Latest Posts

“Chi difende la Costituzione”, di Massimo Luciani

Si ergono a difesa della Costituzione repubblicana improbabili paladini. Sì. Sono gli stessi che, sino a poco tempo addietro, non perdevano l’occasione di sminuirne il valore. Gli stessi che pensano che i partiti, ai quali la Costituzione affida (come strumenti dei cittadini) il compito di determinare addirittura «la politica nazionale», debbano essere travolti dall’onda della decisione in rete.

Gli stessi che attaccano il Parlamento, che la Costituzione mette al centro della forma di governo, perché è il luogo del compromesso (orrore!) e dell’espropriazione della «diretta» volontà dei cittadini. Gli stessi che – paradossalmente e contraddittoriamente – vorrebbero travolgere il divieto di mandato imperativo, che la Costituzione ha previsto proprio per arginare il potere di quei partiti che – comunque – considera essenziali per lo svolgimento del libero gioco democratico.

Ma cos’è che ha risvegliato un così improvviso interesse per l’eredità di Dossetti, di Togliatti, di Moro, di Calamandrei, di tutti i grandi ai quali dobbiamo il lascito di una straordinaria Costituzione qual è la nostra? È, a ben vedere, un problema squisitamente tattico. Poiché il governo in carica (giusto o sbagliato che sia) ha investito buona parte del proprio capitale politico nel procedimento di riforma della Costituzione, ogni zeppa frapposta a quel procedimento finisce per essere un’utile mina sotto le poltrone governative. È, intendiamoci, un fine perfettamente legittimo. Ma qui stiamo parlando della Costituzione, del patto che fonda la comunità politica e ne articola gli snodi. E dobbiamo accostarci ad essa, alle questioni che la riguardano, nella prospettiva della storia, del campo lungo delle trasformazioni sociali e culturali di lungo periodo. Se lo si fa, il quesito da porsi è uno solo: abbiamo o non abbiamo bisogno, proprio in questa prospettiva e in questo campo, di riforme della Costituzione? E, se sì, di quali riforme deve trattarsi?

Si obietta, però, che, prima ancora, viene un altro, prioritario, problema: quello del procedimento che il governo ha proposto al Parlamento di seguire per realizzare le riforme, un procedimento derogatorio di quello ordinariamente previsto dall’art. 138 della Costituzione e che dovrebbe applicarsi soltanto in questa occasione. Qui, lo si sa, noi costituzionalisti siamo divisi. Alcuni pensano che una deroga al procedimento di revisione sia di per sé illegittima e che, comunque, il disegno di legge in discussione in Parlamento non contenga garanzie sufficienti. Altri la pensano all’opposto. Di questo secondo gruppo faccio parte anch’io.

Si dimentica, forse, che il procedimento in deroga è previsto da una legge costituzionale (se sarà approvata). Le leggi costituzionali possono contenere norme diverse da quelle costituzionali e possono essere dichiarate costituzionalmente illegittime solo se violano i princìpi costituzionali fondamentali, quelli – cioè – che definiscono l’identità stessa della nostra Costituzione. Ebbene: quali sono i princìpi fondamentali che l’art. 138 Cost. contiene e che non possono essere violati? A me sembra che siano due: la tutela delle minoranze; l’attribuzione dell’ultima parola (salva l’ipotesi non ordinaria di una seconda approvazione con una maggioranza di 2/3) al popolo, con il referendum costituzionale. Ebbene: il disegno di legge tanto criticato non solo rispetta, ma conduce a sviluppi coerenti quei due princìpi. Da una parte, tutela maggiormente le minoranze, perché costituisce un comitato parlamentare composto in proporzione non solo dei seggi, ma dei voti ottenuti (sicché tiene conto delle distorsioni determinate dall’abnorme premio di maggioranza dato dalla legge Calderoli). Dall’altro, consente il referendum costituzionale anche nell’ipotesi in cui si sia raggiunta o superata la maggioranza dei due terzi in seconda deliberazione. La garanzia del voto popolare, dunque, di un voto che serve proprio ad aumentare le possibilità di difesa della Costituzione, è addirittura esaltata. Le critiche, pertanto, sono fuori centro.

