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Valore Cultura

“Il decreto ‘Valore Cultura’ è un provvedimento di grande rilevanza per l’Italia perché rimette il settore culturale al centro dello sviluppo dell’economia del Paese”.
E’ quanto affermato dal responsabile Cultura e comunicazione del Pd, Antonio Funiciello, a proposito del decreto sulla cultura approvato dal Consiglio dei ministri e presentato dal presidente del Consiglio Letta e dal ministro della Cultura, Massimo Bray.

“Dal tax credit di 90 milioni di euro – ha aggiunto -, che risponde ad un’esigenza cruciale degli operatori del settore cinematografico, all’introduzione di benefici fiscali sul modello del tax credit per il settore musicale, all’esclusione dei teatri stabili pubblici e degli enti culturali vigilati dai limiti alla spesa previsti dalla spending review, al programma di inventariazione e digitalizzazione del nostro patrimonio culturale: si tratta di una serie di provvedimenti che danno slancio all’azione di governo in favore della crescita”.

“Bene anche il progetto Pompei – ha sottolineato Funiciello – per sottrarre finalmente il sito archeologico all’emergenzialismo, svolgere le gare e migliorare gestione e spese”.

“Fondamentale poi il provvedimento per aiutare le fondazioni lirico sinfoniche, a partire da quelle più a rischio, Genova, Cagliari, Firenze e Bologna. Qui non solo c’è lo stanziamento di 75 milioni per la situazione debitoria, ma anche una strategia di governo, attraverso la presentazione di piani industriali di risanamento da parte delle fondazioni, per sostituire il circolo vizioso dell’attuale gestione con un circolo virtuoso che guardi al futuro”.

Per l’esponente democratico “la buona politica del ministro, Massimo Bray e del presidente del Consiglio, Enrico Letta, comincia a rimettere in piedi l’Italia”.
“Il Partito Democratico ha svolto la sua parte nell’ideazione e nel sostegno alla loro iniziativa, che ci incarichiamo di arricchire in sede di riconversione con l’impegno dei nostri parlamentari, a partire dalla richiesta di un significativo reintegro del Fondo unico dello spettacolo”.

“Erano quasi 30 anni che un governo non dedicava un intero decreto alla cultura. E’ il segno evidente che il governo è convinto che dalla cultura si può ripartire per creare crescita, sviluppo e posti di lavoro e per dare un futuro al nostro Paese e credere nelle nuove generazioni. E’ una scelta molto molto chiara”.
Ha affermato nel corso di una conferenza stampa il ministro Bray.

Il provvedimento si occupa di più argomenti, in parte illustrati dallo stesso Bray. Come la stabilizzazione del tax credit per il cinema nel biennio 2014-2015: “siamo convinti che nel cinema ci sia una parte importante del patrimonio e della memoria del nostro Paese”, ha spiegato il ministro, annunciando anche l’estensione dello stesso meccanismo per la musica.

Inoltre, il Dl punta alla valorizzazione del sito di Pompei: “Nascerà un Progetto Pompei per le iniziative di coordinamento fuori dal sito archeologico, ci sarà un direttore generale che garantirà il rispetto degli impegni relativamente ai bandi per Pompei che avrà una sua sovrintendenza speciale, con Ercolano e Stabia”, ha spiegato Bray.
Altro tema affrontato nel provvedimento, quello delle fondazioni liriche con “trasparenza nell’assegnazione delle risorse e controlli rigorosi”, ha detto ancora Bray, spiegando tra l’altro che “dal 2014 il ministero dell’Economia restituirà ai musei tutti gli introiti diretti dei biglietti, questo ci consentirà di tenere sempre aperti i musei”.

Decreto Valore Cultura

– Tax credit per il cinema. Lo stanziamento di copertura per il credito d’imposta sugli investimenti nel cinema italiano viene reintegrato, tornando a 90 milioni di euro per il 2014 e il 2015.
– Tax credit per il settore musicale. E’ previsto uno stanziamento di 5 milioni di euro per il sostegno del mercato musicale e per la promozione dei giovani artisti e compositori.
– Fondazioni lirico sinfoniche. Sono assegnati 75 milioni di euro ad un fondo per la gestione della crisi delle Fondazioni lirico – sinfoniche. Le Fondazioni potranno accedere al fondo a fronte della presentazione di un piano industriale di risanamento.
– Gli enti culturali vigilati dal MiBAC e i Teatri stabili pubblici non dovranno più effettuare i tagli orizzontali sulle spese relative a pubblicità e tournée come previsto dalla Spending Review.
– Pompei. Per gestire e coordinare gli interventi e gli appalti fuori e dentro il sito archeologico sarà istituita la figura di un Direttore generale della pubblica amministrazione del progetto Pompei che dovrà definire le emergenze, assicurare lo svolgimento delle gare, migliorare la gestione del sito e delle spese.
– Giovani artisti. Alcuni spazi statali e demaniali saranno affidati alla gestione di artisti under 35 sulla base di bandi pubblici a rotazione semestrale. Saranno creati spazi all’interno delle città in cui gli artisti potranno esprimersi e fare ricerca su nuovi linguaggi e forme espressive.

