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“Così la creatività fa crescere l’economia”, di Massimo Vincenzi

“Il Pil non serve più. È utilizzato male, bisogna cambiarlo”: è il settembre del 2009. Joseph Stiglitz, insieme ad Amartya Sen e a Jean Paul Fitoussi, consegna all’allora presidente francese Nicolas Sarkozy il rapporto sui nuovi strumenti per misurare la ricchezza di un Paese a partire dal benessere non solo macroeconomico dei suoi cittadini. Ora tocca agli Stati Uniti compiere la vera rivoluzione: nel calcolo entrerà per la prima volta la creatività. Nel paese che ha trasformato il cinema in mito, allevato alcuni dei migliori scrittori e inventato tutto nel campo delle tecnologia, prima o poi doveva accadere. E l’ingresso avviene dalla porta principale: mercoledì la novità verrà presentata dal Bureau of Economic Analysis, l’istituto che elabora le principali statistiche economiche, a partire appunto dal Prodotto interno lordo. “Sarà la più importante revisione mai fatta”, scrive idea, finalmente entriamo nel ventunesimo secolo”.
La premessa è di Steve Landefeld, che guida la struttura federale: «Per anni abbiamo sottovalutato la creatività e l’innovazione. Ci siamo accorti che le nostre rivelazioni mostrano sempre più punti critici. L’errore è quello di non considerare come voci attive del bilancio i beni immateriali», spiega al New York Times.
Ovvero libri, film, musica, programmi televisivi, quadri, fotografia e, con un peso finanziario ancora maggiore, la ricerca e lo sviluppo. Diritti d’autore e brevetti.
Sino ad ora tutto questo finiva nella casella spesa: tipo le bollette per la luce o il cibo della mensa, soldi buttati al vento o quasi. Comunque zavorra per il Pil. Adesso il contrordine. Persino i biglietti di auguri saranno nel raggio d’azione del nuovo termometro. L’esempio è piccolo ma rende l’idea: questi cartoncini possono essere utilizzati sempre, non passano mai di moda. Sono, dunque, un benefit sicuro a lungo termine, come costruire un palazzo o una fabbrica, appunto. La novità è che non ci sarà bisogno di guadagni immediati. Il nuovo Pil considererà l’investimento di aver scritto un libro, prodotto un film, composto una canzone già di per sé come un fattore positivo, senza aspettare il verdetto del pubblico: i soldi verranno conteggiati quando arriveranno.
L’anno scorso, solo considerando il lavoro degli scrittori, sarebbero entrati nelle statistiche 9 milioni di dollari in più, secondo un primo calcolo. Una bella soddisfazione per una categoria accusata di non “dar da mangiare alla gente”. Niente da fare invece per i giornalisti, i cui articoli deperiscono troppo in fretta: «Ma con l’arrivo degli e-book,
che sempre di più raccolgono inchieste e reportage, anche questo cambier à in futuro, chissà», dice consolatorio un analista.
Il Bureau of Economic Analysis infatti naviga a vista. Anche per i prodotti tv ci sono delle differenze: lo sport e i reality show non generano reddito nel lungo periodo, al contrario delle serie che spesso diventano un cult e hanno mille vite: nei dvd, nel commercio on line. Così “Desperate Housewives” va nel Pil, “American Got Talent” no. Per i libri e soprattutto per i film è ancora più complicato. Quando nel 1977 George Lucas dirige il
“Guerre stellari” nessuno può prevedere la montagna di dollari che avrebbe fruttato. Così gli esperti dell’istituto non possono ora capire quale produzione sarà un successo e quale invece sarà un flop al botteghino: da qui l’idea di considerare i costi di produzione nella convinzione che gli errori si compenseranno. Poi c’è da tenere presente il deprezzamento. Certo le idee non si rompono come le macchine di una fabbrica, ma vengono copiate, superate da altre migliori, passano in secondo piano. Il Bea assegna così un tasso annuo di ammortamento del 10% per la ricerca scientifica in campo farmaceutico, contro il 36% per la progettazione di sistemi informatici, il 9 per i film, ma ben il 27 per la musica. Con i nuovi parametri, la cultura dal 2007 a oggi avrebbe portato un aumento dello 0,5%, ma il salto vero e proprio, l’aspetto economicamente più importante, è quello della ricerca, grazie soprattutto alla biotecnologia. In questo caso il balzo in avanti è attorno al 3%.
