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“Fabbricati rurali: Carpi allenta i vincoli”, di Serena Arbizzi

La decisione potrà accelerare la ricostruzione di fienili e magazzini per il ricovero delle attrezzature. Approvata durante l’ultima seduta straordinaria prima della pausa estiva del consiglio comunale la revisione dei vincoli di ristrutturazione parziale di undici fabbricati rurali danneggiati dal terremoto. Il Comune di Carpi accelera sulla strada del sostegno alla ricostruzione dei fienili, magazzini e ricoveri legati al settore agricolo- Un passo importante, fatto anche di buon senso, perché oggettivamente per molte aziende agricole non c’è solo il problema di recuperare i magazzini e fienili ma anche quello di mettere al riparo dalle intemperie le attrezzature. Si tratta della seconda tranche di un procedimento avviato dalla giunta alla fine del mese di giugno, al fine di alleggerire e accelerare le pratiche per la ricostruzione degli edifici che si ritrovano in campagna e, a causa di leggi precedenti, i proprietari sarebbero stati vincolati a rimetterli in piedi esattamente con l’aspetto che avevano in precedenza. La legge che prevede la revisione di questi vincoli di ristrutturazione parziale sono inclusi nella legge 16 del dicembre scorso. Secondo l’assessorato competente, è stato di fondamentale importanza approvare prima della pausa estiva tali deroghe ai vincoli previsti, “perché così si accelerano molto i lavori e, anche un mese di tempo guadagnato significa moltissimo per chi si ritrova alle prese con i danni del sisma – afferma l’assessore comunale all’Urbanistica, Simone Tosi – La prima revisione che è stata attuata alla fine di giugno ha dato una risposta alle prime 21 domande, accettate e riferite ad altrettanti edifici. Altre undici sono state approvate giovedì sera. In totale, presso i nostri uffici comunali sono state presentate 47 domande. Su questo totale, 7 sono state o annullate o ritirate. Inoltre, durante un’altra seduta del consiglio, abbiamo approvato un piano per procedere celermente con i lavori di ricostruzione. È nostra intenzione, infatti, incaricare un professionista esterno per coadiuvare i nostri uffici al fine di velocizzare il più possibile i lavori. Sta procedendo, inoltre, il lavoro di microzonazione sismica: una prassi che ha richiesto molto impegno perché in alcune zone il nostro territorio si è mostrato particolarmente vulnerabile. Presto, comunque, consegneremo alla Regione i lavori di microzonazione sismica per avere un quadro completo e più fedele del territorio carpigiano».