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M5S, comanda Casaleggio. E Nuti dice: «Mai col Pd», di Andrea Carugati

Ricomincia la telenovela a 5 stelle su «governo sì governo no»? Le premesse ci sono tutte. E se si dovesse arrivare a una crisi di governo, con il bivio tra le elezioni e una nuova eventuale maggioranza, lo psicodramma grillino è garantito. Ci sono già le prime avvisaglie. Giovedì il capogruppo Riccardo Nuti ha mandato una mail ai suoi deputati, due ore prima della sentenza su Berlusconi, in cui disegnava alcuni scenari possibili. In caso di condanna, scriveva Nuti, «il Pd dovrebbe chiudere con il governo, fare una legge elettorale con noi e andare a votare». «E se Napolitano non volesse sciogliere le Camere allora toccherebbe a noi, dopo questo fallimento.Un governo su cinque punti: legge elettorale, reddito di cittadinanza, misure per le Pmi, abolizione finanziamento pubblico ai partiti, legge conflitto interessi. Con quale maggioranza? Con i voti di quei parlamentari – e sono sempre di più – che si rendono conto dell’inadeguatezza di questi partiti».

La mail è sembrata una prima timida apertura di dialogo con i democratici, ma ieri mattina questa lettura è stata bocciata dallo stesso Nuti. «Lo abbiamo detto più volte: il Pd è il Pdl e con il Pd mai». È la linea ortodossa voluta da Gianroberto Casaleggio che fino a oggi è stata ampiamente maggioranza tra gli eletti a 5 stelle. La linea del no a qualunque dialogo con i vecchi partiti, la strategia che prevede di distruggere il Pd ed ereditarne i voti. «Tra noi e Berlusconi ne resterà uno solo, come Highlander», è stato il tormentone di Grillo nella campagna per le ultime comunali di primavera. In quella occasione gli è andata parecchio male, ma l’obiettivo resta quello: le urne al più presto per lucrare sulle difficoltà del Pd dopo questi difficili mesi al governo con il Pdl.
E tuttavia, anche in queste ore nell’universo grillino la discussione si è aperta. Molti sono consapevoli che un Cavaliere in versione eversiva rappresenta un pericolo reale per la democrazia. E non vogliono chiamarsi fuori per la seconda volta. Meno che meno sentirsi responsabili di un nuovo «regalo» a Berlusconi.
«Dobbiamo spingere il Pd ad abbandonare il Pdl. Adesso basta con la melina, l’Italia ha bisogno di un governo per ripartire più giusta e onesta», ha scritto ieri su Facebook il senatore siciliano Francesco Campanella, uno dei dissidenti storici, uno di quelli che aveva votato Grasso e si era battuto contro l’espulsione di Adele Gambaro. Nelle ultime settimane questa pattuglia, che al Senato conta su una quindicina di parlamentari e altrettanti alla Camera, ha abbassato radicamente i toni. Ma è chiaro che, in caso di una crisi di governo, la loro voce è destinata farsi nuovamente sentire. Paolo Flores d’Arcais, in una lettera agli eletti M5S, lancia l’idea di un «governo provvisorio di legalità repubblicana» guidato da Rodotà o Zagrebelsky, per mettere la parola fine al berlusconismo. Gli ortodossi però non sento- no ragioni. Le aperture al Pd vengono vissute come semplici mosse tattiche per mettere in imbarazzo i democratici. L’obiettivo dichiarato, in caso di crisi, è un governo a 5 stelle su 5 punti, con i voti da raccogliere in Parlamento, senza un accordo di maggioranza precostituito. Roberto Fico, presidente della Vigilanza Rai, precisa: «Non pensiamo a un governo tecnico, nel caso chiederemo un incarico per un esponente del nostro movimento. Gli altri due partiti principali hanno già governato in questa legislatura e si sono dimostrato del tutto insufficienti. Nessun accordo col Pd, se Napolitano ci dà l’incarico ci cerchiamo i voti in Parlamento: sei mesi e poi si vota». Niente Rodotà, insomma.
Una prospettiva decisamente inverosimile. E i grillini lo sanno benissimo. Tra l’altro, nonostante questo ipotetico governo abbia come perno la nuova legge elettorale, tra i 5 stelle l’argomento resta decisamente ostico. Non esiste una proposta per superare il Porcellum, se non una bozza generica che prevede la reintroduzione delle preferenze, le liste pulite e il tetto dei due mandati. Il Mattarellum? Viene usato solo in modo strumentale, perché sanno benissimo che il maggioritario li penalizzerebbe.
Insomma, i grillini restano abbarbicati sull’Aventino. E tuttavia il clima di queste ore dimostra che, in caso di crisi, la telenovela a 5 stelle è destinata a ripartire. La posta in gioco stavolta è troppo alta. E anche ai piani alti ci si pongo- no molte domande. L’oltranzismo di Casaleggio, ad esempio, comincia a preoccupare anche Grillo. Non è un caso che il guru, qualche giorno fa, abbia sentito il bisogno di uscire allo scoperto con al- cune interviste: «Un accordo col Pd? Uscirei dal movimento. Al governo dobbiamo andarci da soli col 51%». Una tesi che suscita più di un dubbio. E molti parlamentari, soprattutto i dissidenti, sono certi che non saranno ricandidati.

