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“Con lo stop all’Imu premiati i redditi alti. Ecco i numeri del Governo”, di Bruno Eugenio e Marco Mobili

Dall’esenzione totale dell’Imu, in grado di assicurare un risparmio medio di 227 euro ma dall’impatto fortemente regressivo: beneficio di 629 euro per chi ha un reddito oltre 120mila euro che si riduce drasticamente a 187 euro di media se il contribuente ha un reddito fino a 10mila euro. Alla rimodulazione dell’esenzione Imu sia in misura fissa che in via selettiva. Dove a fare selezione le strade individuate spaziano dal valore dell’immobile, alla condizione economica del proprietario parametrata al suo reddito, o ancora alla condizione economica dell’intero nucleo familiare misurata con il ricorso all’Isee.

Ma c’è anche il superamento dell’Imu con l’arrivo della service tax, o l’applicazione dei valori Omi per calcolare l’imponibile Imu. Sul tavolo anche la restituzione dell’Imu sull’abitazione principale parziale o integrale con un credito d’imposta o una detrazione da spendere ai fini Irpef. Senza dimenticare il capitolo imprese con la deducibilità dell’Imu pagata su capannoni, botteghe e aree edificabili ai fini dell’Ires e dell’Irpef in grado di assicurare risparmi immediati per 432mila soggetti per un totale di 1,250 miliardi che potrebbe salire a 1,5 miliardi se la deducibilità verrà estesa anche all’Irap (si veda il servizio a pagina 2). Tutto riassunto in oltre 90 pagine di dati, numeri e tabelle con tanto di commenti tecnici e di analisi di fattibilità dei possibili interventi indicati dal ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, su come potrà essere riscritta la tassazione immobiliare.

È il documento di lavoro predisposto dal Mef e su cui tecnici dell’Economia e forze politiche si stanno confrontando in questi giorni per arrivare a una sintesi “condivisa” di tutte le possibili ipotesi entro la fine di questa settimana ad illustrare ed esaminare in un nuovo appuntamento della cabina di regia tra Governo e maggioranza alla presenza del Premier Enrico Letta. L’obiettivo è quello di arrivare a scrivere i principi della riforma prima di Ferragosto. Ma se le distanze non dovessero ancora ridursi scatterebbe un intervento in due tappe: per l’8 agosto, prima della pausa estiva, o al massimo per il 26 agosto il varo di un decreto con le coperture per chiudere la partita Imu 2013, con la cancellazione dell’acconto e dunque della clausola di salvaguardia che prevede il pagamento dell’Imu di giugno entro il 16 settembre e la modifica del saldo di dicembre; con i saldi definiti nella legge di stabilità sarà poi definita la riforma vera proria con il possibile arrivo della service tax e la deducibilità dell’Imu per le imprese a partire dal 2014.

Il dossier che si continua ad arricchire alla luce delle indicazioni e dei chiarimenti di questi giorni rappresenta di fatto il piano del Governo sulle possibile configurazioni della riforma delle tasse sulla casa. A partire dal prelievo sull’abitazione principale. In questo campo i tecnici dell’Economia hanno messo sul tavolo almeno 8 differenti ipotesi per ridurre e rimodulare il prelievo sull’abitazione principale. Un pacchetto di interventi che vanno da un costo di 2 miliardi con esenzioni selettive sulla base delle rendite, del reddito o dell’Isee (che potrebbero incontrare i favori del Pd e di Scelta civica) a un massimo di 4 miliardi di euro con la cancellazione totale del prelievo (che viene invocata a gran voce dal Pdl).

La cancellazione tout court del tributo sull’abitazione principale avrebbe dalla sua un’estrema semplicità di esecuzione. Ma, come spiegato in precedenza, presenterebbe effetti negativi soprattutto in termini di equità andando a premiare prevalentemente i contribuenti con redditi più alti. Lo stesso rischio non verrebbe corso se si privilegiasse una rimodulazione del prelievo. Specie se in misura variabile in base a uno dei parametri presi in considerazione. Ognuno di essi ha i suoi pro e i suoi contro come illustrato nelle schede qui accanto. Puntare solo su un aumento della detrazione collegata alla rendita catastale andrebbe a vantaggio dei proprietari dei beni di minor valore ma penalizzerebbe i piccoli municipi. Viceversa spingere sul pedale dell’Isee e modulare il tributo sulla base del numero di figli lo renderebbe sì più progressivo ma costringerebbe i contribuenti a un supplemento di adempimenti. Stesso discorso per un eventuale sconto parametrato al reddito (ad esempio dai 55mila euro in su) che rischierebbe di premiare gli evasori o incentivare comportamenti elusivi. Senza dimenticare però la service tax, che è tornata di moda di recente per risolvere anche il rebus sulla Tares, oppure una new entry suggerita dal Mef: restituire l’Imu versata ai Comuni sotto forma di credito d’imposta o detrazione da spendere ai fini Irpef ricevuti dallo Stato. Nella consapevolezza che, a prescindere da come la si guardi, la coperta dell’Imu appare comunque coperta. Ed è per questo che l’Esecutivo e la maggioranza sono chiamati a fare delle scelte a stretto giro.