Quanto al merito, si leggono le cose più incredibili, con critiche che danno per scontato quel che scontato non è per nulla, e cioè che l’esito certo sarebbe quello del passaggio al presidenzialismo o al semipresidenzialismo. A parte il fatto che (con buona pace di alcuni catastrofisti, che, magari, potrebbero spendere una parte delle loro energie per sostenerla) la posizione parlamentarista è molto forte e tutt’altro che minoritaria, è difficile capire come e perché l’approdo opposto dovrebbe essere escluso se si seguisse la via del procedimento ordinariamente previsto dall’art. 138.
E non parliamo di chi dice che tutto è perduto perché la presidenza di Giorgio Napolitano avrebbe già realizzato, di fatto, il semipresidenzialismo. È legittimo apprezzare le scelte di Napolitano ed è legittimo criticarle. Quel che non si può fare, invece, è commettere simili errori di teoria costituzionale. Il presidente è stato ed è protagonista delle vicende della forma di governo. Ha potuto farlo, però, proprio perché non era stato legittimato da un voto popolare, bensì da un ampio accordo tra le forze politiche. Proprio perché non si è presentato come l’espressione di una parte, bensì come l’interprete delle esigenze profonde del Paese, facendo leva sulla propria qualificazione di rappresentante dell’unità nazionale. Che la si critichi o la si condivida, l’azione del presidente ha esibito un tratto addirittura iperparlamentare, nel senso che ha dispiegato tutte le possibili potenzialità del ruolo presidenziale nel contesto di una forma di governo parlamentare.
La partita, insomma, è aperta. Sarebbe bene abbandonare i toni eccessivi e cominciare a discutere, con pacata ragionevolezza, come giocarla al meglio. Per difendere la Costituzione, sì, ma dandole le armi per durare ancora molti, molti anni.