Nel 1999 si iniziò a considerare la creazione dei software come voci attive di un bilancio, adesso il definitivo cambio di marcia: dopo gli Stati Uniti toccherà all’Europa (Italia compresa) che, secondo un programma di un gruppo di studio delle Nazioni Unite, adotterà gli stessi criteri dal 2014. Canada e Australia sono gli apripista e già elaborano i loro dati secondo i nuovi parametri. «Saremo in grado di favorire la crescita e lo sviluppo tanto più riusciremo a misurare la forza che l’innovazione ha nelle nostre economie. Ha un ruolo centrale, tutti lo sappiamo, ma quando lo vedremo quantificato scientificamente capiremo meglio dove intervenire», disse nel 2011 Ben Bernanke.
E quella di considerare i beni immateriali al centro del motore dello sviluppo è un’idea che ha radici lontane. Nel 1908 l’economista Thorstein Veblen scriveva: «Dalla pubblicità al design sono molte le aziende che studiano come abbellire i loro prodotti per conquistare molti più clienti e poterli vendere a prezzi più alti». Cento anni dopo sarebbe arrivato l’iPhone con i suoi fratelli. E proprio nel bilancio dell’Apple le tradizionali forme di ricchezza industriale (impianti, immobili, macchinari) rappresentano una quota minima, attorno al 4%. Stessa cifra irrisoria, solo un po’ più alta (il 7%), per Time Warner e per la compagnia farmaceutiche Pfizer. Il resto è ingegno, fantasia. La costruzione del brand, corsi di formazione per i dipendenti: l’ossessione vincente per la qua-lità, che fa rima con futuro e speranza. Non a caso Obama nel suo discorso di rilancio dell’economia mette tra i punti centrali per eliminare le differenze di classe proprio l’istruzione, che della ricerca è la madre. E Thomas Friedam sul New York Times commenta: «Le città sono il nuovo
traino dell’economia Usa. Le metropoli che hanno saputo rinnovarsi puntando sulle università, sulle tecnologie, sul wi-fi, sull’innovazione decollano. Quelle che sono rimaste legate ai vecchi modelli industriali, vanno a fondo: come Detroit». E’ la legge della creative class, la fortunata definizione del sociologo canadese Richard Florida che associa in maniera direttamente proporzionale la vivacità culturale (non misurabile sino ad ora con gli strumenti classici) allo sviluppo finanziario di una comunità. Due ricercatori, Carol Corrado del Conference Board e Charles Hulten dell’Università del Maryland, non hanno dubbi: «Se sommassimo il peso specifico dei beni immateriali supererebbero di gran lunga gli altri». È una rivoluzione culturale, prima ancora che economica: «Finalmente avremo uno sguardo più realistico sul mondo», sostiene Baruch Lev della New York University.
È 18 marzo del 1968 quando Robert Kennedy tiene nel campus del college del Kansas uno dei suoi discorsi più famosi: «Non possiamo misurare il successo di un Paese sulla base del suo Prodotto interno lordo. Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità dell’educazione o della gioia dei momenti di svago. Non comprende la bellezza della poesia». Ecco, forse per i versi in rima è ancora presto ma almeno il freddo indicatore economico dovrà iniziare a fare i conti con le parole dei libri, le emozioni dei film e il potere delle idee. Magari la ripresa passa proprio da qui.

La Repubblica 29.07.13