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“Rosa, l’incubo di vivere con uno stalker”, di Laura Preite

«Ho paura, lui è una persona che non è abituata a perdere, le denunce lo hanno incattivito ancora di più, è un uomo capace di tutto». A parlare è una donna che ha ripetutamente denunciato il marito per stalking e maltrattamenti. Da un anno vive le conseguenze delle sue scelte coraggiose che l’hanno esposta ancor di più ai ricatti e alle minacce dell’uomo.
Due figli, adolescenti, la chiamiamo Rosa anche se non è il suo vero nome. Quando ci sarà la sentenza per l’affidamento della figlia, aggiungerà il suo nome a questa storia «per aiutare altre persone», ma fino ad allora c’è l’anonimato.

«Me lo ritrovo dappertutto, nonostante il decreto del giudice che ha vietato che lui si avvicini a meno di 500 metri, è sempre nel parcheggio dove lavoro» racconta Rosa. Ricostruisce le denunce: «L’anno scorso, prima dell’estate, decisi di lasciarlo, erano due anni che non lavorava più. Non contribuiva più alle spese, pretendeva sempre primo e secondo in tavola. A casa tutto doveva essere come diceva lui: i bimbi non dovevano accendere la luce, il televisore… Mio figlio più grande l’ha sempre chiamato, da che era piccolo, ’maiale’ e ’pezzo di merda’. Mi rubava i soldi e io lavoravo come una schiava. Ha incominciato a perseguitarmi, mi diceva che mi avrebbe denunciato perché lasciavo i figli a casa da soli». Lei lavora per due, iniziando alle 5 del mattino e finendo alle 8 di sera, finché decide di dire basta, di chiedere la separazione e di denunciarlo.

Questa storia è ancora più complicata perché c’è un’adolescente che i servizi sociali, scelti dal tribunale, hanno deciso debba vedere il padre, nonostante la ragazza non sia d’accordo. Così Rosa è nell’angolo: le assistenti sociali le hanno detto che non può continuare a denunciare l’ex marito (nonostante le violazioni del decreto di allontanamento e le minacce) perché influenzerebbe il rapporto che stanno cercando di costruire tra lui e la figlia. Lei le ascolta, teme davvero che gliela possano togliere, anche se lei vuole stare con la madre. «Non capisco la legge italiana: perché una ragazza di 14 anni non è libera di decidere chi sono le persone da vedere? Loro (gli assistenti, ndr) conoscono tutta la situazione, che lui vede la figlia per avere notizie di me e hanno capito che non cambierà. Perseguita anche la bambina: la aspetta fuori da scuola, grida all’autobus perché lei scenda. Ha perso un anno per via di questa situazione. La legge dovrebbe tutelare chi è più debole, non chi fa finta di essere più debole».

Poi ci sono le violenze fisiche continue, da sempre. Prima delle denunce infatti, ci sono stati altri sei interventi dei Carabinieri che però hanno sempre minimizzato l’accaduto. «Ricordo il momento in cui mia figlia ha deciso che non dovevo più dormire con lui. Di notte, mi sono sentita tirare per i capelli. Mi ha tirato giù dal letto per i capelli e trascinato fino in cucina, dicendomi che doveva parlare e che io dovevo ascoltarlo perché ero sua moglie e aveva tutto il diritto di decidere il modo e l’ora in cui dovevamo parlare. Poi una mattina stavo andando a lavoro, mi ferma, mi dice ’se esci da quella porta ti ammazzo’. Mi ha dato una botta dietro la schiena. Sono cascata, mi sono rialzata. Mi ha dato un altro calcio, così forte all’altezza del femore che ho perso l’equilibrio. L’ho guardato e l’unica cosa che mi è uscita è stata ’mi fai pena’. Ormai ero rassegnata a prendere botte da lui. ‘Poi facciamo i conti stasera’ mi ha detto». Aspetta quattro giorni per andare al pronto soccorso, sarà lo stesso ispettore che ha raccolto le sue denunce a consigliarla di farlo. Le conseguenze alla gamba sono irreversibili.

Il tribunale ci mette un anno per allontanare il marito da casa. Nel frattempo lui ha fatto sparire tutto l’oro di famiglia e anche i soldi per quel viaggio a Medjugorje, 2 euro alla volta dentro a un salvadanaio, che a una settimana dal viaggio, madre e figlia, scopriranno vuoto. Nessun viaggio, così come nessun alimento, nonostante un giudice abbia deciso diversamente.

