cinque aziende, a Shenzhen.

Anche se tutte le società occidentali sono accomunate dalla contrazione strutturale del settore manifatturiero, non tutte hanno saputo reagire in maniera soddisfacente a questo declino. In questo quadro, l’economia Americana è posizionata molto meglio di molto altri paesi occidentali. A differenza della maggior parte dei Paesi Europei, e dell’Italia in particolare, negli ultimi cinquant’anni, gli Stati Uniti si sono reinventati, passando da un’economia fondata sulla produzione di beni materiali a un’economia basata su innovazione e conoscenza. L’occupazione nel settore dell’innovazione è cresciuta a ritmi travolgenti. L’ingrediente chiave di questo settore è il capitale umano, e dunque istruzione, creatività e inventiva. Il fattore produttivo essenziale sono insomma le persone: sono loro a sfornare nuove idee. Le due forze che hanno decimato le industrie manifatturiere tradizionali – la globalizzazione e il progresso tecnologico – stanno ora determinando l’espansione dei posti di lavoro nel campo dell’innovazione.

La globalizzazione e il progresso tecnologico hanno trasformato molti beni materiali in prodotti a buon mercato, ma hanno anche innalzato il ritorno economico del capitale umano e dell’innovazione. Per la prima volta nella storia, il fattore economico più prezioso non è il capitale fisico, o qualche materia prima, ma la creatività.

Non sorprende perciò che la parte più importante di valore aggiunto dei nuovi prodotti sia appannaggio degli innovatori. L’iPhone consta di 634 componenti. Anche se vi lavorano in centinaia di migliaia, il valore aggiunto generato a Shenzhen è molto basso, perché l’assemblaggio potrebbe essere effettuato in qualsiasi parte del mondo. La forte competizione globale limita anche il valore aggiunto dei componenti, comprese le parti elettroniche più sofisticate, come la flash memory o il retina display. La maggior parte del valore aggiunto dell’iPhone viene dall’originalità dell’idea, dalla formidabile progettazione ingegneristica e dall’elegante design. Quindi non deve stupire che, pur non producendo nessuna parte materiale del telefono, la Apple guadagni 321 dollari per ogni iPhone venduto, il 65% del totale, ben più che qualsiasi fornitore di componenti coinvolto nella fabbricazione fisica dell’apparecchio. Ciò è di notevole importanza non solo per i margini di profitto della Apple, ma soprattutto perché si traduce nella creazione di buoni posti di lavoro in America.

Oggi è questa la parte dell’economia che crea valore aggiunto. Una parte dei 321 dollari incassati dalla Apple finisce nelle tasche degli azionisti della società, ma una parte va ai dipendenti di Cupertino. E l’alta redditività incentiva l’azienda a proseguire sulla via dell’innovazione e a reclutare nuovo personale. Studi economici recenti mostrano che più un’impresa è innovativa, più alti sono i salari offerti ai dipendenti.

Il settore dell’innovazione comprende l’advanced manufacturing, o industria avanzata (come quella che progetta gli iPhone o gli iPad), software e servizi Internet, le biotecnologia, l’hi-tech del settore medico, la robotica, la scienza dei nuovi materiali e le nanotecnologie. Ma l’ambito dell’innovazione non è circoscritto all’alta tecnologia. Vi rientra qualsiasi occupazione capace di creare nuove idee e nuovi prodotti. Ci sono innovatori nel settore dell’intrattenimento, in quello dell’ambiente e persino nella finanza e nel marketing. L’elemento che li accomuna è la capacità di creare prodotti nuovi che non possono essere facilmente replicati. Tendiamo a concepire l’innovazione in termini di beni materiali, ma può anche trattarsi di servizi, per esempio di nuovi modi per raggiungere i consumatori o per impiegare il nostro tempo libero.

Nei prossimi decenni la competizione globale sarà incentrata sulla capacità di attrarre capitale umano e imprese innovative. Il numero e la forza degli hub dell’innovazione di un Paese ne decreteranno la fortuna o il declino. I luoghi in cui si fabbricano fisicamente le cose seguiteranno a perdere importanza, mentre le città popolate da lavoratori interconnessi e creativi diventeranno le nuove fabbriche del futuro. Nel prossimo articolo vedremo come l’Italia si posiziona in questo quadro globale sempre più competitivo.