Il Sole 24 Ore 30.07.13

“Le guerre civili arabe così vicine, così lontane”, di Adriano Sofri

L’Egitto è vicino: ventimila partenze alla settimana dall’Italia. Dopo le primavere, l’estate. Purché a segnare questo tempo non sia la guerra civile. La guerra civile è lenta, vuole durare, va contro la velocità fulminea dei nuovi armamenti, la rallenta e uccide a lungo. Fermarla diventa sempre più azzardato. Ameno che non ci sia qualcuno lungimirante e forte abbastanza da intervenire tempestivamente. Una polizia mondiale fa paura, ma un giorno l’idea di un mondo senza polizia sembrerà una follia. A questo punto l’omissione di soccorso per la Siria non viene solo dall’assuefazione, o dal cinismo: si poteva accusare la “comunità internazionale” all’inizio. Ora prevalgono la frustrazione e la sensazione di imprevedibilità. La guerra civile non è di necessità sociale, o lo è solo in parte. È etnica, tribale, nazionale, religiosa, politica, di clan – di sesso, meno dichiaratamente, più profondamente. La guerra civile, anche quella degli sgozzamenti, dei machete, dei linciaggi a mano libera, quella eterna degli stupri, si gonfia all’ombra dei superarmamenti, fino alla quintessenza nucleare. La cui potenza pretende di risiedere nell’impossibilità di usarla: che è il trionfo (provvisorio, per definizione) dell’umanità realizzata, creare qualcosa che non possa essere usato. Per risarcirsi, si è inventato che serva da deterrente, e che è grazie a lei che non ci sono state altre guerre “mondiali”: e in parte, per una parte di mondo, può esser vero; però una guerra mondiale diffusa, sparpagliata generosamente sul pianeta, c’è. Le guerre civili imperversano nei luoghi del petrolio e dei minerali, in Nigeria, in Congo, dove il colonialismo disegnò frontiere di fantasia che gli sono sopravvissute.
La distanza e la vicinanza sembrano anche loro svuotarsi e sentirsi al riparo dai pericoli antichi, nel pianeta globale. Che la guerra si avvicini alle frontiere, che se ne veda il sangue e se ne senta il tuono non è più la minaccia che tolga il sonno a chi sta in pace, perché il sangue di qualunque luogo della terra si vede a casa propria, si sente di qualunque luogo il tuono. Abbiamo avuto una cosiddetta “guerra civile” durata anni a mezzora da qui, fino al 1995, e le estati sull’Adriatico non ne vennero turbate. Dopo, l’Europa ha ricevuto il Nobel per la pace, eppure quella guerra era in Europa. Non se ne erano accorti. Ora tocca a un’altra sponda mediterranea, in un’altra stagione balneare: l’Egitto, 83 milioni. E ogni tanto di nuovo escono foto e articoli indignati su un bagnante morto di infarto, e sulla spiaggia continuano a giocare a palla. Strizza l’occhio la guerra, dirimpetto alla spiaggia dove giochiamo a palla. Le primavere passano e si mostrano culle di guerre civili. (Da tempo alcune erano scoppiate e avevano fatto strage, anticipando la nuova agenda: come in Algeria). Il fatto è che regimi “moderati”, cioè dittature mutate in dinastie, che hanno sostituito la geografia coloniale e, protette dal mondo ricco socio in affari, sono durate decenni, il tempo largo di incubare sotto la loro repressione forze opposte ed esplosive, nel momento della rottura: integrate al raìs caduto o cadente, o oppresse da lui e sue nemiche giurate. La Tunisia aveva illuso che il cambio avvenisse pacificamente, e che il congedo di un regime ne mostrasse l’isolamento e insediasse una dialettica democratica, tollerante, plurale.
La Libia ha mostrato quanto fosse vasta e irriducibile la contrapposizione di clan, clientele, tribù, partiti ideologici e religiosi, gruppi infeudati a interessi esterni e, certo non ultime, bande e potenze criminali. La Siria ha rotto definitivamente il giocattolo. Centomila morti, certificano le Nazioni Unite. Simili numeri – così al di là di una misura terribile ma ancora immaginabile, quella di un disastro ferroviario – vogliono dire solo l’enormità, l’orrore, e una viltà mista all’impotenza. In Egitto, un occhio partecipe ma non specialistico, non distingue più quale parte sia quella che nel telegiornale di stasera riempie la piazza Tahrir, rispetto a quella di ieri sera e di domani. In Turchia era appena successo. La guerra civile si annuncia in una forma quasi pura, distillata: la metà di qua, l’altra metà di là, e via al bagno di sangue.
Noi siamo giusto dall’altro lato del mare di mezzo. Che quella israelo-palestinese sia a suo modo una guerra civile è evidente: perché le guerre civili non si somigliano se non in questo, che non accettano i confini e non fanno conto degli arsenali militari. E sono implacabili. L’Africa ne è lacerata, nel XXI secolo come nel famigerato Novecento, e anche come nell’ultimo terzo del Novecento, dopo l’indipendenza delle colonie. (Dico “come” senza far conti di morti, che sono comunque milionari. Prendete il Congo, la cui guerra civile le riassume tutte, e specialmente quella di razzia).La guerra civile è sporca e modernissima. Si è gettata alle spalle la guerra di guerriglia, che segnò la resistenza partigiana, dalla Spagna di Goya fino alla rivoluzione cinese e alla ribellione del Terzo Mondo, e che attingeva la sua nobiltà dall’opposizione fra popolo e tiranni. Il mito fu ancora realtà a Cuba, in Vietnam, salvo portarsi in grembo despoti nuovi, o in Cecenia, prima della devastazione degli animi. Ora la lentezza – la “lunga durata” e il tempo rallentato delle attese e delle imboscate e delle ritirate, l’abnegazione delle vite – appartiene ad ambedue i fronti delle guerre civili, ammesso che siano solo due. E appartiene ad ambedue (di più al regime che difende la propria sopravvivenza e si basa su una schiacciante superiorità di armi, almeno all’inizio) la cancellazione delle differenze fra combattenti e non combattenti, e di ogni convenzione di Ginevra, come ancora la Siria mostra impudente. Chi si attenterebbe a dire che sia la nostra “pace” il futuro ineluttabile del mondo, e non la violenza che abbiamo dirimpetto, che arrivasse a sbarcare da noi, non più su gommoni scalcagnati?
Postilla. Pronunciati a ridosso delle immagini del Cairo, i propositi di Enrico Letta rispondevano all’apocalittico rintocco di Grillo (“L’autunno è vicino, l’autunno è vicino…”): “Non vogliamo un autunno caldo ma di riconciliazione con la pubblica opinione, con i lavoratori, i giovani… Dobbiamo lavorare tutti per un autunno di riconciliazione”. Tutti chi, e perché quei propositi fanno un effetto spaesato? Certo, perché a dirli è il presidente di una coalizione malmaritata e “dettata dalla necessità”. La Politica esce di scena quando fa ingresso la Necessità. Ma c’è altro. C’è la questione del conflitto, di un conflitto che non sia devastante, e lo diventa quando sia troppo a lungo impedito – la pentola a pressione. I regimi arabi “moderati” hanno coperto a lungo le loro pentole. Erano puntellati da noi, quelli della pace, e però del petrolio, del canale di Suez, dei migranti insabbiati, di cui la pace si nutre. Anche da noi si fa appello alla rinuncia al conflitto. È come rinunciare alla pioggia oggi, per attirarsi la grandine domani, o dopodomani. Prima di vaticinare cose grosse come la guerra civile, e finché si resta sul terreno della parodia, meglio ricordare che distinzione e conflitto regolato nutrono la democrazia, e permettono di tagliare le unghie all’avidità – ché la buona volontà dei ricchi e le parole francescane dei papi non bastano. Non se le mangiano da soli, le unghie.