L’Unità 29.07.13

“La solidarietà non è tutto tocca a noi difendere Cécile”, di Gad Lerner

Adesso basta. Le offese e le minacce contro la ministra Cécile Kyenge non sono più sopportabili. Disonorano il nostro paese e necessitano di una ferma risposta
collettiva. E se non ci riescono i vertici dello Stato a espellere i razzisti dalle istituzioni – come ha confermato l’inamovibilità del vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli, protetto dal suo partito – ciascuno di noi è chiamato a farsene carico. Il lancio di banane contro una concittadina dalla pelle nera, chiamata dal governo a occuparsi dell’integrazione di milioni di immigrati, ha un nesso inequivocabile con la violenza verbale di chi l’aveva paragonata a un orango. Altri le hanno augurato di subire uno stupro. Hanno appeso manichini insanguinati nei luoghi in cui lei doveva intervenire. Hanno messo in dubbio il suo diritto alla cittadinanza italiana per il fatto di essere nata in Congo. Insinuano che la sua laurea in oculistica la renderebbe inadeguata alla funzione ministeriale. Si lamentano che usufruisca di una scorta di polizia.
Di fronte a queste infamie esprimiamo, certo, ammirazione per il self control mostrato da Cécile Kyenge; e consideriamo elegante il suo sforzo di minimizzare nonostante le continue umiliazioni cui viene sottoposta insieme alla sua famiglia e a tanti altri cittadini che ne condividono il faticoso percorso di vita. Ma se anche lei minimizza, noi non possiamo permettercelo. Mi spiace dissentire da Mara Carfagna: per quanto felice sia la battuta sullo spreco di cibo con cui la ministra ha avuto la prontezza di liquidare a Cervia quel lancio di banane, l’ironia non sarà mai grimaldello sufficiente a controbattere un’azione sistematica d’inciviltà. Illudersi che si tratti solo di pochi “stolti”, parola di Carfagna, è una falsa consolazione. Per favore, non chiudiamo gli occhi di fronte all’evidenza: la pazzesca campagna razzista scatenata contro Kyenge è il condensato di un odio che in Italia si è diffuso anche usufruendo di una prolungata, non più tollerabile, legittimazione dall’alto. Gli “stolti” hanno goduto di comprensione, se non di giustificazione, e così si sono moltiplicati.
Questo razzismo italico ha radici antiche nelle guerre coloniali e nell’antisemitismo novecentesco. Ma negli ultimi vent’anni si è rigenerato anche grazie a un’ostentata, scandalosa tolleranza ai vertici delle istituzioni.
Il 24 luglio scorso, in Francia, il deputato Gilles Bourdouleix si è dovuto dimettere dal suo partito per aver sostenuto, nel corso della visita a un campo rom, che “forse Hitler non ne ha uccisi abbastanza”. Gli stessi giorni, in Italia, Calderoli se l’è cavata con una ramanzina del suo segretario che nel frattempo convocava una manifestazione nazionale contro l’immigrazione clandestina, tanto per fare pari e patta. Perché la xenofobia, più o meno mascherata, viene considerata un’arma politica redditizia cui sarebbe un peccato rinunciare, anziché un limite invalicabile della politica democratica. Gli osservatori internazionali faticano a capacitarsene. Si domandano come sia possibile che un paese membro dell’Unione Europea non disponga di anticorpi sufficienti a estromettere dal dibattito pubblico chi nega la pari dignità fra cittadini in base al luogo di nascita, al colore della pelle, al credo religioso. Ignorano il retaggio storico di cui la destra italiana ancora non è riuscita a liberarsi, neanche quando ha formalmente accettato le regole costituzionali.
Se dunque il razzismo dall’alto precede e giustifica le pulsioni da stadio dei lanciatori di banane, tocca a noi, dal basso, organizzare la catena umana della solidarietà. Giustamente si è già detto, anche da parte del premier Letta, che le offese rivolte a Cécile Kyenge feriscono l’insieme della collettività nazionale. Ora si tratta di mettere in pratica questo sentimento maggioritario della condivisione. La solidarietà a Kyenge, e con lei a tutte le vittime del razzismo residenti in Italia, indipendentemente dal passaporto che hanno in tasca, deve manifestarsi con segni tangibili. Nei giorni scorsi ci ha commosso la foto di gruppo dell’ex presidente americano George Bush che, insieme a tutto il suo staff, si è rasato i capelli per immedesimarsi nell’esperienza di un bambino malato di cancro. L’immedesimazione, appunto. Forse è attraverso questo sentimento potente che la società civile può intraprendere una risposta efficace ai lanciatori di banane e ai loro ispiratori.

La Repubblica 28.07.13

“DemocraticaPA: le proposte del Pd per una riforma partecipata della Pubblica Amministrazione”, di Rossana Dettori