Oggi c’è solo paura e l’attesa per la sentenza di ottobre che decide sulla separazione, le violenze e l’affidamento della figlia: «Ho paura di morire, di infilare la chiave nella serratura della macchina e saltare in aria. Mi aspetto di tutto ormai, è un uomo che non ha nulla da perdere, usa la figlia per i suoi scopi». Ci sono state le minacce di morte, ’Prima che finisce questa storia andrò in carcere per davvero ma ti toglierò dal mondo’ ‘il tuo bel faccino te lo sfregerò tutto’, ’ti metterò sulla sedia a rotelle’. Rosa è stata fermata per strada, mentre guidava, da due uomini: ‘bada a come ti comporti o finisci male’. Uno di questi ha chiesto l’amicizia alla figlia su Facebook: «Mi son sentita il sangue gelare, mia figlia mi ha inviato la sua foto, era lo stesso uomo».

Lui, il marito, ha sempre negato tutto, e continua a farlo. A ottobre scadrà il decreto che impedisce l’avvicinamento. Rosa e i suoi figli avranno ancora più paura. Guarda al futuro ma anche al passato: «Ho sempre creduto alla famiglia, per me il divorzio è un fallimento. Volevo fare la super donna, tenere insieme la famiglia, ma non ci sono riuscita. Tornassi indietro cercherei di far crescere i miei figli in modo diverso, non starei più zitta, mi difenderei. Parlerei con qualcuno, cercherei di cambiare la situazione. Invece, ho sempre solo messo le mani davanti al viso per non prendere le botte».

“La finanza non trascina l’economia”, di Francesco Guerrera

La città dell’automobile è in panne. Detroit, la patria del sogno americano della mobilità a quattro ruote, della musica leggendaria di Diana Ross, Marvin Gaye e Stevie Wonder, e di una mitica squadra di basketball è andata in bancarotta l’altra settimana. Un fallimento enorme – il più grande crac finanziario di una città americana – causato da politici corrotti e bugiardi, da pensioni troppo generose e da sperequazioni economiche incredibili. «La differenza tra i ricchi e poveri – mi ha detto un amico che a Detroit è nato e vissuto, “è di proporzioni dantesche”». Un inferno sociale ed economico di cui nessuno si vuole sentire responsabile. Non i politici locali, non l’amministrazione Obama e non certo le banche di Wall Street che hanno fomentato l’incuria finanziaria di una classe dirigente incompetente. Meglio, allora, nascondersi dietro ai numeri: 19 miliardi di dollari di debiti, 20.000 pensionati e un tasso di omicidi ai livelli più alti degli ultimi 40 anni.

Ma quando una città così importante e simbolica, nel cuore industriale dell’America va in coma, i numeri non bastano. Come spesso nella storia breve ma intensa degli Usa, l’economia del paese si specchia nelle gioie e drammi di Detroit.

Il fallimento di Motown – la città dei motori – è emblematico di un’economia americana che non ha ripresa. L’America di oggi è in folle: non in recessione ma incapace di crescere abbastanza per trainare il resto del mondo fuori dalle sabbie mobili della crisi finanziaria.

E’ una posizione scomoda per chi ha il compito di guidare l’economia più grande del pianeta: dal capo della Federal Reserve Ben Bernanke al capo di tutto il resto Barack Obama.

Detroit stava male da tempo e prima o poi sarebbe crollata, ma il colpo di grazia le è stato dato da un’economia che, a cinque anni dalla Grande Recessione, non riesce a ritrovare la velocità di crociera. Nell’America di oggi, ci sono tante mini-Detroit – non solo città ma anche aziende e famiglie prigioniere di un limbo finanziario che non permette loro di investire, crescere, ricominciare a vivere.

Basta guardare ai consumatori – il tradizionale motore della crescita Usa. A giugno, hanno speso lo 0,4% in più dell’anno scorso, ovvero quasi nulla – una cifra clamorosa se si pensa che, in questa fase del ciclo economico, Joe e Jane Blogg dovrebbero avere una relazione molto più intima con le loro carte di credito. Ed invece, i signori Rossi del Michigan, Oregon e California non aprono il portafogli.

Gli esperti non sanno che dire e gli uomini della Fed non sanno che fare. Per loro, la congiuntura è da mal di testa: la crescita di certi settori, soprattutto quello delle case e, paradossalmente, l’automobile, sta alimentando pressioni inflazionistiche.