La Repubblica 30.07.13

“Un testimone, un maestro” 30 anni fa la morte per mano mafiosa di Rocco Chinnici e della sua scorta

Trenta anni fa, il 29 luglio 1983, veniva ucciso a Palermo dal tritolo mafioso il giudice Rocco Chinnici, insieme ai carabinieri della scorta, il maresciallo Mario Trapassi e l’appuntato Salvatore Bartolotta, e al portiere dello stabile di via Pipitone, Federico Stefano Li Sacchi.
Stamane si è tenuta una commemorazione sul luogo della strage, alla presenza tra gli altri della figlia dell’ideatore del pool antimafia, Caterina Chinnici.

“Mio padre fu un precursore in un momento in cui non si parlava di mafia – e lo Stato forse non era ancora pronto a contrastare il fenomeno mafioso – ha detto la figlia del magistrato -. Era consapevole del rischio che correva, sapeva che si scontrava con una mafia non disposta a perdonare. Ciò non l’ha fermato, ha solo velato di tristezza il suo sorriso”.
“Le sue preoccupazioni andavano per gli uomini della scorta e per i cittadini – ha aggiunto -. Raccomandava ai bambini che giocavano sotto casa di non rimanere davanti al portone quando arrivava lui”. “Il suo sacrificio – ha concluso Caterina Chinnici – ha segnato una svolta. Il seme che ha piantato ha dato buoni frutti”.