l’Unità 04.08.13

“I lavoratori in CIG perdono il 30% del reddito”, di Bianca Di Giovanni

«Le cose da fare sono importanti non solo dal punto di vista sociale, ma anche economico, perché se non si risolvono problemi strutturali del sistema noi qui mettiamo solo delle pezze».
Carlo Dell’Aringa, sottosegretario al Lavoro, esprime così le sue preoccupazioni sulle fibrillazioni politiche di questi giorni. L’eredità lasciata a questo governo è pesantissima: Iva, Imu, Cig e esodati sono tre punti cardine su cui si giocherà la partita della ripresa. Il governo punta a stanziare ancora un miliardo per la cassa in deroga e ad allargare la platea degli esodati entro settembre: il tempo stringe. In ballo c’è la tenuta dei redditi di centinaia di migliaia di famiglie. «Quelle coinvolte dal trattametno della cig in deroga nell’anno sono circa 500mila, di queste circa un terzo rischia di restare fuori senza il rifinanziamento richiesto oggi dalle Regioni». La questione sociale «deve stare al primo posto», continua il sottosegretario. Tradotto: deve prevalere sugli interessi politici di breve periodo. l’impoverimento delle famiglie c’è senza ombra di dubbio. «Chi entra in cig in deroga subisce una decurtazione reale del 30% circa del salario, considerando il fatto che perde anche le parti accessorie», spiega Dell’Aringa per sintetizzare in un numero lo spettro della nuova povertà.

Signor sottosegretario, le somme mobilizzate sono gigantesche. Monti aveva stanziato un miliardo, Letta un altro e ora si richiede un altro miliardo e 300 milioni. La cig in deroga vale quasi quanto l’Imu prima casa. C’è stata una vera esplosione.
«Sì, vale la pena però specificare le cifre e comprendere le ragioni di questa esplosione. Il miliardo stanziato dal governo letta a giugno nella sostanza si è ridotto a 500 milioni, perché circa 250 milioni sono stati utilizzati dalle Regioni per pagare gli arretrati del 2012, e altri 280 circa sono erano riprogrammazioni di fondi Ue destinati a 4 Regioni del Sud, che hanno preteso quindi che quelle somme fossero destinate esclusivamente a loro»

Quando si potrà stanziare il miliardo e 300 milioni richiesto?
«Non aspetteremo la legge di Stabilità: si farà entro settembre. Per quel mese dovrà essere pronto anche il decreto sui criteri di concessione che stiamo preparando. È un passo importante, da concordare anche con sindacati e Regioni, per rendere più stringenti i vincoli per l’erogazione e più omogenei sul territorio. Va ricordato infatti che i disavanzi denunciati dalla Regioni a inizio anno non erano omogenei sul territorio: c’erano alcune amministrazioni in disavanzo pesante, come per esempio la Calabria, e altre addirittura in attivo ».

Come sarà strutturato il decreto?
«Il testo prevede una serie di una causali per la richiesta dell’ammortizzatore, e definisce le tipologie di soggetti e di imprese che possono accedere. Inoltre stiamo lavorando sulla durata: questi ammortizzatori devono restare nell’ambito di un anno perché vanno a morire per essere sostituiti dai fondi di solidarietà, cioè quei fondi alimentati dalle aziende che serviranno a finanziare le cig a quei soggetti che non ce l’hanno».

I motivi dell’ esplosione di cig in deroga?
«Beh, sicuramente la crisi gioca un ruolo importante. Ma non c’è solo quello. Il fatto è che progressivamente questa deroga è stata utilizzata anche per la mobilità in deroga, che viene erogata a tutti i settori che non hanno la mobilità ordinaria. Ricordo che nel caso di mobilità si tratta di lavoratori licenziati, che restano disponibili a lavorare e a cui viene riconosciuto un trattamento economico pari all’8 O% della retribuzione base. A questo punto con questi fondi si è fatto fronte alla
cig in deroga, alla mobilità in deroga (cioè riconosciuta alle aziende piccole, che tradizionalmente non ne avevano titolarità) e anche a chi ha esaurito la mobilità, cioè le grandi imprese che entrano in crisi di lungo periodo e consumano prima la mobilità ordinaria e poi quella in deroga. Una platea sempre più ampia, che senza dubbio invece va specificata meglio».