Ma il resto del paese non li sta seguendo: le ultime previsioni dicono che l’economia americana è cresciuta dell’1,5% tra marzo e giugno. Poco, troppo poco per poter aiutare i milioni di americani senza lavoro e le imprese che non se la sentono di investire.

Un po’ d’inflazione in certe parti dell’economia e crescita quasi zero nel resto: è un dilemma da incubo per i banchieri centrali. Come fanno, sbagliano: se smettono di stimolare l’economia, il paese potrebbe ricadere nella recessione; ma se continuano a pompare denaro, la formazione di bolle inflazionistiche è pressoché certa.

Per ora, gli uomini di Bernanke, hanno scelto la seconda strada e i mercati applaudono. Chi è depresso dalle notizie provenienti da Detroit, dovrebbe farsi una passeggiata dalle parti della Borsa di New York. E’ come se fosse un altro pianeta. Le strade vuote e gli edifici fatiscenti di Motown contro l’attività frenetica e il passo affannato di chi fa soldi con soldi.

L’unico settore che è veramente nel boom in America è il settore finanziario. Sembra incredibile visto che la crisi del 2008 aveva decimato Wall Street, ma l’elasticità dei signori del denaro non smette mai di stupire.

E’ un sistema quasi feudale. Se la Fed vuole stimolare l’economia, deve passare per banche e mercati – i meccanismi di trasmissione di ogni sistema capitalistico. Ma il servizio non è gratis: le prime tasche che si riempiono quando la banca centrale riversa soldi nel sistema sono quelle dei banchieri firmati Canali e Armani, non certo quelle dei pensionati di Detroit.

E’ per questo che, nonostante la crescita anemica del resto dell’economia, i mercati azionari sono a livelli record. Che banche quali J.P.Morgan e Goldman Sachs stanno facendo soldi quasi come prima della crisi. Che i ristoranti intorno al New York Stock Exchange sono pieni zeppi di gente che mangia ostriche come se fossero noccioline.

La squadra di pallacanestro di Detroit si chiama «Pistons» ma i veri pistoni della crescita americana sono i computer, gli Ipad e telefoni degli operatori di Borsa di Manhattan.

Sarebbe stupido criticare i mercati solo perché sono al rialzo. Il movimento dei flussi di denaro è logico e razionale. Se la Fed vuole dar via soldi gratis, non ci si può sorprendere e i mercati se li prendono. E non c’è dubbio che la crescita del settore finanziario sia positiva per l’economia e abbia un effetto volano per investitori, consumatori e fondi pensioni. Senza le banche e i mercati, l’America starebbe molto peggio.

Il problema è che non di soli soldi vive un’economia. La finanza dovrebbe essere il collante che unisce consumatori e produttori, chi risparmia e chi investe. Ma in questo momento, è isolata e fine a se stessa, incapace di dare un impulso vitale ad altri, più importanti, settori.

«La speranza non è un piano d’azione», mi ha detto questa settimana Kevyn Orr, l’amministratore speciale della povera Detroit. Anche chi non è di Motown sa che un motore, per funzionare, ha bisogno di tutti i cilindri.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal

La Stampa 31.07.13

“Kyenge sfida Maroni: ferma i razzisti”, di Caterina Pasolini

Il governatore della Lombardia: la chiamerò, ma venga alla nostra festa. Adesso basta, Maroni metta in riga i suoi. Lo chiede la ministra Kyenge, stufa dei continui, «intollerabili» attacchi, insulti e minacce che le arrivano soprattutto da area leghista. In pochi giorni un assessore del Carroccio l’ha paragonata a un gorilla, il vicepresidente del senato Calderoli a un orango, le hanno gettato banane e minacciata sul web in vista del suo arrivo domenica a Verona. Ieri infatti un giovane, poi denunciato, ha postato: «A Cervia banane a Verona bombe a mano», mentre nei giorni scorsi un sessantenne della città scaligera aveva messo sulla sua bacheca facebook una foto di armi «per festeggiare l’arrivo della ministra negra».
Non ha paura Cecilia Kyenge e l’idea di dimettersi da capo del dicastero dell’Integrazione non la sfiora proprio, ma il livello di sopportazione è colmo. «Maroni intervenga sui suoi militanti perché cessino gli attacchi o non andrò alla loro festa». Il 3 agosto, infatti, è in programma l’incontro «riparatore» organizzato tra lei e il governatore veneto, e leghista, Luca Zaia.
Il leader della Lega Roberto Maroni non risponde all’appello, preferisce secchi no comment e un vago «la chiamerò per confermarle l’invito». Ma poi sottolinea che «noi non facciamo attacchi personali, siamo semplicemente contrari alle proposte come lo ius soli». Queste le dichiarazioni ufficiali, ma a una festa della Lega con un gruppo di militanti il presidente è sbottato: «I nostri che continuano a insultarla stanno facendo della Kyenge un’eroina, e questo per noi è devastante; non ci si può comportare così».
E se Maroni si barcamena, il segretario della Lega Lombarda Matteo Salvini su Facebook soffia sul fuoco. «Il ministero dell’integrazione? Inutile, ipocrita, costoso. E la Kyenge? Si ricorda di esistere solo quando viene attaccata. Ignoriamola». Per poi rincarare la dose su Twitter: «Questo governo istiga al razzismo. Parlano tanto di immigrati, ma si scordano gli esodati».
La realtà è che il nostro è un Paese dove si moltiplicano gli episodi di discriminazione, più della metà nel Nord: un aumento drammatico delle segnalazioni di ben il 61 % in un anno. A livello regionale, il maggior numero di casi di discriminazione segnalati provengono dalla Lombardia (19,6%) e dal Lazio (14,4%). I dati arrivano dall’Unar, l’ufficio antidiscriminazioni razziali, e sono stati diramati ieri in occasione della presentazione del Piano nazionale d’azione contro il razzismo, la xenofobia e l’intolleranza. Un piano triennale, nato dalla collaborazione tra il ministro per l’integrazione Kyenge e il viceministro del Lavoro e delle politiche sociali, con delega alle pari opportunità, Cecilia Guerra, che andrà in Consiglio dei ministri a novembre. Nel piano triennale un punto fondamentale sarà dedicato «all’odio razziale via Internet che sta aumentando », ha detto Kyenge. Ovviamente, il piano riguarderà tutte le discriminazioni, sia quelle etniche sia quelle religiose. Gli assi portanti del piano di azione saranno: occupazione, alloggio, istruzione, mass media e sport, sicurezza.

La Repubblica 31.07.13

Il Pd impegna il Governo a estendere gli sgravi del 65% al cratere

Accolto odg Pd che impegna il Governo a inserire la norma nel primo provvedimento utile. Un altro passo in avanti per la prevenzione antisismica nelle zone del cratere è stato compiuto, in serata, alla Camera dei deputati, in sede di conversione del Dl sugli ecobonus. Il Governo ha accolto, infatti, un ordine del giorno presentato dai parlamentare modenesi del Pd Manuela Ghizzoni e Davide Baruffi che impegna l’Esecutivo a includere nel primo provvedimento utile la norma che estende gli sgravi fiscali del 65% (previsti per gli interventi di adeguamento sismico delle prime case e delle sedi di attività produttive) anche ai Comuni colpiti dal sisma 2012. Nelle more dell’aggiornamento degli elenchi sulla sismicità dei Comuni, infatti, la zona del cratere è ancora classificata in fascia 3 e sarebbe stata esclusa dall’agevolazione del 65% prevista per le zone sismiche 1 e 2 (ad esempio, il nostro Alto Appennino), fermandosi così agli sgravi generali del 50%, introdotti dal Governo Letta.