La Stampa 05.08.13

“La paura di andare a votare”, di Ilvo Diamanti

Sono tempi convulsi. Non lasciano tempo per progettare, né il tempo per immaginare. Quel che accadrà nei prossimi mesi. Domani. Che succederà domani? Il governo guidato da Enrico Letta pare appeso a un filo. La condanna in via definitiva di Silvio Berlusconi per frode fiscale, in Cassazione, sembra aver compromesso l’equilibrio instabile su cui si reggeva la strana e larga maggioranza di governo. Il Pdl, in particolare, ha lanciato polemiche roventi per ottenere giustizia politica contro la magistratura nemica. Perché Berlusconi venga “graziato” dal presidente. Perfino Sandro Bondi, persona normalmente mite, ha agitato il fantasma della “guerra civile”. Mentre altri colleghi di partito hanno usato, al proposito, un linguaggio molto più esplicito e diretto. Intanto, ieri sera, davanti a Palazzo Grazioli, un Popolo è sceso in piazza per la Libertà. Di Silvio Berlusconi. Il quale, rispondendo all’appello dei fedeli, ha rivendicato la propria innocenza. E ha ribadito la volontà di “non mollare”. Di non piegarsi al potere illiberale dei giudici di sinistra. Dei giudici e della sinistra. Berlusconi, nella campagna elettorale permanente, di questi tempi convulsi, ha identificato il Nemico. I magistrati, che non sono un’istituzione, ma impiegati dello Stato. Che pretendono di rovesciare i poteri democraticamente eletti dal popolo.
Eppure, nonostante i toni violenti, contro le istituzioni dello Stato, Berlusconi, ieri, ha ribadito il sostegno del suo partito al governo. D’altronde, sa bene che il presidente Napolitano (peraltro, criticato esplicitamente da Berlusconi) non permetterebbe la conclusione dell’esecutivo guidato da Letta e, soprattutto, la fine della legislatura anticipata. (Lo ha chiarito bene Eugenio Scalfari nell’editoriale di ieri.) Almeno, prima che venga approvata una nuova legge elettorale. Ma a Berlusconi e il Pdl non conviene aprire la crisi di governo perché “fuori dalla maggioranza”, per loro, sarebbe molto peggio. Rischierebbero di finire isolati. Di “subire” leggi (elettorali e non solo) sgradite e svantaggiose.
E poi, perché mai il Pdl dovrebbe volere nuove elezioni proprio oggi, che non potrebbe candidare Berlusconi? E, senza Berlusconi, il Pdl semplicemente “non è”. Non esiste. Lo si è visto l’anno scorso, quando sembrava che il Cavaliere non si candidasse alla guida del partito e della coalizione. Allora, nei sondaggi, il Pdl era sceso intorno al 15%. Il ritorno in campo del Cavaliere ne ha determinato la rapida risalita. Per quanto relativa e limitata, visto che, a febbraio, il Pdl si è fermato al di sotto del 22%: circa 15 punti e oltre 6 milioni in meno, rispetto a cinque anni prima. Come potrebbe presentarsi al voto senza il suo Signore e Padrone? In condizioni più precarie del passato? Certo, Berlusconi potrebbe giocare la carta del perseguitato in patria. (Come ha già fatto ieri.) Trasformare il voto in un referendum per la (propria) libertà. Ma rischierebbe di essere poco convincente. Difficile, per lui, proporsi come una nuova versione di Silvio Pellico. Paragonare Villa Grazioli o Arcore alla Fortezza dello Spielberg: sarebbe troppo, anche per un mago della propaganda, come lui. Ma, soprattutto, andrebbe contro il clima d’opinione. Infatti, come ha rilevato Nando Pagnoncelli in un commento scritto per l’Agenzia InPiù, «l’80% degli italiani ritiene che il Pdl dovrebbe continuare a sostenere il governo Letta». Un’opinione condivisa da sette elettori su dieci nel Pdl. I quali, dunque, lo considerano senza alternative. Necessario, per non affondare in una crisi economica e sociale ancor più drammatica. Come potrebbero, Berlusconi e i leader del Pdl, spiegare agli elettori, anche ai propri, che gli interessi del Cavaliere vengono prima di quelli degli italiani? Che la “libertà” di Berlusconi e le questioni della giustizia siano prioritarie rispetto alle riforme dell’economia, del fisco, del lavoro? Di fronte alla necessità di rappresentare il Paese in ambito europeo e internazionale?
Per questo è difficile pensare che il Pdl e, per primo, Berlusconi vogliano davvero porre fine all’esperienza di governo per aprire una nuova stagione elettorale. Che potrebbe indebolirne ulteriormente non solo il peso elettorale, ma anche quello politico. oltre alla credibilità. È più probabile, piuttosto, che il Cavaliere, con i suoi interventi e le manifestazioni del suo Popolo, intenda modificare l’opinione pubblica. Trasformare una vicenda giudiziaria in una questione politica. Fra Berlusconi e i magistrati. Eterni duellanti. È probabile, inoltre, che le azioni del Pdl siano finalizzate a ottenere qualche via d’uscita, qualche salvacondotto, per il leader. Ma è, comunque, certo che le mobilitazioni di questi giorni servano, comunque, a favorire il ritorno al nuovo (?) soggetto politico. Forza Italia 20 (anni dopo). E, forse, a preparare una successione alla leadership per via dinastica. Di padre in figlia. Come avviene nei partiti carismatici e personali.
L’impressione, peraltro, è che anche il Pd, il principale “avversario” politico del Pdl, viva questa vicenda con qualche disagio. E disorientamento. “Costretto” a un’alleanza sempre più contro natura. Perché, in primo luogo, i suoi elettori (oltre l’80%), più ancora di quelli di Berlusconi e di FI, ritengono il governo Letta “necessario”, in questa fase e nel prossimo futuro. Poi, perché attraversa anch’esso una transizione complicata. Le primarie: annunciate per fine novembre. I dubbi e le tensioni in merito alla segreteria del partito e alla premiership. Tra Renzi, Letta – e altri. Infine, anche il Pd appare in difficoltà nel concepire il proprio futuro “senza Berlusconi”. Perché il Cavaliere è il chiodo a cui sono appesi tutti i principali attori della Seconda Repubblica. Nel bene e nel male. Pro o contro. Ha condizionato le scelte e i comportamenti, ma anche i modelli organizzativi dei soggetti politici degli ultimi vent’anni. Ora che questo chiodo si è quasi staccato e, comunque, scricchiola, tutti – amici e nemici di Berlusconi – faticano ad attaccarsi altrove. Oppure a costruire e a offrire un appiglio diverso.
Per questo nessuno mette in discussione il governo Letta, nella maggioranza. Per questo, però, il governo appare sempre più fragile. In quanto è difficile che si possa reggere su partiti deboli, incoerenti, uniti per necessità e per paura.
Anche se l’idea di nuove elezioni, a breve termine, è difficile da accettare. Perché affrontare una campagna elettorale impostata da e su Berlusconi, ma senza Berlusconi: è un altro salto nel voto…