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel suo messaggio alla signora Caterina Chinnici e ai famigliari delle vittime in occasione del trentennale della strage, ha sottolineato come “il metodo investigativo indicato da Rocco Chinnici si è rivelato un “efficace strumento” di lotta alla mafia, portando a “successi insperati” e rinnovando “il sentimento di riconoscenza di tutti gli italiani e suo personale”.

“Con l’uccisione di Rocco Chinnici – ha affermato il capo dello Stato – la mafia si proponeva di decapitare l’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, che sotto la sua direzione stava iniziando ad affrontare unitariamente quel fenomeno criminale, cogliendo rapporti e collegamenti che condussero in seguito ad individuare autori e cause di efferati delitti rimasti fino allora impuniti e di comprendere la complessa realtà di ‘cosa nostra’. Consapevole dell’altissimo rischio personale connesso al rigoroso impegno nella lotta alla criminalità organizzata, seppe trasmettere le sue intuizioni ai collaboratori, che ne raccolsero il testimone”.

Anche il presidente del Senato, Pietro Grasso, ha ricordato il giudice ucciso.
“Nel 30mo anniversario della strage di via Pipitone – ha detto Grasso-, desidero rivolgere un pensiero memore, grato e commosso a Giovanni, Elvira e Caterina Chinnici, ai familiari del maresciallo dei Carabinieri Mario Trapassi, del brigadiere Salvatore Bartolotta e del portiere dello stabile Stefano Li Sacchi, che insieme a Rocco Chinnici furono uccisi quel 29 luglio del 1983”.

“Uomo di altissime doti umane e morali, Rocco Chinnici è stato un magistrato integerrimo, un punto di riferimento determinante nella formazione mia e di tanti colleghi, tanto da essere soprannominato il giudice papà, perché per noi fu testimone e maestro. La sua profonda capacità di analisi e le sue intuizioni gli avevano permesso di cogliere, quando ancora erano grandemente lacunose le conoscenze sul fenomeno, l’ordinarietà del potere mafioso, quei rapporti tra affari e potere che i processi successivi alla sua morte avrebbero poi svelato”.

“La sua religione – ha aggiunto Grasso – era il suo lavoro, la passione per quello che faceva. Credeva fermamente nella necessità del lavoro di equipe e pose le basi per la nascita di quello che sarebbe stato il pool antimafia. Era ben consapevole dell’altissimo rischio della sua persona, ma questa fredda lucidità non lo fece arrendere mai. Sapeva che con la sua uccisione si sarebbe tentato di eliminare le sue conoscenze, di soffocare la sua volontà di riscatto e per questo non si stancò mai di trasmettere le une e di infondere l’altra. Lo faceva dialogando con tutti, con la gente comune, con gli uomini di potere, con i suoi colleghi, ma soprattutto amava incontrare i giovani per parlare di antimafia, di lotta alla droga, di una Sicilia libera”.

“Prendiamo dunque esempio – ha concluso il presidente del Senato – da chi, come Rocco Chinnici, ha immolato la propria vita in nome della giustizia affinché questo sacrificio non sia reso inutile, affinché la storia di questi martiri ci dia la forza per continuare a lottare in nome della verità e della legalità”.

“Rocco Chinnici è considerato il padre di quel pool antimafia nato per stroncare e combattere la criminalità organizzata, che capì il sofisticato e perverso sistema ‘Cosa Nostra’ e intuì l’importanza di farlo conoscere e comprendere, parlandone alla gente, ai giovani, per poterlo estirpare”.
E’ quanto affermato dalla deputata del Pd e responsabile Antimafia e Legalità del Partito democratico, Pina Picierno.

“Con il suo lavoro e la sua attività investigativa ha lasciato un’importantissima eredità nella lotta alla mafia, pretendendo da politica e istituzioni più coerenza, più decisione nel colpire gli interessi economici delle mafie e le collusioni presenti in tutta Italia. A lui e alle altre vittime va il nostro commosso ricordo e riconoscimento per aver sacrificato la vita al servizio dello Stato e della legalità”.

www.partitodemocratico.it

“Il problema non è l’art. 138”, di Michele Prospero

La difesa della Costituzione è una giusta battaglia politica e culturale. E non sempre il nobile conservatorismo, attaccato allo spirito più profondo della Carta, produce la cieca resistenza di ristrette minoranze che si dispongono alla sconfitta in nome della sacra fedeltà a un principio etico non negoziabile.
Lo dimostra assai bene la vittoriosa mobilitazione democratica sviluppatasi in occasione del referendum costituzionale confermativo del 2006.