Se la norma fosse passata tal quale avrebbe potuto portare a una ingiusta discriminazione nei confronti di quelle aree, come quelle colpite dal sisma 2012, che pur avendo subito gravi danni a causa del terremoto ancora, almeno formalmente, sono collocate, nelle mappe, in una fascia sismica di non altissima pericolosità. E’ per questo che i deputati del Pd hanno messo a punto uno specifico ordine del giorno che impegna il Governo Letta a includere nel primo provvedimento utile la corretta applicazione dell’articolo 16 del decreto sugli ecobonus, la cui conversione in legge è stata votata, in serata, alla Camera. In sostanza, se non fosse intervenuto il Pd, la misura degli sgravi fiscali sarebbe stata del 50% (la norma generale voluta dal Governo Letta) e non del 65% come previsto per le attività di consolidamento sismico. “In serata – spiegano i deputati modenesi del Pd Manuela Ghizzoni e Davide Baruffi – il Governo ha accolto il nostro ordine del giorno. In esso, in maniera esplicita, si ribadisce che l’agevolazione del 65% (introdotta da questo Esecutivo e, grazie al lavoro dei senatori Pd, estesa anche al consolidamento antisismico) verrà applicata agli interventi di adeguamento sismico delle abitazioni principali e delle sedi di attività produttive non solo di quei Comuni che si trovano nelle zone classificate ad alta pericolosità sismica (fascia 1 e 2), ma anche dei Comuni colpiti dal sisma del 2012. Il Governo, infatti, si è impegnato a includere questa precisazione nel primo provvedimento utile”. I deputati Pd, quindi, con questa iniziativa politica, hanno evitato che, nelle more degli aggiornamenti delle mappe sismiche, i Comuni del cratere ricadessero nel campo di applicazione della misura agevolativa generale del 50%. “A fronte di emendamenti che prevedevano di estendere la platea del 65% a tutti gli 8mila Comuni italiani – commentano Ghizzoni e Baruffi – noi come Pd abbiamo preferito procedere in maniera più pragmatica e abbiamo portato a casa il risultato. Il Governo, infatti, ha accolto il nostro ordine del giorno”. Da notare, che, fra i Comuni ad alta sismicità sono compresi anche quelli dell’Alto Appennino modenese della zona attorno a Frassinoro che, come le ultime forti scosse hanno purtroppo dimostrato, insistono in un’area ad alto rischio sismico.

“Assunzioni, poche e incerte”, di Alessandra Ricciardi

A fronte di 25.367 posti disponibili, sarebbero poco meno di 12 mila le assunzioni richieste dal ministero dell’istruzione al Tesoro per il prossimo anno scolastico. Sottratti gli 8 mila esuberi, anche se su classi di concorso ovviamente diverse da quelle per le quali c’è disponibilità di posti, resterebbero dunque senza copertura altre 5 mila cattedre.

Ma non solo. Chi ha partecipato all’ultimo concorso rischia di dover saltare un anno: perché lì dove gli orali sono ancora in svolgimento, e dunque le graduatorie non saranno definitive per fine agosto, non si può procedere alle immissioni. E dunque si dovrebbero utilizzare per le assunzioni i candidati delle graduatorie permanenti, recuperando poi la volta successiva sulle liste del concorso. Per evitare prevedibili tensioni e proteste dei vincitori di concorso, un’altra ipotesi a cui stanno lavorando a viale Trastevere è che si provveda a immissioni anche a anno già avviato, così da assumere da entrambe le liste, ma solo in punta di diritto: l’assunzione così varrebbe giuridicamente già dal prossimo primo settembre, salvo gli effetti economici che decorrerebbero dalla data reale di inizio del contratto. Tutte ipotesi che non fanno altro che alimentare la tensione e la preoccupazione da parte degli aspiranti a una cattedra fissa, che si tratti di iscritti nelle graduatorie permanenti o di concorso. La vertenza, che ad oggi è gestita a livello centrale con i sindacati, minaccia a settembre di esplodere. Tutte le sigle, davanti a un precariato che supera le 150 mila unità, sono concordi nel chiedere un cambio di passo della politica nella gestione del personale e del reclutamento. «L’aver dato copertura solo a 2 posti disponibili su tre ci rende come Paese anche deboli davanti a eventuali censure per violazioni del diritto comunitario», dice Rino di Meglio, responsabile della Gilda degli insegnanti, «perché si tratta di posti disponibili in organico di diritto ed è su questi che è indifendibile la reiterazione oltre i tre anni dei contratti a tempo determinato. I ricorsi fioccheranno». Punta il dito contro una politica «che non fa altro che alimentare il precariato», Mimmo Pantaleo, segretario della Flc-Cgil. Che poi ricorda al ministro dell’istruzione MariaChiara Carrozza «la promessa di stabilizzare 27 mila docenti di sostegno, ma che fine ha fatto?». Per Massimo Di Menna, numero uno della Uil scuola, «il problema non può più essere tamponato ricorrendo a poche migliaia di assunzioni l’anno. Sul precariato serve un confronto reale e proposte concrete». Intanto sta esplodendo anche la vertenza per la stabilizzazione del personale ausiliario, tecnico e amministrativo. «Le assunzioni sono ferme dall’anno scorso nonostante rientrassero nelle previsioni del piano triennale di assunzioni varato col decreto interministeriale 3 agosto 2011», spiega la Cisl scuola di Francesco Scrima. Per questo in una nota inviata al ministero, e sottoscritta da Flc-Cgil, Cisl scuola, Uil Scuola, Snals Confsal e Gilda, i sindacati chiedono che si proceda da subito alle assunzioni, «anche per evitare negative ripercussioni sull’avvio del nuovo anno scolastico». I posti in ballo dal prossimo settembre sarebbero 3mila.