La Gazzetta di Modena 29.07.13

“Così la creatività fa crescere l’economia”, di Massimo Vincenzi

“Il Pil non serve più. È utilizzato male, bisogna cambiarlo”: è il settembre del 2009. Joseph Stiglitz, insieme ad Amartya Sen e a Jean Paul Fitoussi, consegna all’allora presidente francese Nicolas Sarkozy il rapporto sui nuovi strumenti per misurare la ricchezza di un Paese a partire dal benessere non solo macroeconomico dei suoi cittadini. Ora tocca agli Stati Uniti compiere la vera rivoluzione: nel calcolo entrerà per la prima volta la creatività. Nel paese che ha trasformato il cinema in mito, allevato alcuni dei migliori scrittori e inventato tutto nel campo delle tecnologia, prima o poi doveva accadere. E l’ingresso avviene dalla porta principale: mercoledì la novità verrà presentata dal Bureau of Economic Analysis, l’istituto che elabora le principali statistiche economiche, a partire appunto dal Prodotto interno lordo. “Sarà la più importante revisione mai fatta”, scrive idea, finalmente entriamo nel ventunesimo secolo”.
La premessa è di Steve Landefeld, che guida la struttura federale: «Per anni abbiamo sottovalutato la creatività e l’innovazione. Ci siamo accorti che le nostre rivelazioni mostrano sempre più punti critici. L’errore è quello di non considerare come voci attive del bilancio i beni immateriali», spiega al New York Times.
Ovvero libri, film, musica, programmi televisivi, quadri, fotografia e, con un peso finanziario ancora maggiore, la ricerca e lo sviluppo. Diritti d’autore e brevetti.
Sino ad ora tutto questo finiva nella casella spesa: tipo le bollette per la luce o il cibo della mensa, soldi buttati al vento o quasi. Comunque zavorra per il Pil. Adesso il contrordine. Persino i biglietti di auguri saranno nel raggio d’azione del nuovo termometro. L’esempio è piccolo ma rende l’idea: questi cartoncini possono essere utilizzati sempre, non passano mai di moda. Sono, dunque, un benefit sicuro a lungo termine, come costruire un palazzo o una fabbrica, appunto. La novità è che non ci sarà bisogno di guadagni immediati. Il nuovo Pil considererà l’investimento di aver scritto un libro, prodotto un film, composto una canzone già di per sé come un fattore positivo, senza aspettare il verdetto del pubblico: i soldi verranno conteggiati quando arriveranno.
L’anno scorso, solo considerando il lavoro degli scrittori, sarebbero entrati nelle statistiche 9 milioni di dollari in più, secondo un primo calcolo. Una bella soddisfazione per una categoria accusata di non “dar da mangiare alla gente”. Niente da fare invece per i giornalisti, i cui articoli deperiscono troppo in fretta: «Ma con l’arrivo degli e-book,
che sempre di più raccolgono inchieste e reportage, anche questo cambier à in futuro, chissà», dice consolatorio un analista.
Il Bureau of Economic Analysis infatti naviga a vista. Anche per i prodotti tv ci sono delle differenze: lo sport e i reality show non generano reddito nel lungo periodo, al contrario delle serie che spesso diventano un cult e hanno mille vite: nei dvd, nel commercio on line. Così “Desperate Housewives” va nel Pil, “American Got Talent” no. Per i libri e soprattutto per i film è ancora più complicato. Quando nel 1977 George Lucas dirige il