In quella circostanza gli argomenti solidi del costituzionalismo democratico riuscirono a trionfare contro un perverso occasionalismo di maggioranza, con il quale la destra al governo stravolgeva gran parte della Carta del 1948. La prospettiva d’avventura, che sorreggeva gli scriteriati allievi di Calderoli e i padri costituenti del Cavaliere, consegnava un pacchetto di riforme che Leopoldo Elia stigmatizzò giustamente come premierato assoluto. Era infatti costruito un impenetrabile e regressivo congegno istituzionale che definiva un potere di comando privo di argini, limiti e controlli efficaci di legalità. Una mostruosità, senza alcun dubbio.

Contro certe smodate tendenze (così forti e incessanti negli ultimi venti anni) all’umiliazione della Costituzione repubblicana, la difesa della Carta è certo una tappa obbligata, densa peraltro di idealità. Un po’ meno nobili sono però certe pelose campagne di stampa che, santificando Grillo (!) come novello campione del costituzionalismo, dipingono l’avvento di una democrazia ormai mutilata per via delle mire egemoniche coltivate dal Colle e delle liberticide riforme dell’articolo 138. Recuperare il senso delle proporzioni non guasterebbe.

Di tutto, e quindi anche delle specifiche politiche istituzionali perseguite da Napolitano dopo il voto di febbraio, è lecito discutere nel merito. E, nel caso, è opportuno formulare anche dei rilievi critici (consentire a Bersani di verificare in aula il suo effettivo sostegno avrebbe forse potuto scrivere un’altra storia alla legislatura). Ma interpretare la oggettiva sovraesposizione del Quirinale, registratasi con evidenza nell’arco degli ultimi tre anni, non come una drammatica risposta a una emergenza reale che non tollerava vuoti di potere ma come il frutto di un disegno personale esplicito volto all’instaurazione di un regime presidenziale di fatto è una assurdità, senza un briciolo di conferma empirica.

Con scelte talvolta opinabili, come tutte le opzioni seguite nelle fasi di transizione, Napolitano ha sempre ritenuto di agire nel quadro rigoroso formalmente tratteggiato per un fedele servitore della Carta quale egli intende essere. Il suo interventismo, che è un fenomeno istituzionale innegabile, si è sempre configurato come un tentativo estremo escogitato, nel vuoto allarmante dei soggetti della politica, ai fini di una salvaguardia del sistema parlamentare. Il Colle, anche quando ha svolto degli irrituali compiti di supplenza e ha imposto una lettura creatrice delle procedure vigenti, non ha certo scommesso nell’archiviazione del regime parlamentare. Questo suo eccezionalismo indubitabile è pur sempre di matrice parlamentare. Ciò deve essere un punto fermo dell’analisi. Non per un rispetto dovuto al Colle in ragione del bon ton istituzionale, ma per l’aderenza alla verità storica.

Per questo sono, oltre che menzognere, anche un gratuito (e pericolosissimo) favore alla destra le requisitorie superficiali e aggressive de il Fatto quotidiano che dipinge l’Italia attuale come un regime divenuto ormai semipresidenziale. Non è vero che la mappa dei poteri formali sia stata del tutto stravolta dal Colle. Non esiste un diverso quadro di comando, con la matrice del potere effettivo disegnato dalle oscure volontà di potenza di Napolitano. È ridicola (oltre che un viatico al presidenzialismo a parole tanto disprezzato) la campagna di stampa che assume come nemici della Costituzione il Quirinale e la commissione di saggi incaricata di ragionare sulle riforme possibili.
Anche ammesso che ci sia stata una parziale alterazione del dispositivo stringente contenuto nell’articolo 138 della Costituzione (restano comunque ben ferme le garanzie del referendum popolare confermativo, si introduce inoltre, a tutela delle minoranze, una rappresentanza proporzionale ai voti e non ai seggi nella composizione delle commissioni), non ne consegue certo l’ingresso ormai acclarato in una situazione di estrema allerta istituzionale. Non c’è alcuna emergenza che autorizzi alla chiamata alle armi contro degli usurpatori animati dalle peggiori intenzioni. Dei saggi fanno parte, tra gli altri, anche tre costituzionalisti che proprio sulle colonne de l’Unità scrivono le loro analisi in tema di riforme istituzionali. Mario Dogliani, Massimo Luciani e Marco Olivetti sono tra i più lucidi costituzionalisti italiani, studiosi dalle forti convinzioni parlamentariste. In particolare, la storia di Luciani e Dogliani li riconduce alla tradizione del patriottismo costituzionale: sono tra i più autorevoli esponenti del Centro di Riforma dello Stato voluto da Umberto Terracini e Pietro Ingrao.