Il problema della partita delle stabilizzazioni è sempre di ordine finanziario, quella coperta che è troppo corta e su cui il Tesoro non sembra disposto a chiudere un occhio.

ItaliaOggi 30.07.13

“In Emilia la manifattura non si arrende”, di Natascia Ronchetti

Alle spalle un passato glorioso – oltre un secolo di storia – e davanti solo vuoto e macerie. «Con il terremoto – dice Massimo Palmieri, presidente dell’omonimo salumificio a San Prospero di Modena – arrivano il senso della fine e la perdita della speranza. Ci siamo chiesti se potevamo stare sul mercato. La solidarietà degli altri imprenditori, delle istituzioni, a partire dalla Regione e delle maestranze, ci ha dato forza».
A oltre 430 giorni dalla prima scossa del sisma che nel maggio dello scorso anno ha piegato l’Emilia, il Salumificio Palmieri è risorto. Oltre un anno di forzata inattività produttiva, qualcosa come 15 milioni di danni, tra diretti (20mila metri quadrati di capannone sono stati demoliti) e indiretti, a causa della mancata produzione, l’azienda alimentare ha un nuovo stabilimento – 25mila metri, dei quali 13mila coperti, con un investimento di 12 milioni – e ricomincia a produrre, assume, mette in cantiere 6mila tonnellate all’anno di prodotto, pensa a incrementare la quota delle esportazioni. Questione di tenacia e determinazione. La stessa che ha permesso al tessuto industriale della Bassa Modenese di tornare a una produzione prossima al 100 per cento. Nonostante i mille ostacoli di una burocrazia farraginosa, delle difficoltà di accesso ai fondi per la ricostruzione.
Il sisma che ha colpito l’Emilia – Modena e Ferrara le province più colpite – è stato definito il primo terremoto industriale. Ha devastato un’area ad altissima densità produttiva capace di generare un valore aggiunto pari a 19,6 miliardi, oltre 12 miliardi di esportazioni. Nei soli 33 comuni del cratere operano quasi 48mila unità produttive. Un numero che sale a 66mila prendendo in considerazione anche le imprese collocate nei 57 comuni interessati dal sisma, tra il Modenese, il Ferrarese, vaste zone delle province di Reggio Emilia e di Bologna. Un’area dove, tra piccole, medie e grandi imprese, tra industrie e aziende artigiane, svettano distretti come quello del biomedicale di Mirandola o del tessile e della maglieria di Carpi.
Per tutti una débâcle. Le scosse del 20 e 29 maggio hanno infatti provocato danni per 5 miliardi, tra quelli a stabilimenti, magazzini e macchinari e quelli generati dallo stop produttivo. La resistenza delle imprese non è stata piegata dai cavilli di una burocrazia ancora pesantissima, nonostante tutti gli sforzi fatti dalla Regione per snellire e semplificare. Il modello telematico Sfinge, per accedere ai contributi a fondo perduto stanziati dalla legge sulla spending review, è ancora un problema. Le domande di risarcimento arrivano con il contagocce. Sono arrivate a quota 277, per 168,3 milioni; quelle approvate ammontano a soli 41 milioni.
L’azienda di San Prospero fu fondata agli inizi del Novecento. Tradizione familiare, investimento continuo sull’innovazione. E poi fondamenta robuste – con una solidità fatta anche di know how e competenze – che per questo storico salumificio ha rappresentato una lettera di credenziali per ottenere dagli istituti di credito i finanziamenti necessari a ripartire. «Il piano finanziario per ricominciare a produrre – dice oggi il direttore generale Paolo Arcangeli – e sostenere l’investimento di 12 milioni si è basato sulla solidità dell’azienda prima del terremoto». Uno sforzo non da poco per una impresa che, fino al dramma del sisma, fatturava 20 milioni. E che ora vuole tornare a crescere, incrementare la quota dell’export (adesso al 10%), creare occupazione. Subito dopo le scosse era ricorsa alla cassa integrazione per 40 operai, mantenendo al lavoro gli amministrativi. «Adesso i dipendenti sono 55 – prosegue Arcangeli – e presto stabilizzeremo venti stagionali. Ma il nostro obiettivo, a regime, è quello di arrivare a 70 unità. E non tutto sarà coperto dalla polizza assicurativa e dai fondi per la ricostruzione».