“Guerre stellari” nessuno può prevedere la montagna di dollari che avrebbe fruttato. Così gli esperti dell’istituto non possono ora capire quale produzione sarà un successo e quale invece sarà un flop al botteghino: da qui l’idea di considerare i costi di produzione nella convinzione che gli errori si compenseranno. Poi c’è da tenere presente il deprezzamento. Certo le idee non si rompono come le macchine di una fabbrica, ma vengono copiate, superate da altre migliori, passano in secondo piano. Il Bea assegna così un tasso annuo di ammortamento del 10% per la ricerca scientifica in campo farmaceutico, contro il 36% per la progettazione di sistemi informatici, il 9 per i film, ma ben il 27 per la musica. Con i nuovi parametri, la cultura dal 2007 a oggi avrebbe portato un aumento dello 0,5%, ma il salto vero e proprio, l’aspetto economicamente più importante, è quello della ricerca, grazie soprattutto alla biotecnologia. In questo caso il balzo in avanti è attorno al 3%.
Nel 1999 si iniziò a considerare la creazione dei software come voci attive di un bilancio, adesso il definitivo cambio di marcia: dopo gli Stati Uniti toccherà all’Europa (Italia compresa) che, secondo un programma di un gruppo di studio delle Nazioni Unite, adotterà gli stessi criteri dal 2014. Canada e Australia sono gli apripista e già elaborano i loro dati secondo i nuovi parametri. «Saremo in grado di favorire la crescita e lo sviluppo tanto più riusciremo a misurare la forza che l’innovazione ha nelle nostre economie. Ha un ruolo centrale, tutti lo sappiamo, ma quando lo vedremo quantificato scientificamente capiremo meglio dove intervenire», disse nel 2011 Ben Bernanke.
E quella di considerare i beni immateriali al centro del motore dello sviluppo è un’idea che ha radici lontane. Nel 1908 l’economista Thorstein Veblen scriveva: «Dalla pubblicità al design sono molte le aziende che studiano come abbellire i loro prodotti per conquistare molti più clienti e poterli vendere a prezzi più alti». Cento anni dopo sarebbe arrivato l’iPhone con i suoi fratelli. E proprio nel bilancio dell’Apple le tradizionali forme di ricchezza industriale (impianti, immobili, macchinari) rappresentano una quota minima, attorno al 4%. Stessa cifra irrisoria, solo un po’ più alta (il 7%), per Time Warner e per la compagnia farmaceutiche Pfizer. Il resto è ingegno, fantasia. La costruzione del brand, corsi di formazione per i dipendenti: l’ossessione vincente per la qua-lità, che fa rima con futuro e speranza. Non a caso Obama nel suo discorso di rilancio dell’economia mette tra i punti centrali per eliminare le differenze di classe proprio l’istruzione, che della ricerca è la madre. E Thomas Friedam sul New York Times commenta: «Le città sono il nuovo
traino dell’economia Usa. Le metropoli che hanno saputo rinnovarsi puntando sulle università, sulle tecnologie, sul wi-fi, sull’innovazione decollano. Quelle che sono rimaste legate ai vecchi modelli industriali, vanno a fondo: come Detroit». E’ la legge della creative class, la fortunata definizione del sociologo canadese Richard Florida che associa in maniera direttamente proporzionale la vivacità culturale (non misurabile sino ad ora con gli strumenti classici) allo sviluppo finanziario di una comunità. Due ricercatori, Carol Corrado del Conference Board e Charles Hulten dell’Università del Maryland, non hanno dubbi: «Se sommassimo il peso specifico dei beni immateriali supererebbero di gran lunga gli altri». È una rivoluzione culturale, prima ancora che economica: «Finalmente avremo uno sguardo più realistico sul mondo», sostiene Baruch Lev della New York University.
È 18 marzo del 1968 quando Robert Kennedy tiene nel campus del college del Kansas uno dei suoi discorsi più famosi: «Non possiamo misurare il successo di un Paese sulla base del suo Prodotto interno lordo. Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità dell’educazione o della gioia dei momenti di svago. Non comprende la bellezza della poesia». Ecco, forse per i versi in rima è ancora presto ma almeno il freddo indicatore economico dovrà iniziare a fare i conti con le parole dei libri, le emozioni dei film e il potere delle idee. Magari la ripresa passa proprio da qui.