Certo non si potrà continuare a spendere così tanto.
«Infatti la nostra preoccupazione oggi dev’essere quella della ricollocazione. Dobbiamo pagare per il lavoro, non per la disoccupazione. Per questo abbiamo previsto incentivi a chi assume persone disoccupate, destinando alle aziende che assumono la metà dell’indennità residua del lavoratore. È vero che se l’attività si riduce, è difficile che si assuma. Ma in alcuni casi si ottiene qualcosa con buoni servizi e con incentivi».

da L’Unità

” Detroit, Atene e la fine del welfare”, di Guido Rossi

A fianco del marasma politico e istituzionale italiano, che si materializza nei continui scomposti tentativi di riformare la Carta Costituzionale e nella giuridicamente ineccepibile sentenza della Corte di Cassazione sul caso Berlusconi, due significativi avvenimenti internazionali hanno caratterizzato la scorsa settimana. Il primo riguarda la procedura fallimentare della città di Detroit e il secondo il rapporto del Fondo Monetario Internazionale sulla zona euro e in particolare sulla Grecia e il futuro economico dell’euro. Un primo collegamento fra Detroit e Atene era già stato antecedentemente effettuato da alcuni noti commentatori e in particolare da Krugman, che ne ha rilevato il pericoloso mimetismo nel tentativo di quei politici e tecnici che cercano di spostare il dialogo dal vero problema della creazione dei posti di lavoro, come avvenne per la Grecia, a quello della integrità fiscale e dell’austerity. Ritengo peraltro che, oltre agli indiscutibili rilievi di Krugman e alle sue corrette bacchettate contro gli arroganti e stolti fanatici del libero mercato, altre considerazioni che ci riguardano più da vicino possono essere presentate al lettore. La prima di queste è che la città di Detroit, con debiti a lungo termine stimati in più di 18 miliardi di dollari, è certamente la più grande città americana a dichiarare la propria insolvenza e a chiedere la protezione nei confronti di tutti i suoi creditori, con l’avvio del Chapter 9 della legge fallimentare federale. Eppure Detroit cinquant’anni fa era una delle città più ricche d’America, con General Motors, Ford e Chrysler che producevano quasi tutte le automobili vendute negli Stati Uniti. Era abitata da un milione e ottocentomila persone, ridotte oggi a settecentomila, in stragrande maggioranza povere, di scarso livello culturale e in fuga dalla città. Eppure se il giudice Steven Rhodes, incaricato della Procedura, riuscirà ad approvare il piano di ristrutturazione dei debiti, che addirittura qualcuno suggerisce debbano parzialmente essere pagati con la vendita della straordinaria collezione di arte antica del Detroit Institute of Arts, che non potrà comunque neppure garantire il pagamento dei maggiori crediti costituiti dalle pensioni e dall’assistenza sanitaria, Detroit, sempre più spopolata, continuerà tuttavia ad avere quella che l’Economist ha qualificato per i visitatori una «piacevole sorpresa». La città può essere fallita, ma una piccola parte di essa vive in un ambiente di notevole benessere, completamente separata dalla grande parte povera della città, con scuole eccellenti, servizi di prim’ordine, mezzi di trasporto efficienti, sistemi di sicurezza rapidi ed efficaci, parchi splendenti. Questa incredibile diseguaglianza è stata giudicata da Robert Reich non tanto come il fallimento di Detroit, ma come il fallimento del contratto sociale americano: quel contratto sociale che aveva garantito lavoro, pensioni e sanità ai lavoratori. Insomma, con l’insolvenza della città di Detroit si dissolve inesorabilmente lo welfare state. In contemporanea, mercoledì scorso, il Fondo monetario internazionale, contestualmente all’elargizione di ulteriori quattro miliardi di euro dalla Troika, ha intimato al governo greco – in una situazione recessiva, con un prodotto interno lordo in continua diminuzione, la disoccupazione che raggiunge il 27 per cento e quella giovanile addirittura il 57 – di far in modo che l’Unione europea e la Banca centrale europea cancellino una parte dei loro debiti, così che Atene possa poi ripagare interamente quelli dovuti al Fmi. Alla faccia della parità di trattamento dei creditori (par condicio creditorum). Se dunque la situazione di Detroit e quella della Grecia hanno molti punti in comune, uno è essenzialmente diverso, e cioè che comunque, la ristrutturazione del debito di Detroit attraverso la legge fallimentare federale americana non avrà effetti di contagio con il resto dell’economia americana, mentre quello greco continuerà ad averli, in mancanza di una Unione europea federale, che dovrebbe essere costituita nel nome di uno welfare e di una democrazia europea, piuttosto che di una concor-renza sulla disciplina dei budget degli Stati membri. Ne è amara conferma la dichiarazione immediatamente rilasciata dalla Cancelliera Angela Merkel, in procinto di affrontare a settembre lo scontro elettorale, che la Germania non sopporterà nessuna perdita sui prestiti fatti ad Atene. Se dunque il contratto sociale è fallimentare in America, in Europa esso manca ancora del principio fondante e della sua Grundnorm. All’amara conclusione che riguarda solo l’Europa ve ne è una ulteriore, che concerne anche gli Stati Uniti. L’impoverimento economico e culturale sta provocando, al di qua e al di là dell’oceano, la scomparsa delle classi medie, sulle quali si era costruito il meglio della civiltà occidentale. Il capitalismo finanziario con i suoi incolti, arroganti ed interessati sostenitori, sta operando con gli stessi strumenti di isolamento che adotta nelle crisi economiche. Nei sistemi bancari le non riassorbibili passività vengono scaricate sulle bad banks, le cui perdite vengono tranquillamente cancellate. Ma quel che molti non paiono ancora voler capire è che qui, come sostiene Robert Reich, non si tratta di questioni finanziarie, ma di esseri umani e non è pensabile che i pochi dominanti ricchi operino solo per cancellare i poveri.