Il Sole 24 Ore 30.07.13

“Un Paese senza manutenzione”, di Francesco Manacorda

Al chilometro 32,6 della Napoli-Bari domenica sera, non ci sono solo trentotto morti da piangere. C’è anche la necessità di capire che cosa sia successo su quel tratto di autostrada. Capire per accertare precise responsabilità e per far sì che eventi del genere non si ripetano.
È un lavoro che spetta ovviamente ai magistrati e ai loro periti, ma già ora alcuni elementi indicano che problemi del pullman precipitato – arrivato sulla strada nel 1995, quasi vent’anni fa, e poi reimmatricolato nel 2008 – e tenuta del parapetto di cemento, il cosiddetto «new jersey», che non è riuscito a bloccare la caduta, saranno centrali nelle indagini.

E centrale appare così, proprio alla luce di questi primi e sommari elementi, anche il tema di una manutenzione che troppo spesso viene trascurata o relegata a mero adempimento burocratico.

L’Italia è un Paese che invecchia non solo dal punto di vista demografico. L’usura delle cose e dei luoghi, unita a una congiuntura economica che obbliga ai tagli di molti bilanci – pubblici e privati – e a una gestione che spesso punta non tanto a ridurre le spese improduttive, quanto a tagliare quelle spese il cui effetto è meno evidente, possono generare un mix pericolosissimo.

Oggi ci chiediamo chi abbia fatto passare appena quattro mesi fa la revisione al pullman caduto, e con quale attenzione abbia operato. Ma in un Paese che avrebbe un gran bisogno di manutenzione, e che spesso se ne accorge solo quando è troppo tardi, sono mille gli interrogativi dello stesso genere, anche se non sempre, per fortuna, spinti da eventi così tragici.

Non fanno o non riescono a fare manutenzione i sindaci, anche quelli che hanno il bilancio in attivo e sono comunque costretti a non spendere dal Patto di stabilità. I risultati più evidenti – in termine di buche nell’asfalto – sono sotto gli occhi di tutti, ma altri rischi meno visibili sono spesso più pericolosi. Lo scorso anno, ad esempio, i Comuni italiani hanno speso 19,3 miliardi di euro per «vie di comunicazione e infrastrutture connesse», circa il 20% in meno di quanto avessero speso nel 2008 , hanno ridotto del 21% la spesa per la manutenzione degli immobili, del 30% quella per la «sistemazione del suolo», addirittura del 39% è calata la spesa per le «infrastrutture idrauliche». Eppure, secondo i dati di Legambiente e della Protezione Civile, sono più di 5 milioni i cittadini che vivono in aree a forte rischio idrogeologico, come scopriamo ogni volta che una frana o un’alluvione si mangiano via terra e – qualche volta – vite.

Si lascia senza manutenzione anche il patrimonio archeologico di Pompei, dove si rischia – lo hanno detto a gennaio scorso gli esperti dell’Unesco – l’inclusione tra i siti patrimonio dell’umanità in pericolo se entro due anni non verranno prese misure per frenare i crolli e il deterioramento degli affreschi. E in alcuni casi la manutenzione e le migliorie – non domenica sera, dove per ironia della sorte è stato proprio un cantiere autostradale a provocare la coda di veicoli su cui si è abbattuto il pullman – devono essere chieste in modo assai fermo a quei concessionari che hanno la tendenza a considerarle una voce utilmente cancellabile dai bilanci.

È una questione di soldi che mancano, certo, ma sulla scarsa manutenzione dell’Italia pesa anche qualcosa di più radicato: un’incapacità di guardare in prospettiva – che riguarda molti aspetti della nostra vita comune – e il vizio di pensare che prevenire eventuali rischi e curare con attenzione quel che si ha serva a poco. Quei trentotto morti, ai quali si deve una spiegazione che non potrà essere quella della semplice fatalità, ci ricordano che non è così.

La Stampa 30.07.13