Chi demonizza i saggi con toni sprezzanti, ai limiti dell’oltraggio, e nega la necessità stessa di apportare talune riforme istituzionali inderogabili fa un pessimo servizio alla Costituzione e rischia persino di dare una mano alla causa del presidenzialismo. È evidente che alcuni ritocchi vanno apportati. Per ben tre volte negli ultimi vent’anni si sono presentate maggioranze diverse alla Camera e al Senato. Come si fa a rinunciare ad una riforma che abbatta il bicameralismo perfetto e stabilisca un vincolo fiduciario del governo solo con Montecitorio? E come è possibile ignorare il cruciale ruolo di stabilizzazione che in un parlamentarismo rafforzato possiede la sfiducia costruttiva? Se davvero i deputati del M5S aderiscono ad una cultura di tipo parlamentare non approfittare oggi (che in aula è disponibile una maggioranza così ampia a favore di riforme mirate e nel solco della forma di governo parlamentare) sarebbe un delitto. Chi propugna un totale immobilismo, e lo spaccia poi per una difesa eroica della Costituzione dal mostro del presidenzialismo, contribuisce in realtà a creare le condizioni per una soluzione plebiscitaria e carismatica alla crisi. Nel giro di pochi mesi tutto potrebbe cambiare nella politica italiana, dagli equilibri interni ai partiti (del Pd anzitutto) ai nuovi rapporti di forza elettorali. Chi non vuole il presidenzialismo, la smetta di firmare stucchevoli appelli propagandistici contro i saggi e il Colle. Nei prossimi mesi si riproporrà una secca alternativa. O le riforme in senso parlamentare o il caos plebiscitario.

L’Unità 29.07.13

“Un Paese si giudica da come tratta i ricchi”, di Mario Pirani

Siamo il paese delle favole ma non sempre è una buona cosa raccontarle ai bambini. I piccoli innocenti a forza di far domande, come è loro abitudine, possono accorgersi che quelle seducenti narrazioni non sono frutto della fantasia ma di una improvvida passione per la verità. In un caso o nell’altro questo disvelamento può provocare alterazioni di giudizio o esagerate reazioni in menti ancor vergini, vuoi risvegliando desideri smodati o avversità altrettanto incontrollate. In ogni modo lo specchio delle incaute brame questa volta non fornisce agli incuriositi fanciulli il ritratto dei più belli del reame ma quello dei più ricchi. In città e paesi dove ogni giorno si cerca di spiegare perché il papà guadagni sempre meno, la mamma abbia perso il posto ed il nonno si sia vista tagliata la pensione, fa un curioso effetto leggere (ma quale lettore di scarse risorse vi si dedica?) la miracolosa classifica dei cento supermanager che anche quest’anno si son visti lievitare gli introiti a livelli per taluni stratosferici e per altri di raro conforto. Ce lo racconta con dovizia di dati
Il Sole 24 Ore, basandosi su cifre che le società quotate in borsa sono obbligate a pubblicare (una volta tanto, evviva la trasparenza!). Dalla lista – più ricca di 50 milioni in confronto all’anno precedente – risulta che questa eletta schiera di dirigenti nel 2012 ha messo assieme la ragguardevole somma di 402 milioni lordi di euro. Dalla specifica delle voci risulta che nessuno dei beneficiati può essere annoverato fra i “padroni”, cioè non ricavano il guadagno da un profitto, soggetto in genere a rischio, sui capitali d’impresa. I loro introiti risultano da voci che si aggiungono ai vecchi stipendi e risalgono spesso a quote avulse dai profitti reali, decise dai ristretti gruppi finanziari che controllano ormai le aziende e determinano un invidiato gruppo di retribuzioni privilegiate, dissociate dai bilanci dell’impresa. Ne deriva uno stravolgimento delle norme dettate da una corretta e tradizionale economia di mercato e basta leggere molti dei nomi elencati da “Pay watch 2012”, come si denomina la ricerca in questione, per rendersene conto. La pseudo retribuzione è formata da varie voci che possono anche essere variabili: gli stipendi, i bonus, le eventuali buonuscite, le plusvalenze per l’esercizio di
stock option, il controvalore di azioni gratuite assegnate l’anno precedente. Sono esclusi dal totale i benefici non monetari come le polizze sanitarie, previdenze integrative, auto e case pagate dall’azienda, che talvolta sfiorano il mezzo milione.
La maglia gialla dei cento super pagati – che sarebbe più esatto denominare “maglia grigia” per la costanza della sua divisa d’ordinanza – è Sergio Marchionne, campione della Fiat e di alcune altre società collegate al gruppo di Torino-Detroit. Chi in questi anni ha ricavato qualche impressione negativa dai risultati annunciati non tema di essersi sbagliato: i congrui emolumenti del capo non corrispondono ad un repentino volgersi delle fortune aziendali, visto che a consuntivo ha goduto di 47,9 milioni di euro complessivi. Per contro dal 2000 al 2012 la quota di mercato della Fiat in Italia è scesa dal 32,8 % al 29,6% e in Europa dall’8,7 al 6,4%. Inoltre col bilancio 2012 la Fiat spa non ha distribuito dividendi ai soci. Uno splendido esempio di austerità. Infine qualche paragone: il compenso di Marchionne paragonato ai 16 mila euro lordi annui di un operaio Fiat è pari a 460 volte; analogamente Luca di Montezemolo, con 5,5 milioni annui, prende 354 volte un operaio Ferrari. Varrebbe la pena pubblicare l’intero elenco, ma trattandosi di una favola sarebbe troppo noioso. Piuttosto Papa Francesco dovrebbe mutare il suo insegnamento: «Un paese non si giudica da come tratta i propri poveri, ma da come tratta i propri ricchi».