da Il Sole 24 ore

“Non si gioca con le istituzioni”, di Massimo Luciani

Scaricare tensioni sulle istituzioni è pericoloso. Bisogna evitarlo, nell’interesse del Paese. «Quale furia di genti straniere, quale ferocia dei barbari può essere paragonata a questa vittoria di cittadini su altri
cittadini»? Così, ne La Città di Dio, scriveva Sant’Agostino, riflettendo sulle guerre civili che avevano insanguinato a lungo Roma. E non lo scriveva a caso. Già i classici più antichi avevano posto la guerra civile tra i mali peggiori che possano affliggere una comunità politica, e più avanti l’avrebbero pensata nello stesso modo i fondatori del pensiero politico moderno.
Quando si evoca la guerra civile, dunque, si tocca un oggetto esplosivo, da maneggiare con cura. Questa cura non la mostrano tutti: lo spauracchio della guerra civile, anzi, è agitato sempre più frequentemente e senza la minima riflessione sulla storia dei concetti e sul significato profondo delle parole che si usano.
Sarebbe sciocco affettare un’ingenua sorpresa o uno scandalizzato sdegno. In politica la tattica ha una sua importanza, sempre più evidente in periodi di accelerazione dei tempi di formazione dell’opinione pubblica, sicché l’uso tattico e ad effetto di immagini forti o i toni gridati della polemica si possono anche capire. Quel che non si potrebbe capire, tuttavia, è che questi eccessi verbali venissero presi così sul serio da costruirci sopra una strategia, di azione o di risposta. Ma veniamo al punto. Il leader del Pdl ha subìto una condanna penale. Definitiva e pesante. È ovvio che questo ponga un serio problema politico, non solo dentro quel partito, ma anche all’interno di tutti i suoi interlocutori. Ora, c’è chi dice che quel problema lo si dovrebbe risolvere subito, altrimenti non solo salterebbero tutti gli attuali equilibri di governo, ma ne andrebbe di mezzo la stessa tenuta della convivenza civile. Questa soluzione immediata, però, non si capisce bene quale dovrebbe essere. Qualcuno dice che si dovrebbe imporre un pesante intervento sul sistema della giustizia o che si dovrebbe esigere dal capo dello Stato la concessione della grazia. Ipotesi davvero bizzarre.
Che la giustizia abbia bisogno di incisivi interventi di riforma è noto ed è altrettanto noto che tutti, magistrati compresi, sono d’accordo. Quel che proprio non si può accettare, però, è una riforma-sanzione, un intervento concepito per rimediare ad una pretesa violazione dei limiti dell’azione giurisdizionale. Quanto alla grazia, il solo fatto di adombrare l’idea che il Presidente debba concederla solo perché –
altrimenti – il Paese andrebbe a rotoli significa cercare di precipitare il capo dello Stato nella polemica politica immediata: l’ultima cosa della quale abbiamo bisogno. La condanna non ha certo determinato la fine politica del leader del Pdl, ma ha posto un problema parimenti politico. Che sempre la politica deve risolvere, senza scorciatoie istituzionali.
La sostanza di quel che sta accadendo, in realtà, è abbastanza chiara. I partiti sono in seria difficoltà e scaricano il loro disagio sulle istituzioni, destabilizzandole o cercando di farlo. Non c’è da meravigliarsene, visto che il sistema dei partiti – ovviamente – incide sul funzionamento del sistema delle istituzioni. Sta di fatto, però, che questo ha un suo grado di autonomia e che, per quanto è possibile, si deve tenerlo al riparo dalle fibrillazioni del primo. Proprio nell’interesse del Paese.