La Repubblica 29.07.13

“Poveri che lavorano, il nuovo dramma”, di Carlo Buttaroni

Li chiamano working poors, poveri che lavorano. Poveri nonostante abbiano un reddito mensile fisso. Una povertà nascosta sotto le mentite spoglie della normalità, per non darlo a vedere, per non essere considerati come tali. D’altronde, la crisi che stiamo vivendo genera nuove traiettorie d’impoverimento, modifica le forme del disagio sociale, sposta l’asse dalla marginalità alla vulnerabilità, vale a dire dall’idea di “povertà cronica” a quella di “processi d’impoverimento diffuso” in cui è coinvolta una moltitudine di persone cui il lavoro non assicura più i mezzi per una vita dignitosa e il sostentamento necessario. Ed ecco che quindi i workingpoors, definiti anche “poveri in giacca e cravatta”, rappresentano una delle più drammatiche conseguenze del momento buio che stiamo vivendo: in altre parole, una zona grigia di nuove povertà. Forse la più rilevante, dal punto di vista economico e sociale, nel momento in cui rappresentano una povertà che ha radici non nella mancanza del lavoro, ma nel lavoro stesso che non è più in grado di garantire un reddito sufficiente per una vita senza stenti. Se, un tempo, la presenza di anche solo un membro portatore di reddito in famiglia era condizione sufficiente per non cadere in povertà, oggi, con le medesime condizioni, una famiglia è sotto la soglia di povertà. E questo vale per una famiglia su dieci che stenta ad arrivare alla fine del mese. Il fenomeno non ha “professione”, ma ingloba quasi tutte le categorie: dal pubblico impiego alla piccola e media impresa, dall’edilizia all’artigianato, dal dipendente al lavoratore atipico, dai pensionati ai giovani in cerca di occupazione. Ed ecco che la gerarchia sociale introduce un nuovo tipo di classe, i cosiddetti “penultimi”. Una grossa fetta di popolazione che ha perso speranza e coraggio, che non riesce più a puntare verso l’alto della piramide sociale, ma si sente risucchiata verso il basso e sfiora pericolosamente la soglia di povertà fino spesso a oltrepassarla, risultando così schiacciata verso l’indigenza. Un ceto medio che va scomparendo, quindi, portando alla destabilizzazione degli stabili, con una regressione nella scala sociale fino alla proletarizzazione. Guardandoli allo specchio, però, sono poveri che non sembrano poveri: perché hanno un lavoro, quasi sempre il cellulare e l’automobile, ma non hanno soldi a sufficienza per mangiare fino alla fine del mese, per mandare avanti la famiglia facendo fronte agli impegni quotidiani. Le storie sono tante. E diverse. Dipendenti con reddito fisso che hanno visto scemare il loro potere d’acquisto, anziani che percepiscono pensioni troppo basse, lavoratori precari o flessibili, donne separate con figli, famiglie numerose con più di tre figli, famiglie che collassano e crollano con il peggioramento delle condizioni socio-economiche, uomini separati che non hanno più casa e dormono in macchina, giovani con un titolo di studio medio o alto che non riescono a inserirsi in modo dignitoso nel mondo del lavoro e sono costretti ad accettare impieghi a termine e sottopagati, persone che all’improvviso perdono il lavoro di una vita o tutti i risparmi, persone colpite da gravi malattie invalidanti che le condannano all’emarginazione sociale. Non possono permettersi le vacanze, né curarsi adeguatamente. Sono 18 milioni gli italiani per i quali una spesa imprevista superiore agli 800 euro non sarebbe sopportabile. Cifre impressionanti. Per loro più che di nuove povertà, dovremmo parlare di povertà vecchie per persone nuove, con percorsi di caduta che accanto al tradizionale accumulo di eventi critici (disoccupazione, problemi di salute, disagio sociale, solitudine), se ne aggiungono di nuovi come l’intrappolamento nella precarietà. Forme di lavoro che non permettono alcun tipo di progetto o di percorso verso l’autonomia e che vedono sempre più giovani, donne e uomini maturi che non riescono comunque a far fronte agli impegni economici, né tanto meno riescono ad azzardare progettualità di alcun genere. Eppure spesso si tratta di soggetti che hanno quote elevate di capitale umano e che hanno acquisito significative competenze professionali e sociali data la loro lunga permanenza nel mercato del lavoro. Secondo l’Istat, gli italiani in condizioni di povertà relativa sono 9,6 milioni, un esercito cresciuto di 1,4 milioni d’individui in un solo anno. Tra il 2011 e il 2012 i nuclei familiari sono aumentati di 219mila unità, le famiglie povere di ben 450mila. Vale a dire che per ogni nuova famiglia che si forma, due scivolano verso l’indigenza. Ormai il 12,7% delle famiglie residenti nel nostro Paese vive in condizioni di povertà relativa. E se la difficolta’ a trovare un’occupazione si associa a livelli di povertà certamente più elevati (ben il 35,6% delle famiglie con a capo una persona in cerca di lavoro vive in condizioni di povertà) non ne sono immuni quelle che un lavoro, invece, ce l’hanno, come le famiglie di operai, tra le quali l’incidenza della povertà è pari al 16,9%. Nel complesso, la condizione di povertà relativa riguarda il 10,8% degli occupati (era il 9,1% nel 2011) ed è cresciuta sia tra i lavoratori dipendenti (+1,9%) che tra gli autonomi (+1,1%) colpendo anche le fasce sociali affluenti del ceto medio, come dirigenti e impiegati (+2,1%). Tra il 2011 e il 2012 i segnali di peggioramento si rilevano in tutte le ripartizioni geografiche: l’incidenza di povertà e’ passata dal 4,9% al 6,2% nel Nord, dal 6,4% al 7,1% nel Centro e dal 23,3% al 26,2% nel Mezzogiorno. In quest’area, in particolare, vive in condizioni di povertà il 32,3% delle famiglie di operai, il 24,1% di quelle con a capo un lavoratore dipendente e il 20,7% di quelle che hanno come persona di riferimento un lavoratore autonomo. L’Italia è il Paese che ha perduto più posizioni in Europa negli indicatori dello sviluppo economico e sociale e dove l’indice della popolazione a rischio di povertà propone gli scenari più inquietanti. I workingpoors rappresentano proprio il riflesso tremolante di un Paese fragile, ma che non ammette di esserlo