La Repubblica 05.08.13

«Le priorità sono cultura e trasparenza due valori per ridare ossigeno al Paese», di Luca Del Fra

Cento giorni al Collegio Romano: dal 28 aprile scorso quando ha giurato nel- le mani del Capo dello Stato come Ministro per i Beni e le Attività Culturali, Massimo Bray si è trovato a dirigere uno dei dicasteri più difficili del nostro paese. Sul suo tavolo giacevano 40 mila bollette da pagare di musei, archivi, biblioteche, depositi. Pochissimi fondi per emergenze, zero pianificazione, personale ridotto all’osso. Nervi saldi e toni calmi, Bray si è messo al lavoro. Cosa è successo da allora?
«Fin dal primo giorno il governo ha messo al centro delle sue attività la cultura, quando il presidente del Consiglio Enrico Letta ha detto con chiarezza che in questo settore non ci sarebbero stati tagli. Erano parole importanti, poiché mi sono trovato di fronte ai segni di un Paese che all’apparenza non sembrava più credere nel valore della cultura».
Eppure una sensibilità per la cultura in Italia c’è sempre stata: sabato sera, mal- grado le contestazioni, si è inaugurata l’area pedonale dei Fori a Roma. «Roma è uno dei luoghi simbolo della cultura, da rendere al meglio fruibile: assieme alla amministrazione cittadina a giorni faremo delle scelte importanti, ma già da questo esempio si capisce l’esistenza di una sensibilità molto forte. L’ho avvertita da parte dei cittadini che, anche attraverso i social network, ci hanno segnalato emergenze e inviato suggerimenti sulle priorità, con un continuo invito a essere presenti. Forti anche di questo siamo arrivati al decreto Valore Cultura».
Prima di analizzarne alcuni aspetti, qual è il senso strategico di questo provvedimento?
«Il governo, quindi tutto il Consiglio dei Ministri, hanno reso concreta la scelta di mettere al centro della loro azione la cultura, per dimostrare un differente modo di essere in un Paese che vuole tornare a crescere, vuole dare occupazione, affidando alla cultura e al turismo delle leve importanti del cambiamento».
L’articolo 1 del decreto è dedicato a Pompei, perché?
«Perché il mezzogiorno deve essere simbolo della rinascita. Questo richiedeva una svolta per riuscire a dare risposte rapide».
Si ha l’impressione che finora nel progetto su Pompei con i fondi dell’Unione Europea ci sia stato un problema di trasparenza: cosa succederà con questo decreto?
«La trasparenza mi auguro debba essere una delle linee portanti di tutto il mio lavoro. A Pompei abbiamo creato un comitato per la trasparenza coordinato dal prefetto, e andremo avanti sempre con maggiore convinzione per portare a compimento entro il 2015 i bandi che godono dei finanziamenti europei. È una risposta chiara all’Europa e a coloro che ci chiedono azioni forti per Pompei».
Con il decreto per Pompei si torna a una diarchia tra una soprintendenza speciale e un direttore generale?
«Non sarà una diarchia: quello che ci chiedono i cittadini, anche per Pompei, è di tornare a collaborare, a fare sistema, interrompendo il lungo periodo in cui ci siamo contrapposti gli uni agli altri, spesso per interessi particolari. Pompei può essere per l’Italia il luogo dove mostrare la capacità di centrare l’obiettivo di tutelare un bene considerato patrimonio dell’umanità».
In «Valore Cultura» si punta sulla trasparenza, ma per ora solo le organizzazioni di spettacolo sono obbligate a pubblica- re i guadagni dei loro dirigenti: perché gli altri no?
«Si è iniziato dalle istituzioni di spettacolo. Per le altre, dove si possono presentare problemi, è mia intenzione dare un indirizzo e sono convinto che ci arriveremo. Ma la trasparenza è una scelta di fondo per mettere in moto un ciclo virtuoso».