da L’Unità

“Il punto di rottura”, di Claudio Sardo

Alla favola di Berlusconi colomba tra i falchi cattivi del PD può credere solo un fesso. Il falco è Berlusconi, che muove i ricatti dei suoi sullo scacchiere politico, e che ancora non ha deciso se far cadere il governo e tentare la corsa al voto. Un punto però è fermo nella sua strategia: la colpa di un even- tuale crollo della legislatura deve ricadere tutta sul Pd.
Ciò spiega la propaganda, la tattica, le parole oltre il limite dell’eversione, fino alle minacce al Capo La condanna penale definitiva del leader della destra italiana ha segnato uno spartiacque. La Cassazione ha smentito tutti co- loro che scommettevano sul «salvacondot- to», che straparlavano di «inciucio», che deliravano sulla «pacificazione». La divisione dei poteri e l’autonomia costituzionale dell’ordine giudiziario erano la pre-condizione di questo governo, che mantiene nel- la propria missione il ripristino di una normalità e di una efficienza democratica. L’esecutivo guidato da Letta, che non si fonda su una vera alleanza politica, non po- teva certo fondarsi su uno scambio ignobile tra politica e giustizia. Comunque, tutti sapevano che la sentenza Mediaset non sa- rebbe passata come un venticello. È in atto un terremoto, e ancora non sono chiare le conseguenze.
Il governo mantiene le sue ragioni verso un Paese attanagliato da una crisi sociale devastante, e verso le istituzioni da riformare, pena nuove elezioni senza esito e una paralisi del sistema che può diventare irreversibile. Ma la condanna di Berlusconi, e ancor più le parole inaccettabili pronunciate da diversi dirigenti del Pdl su mandato del capo, hanno cambiato lo scenario. Il governo Letta non può soltanto sopravvivere. Non può cercare un riparo, lontano da questi attacchi intollerabili contro il diritto. Non può pensare di attendere un secondo tempo, nel quale sviluppare il meglio delle sue politiche economiche e sociali. Il terremoto della Cassazione ha modificato i tempi, e pure gli obiettivi del governo.
Le parole di Berlusconi e del Pdl pronunciate in queste ore sono incompatibili con un ruolo di governo. Nessuno discute il diritto del condannato, o dei suoi congiunti, ad avere qualunque opinione della sentenza.
Nessuno può violare il limite dei sentimenti personali. Ma la politica democratica si basa sul rispetto della Costituzione e sul principio della legge uguale per tutti. A questi valori non può derogare né un parti- to, né un governo. Qualunque ricatto passi dalla violazione del principio di legalità o dalla pretesa di non dare piena esecuzione a una sentenza giudiziaria, è irricevibile prima ancora che inaccettabile.
Ma a fronte di questa offensiva del Pdl – che oggi avrà in piazza una verifica non secondaria – il governo non può neppure limitarsi a respingere le richieste al mittente. Le parole di questi due giorni hanno un contenuto eversivo che va reso esplicito e condannato. E a farlo deve essere il governo in quanto tale. Altrimenti sarebbe troppo facile lo scaricabarile sul Pd: ogni giorno si alza di più il tiro, ogni giorno la provo- cazione sale di intensità, finché nel Pd l’indignazione arriverà al punto di rinunciare ad un governo che ritiene ancora necessa- rio per il Paese. O Berlusconi e il Pdl si ri- mangiano le folli reazioni di queste ore, op- pure saranno loro a provocare quella rottura che ci spingerà ancor più nel baratro della crisi sociale e nella dipendenza dai poteri esterni.
Non solo il Pd, ma anche Enrico Letta deve sfidare Berlusconi al rispetto della legalità e alla ricostruzione del sistema politico. Peraltro è il solo modo per preservare il ruolo di garanzia del presidente della Repubblica, oggi aggredito dalla destra come ieri dal radicalismo grillino, perché ha lega- to il suo secondo mandato ad un solenne impegno sulle riforme. Non si tratta solo di una battaglia tra partiti, condotta sull’orlo del precipizio. In gioco è la stessa capacità del Paese di uscire dalla crisi.
Come può pensare il governo Letta di arrivare al tra- guardo delle riforme istituzionali ed elettorale, se non mette in chiaro, subito, l’assoluta fedeltà ai principi della Costituzione? E di riforme abbiamo bisogno: non basterà una legge elettorale ad assicurare la gover- nabilità, se non si romperà il bicamerali- smo paritario affidando a una sola Camera il rapporto fiduciario con il governo. Ecco perché è arrivato il tempo che il governo definisca il perimetro delle riforme: e questo non può che essere il rafforzamento del governo parlamentare. Bisogna dirlo che il (semi?) presidenzialismo è irrealistico. E al tempo stesso bisogna dire che il capitolo della giustizia non si affronterà finché è presente questo ricatto del Pdl.
Ma il governo Letta deve essere più for- te anche nell’indicare, nelle difficili condizioni date, le sue politiche di sviluppo e la sua strategia europea per produrre nel 2014 i mutamenti attesi. Qualcuno dirà: cosa c’entra con la condanna di Berlusconi? C’entra, eccome, con il rischio che tutto stia per saltare e che il Pdl tenti l’avventura delle elezioni anticipate, magari contando anche stavolta su Grillo, che ieri negò qua- lunque sostegno a Bersani e che domani potrebbe bocciare qualunque riforma elet- torale in senso maggioritario. Grillo vuole il voto anticipato ma non vuole maggioranaze stabili.
Questo governo è nato nel pieno di una drammatica emergenza sociale. La sua prima ragione è qui: nella Cassa in deroga da rifinanziare, nell’aumento dell’Iva da annullare, negli esodati da tutelare, nelle cri- si aziendali da scongiurare. Tutto questo ora può saltare. Siamo vicini al punto di rottura.
Ma per dare un senso alla legislatu- ra non basta invocare lo stato di necessità. Anche nell’emergenza ci vuole una strate- gia, una politica più forte. La sola risposta possibile alle grida sguaiate del Pdl è un rilancio: o si cambia passo, o si chiude. Do- po le parole indecenti del Pdl, non si può continuare come prima. Ha fatto bene il presidente del Consiglio a lanciare ieri il suo aut aut alla destra. Ora indichi la rotta: deve essere il Pdl a dire se intende andare avanti oppure no.