* Presidente Tecné

L’Unità 29.07.13

“Primarie aperte per non chiudere il Pd”, di Ilvo Diamanti

Il partito Democratico procede verso il congresso. Si svolgerà a fine novembre, ha garantito il reggente, Guglielmo Epifani. Con quali regole, però, non si sa ancora. Le regole, d’altronde, non scaldano il cuore dei militanti e degli elettori. Più sensibili ai discorsi sui valori. Ai contenuti. Di cui, peraltro, si sente parlare poco. Le regole, però, contengono i valori. Li rendono possibili ed effettivi. E le procedure congressuali, attraverso cui vengono scelti i dirigenti e il leader, contribuiscono a definire l’identità stessa del partito. In particolare in questa fase, in cui le elezioni sono divenute un confronto fra persone. Cioè, tra leader di partito. Per questo la discussione avviata in questi giorni è tanto importante. E accesa. Perché serve a stabilire “cosa” e “chi” sarà il Pd. Due questioni che coincidono largamente.
Sono due gli argomenti che generano maggiore tensione. Il primo riguarda il rapporto fra partito e governo. Si traduce nella distinzione oppure la coincidenza fra segretario di partito e premier. L’indicazione del segretario e della maggioranza del Pd prevede l’incompatibilità fra i due ruoli. Un orientamento già sostenuto da Fabrizio Barca, nel suo documento, proposto alcuni mesi fa. Si tratta di una scelta diversa, rispetto alla breve storia del partito. Sia Veltroni sia Bersani, infatti, dopo essere stati eletti segretari, hanno guidato il Pd e gli alleati alle elezioni politiche. Naturalmente, questa distinzione marca la distanza fra il partito – che è “parte” – e il governo dello Stato – che è di tutti. Anche se in altre democrazie europee, come la Germania e l’Inghilterra, il leader del partito che vince le elezioni diviene, automaticamente, premier. Mentre in Francia, regime semi-presidenziale, il presidente è, di fatto, anche leader del suo partito. In Italia, però, la storica sovrapposizione fra Stato e partiti, formatasi durante
il fascismo e riprodotta anche successivamente, rende difficile accettare la coincidenza di ruoli. In particolare oggi. In tempi di sfiducia verso i partiti e le istituzioni. E di polemica accesa contro i costi della politica. Tuttavia, nei fatti, è difficile dissociare i due ruoli. In particolare, guidare il governo senza il controllo sul partito. Come dimostra l’esperienza di Prodi. Tra il 1996 e il 1998: premier senza partito. In balia delle fluttuazioni dell’Ulivo – internamente e profondamente diviso. Mentre dieci anni dopo, nel 2008, la caduta del suo governo fu, se non favorita, almeno agevolata dall’elezione alla segreteria del Pd di Walter Veltroni. Non a caso, candidato premier alle elezioni politiche di quell’anno.
La seconda questione riguarda il “metodo” per designare il segretario. Fino ad oggi, è stato scelto attraverso primarie “aperte” agli elettori del Pd. Così sono stati eletti Veltroni, nel 2007, e Bersani, nel 2009. Le primarie hanno costituito, per questo, una sorta di “rito fondativo” che radica la legittimazione del partito, prima ancora della leadership, sul coinvolgimento dei militanti, ma anche degli elettori. D’altra parte, la partecipazione alle primarie può essere considerata una sorta di “iscrizione”, visto che richiede la condivisione – e la sottoscrizione – dei valori e dei programmi del partito, ma anche il pagamento di una quota. Un’autodichiarazione esplicita a favore del partito.
Tuttavia, c’è chi preferirebbe rinunciare alle primarie, limitandole alla scelta del candidato premier. Dunque, nell’ambito della coalizione. La scelta del segretario, invece, dovrebbe avvenire attraverso congressi di partito. Fra gli iscritti. Al più, come ha precisato Epifani, fra gli “aderenti” (?).
Come si vede, la discussione sulle regole evoca questioni sostanziali. Che riguardano quale modello di partito insegua il Pd. E, prima ancora, con quali progetti, contenuti, programmi. Leader.
Invece, è difficile scacciare il sospetto che tutta, ma proprio tutta, la discussione ruoti intorno al futuro di Matteo Renzi. Che un’ampia parte del gruppo dirigente fatica ad accettare alla guida del Pd. Renzi stesso, d’altronde, pare molto più interessato a conquistare la guida del governo più che quella del partito. Probabilmente, anche gli altri leader del Pd lo preferirebbero in quel ruolo. Dopo l’esperienza delle elezioni recenti, è evidente come Renzi sia in grado di allargare i consensi del centrosinistra. Di farlo “vincere” davvero. Tuttavia, in questo momento, il posto di premier è già occupato. Da un altro leader del Pd, Enrico Letta. Giovane e accreditato nell’opinione pubblica. Letta guida una maggioranza che riunisce gli avversari di sempre. Pd e Pdl. Un governo di emergenza e di necessità. Così le strade di Renzi e di Letta sembrano incrociarsi e, in parte, scontrarsi. La durata del governo, infatti, appare un vantaggio per Letta e, comunque, un fattore di usura per Renzi. Così gli avversari di Renzi scommettono sulla durata del governo. Mentre Renzi sembra scommettere sulla fine delle larghe intese e del governo di scopo. Al di là di valutazioni politiche: per ragioni interne al Pd.
Ammetto che questa discussione non mi appassiona. E mi pare, anzi, inaccettabile. Il Pd ha bisogno di una leadership autorevole e condivisa. E, per questo, espressa attraverso il coinvolgimento degli elettori. Il più largo possibile. Dunque, attraverso primarie aperte. Il congresso, le primarie, devono offrire al Pd l’occasione per discutere del presente e del futuro. Del Paese. Dell’economia, del lavoro e del non lavoro. Delle riforme istituzionali ed elettorali. Ma anche di se stesso. Perché il Pd è ancora, come lo definiva Berselli nel 2008, un “partito ipotetico” . Un “partito incompiuto”, chiarisce il politologo Terenzio Fava, in un volume in uscita (per Aracne). Perché in costante conflitto interno. Tra giovani e vecchi, centro e periferia, ex e post/democristiani e comunisti… Fra “veltroniani”, “dalemiani”, “rutelliani”, “popolari”, “ulivisti”, “liberal”, “teodem”. E ancora: renziani, giovani turchi, ecc. Per questo al Pd può far comodo questa fase di sospensione, all’ombra di un governo sospeso. Ma un partito sospeso non può durare a lungo. Per questo il congresso è una tappa importante, decisiva. E deve essere affrontata in modo aperto. Senza rete. Senza cercare regole per escludere o scoraggiare “qualcuno” in particolare. Per la stessa ragione, se Renzi ambisce a guidare il governo, domani, deve candidarsi a guidare il partito. Oggi. Per progettare il futuro. Non “contro”, ma “oltre” questo “governo di servizio” – a tempo determinato. Perché senza conquistare il partito, comunque, non riuscirà a governare molto a lungo.