La Repubblica 29.07.13

“Le sfumature di arancione”, di Antonio Polito

L’ultima ad andarsene è stata «zia Pina», assessore allo Sport, pasionaria dell’Italia dei Valori, accusata di aver tolto le multe al cognato, giudice del Tar e sindaco di un comune dell’hinterland. Con la signora Tommasielli, la giunta che fu «arancione» e rivoluzionaria di Luigi de Magistris ha perso il suo decimo componente su dodici in appena due anni di governo. E tra i due rimasti ce n’è un altro in bilico, il vice sindaco Tommaso Sodano, a sua volta indagato per una consulenza finita a una conoscente.
Nel maggio del 2011, a poche ore dalla elezione a sindaco di de Magistris, il Corriere aveva profetizzato che Napoli si sarebbe stancata presto anche del suo ultimo Masaniello, l’ennesimo pubblico ministero che si era buttato in politica illudendo gli elettori di salvare la patria facendole la morale. Ma nessuno poteva prevedere che la decapitazione politica del sindaco-Masaniello sarebbe stata allestita proprio in Procura, dai suoi ex colleghi, e a colpi di codice penale, degradando a politicante qualsiasi l’uomo che aveva promesso di rivoltare la politica come un calzino.
Questa guerra tra pm ed ex pm napoletani ha prodotto numerose inchieste che coinvolgono personalmente il sindaco. E l’indagato ha reagito proprio male. Più o meno come reagivano i suoi indagati. Accusando gli inquirenti di giustizia ad orologeria in un caso, di accanimento giudiziario in un altro, e di giustizia politica in un altro ancora. Fino alla frase choc, che a dire il vero nemmeno un Previti o un Dell’Utri avevano mai osato pronunciare contro i loro giudici naturali: «Non mi farò condizionare né dalla camorra né dalla magistratura». Detta da un ex magistrato, un po’ più che vergognosa.
Il paradosso è che, almeno a parere di chi scrive, anche le inchieste contro de Magistris gareggiano per inconsistenza e superficialità con quelle che lui allestiva da pm con gran clamore mediatico e nessun risultato giudiziario. In un caso, per esempio, è accusato di non aver usato i soldi dei grandi eventi per riempire le buche delle strade. Un giudizio perfettamente legittimo se ad esprimerlo sono gli elettori, ma che c’azzeccano i pm, verrebbe da dire citando uno del ramo. In un altro caso la Procura ha sequestrato con grande clamore il computer del capo di gabinetto del sindaco e ha perquisito l’ufficio del fratello del sindaco, solo per essere poi costretta a restituire tutto su ordine del Tribunale del Riesame, che ha riscontrato «l’assoluta mancanza di motivazione» del provvedimento. E nemmeno al più feroce critico del giustizialismo alla de Magistris deve venire la voglia di godersi questa nemesi storica, assistendo all’epurazione del più puro per via giudiziaria.
Ma la verità è che, indipendentemente e prima delle inchieste, la stella del sindaco che voleva «scassare tutto» era già tramontata nell’unico tribunale che può decidere la sorte di un eletto del popolo: nell’opinione pubblica. La povertà desolante di progetti, l’incapacità amministrativa, l’arroganza personale che lo ha portato a rompere subito con i migliori uomini della sua amministrazione, la subordinazione di ogni scelta all’obiettivo di una carriera politica nazionale presto evaporata nel flop della lista Ingroia, hanno stufato i napoletani.
Di fronte al dramma di una grande città che sta letteralmente affogando giorno per giorno, è parsa addirittura patetica, oltre che dispendiosa e futile, una politica fatta di immagine, di una finta America’s Cup e di un lungomare chiuso al traffico.
Perfino l’unica cosa che funziona a Napoli, il calcio, sta facendo risaltare per contrasto la miseria della classe politica al comando. Per un sindaco che non sa nemmeno risolvere il problema dell’agibilità dello stadio, c’è un De Laurentiis che invece ha portato la squadra in Europa, e che sembra intenzionato a restarci a lungo.
Sbiadito l’arancione, diseredato dall’azzurro, al sindaco non resta che il grigio, senza sfumature, di un declino ormai irreversibile. Povera Napoli.