Nel decreto l’articolo con più comma è dedicato alle Fondazioni lirico-sinfoni- che (Fls): c’è stata maretta?
«Non c’è stata contrapposizione, ma è certo l’articolo su cui abbiamo lavorato di più, perché la situazione delle Fls era di forte squilibrio economico. Abbiamo trovato le risorse per impedire la chiusura di una parte di questi teatri che conservano una delle grandi tradizioni culturali italiane. Ma abbiamo anche tracciato alcune linee su come dovranno essere governati in futuro i grandi teatri lirici, per una riforma che sarà fatta in parlamento, con le com- missioni cultura e gli enti locali. Dunque un lavoro non semplice».
Il debito delle Fls è di 330 milioni, ne avete trovati 75, come saranno utilizzati? «In parte, come ci impongono le regole europee sarà un prestito, che verrà concesso a rotazione, in parte si tratterà di fondi a disposizione del Ministero per le situazioni di emergenza».
Il Maggio Musicale si potrà salvare?
«Sì, come altri teatri, ma i criteri per accedere a questi finanziamenti sono molto rigorosi, con l’impegno a rispettare i conti, la rinuncia ai contratti integrativi da parte dei lavoratori, e una mobilità degli amministrativi in esubero verso il ministero».
Anche i musicisti delle orchestre mi pare abbiano dato la loro disponibilità.
«Riguardo alle Fls vorrei sfatare alcuni luoghi comuni, tipo l’idea che la cultura sia troppo costosa. Alcune cose andavano riviste e lo abbiamo fatto con tutte le rappresentanze, dagli enti locali alle parti sociali, perché ogni volta che c’è un problema economico credo sia troppo facile risolverlo mettendo per strada i lavoratori».
Il ministero rientra in possesso degli introiti dei biglietti dei musei e siti culturali che gli erano stati abilmente sottratti nel 2008: come li utilizzerete?
«Quei soldi devono rientrare in possesso del Mibac per fare programmazione, per puntare sull’innovazione e far fronte in tempi rapidi alle emergenze. Provengo da Sibari, uno dei siti archeologici più belli del mondo, dove si è fatto fatica a trovare i fondi quando c’è stata un’esondazione. Non deve più succedere».
Uno dei tratti fondamentali del decreto sembra essere lo sforzo di portare la cultura fuori dalle misure più draconiane della spending review: è un modo per sancire la specificità della cultura e la sua situazione di emergenza?
«Ha letto bene lo sforzo, che non è solo mio, ma anche di Enrico Letta e del ministro dell’Economia e delle Finanze Fabrizio Saccomanni, che in questi giorni era stato terrorizzato dalle continue visite del Ministro della cultura, ma ha dimostrato grande sensibilità per esempio con il tax-credit sul cinema. Significa un incentivo anche alle industrie straniere a investire in Italia. E tengo molto anche al pur piccolo tax-credit che, probabilmente per la prima volta per il nostro paese, è dato alla musica: negli ultimi anni è stata un terreno molto fertile, ma di cui credo non ci si sia accorti».
Il decreto crea delle soluzioni a molte urgenze: con la prossima finanziaria il governo ha intenzione di riportare la cultura dall’emergenza alla normalità? «Spero davvero che nella prossima legge di stabilità si possa tornare a investire in questo settore».
Alla campagna de L’Unità per «Rai Teatro» avete risposto positivamente: ora che succederà?
«A settembre ci sarà il tavolo per riportare il teatro in televisione. I direttori Rai Gubitosi e Sinibaldi mi hanno fatto vedere i loro piani, ma soprattutto è importante che Mibac e Rai collaborino sul teatro e la cultura».