La Repubblica 29.07.13

“Sindaci sul piede di guerra Fassino:“Tra tagli e buco Imu lo Stato ci fa saltare i bilanci”, di Luisa Grion

Questione di soldi, di tagli e di bilanci, ma non solo: nel rapporto fra i Comuni italiani e il governo la tensione si taglia con il coltello. I sindaci non ci stanno a coprire il «buco» da 700 milioni aperto nelle casse dello Stato per mancati introiti da Imu, e Piero Fassino, primo cittadino di Torino e presidente dell’Anci denuncia «l’inaccettabile neocentralismo statale che si ostina a considerarci come un parassitario centro di spesa, mentre invece eroghiamo servizi, asili nido, assistenza sociale, sostegno ai disabili, trasporti locali, cultura».
Presidente, cominciamo dai soldi: lei ha detto che allo stato attuale i Comuni non sono in grado di presentare i loro bilanci. Alla scadenza, il 30 settembre, mancano meno di due mesi. Cosa si rischia?
«I Comuni rischiano di saltare, ma se saltano loro salta il Paese».
I bilanci a rischio dipendono dalle indecisioni sull’Imu?
«Non solo: non sono particolarmente interessato al referendum Imu sì-Imu no, l’essenziale per me è che i Comuni ricevano il 100% del corrispondente delle entrate spettanti. L’incertezza pesa, ma in questi giorni c’è un’emergenza più grave: lo Stato ha incassato 700 milioni in meno della sua quota Imu e adesso pretende che gliela diamo noi. Ma questa volta non pagheremo l’ennesima fattura arrivata dall’alto ».
Stato ed enti locali non dovrebbero collaborare nel sanare i conti pubblici?
«La nostra parte l’abbiamo sempre fatta e vogliamo continuare a farla: da 12 anni sopportiamo decurtazioni ai trasferimenti. Il governo Letta ha ampliato i tagli già previsti dal governo Monti, passando da 2 a 2,25 miliardi. Già nel 2012 avevamo percepito 700 milioni in meno rispetto alle previsioni sulle quote spettanti da Imu. Solo negli ultimi quattro anni abbiamo perduto 8 miliardi di trasferimenti: in vecchie lire farebbero 16 mila miliardi. Non solo: fatta 100 la spesa pubblica, 58 fanno capo allo Stato e meno di 15 sono imputabili ai Comuni. Stiamo dando molto più di quanto riceviamo: la novità è che non possiamo più farlo e che non siamo più disposti ad accettare un metodo di lavoro che ci indigna e offende».
Quale metodo?
«Negli ultimi 18 mesi, i governi prima Monti, poi l’attuale – hanno varato 16 decreti che ci riguardano, costringendo ogni volta i sindaci a rifare i bilanci. E questi decreti, colmi di norme che pretendono di spiegarci come governare, sono scritti da persone che non hanno idea di com’è fatto un Comune e che danno l’impressione di non saper amministrare nemmeno un condominio. Loro non ci mettono la faccia, noi sì, siamo stati eletti dai cittadini e a loro rispondiamo. Chiediamo al governo un incontro urgente».
Cosa volete?
«Intanto che venga annullata la richiesta di versare allo Stato i 700 milioni che non abbiamo mai percepito. Poi vogliamo uscire dalla prigione del Patto di stabilità interno: non riusciamo a fare nemmeno la manutenzione ordinaria e il Paese ha assoluto bisogno dei nostri investimenti. E vogliamo riscrivere il patto istituzionale: non siamo più disposti ad accettare che lo Stato centrale decida su cosa che ci riguardano senza nemmeno ascoltarci. Parliamone alla pari».