da L’Unità

“Il governo è un’istituzione ed è bene ricordarselo”, di Eugenio Scalfari

Qualche settimana fa, già in vista della sentenza che la Cassazione ha emesso giovedì scorso, il direttore di questo giornale, Ezio Mauro, aveva usato la parola “dismisura” per definire l’influsso improprio che Silvio Berlusconi ha esercitato per vent’anni sulla fragile democrazia di questo paese.

La parola dismisura mi colpì molto per la sua efficace rappresentatività. Un uomo posseduto da un’egolatria straripante, con capacità di imbonire non solo una parte rilevante di popolo ma addirittura di deformare il funzionamento di istituzioni da tempo asservite ai partiti politici dominanti, guidava il paese con una ricchezza di assai dubbia provenienza, un impero mediatico di proporzioni inusitate, una spregiudicatezza politica senza limiti.

Del resto l’allarme di Repubblica nei confronti di quel personaggio così anomalo ad ogni principio democratico era scattato da tempo, quando Silvio Berlusconi non aveva ancora fatto il suo ingresso in politica ma già aveva con i politici contatti e rapporti di complicità e addirittura di compravendita. La nostra campagna era cominciata fin dagli ultimi anni Ottanta ed è del ’92 l’articolo da me pubblicato con il titolo “Mackie Messer ha un coltello ma vedere non lo fa” in cui il padrone della televisione commerciale italiana era paragonato al gangster protagonista dell’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht. Mackie Messer è stato finalmente condannato con sentenza definitiva in uno dei tanti processi intentati da 19 anni nei suoi confronti.

Non già per sentimenti persecutori della magistratura inquirente e giudicante, ma per la quantità di reati da lui commessi e da lui abilmente ostacolati, rallentati, bloccati, muovendo le leve politiche delle quali disponeva, rallentandoli con l’uso e l’abuso del legittimo impedimento, con l’accorciamento mirato della prescrizione, con l’immunità delle cariche da lui rivestite e addirittura con la corruzione di magistrati e giudici.

Inusitatamente – è il caso di dirlo – il processo sui diritti cinematografici di Mediaset è riuscito a farsi largo in questa selva di ostacoli e arrivare con poche settimane di anticipo sull’imminente prescrizione, alla sentenza definitiva. Ora l’imputato è un condannato ad una pena carceraria e ad una pena accessoria d’interdizione dai pubblici uffici. Nel frattempo altri processi incalzano per reati altrettanto gravi e forse più, presso i Tribunali e le Corti di Milano, Roma, Napoli, Bari.

Gli uomini del partito da lui fondato, e del quale è il leader e il proprietario nel senso tecnico del termine, lo sanno. I suoi elettori in parte l’hanno capito e l’hanno abbandonato, in parte sono ancora dominati dalla sua demagogia o da interessi da lui concessi e tutelati.

Su questa massa consistente di ministri del governo in carica, di parlamentari, di elettori ancora imboniti, Mackie Messer ha lanciato la sua campagna e vorrebbe annullare la sentenza con il ricatto di far saltare il governo e provocare lo sfascio d’una economia già fortemente in crisi.

Mackie Messer questa volta il coltello non solo non lo nasconde ma lo mostra apertamente agitandolo minacciosamente dalle sue televisioni ed anche dagli schermi della Rai che, non si capisce il perché, danno ripetutamente a reti unificate la parola di un pregiudicato e condannato per gravi reati comuni. Non accadrebbe in nessun altro paese anche perché l’uomo politico – in democrazie notevolmente più mature della nostra – si sarebbe da tempo dimesso dalle cariche ricoperte affrontando i processi e subendone le eventuali conseguenze.