Il Corriere della Sera 29.07.13

“La realtà capovolta”, di Pietro Spataro

Tra ventiquattro ore sapremo che ne sarà di Silvio Berlusconi. Se la Cassazione confermerà o meno la condanna a quattro anni di carcere e a cinque di interdizione dai pubblici uffici per l’accusa di frode fiscale nell’affare Mediaset-diritti tv. Sarà una sentenza importante perché segnerà, in un modo o nell’altro, non solo il destino personale del Cavaliere ma anche quel- lo della sua creatura politica. Non a ca- so il Pdl sta vivendo con ansia crescen- te questo passaggio giudiziario.
Un passaggio che può essere dirompente per la natura e il futuro del centrodestra. È un sentimento comprensibile, al netto degli eccessi verbali e delle urla di guerra. Meno comprensibile è il tentativo di legare le sorti del governo Letta alla pronuncia della Suprema Corte o, in alternativa, di scaricare su altri – il Pd innanzitutto – la responsabilità di una scelta che è tutta drammaticamente sulle spalle di Berlusconi e dei suoi uomini. Bisogna essere chiari su questo punto. Non si può permettere ai «furbetti del cerino» di agire indisturbati, di cambiare abito tra una scena e l’altra volteggiando

prima come colombe e poi come falchi, in un gioco degli specchi nel quale si frantuma la realtà.
Le parole pronunciate ieri dal Cavaliere, in un’intervista con Libero poi parzialmente smentita, fanno parte di questa strategia di distrazione di massa. Io sono il buono, dice in sostanza, mai farò cadere il governo, vedrete che morirà per colpa del Pd che non accetterà di governare con un partito il cui leader è agli arresti. È un argomento provocatorio, nel senso letterale del termine. Una provocazione con la quale si cerca, in modo maldestro, di mettere in difficoltà l’avversario politico, allontanando da sé ogni responsabilità. Così però è troppo facile. E lo dimostrano le centinaia di dichiarazioni bellicose del gruppo dirigente del Pdl che, tra un «accanimento giudiziario» e un «uso

politico della giustizia», lasciano pendere sul governo la spada di Damocle di una sentenza considerata da tutti il frutto avvelenato di una «patologia». Quando a questa guerra partecipa anche chi nel centrodestra è più sensibile a un’evoluzione democratica di quel partito, vuol dire che c’è poco da sottilizzare: è il Pdl a considerare il 30 luglio, cioè domani, il giorno del giudizio, dopo il quale nulla sarà come prima.

È il Pdl, insomma, a non voler mantenere la separazione tra la vicenda politica e la questione giudiziaria e quindi tenere distinti il destino del governo da quello personale del suo capo. L’esecutivo guidato da Letta, e sorretto da questa stranissima maggioranza, è nato non per dirimere le controversie nei tribunali (ci mancherebbe altro), ma per uno
scopo ben diverso, che riguarda la salvezza del Paese, sia dal punto di vista economico che da quello istituzionale. Non c’è stato, né mai poteva esserci, alcuno scambio tra il via libera al governo e un presunto salvacondotto a Berlusconi. Queste sono fantasie complottiste che eccitano le penne del Fatto quotidiano o l’ego dichiaratorio dei teorici del grande inciucio e che servono solo a infuocare il web o ad accrescere i follower su Twitter. Inutile quindi girarci attorno o lasciarsi abbagliare: la sentenza di domani riguarda interamente il Cavaliere e il suo partito. Anzi, soprattutto il suo partito. Che dovrà decidere, una volta per tutte e persino al di là del pronunciamento della Cassazione, che cosa vuole fare da grande. Se restare ancora attaccato al suo padre-padrone e seguirlo nella deriva del partito personale e patrimoniale, oppure se rompere gli ormeggi e provare a costruire una forza politica che guardi di più alle capitali europee e meno alle luccicanti stanze di

Arcore. L’aria che tira va nella prima direzione, purtroppo, e porta con sé persino il ritorno al passato di una Forza Italia riverniciata. Ma questa, e non un’altra, è la questione centrale.
Chi rispetta lo Stato di diritto e il ruolo della magistratura deve accettare la sentenza di domani, qualunque sia l’esito. Noi ci atterremo, come sempre, a questo principio. E quindi, se la condanna di Berlusconi venisse confermata, la sentenza andrà eseguita in tutti i suoi aspetti. Non esistono scorciatoie o soluzioni politiche, come sperano nel Pdl o come si aspettano, per poter gridare allo scandalo, i giustizialisti di casa nostra. Il Parlamento ha l’obbligo di prendere atto della pronuncia della Cassazione e, senza alcun rinvio o tentennamento, ratificare l’interdizione del Cavaliere dai pubblici uffici e quindi la sua decadenza da senatore. La legge è uguale per tutti, e non ci può essere uno più uguale degli altri anche se si chiama Silvio Berlusconi.