L’Unità 05.08.13

“Dai permessi alle pensioni ecco il welfare fai-da-te delle nuove coppie gay”, di Vera Schiavazzi

«Nessuno deve sentirsi escluso. Siamo partiti con la lotta alle discriminazioni di genere, poi ci siamo occupati di quella alle discriminazioni verso i dipendenti Glbt, tra poco sarà la volta di etnia e età». Lars Petersson, amministratore delegato di Ikea in Italia, è fiero del clima politicamente corretto che si respira nella sua azienda. E assicura che le norme in favore dei dipendenti Glbt che hanno fatto vincere agli store italiani di arredi il primo premio istituito da Parks non hanno nulla a che fare col marketing: «Vogliamo che tutti i dipendenti si sentano egualmente a loro agio. Proprio come i nostri mobili che sono per tutti». Si chiama diversity management, e un numero sempre crescente di aziende italiane lo sta adottando in uffici, negozi, fabbriche. Per aiutarle è nata una fondazione intitolata a Rosa Parks (la dirige Ivan Scalfarotto) che ha interpellato le 50 principali società italiane per conoscere atti e opinioni in merito e alla fine della ricerca ha premiato proprio Ikea e una banca, la State Street (ex Intesa Sanpaolo).
Ma il fenomeno è molto più vasto, e non mancano gli esempi di welfare “fatto in casa” in favore dei dipendenti gay, come l’azienda di Rogoredo (Milano) che ha deciso di riconoscere una settimana di ferie pagate a chi si iscrive al registro delle unioni civili o quella di call center a La Spezia che riconosce il congedo matrimoniale a chi va a sposarsi all’estero. Un filo rosso unisce tutti i casi: la convinzione che il pieno riconoscimento dei diritti dei dipendenti faccia fiorire il business, e magari provochi anche un positivo ritorno di immagine. Il tutto a proprie spese. «Non vogliamo entrare nel merito degli aspetti etici — spiega Umberto Costamagna, presidente di Call & Call — a noi interessa semplicemente la parità di trattamento, che è un dovere riconoscere a tutti». Ancora una volta, sul fronte dei diritti civili il paese reale sembra essere un po’ più avanti delle leggi. Come prova a spiegare Dario Longo, uno dei sette soci-avvocati di Linklaters in Italia: «La vita familiare delle persone Glbt è spesso invisibile sul luogo di lavoro, con ripercussioni che possono essere negative in termini di carriera. Supponiamo che un capo debba scegliere tra due candidati per una promozione: di uno conosce il coniuge e i figli, incontra la famiglia alle feste aziendali e vede le foto delle vacanze. Dell’altro, ugualmente bravo e qualificato, non sa nulla al di fuori dell’ufficio. A noi è capitato di valutare il robusto curriculum di un aspirante collaboratore che stava cambiando sesso. Ci siamo resi conto di non essere ancora del tutto pronti, ma l’abbiamo assunto ed è stata un’ottima idea». Per Riccardo Lamanna, ceo di State Street in Italia, il cammino è appena iniziato: «Siamo stati premiati per le azioni intraprese, anche grazie alle nostre radici americane. Per il momento, siamo riusciti soprattutto a promuovere la comunicazione interna, organizzando incontri dedicati a famiglie e diritti aperti a tutti. Dietro l’angolo c’è l’estensione concreta di congedi e assicurazioni. Ma intanto ci stiamo confrontando col fatto che è difficile far emergere ciò che non si vede».
Più di tutto, possono gli esempi concreti, come quello di Andrea e Leonardo, che hanno messo su casa e si sono registrati al Comune di Milano. Confetti personalizzati e oltre cento invitati, mentre la Zeta Service, dove lavora Andrea, decideva di equiparare in tutto e per tutto la loro unione a un matrimonio civile, vacanze comprese. «Quando l’ho saputo — racconta lui — mi sono sentito tutelato in tutto e per tutto, come dovrebbe essere sempre. E per la gioia mi sono messo a piangere ».