Fatta questa premessa, che ricorda fatti peraltro ben noti ai nostri lettori, ma che è bene comunque ricordare per completezza d’informazione, parliamo ora del tema principale che oggi domina lo scenario politico ma non solo: oltre che politico anche economico, anche sociale, anche internazionale e infine
istituzionale.

Non allarmatevi dei tanti aspetti di questa situazione: sono fortemente intrecciati tra loro e costituiscono un unico nodo ed è quel nodo che in un modo o nell’altro va sciolto nei prossimi giorni, anzi direi nelle prossime ore.

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I sudditi (come altro chiamarli?) del condannato hanno inscenato una farsa da lui guidata, si sono dimessi nelle sue mani da ministri e da parlamentari e una loro deputazione vorrebbe incontrare Napolitano per ottenere la grazia per il loro padrone e signore. È probabile che Napolitano non li riceva ma è comunque certo che la grazia non la darà poiché non ne ricorrono gli estremi né morali né tecnici.

La minaccia, anzi il ricatto, è di mettere in crisi il governo e andare a votare in ottobre, ma Napolitano ha già più volte chiarito che non si parla di scioglimento anticipato delle Camere con questa legge elettorale palesemente incostituzionale. Bisogna dunque riformarla e il governo ha già fissato la data di discussione dei vari progetti allo studio il prossimo ottobre. Ammesso e non concesso che la si approvi entro ottobre, c’è nel frattempo l’obbligo di discutere e approvare la legge di stabilità finanziaria e il bilancio e si arriva così alla fine dell’anno. Qualora a quel punto Napolitano sciogliesse le Camere, si voterebbe alla fine di febbraio o a marzo ma nel frattempo – sempre che i sudditi del signore e padrone avessero dato le dimissioni – il governo sarebbe ancora in carica per l’ordinaria amministrazione. Quindi privo di qualunque autorevolezza anche in Europa, anzi soprattutto in Europa.

Non è da escludere che il signore e padrone di Arcore, divenuto a quel punto la sua comoda prigione dalla quale però non può incontrare nessuno se non i propri figli, abbia fermato le dimissioni e gli Aventini minacciati e così pure le elezioni anticipate. Ma non è soprattutto da escludere che Napolitano abbia accettato le dimissioni di Letta ed abbia nominato un “Letta bis” impostato sul Pd che ha la maggioranza assoluta alla Camera e quella relativa al Senato che diventerebbe assoluta con il voto di Scelta civica, Vendola e dei 5 Stelle, che probabilmente a quel punto arriverebbero.

Questi sono i vari scenari, l’ultimo dei quali è, a mio avviso, il più auspicabile perché significa che il governo Letta prosegue fino al semestre europeo di presidenza italiana con l’uscita di scena nel gennaio 2015.

Questo richiede lo “scopo” per il quale Letta fu insediato a Palazzo Chigi. Lo scopo è di combattere la recessione in Italia e avviare una politica europea basata sulla crescita e sull’Europa proiettata verso uno Stato federale.

Queste considerazioni sono presenti esplicitamente nelle dichiarazioni non solo di Letta ma anche del segretario del Pd Guglielmo Epifani e del presidente del gruppo del Senato del Pd Luigi Zanda nell’intervista pubblicata ieri su questo giornale.

L’impegno del Pd nel sostenere questo progetto è fondamentale e coincide con le finalità di un partito riformatore di sinistra democratica. Poi – a suo tempo – bisognerà votare per un nuovo Capo dello Stato quando Napolitano deciderà scaduto il suo tempo. Quest’uomo, tra i tanti pregi e qualità che ha mostrato nel suo pluri-mandato presidenziale, ha dato prova di una fermezza di carattere molto rara e di una visione istituzionale, già anticipata a suo tempo da Carlo Azeglio Ciampi, inconsueta in questo paese di fragile democrazia: il governo è un’istituzione, titolare del potere esecutivo. I partiti possono fornirgli alcuni loro uomini che però, una volta nominati, cessano di essere uomini di partito e diventano membri d’un potere costituzionale dello Stato di diritto.

Nel nostro paese questi principi vengono spesso dimenticati. Voglio qui ricordare che furono sostenuti a spada tratta da Bruno Visentini, Ugo La Malfa, Enrico Berlinguer, Aldo Moro e da questo giornale. I partiti servono a raccogliere il consenso, non ad occupare le istituzioni, governo e Parlamento compresi. Chi dimentica che la democrazia ha come fondamento la separazione dei poteri compie un grave errore e rischia di procurare danni al paese e ai cittadini, che non sono più soltanto italiani ma anche, e speriamo sempre di più, europei.

da La Repubblica