La Repubblica 28.07.13

“Antisismico, bonus 65% in 3mila Comuni”, di Giorgio Santilli

Sono 3.069 sul totale di 8.101, quindi il 38% circa, i comuni di fascia sismica 1 e 2 in cui sarà possibile utilizzare il bonus fiscale del 65% per i lavori di consolidamento antisismico. L’Aula della Camera comincerà domani a ratificare il voto delle commissioni Finanze e Attività produttive di Montecitorio che ha esteso l’agevolazione fiscale per l’attività di prevenzione anti-terremoto dal 50% al 65%, con un doppio limite. Quello territoriale, appunto le fasce 1 e 2 della mappa sismica definita dalla Protezione civile, e quella della tipologia di edificio, limitando la nuova agevolazione alle prime case e agli stabilimenti produttivi. Una limitazione, quella tipologica, che però somiglia più a un’estensione, visto che sono ricompresi capannoni e altri immobili produttivi.
Il presidente della commissione Ambiente della Camera, Ermete Realacci, padre della norma, è convinto che il segnale mandato dalla Camera sia della massima importanza perché consente di avviare una politica di difesa del territorio e di forte innovazione per l’edilizia. Ma al tempo stesso Realacci dice che «la vera campagna d’autunno sarà la stabilizzazione di questo strumento agevolativo, in modo da consentire una pianificazione di più lungo periodo, necessaria per questo genere di interventi». Una posizione su cui sono tutti d’accordo, dalle imprese dell’Ance agli ordini professionali. «Una norma di civiltà, un grazie a Realacci e al ministro Lupi – dice Leopoldo Freyrie, presidente del Consiglio nazionale degli architetti -. Finalmente prende il via concretamente anche nel nostro Paese la cultura della prevenzione antisismica». Anche il sottosegretario alle Infrastrutture, Erasmo D’angelis, parla di «rivoluzione culturale per l’Italia».
Il coro di consensi sulla svolta culturale di una seria prevenzione antisismica potrebbe portare a un rilancio di uno altro strumento pubblico poco noto, il piano nazionale antisismico della Protezione civile. Il piano – previsto dal l’articolo 11 della legge 77/2009 – ha uno stanziamento di 965 milioni per il periodo 2010-2016: il 10 luglio è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale l’ordinanza di ripartizione fra le Regioni dei 195,6 milioni dell’annualità 2012. È la tranche più ricca finora assegnata: per l’annualità 2010 si era infatti partiti con 42,5 milioni, saliti a 145,1 milioni nel 2011 (fondi sbloccati con l’Opcm 4007/2012, del 7 marzo 2012), e appunto a 195,6 milioni per l’annualità 2012, livello che resterà ora invariato per i fondi 2013 e 2014, per poi ridiscendere a 145,1 milioni nel 2015 e 44 milioni nel 2016.

Il piano nazionale per la prevenzione del rischio sismico, avviato dopo il terremoto in Abruzzo del 6 aprile 2009, prevede la realizzazione di interventi finalizzati a migliorare la resistenza al terremoto di edifici esistenti, sia pubblici che privati, e per effettuare indagini di microzonazione sismica dei territori a rischio.
L’ordinanza della Protezione civile ripartisce come sempre i contributi tra le Regioni sulla base dell’indice medio di rischio sismico, privilegiando le aree a maggiore pericolosità, per indirizzare l’azione verso le riduzione delle perdite di vite umane. I contributi possono essere utilizzati solo nei Comuni nei quali l’accelerazione massima al suolo “ag” sia pari o superiore a 0,125g.
Spetta ora alle Regioni individuare la somma da destinare ai contributi per gli interventi sugli edifici privati, per cui è previsto un minimo del 20% fino a un massimo del 40% del finanziamento complessivo.