La Repubblica 05.08.13

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“E ora la legge contro l’omofobia, una conquista di civiltà”, di MARIA ELENA VINCENZI

È prevista oggi alla Camera la discussione generale sul disegno di legge che equiparerebbe il contrasto all’omofobia e alla transfobia a quello per l’odio razziale o religioso. Ma c’è una parte del Pd (e non solo) che ha paura che, come già successo nella scorsa legislatura, l’estensione della legge Mancino salti anche questa volta. «È una norma che permetterebbe all’Italia di fare un passo avanti su un tema che, ovunque in Europa, ha smesso di suscitare polemiche». Michela Marzano, filosofa e deputata del Pd, è stata una delle promotrici del disegno di legge. E oggi sarà in aula a votare sì.
Onorevole, l’iter finora sembra essere filato liscio, cosa dovrebbe cambiare?
«Innanzitutto il testo arriva in aula incompleto, manca tutta la parte delle aggravanti per omofobia e transfobia che noi proporremo come emendamento, ma non so se avrà l’ok dell’aula. Senza, sarebbe solo una legge vuota e anche io voterei no».
Questi gli ostacoli pratici. Ma quanto c’è di ideologico in chi rifiuta queste modifiche?
«Ci sono motivazioni assolutamente fuorvianti che sembravano essersi finalmente sopite, ma che si sono riaccese alla vigilia della discussione. La prima obiezione riguarda il timore che la legge crei un reato di opinione tale da impedire di dire la propria sull’omosessualità. Non è così: quello che si vuole vietare è l’hate
speech, per dirla all’americana, ovvero l’istigazione alla violenza contro trans e gay, ma tutti resterebbero liberi di esprimere il proprio parere civilmente. Si vuole far passare l’idea che se la norma venisse approvata sarebbe vietato dirsi contrari ai matrimoni gay. Non è così. Le opinioni sono libere. Gli insulti violenti, però, non possono esserlo». Poi c’è la questione dell’uguaglianza.
«Alcuni hanno voluto ribaltare l’ottica delle cose e far credere che inasprire le pene per omofobia e transfobia sia una violazione del principio di uguaglianza stabilito dalla Costituzione. Come se tutelare chi oggi è discriminato in base al proprio orientamento sessuale o alla propria identità di genere introducesse altre forme di discriminazione. È un grosso errore: sin dalla sua prima formulazione, con Aristotele, per uguaglianza si è inteso il concetto di dare cose uguali a chi è uguale e cose diverse a chi è diverso.
Non stiamo parlando di identità: siamo tutti diversi e come tali dobbiamo essere protetti».
Onorevole, lei teme che la legge non passi?
«Potrebbe essere. Non bastasse questa ostilità trasversale del mondo cattolico, c’è anche il rischio di una strumentalizzazione politica. Non si vuole che sul tabellone della Camera compaia una maggioranza diversa da quella di governo (una parte del Pd, Sel e forse del M5S sono d’accordo). Se queste motivazioni, insieme o singolarmente, riuscissero a bloccarla di nuovo, ci troveremmo, ancora una volta, davanti a una grande occasione persa. Di civiltà».

La Repubblica 05.08.13

“Miserabilia urbis a destra”, di Vittorio Emiliani

Dalla fascia tricolore ai panni del contestatore. La «notte brava» dell’ex sindaco di Roma, dimostra come in Italia sia la destra ad avere paura delle inversioni di rotta e dei cambiamenti. La Capitale è rimasta indietro. Ci sono molte cose da fare. E si può anche dissentire. Ma con civiltà, una qualità che finora è mancata e continua a mancare all’ex sindaco Alemanno. “Mirabilis urbis” è il titolo di uno dei libri fondamentali scritti su Roma da Antonio Cederna , «inventore» con Leonardo Benevolo e con Italo Insolera, del grande Parco destinato ad estendersi fra aree verdi, siti archeologici e Agro romano dai Fori ai Castelli. «Miserabilia Urbis» è il titolo che dovremmo dare alla bravata da quattro soldi dell’ex sindaco Gianni Alemanno contro la grande festa popolare organizzata dalla nuova Giunta capitolina per l’avvio di una incisiva riduzione (non chiamatela pedonalizzazione) del traffico veicolare in via dei Fori Imperiali escludendo quello privato.
Si può dissentire dall’idea del grandioso Parco al quale diede una prima attuazione l’indimenticato sindaco Luigi Petroselli. Si può dissentire dai modi della sua attuazione. Ma si deve dissentire sempre e comunque con civiltà. Mentre la bravata di Alemanno si iscrive fra le «Miserabilia Urbis».
La nuova disciplina del traffico sulla ex Via dell’Impero con cui Mussolini tranciò a metà i Fori, creando problemi enormi all’intero centro storico, non può restare un episodio isolato. Va prontamente riveduta l’impostazione della Ztl che Alemanno ha ridicolizzato spostando la chiusura dei varchi alle 23 e beffando con ciò i residenti che si vedono da anni invadere strade e marciapiedi dalle 20 alle 23, con tanti saluti ai loro sacrosanti diritti. E pure a quelli dei tassisti che in quelle ore, in tutte le capitali europee, fanno un lavoro utile, a loro e alla città, evitando gli incidenti notturni dovuti ad alcol e droghe.
Le prime misure per l’area dei Fori, la cancellazione di nuovo cemento nell’Agro, nonché del pericoloso bando per la zona del Teatro Marcello cominciano a disegnare una politica nuova per la città e per i beni culturali romani. Altro ci vorrà: a quando un piano tipo-Giubileo 2000 per i parcheggi decentrati dei bus di pellegrini e turisti, e l’uso di treni speciali alla Stazione di San Pietro?
Anche il decreto legge del governo per la cultura riporta quest’ultima al centro dell’interesse e del dibattito politico con misure importanti per i musei, per le produzioni cinematografiche e musicali, per il risanamento delle fondazioni musicali, per l’assunzione di giovani, per le donazioni private, parando invece l’idea insana di privatizzare il patrimonio. È una netta, positiva inversione di tendenza rispetto alla politica dei tagli lineari, alla mortificazione della cultura come valore fondamentale.
Poi ci sono anche qui cose da discutere. Continuo a non capire l’esclusione degli archeologi dal vertice della struttura pensata per Pompei. Lo stesso Diego Della Valle mi parlò benissimo degli archeologi coi quali aveva trattato i problemi tecnici del restauro del Colosseo.
Degli archeologi credo sia pienamente soddisfatto il mecenate di Ercolano, David Packard. Un problema di fondo di Pompei è il pesante contesto camorristico. Non sono certo le competenze degli archeologi.

L’Unità 05.08.13

Quella maschera triste in scena a palazzo Grazioli”, di Concita De Gregorio

Non sono venuti. La prima a salire sul palco per dare un’occhiata portandosi la mano alla fronte come si fa davanti ad orizzonti di folla oceanici è Daniela Santanchè, già candidata alla vicepresidenza della Camera nel governo di larghe intese e miti pretese, oggi qui impegnata a dire che la grazia dal Quirinale deve arrivare e che lei di Napolitano non ha paura, «è un uomo come noi», che lei è pronta a fare la rivoluzione a marciare sul Colle. Già questo dettaglio indice di quanto la “manifestazione spontanea” possa impensierire il presidente del Consiglio Enrico Letta, a Napolitano caro come un figlio, circa le sorti di un governo di cui il pregiudicato Silvio Berlusconi è azionista di riferimento e Santanchè cupa cheerleader. Purtroppo non sono venuti. I 500 pullman attesi, tutto pagato per tutti, devono aver avuto un intoppo che non è solo, come dice Fabrizio Cicchitto col consueto senso delle istituzioni, l’ostinazione di «quel cretino di Marino», sindaco di Roma, a dire che la manifestazione non è stata autorizzata, che nessuno ha chiesto il permesso di bloccare via del Plebiscito e di deviare gli autobus dal centro della
Capitale. DI usare la città come se fosse il suo personale salotto e pazienza per chi da piazza Venezia doveva passare ieri per esempio per andare in ospedale, o a un appuntamento d’amore o a prendere il treno, in fondo è domenica, è agosto e chissenefrega degli altri. “Il Popolo della Libertà per la libertà di Silvio”, dice uno striscione. Il senso della mesta messa in scena è tutto qui: un partito al servizio della personale vicenda privata del suo duce.
Ed è difatti dal Balcone, che ci si aspetta che si affacci. In un gioco di specchi nei balconi di Palazzo Venezia sono invece assiepati oggi i fotografi, il dirimpettaio sul suo terrazzino ha messo su la bandiera tricolore, è un uomo di Stato intende dire, l’una volta missino Gasparri si protende dall’alto del balcone verso i militanti e li incita a cantare. “Meno male che Silvio c’è”, intona qualcuno memore del “Silvio ci manchi” su cui Francesca Pascale, fidanzata dell’ex premier, ha investito fin dai tempi di Telecafone con successo. Arrivano insieme a Palazzo Grazioli, lei col barboncino Dudù, lui impegnato a infilarsi la giacca con un gesto che le foto impietose immortalano insieme alla nudità dell’ampio ventre. Il tempo di cambiarsi, Pascale ha scelto il tubino nero in altri contesti celebre, ed eccoli. Sulle note dell’Inno di Mameli, Fratelli d’Italia. Entrambi in nero, vestiti come a lutto. Lui in maglietta girocollo che ringiovanisce, devono avergli detto. E anche di usare prudenza, devono avergli suggerito dal Colle e da Palazzo Chigi, di fare molta attenzione alle parole giacchè la “guerra civile” evocata dal fidato Bondi ha indispettito non poco il Presidente. Perciò il discorso è lento, e mesto.
Sono le sei e un quarto di pomeriggio quando, in una giornata torrida insolentita dai gesti di scherno di Alessandra Mussolini legittima nipote e dal ribollire dell’asfalto, il Nostro non dal balcone si affaccia ma dal portone, e sale sul palchetto replicato da un paio di schermi. Qualche migliaio di persone sventolano bandiere opportunamente fornite agli angoli della via dall’organizzazione, bandiere di Forza Italia giacchè è da lì, dal suo personale partito e non dal Popolo delle libertà, che il condannato B. intende ripartire. «Sono qui, resto qui, non mollo», dice, e dunque boia chi molla.