Il Sole 24 Ore 28.07.13

Ecco dov’è finito il made in Italy negli anni della Grande Crisi”, di Fabio Savelli e Arcangelo Rociola

Dal 2009 acquisti dall’estero per 47 miliardi. Nel 2013 passate di mano già 42 aziende. Niente paura. Nessuna linea Maginot da erigere a protezione delle nostre aziende. Tanto meno la volontà di rilanciare il dibattito sulla necessità dell’intervento statale misto a un campanilismo vecchia maniera non più adeguato ai tempi del commercio globale. Solo una ricognizione sul made in Italy “venduto” agli stranieri nei cinque anni della Grande Crisi tra luoghi comuni da sfatare, insicurezze da dissipare, persino qualche buona notizia nel Belpaese preda degli appetiti degli investitori esteri a caccia di marchi riconosciuti. Dal 2009 ad oggi sono state acquisite da imprenditori/fondi d’investimento/fondi sovrani 363 aziende italiane per un controvalore di circa 47 miliardi di euro. Lo studio realizzato dalla società di revisione Kmpg per il Corriere della Sera testimonia come il picco si è avuto nel 2011 quando sono state 109 le operazioni sul mercato italiano, mentre nei primi sei mesi del 2013 si è in linea con gli anni precedenti (42 acquisizioni per un ammontare di 4,1 miliardi di euro) nonostante «la dura recessione economica». Da Bulgari acquisita dalla holding del lusso Lvmh per 4,3 miliardi di euro (2011) alla Parmalat finita nelle mani francesi di Lactalis per 3,7 miliardi (stesso anno). Dalla più recente Loro Piana, rilevata all’80% dallo stesso gruppo emanazione dell’imprenditore Bernard Arnault (2013) alla Coin controllata dal fondo inglese di private equity Bc Partners a fronte di una spesa di 906 milioni di euro (sempre nel 2011). E ancora: la Ducati comprata dalla tedesca Audi del gruppo Volkswagen per 747 milioni (2012) e il gruppo Valentino ora di proprietà di Mayhoola for Investment, società riconducibile allo sceicco Hamad bin Kahlifa al Thani, emiro del Qatar. L’elenco potrebbe proseguire con Moncler, Ferré, Bertolli, Orzo Bimbo, Cesare Fiorucci e Ferretti yacht (ora cinese), ma è da smentire lo stereotipo che le acquisizioni da oltre frontiera siano accelerate da sette trimestri consecutivi di Pil italiano negativo. In realtà gli investimenti diretti esteri seguono una dinamica speculare alla situazione economica del sistema-Paese di destinazione. Nel 2007 – l’ultimo anno di crescita sostenuta – le operazioni sul mercato italiano avevano toccato la cifra record di 28,4 miliardi di euro. Innocenzo Cipolletta, neo-presidente del Fondo Italiano d’Investimento (la societ à di gestione del risparmio compartecipata dal ministero del Tesoro, da Cdp, Abi, Confindustria e alcune banche-sponsor) è convinto che guardare gli investitori esteri con diffidenza sia un clamoroso errore di valutazione: «Ogni acquisizione è una prospettiva di sviluppo per l’impresa in sé, perchè apre nuovi mercati e suggerisce nuove piattaforme distributive per i prodotti del made in Italy. Semmai dobbiamo preoccuparci del perché poche aziende italiane comprino oltre-frontiera, ma qui l’accento è da porre sul basso accesso ai capitali di rischio delle nostre imprese, poco interessate a quotarsi in Borsa per il terrore di perdere il controllo della società». Analisi condivisa da Giuseppe Latorre, partner Kpmg corporate finance. Punta il dito contro «la nostra ossessione del controllo» e invita a «non dispiacersi per l’eventuale perdita di sovranità». Colpisce però come la politica di acquisizione di aziende italiane porti persino a un aumento del numero di addetti, al netto di un eventuale accentramento delle funzioni di staff che invece fuggono altrove. Secondo uno studio del Politecnico di Milano il numero di lavoratori italiani che lavorano per conto di aziende a ragione sociale estera è di oltre 886mila (dato 2012), in crescita di oltre 30mila unità rispetto al 2005. Spiega Stefania Trenti, economista dell’ufficio studi di Intesa Sanpaolo, come il nuovo fronte riguarda i servizi professionali: «L’apertura di filiali italiane da parte di grandi studi legali internazionali crea posti di lavoro ad alto valore aggiunto».

Il Corriere della Sera 28.07.13