Gli autobus che hanno portato i manifestanti — molte coppie di anziani, parecchi giovanotti con occhiali scuri a goccia, una grande maggioranza di signore in età che si ripetono commenti sul suo charme — sono parcheggiati sul Lungotevere, a qualche centinaio di metri. Quelli arrivati dall’Umbria sono alla fermata Anagnina, quelli da Reggio in piazza Venezia dove però purtroppo non possono sostare, sempre per via di “quel cretino” del sindaco, dunque gli autisti stanno in moto girano in tondo. Matteoli e Micchichè raggiungono il retropalco, Franco Carraro è già in prima fila, Anna Maria Bernini e Mara Carfagna arrancano fra i sudati annaffiati da bottigliette d’acqua fornite dal servizio d’ordine. È chiaro che chi è dentro al Palazzo ha maggior rango rispetto a chi è fuori, segnali di dispetto di alcuni esclusi che, platealmente — Carraro fra questi — se ne vanno.
Dal palco, con la maschera del volto atteggiata ad un pianto senza lacrime, Berlusconi deve dire due cose: che il governo vive, questa è la più importante e la prima, la più deludente per quelli che erano arrivati coi cartelli “Basta larghe intese”, “Ora condannateci tutti”. Vive, il governo, perché la libertà dell’ex premier per cui il suo Popolo è venuta a manifestare prevede che ci sia qualcuno che gliela garantisce, e il cinico calcolo dice che solo tenendo in vita questo governo Berlusconi può sperare. Se poi sarà il Pd a volere le elezioni faccia pure, lui per parte sua, sia chiaro, resta. Condannato in ultima istanza, ma resta. Ed è questa la seconda cosa che ha da dire, a proposito della condanna: che lui è innocente. Ovazione, boato. Innocente condannato da giudici comunisti, tristi impiegatucci dello Stato — sventolare di bandiere — che non lo fermeranno, certo che no, perché lui di quel 7 milioni e rotti che doveva allo Stato negli anni in cui di quello stesso Paese era alla guida, mica qualche migliaio di euro di Imu saldati in ravvedimento come la Idem, di quei 7 milioni frodati al fisco ha già ripagato tutto, perciò cosa vogliono da lui.
Si capisce che Enrico Letta sia in apprensione, sì, in specie quando pensa a una campagna elettorale eventuale. E si capisce anche la prudenza di un discorso breve, inconcludente, che lascia perplessa la minoranza di manifestanti venuta da casa senza bus che si aspettava invece — dice la signora Gemma, romana — che “Silvio mandasse tutto a monte, perché Silvio è il numero uno e se si va a votare domani vince lui”. Questo un po’ il rischio, in effetti, visto da altre dimore politiche. In piazza gridano “libero, libero” a un uomo che con ogni evidenza è libero già: di fare della pubblica via il suo teatro e di dire che la Cassazione è comunista e antidemocratica. Tre o quattro ragazzi di passaggio intonano Bella Ciao, vengono aggrediti da una selva di voci che gridano “in Siberia” e cacciati dalla strada. Una donna dice che nessun pregiudicato dovrebbe stare al governo, le lanciano monetine.
Per chi deve tornare a Gallipoli in bus s’è fatta una cert’ora, la sparuta pattuglia in occhiali scuri comincia a defluire. Carfagna era già stata scortata via mezz’ora fa. Le finestre di palazzo Venezia si chiudono, quelle di fronte di casa Berlusconi si accostano. Era questo, solo questo. Un piccolo intermezzo agostano ad uso delle tv, con parecchi figuranti e il protagonista a difendere se stesso, come sempre. Ricordava un po’ le antiche manifestazioni dell’ultimo Msi, pochi ma molto convinti. Letta ha seguito in diretta tv. Napolitano è stato costantemente informato. Poteva andare peggio, in fondo, dal loro punto di vista. E’ stato breve, ma triste.

La Repubblica 05.08.13