Le proposte presentate il 24 u.s. dal Partito Democratico sul lavoro pubblico e sulle pubbliche amministrazioni hanno sicuramente dei meriti che vanno sottolineati.
Quel progetto di riforma, innanzitutto, ha il merito di interrompere quella spirale perversa fatta di demagogia, disvalori e di ideologie neo liberiste che negli ultimi cinque anni hanno caratterizzato l’approccio dei Governi Berlusconi/Monti sul lavoro pubblico: a volte, forse un po’ troppo spesso, il Partito Democratico ha risposto agli attacchi feroci di Brunetta e Monti con silenzi, ambiguità e timidezze.
Con queste proposte, con la scelta di presentarle PUBBLICAMENTE, coinvolgendo i massimi vertici del partito, del sindacato, del sistema delle imprese e del commercio si inverte una rotta e si imbocca, almeno spero, una direzione ben precisa che ricolloca il più grande partito di centro sinistra al fianco del lavoro pubblico e del sistema che quel lavoro garantisce: i servizi ai cittadini.
Quelle proposte, poi, hanno anche altri meriti che vanno evidenziati.
Riportare al centro di un credibile progetto di riforma della Pubblica Amministrazione il tema del contratto collettivo nazionale di lavoro, quello della contrattazione e della partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori nell’organizzazione del lavoro e dei servizi, riaffermare il bisogno di rafforzare l’impianto privatistico del rapporto di lavoro e la contrattazione aziendale/territoriale quale luogo di realizzazione di nuovi piani organizzativi condivisi, significa, almeno per me, aver centrato il cuore del problema, aver colto i punti sui quali si sono consumati quei clamorosi fallimenti brunettiani e montiani sul lavoro pubblico.
Così come aver dichiarato l’esigenza di ridisegnare il sistema concorsuale, in una prospettiva di ripresa dell’occupazione (anche pubblica), è aver compreso che il lavoro pubblico è il futuro del Paese: se si investe sul pubblico, su quelle persone che lavorano per altre persone, si investe sul futuro.
Per chi come me, ha assistito alla presentazione di quelle proposte resta, però, un certo retrogusto di non detto, una sensazione di inesplorato, proprio su uno dei temi che si collocano a monte di qualsivoglia progetto di riforma: la natura delle prestazioni che lo Stato deve comunque assicurare ai cittadini, o meglio degli erogatori che le garantiscono.
E’ stato l’intervento del sindaco di Torino, nonché neo Presidente dell’Associazione dei Comuni Italiani ad aver posto con forza questo tema, schierandosi apertamente e con nettezza, non prima di aver lanciato un drammatico appello del tutto condivisibile (la Cgil lo denuncia da anni) sul rischio di un ravvicinato default dell’intero sistema delle autonomie (più di 60 miliardi di euro di mancati trasferimenti in quattro anni).
L’offerta di asili nido per i bambini di Torino, afferma il Sindaco, va mantenuta integra anche a fronte di quell’imponente taglio ai trasferimenti e per fare ciò si devono sperimentare forme alternative alla gestione diretta, (è evidente che il tema è trasversale all’insieme dei servizi).
Ecco, Piero Fassino ha posto uno dei problemi più grandi che la proposta del Partito che ha diretto non affronta: che sia una struttura pubblica o un privato ad assicurare un livello essenziale di assistenza sanitaria, di assistenza sociale o una qualunque altra prestazione che deriva da un diritto costituzionale è veramente la stessa cosa, è davvero ininfluente sotto il profilo delle garanzie di esigibilità di quei diritti, della qualità delle prestazioni che si erogano?
C’è ancora qualcuno che dubita che il regime di affidamento di prestazioni pubbliche alle strutture private (le fantomatiche “esternalizzazioni”) faccia risparmiare qualche euro? Non solo i ripetuti scandali, ad esempio quelli che si sono consumati in quella inestricabile palude che intreccia finanziamenti regionali e sanità privata, ma anche autorevolissimi studi e ricerche di istituzioni statali hanno già dimostrato il contrario : la gestione diretta dei servizi costa meno.
E poi c’è un terzo problema che riguarda proprio gli amministratori locali e che muovendo proprio dal presupposto, sbagliato, che il privato costa meno, pone un’altra grande questione: l’idea che eventuali risparmi (alla prova dei fatti nemmeno veri ) si possano consumare sulla pelle delle lavoratrici e dei lavoratori di cooperative e aziende private che, per vincere gare di appalto al massimo ribasso, riducono salari, precarizzano il lavoro, cancellano diritti. Questo è o no un tema che deve interrogare il Partito Democratico?
Quindi, le proposte avanzate sono un primo passo in avanti (anche se servirebbe un qualche grado di coraggio in più su alcuni aspetti).
Ma la rotta va realmente invertita anche facendo chiarezza sull’ampliamento dei perimetri pubblici, sulla natura delle prestazioni assicurate ai cittadini, sulla tutela reale dei diritti del lavoro, tanto di quello pubblico che di quello privato che assicura servizi pubblici.
La posizione del sindaco di Torino, tutta legittima per carità, è la posizione di tutto il Partito?
Io credo che farebbero bene i dirigenti del PD ad aprire questa discussione, difficile per carità, ma necessaria a ridefinire un percorso chiaro sul modello sociale al quale fare riferimento, verso il quale provare a portare il Paese.
Il titolo della proposta, “Pubbliche amministrazioni al servizio dei cittadini, delle imprese e del paese” impone innanzitutto al Pd lo scioglimento di un nodo: che significato si attribuisce alla parola “pubbliche”?

L’Unità 28.07.13

“In gioco il destino della sinistra”, di Claudio Sardo

Nonostante sia arrivato il caldo torrido, è tempo di decisioni strategiche per i tre partiti antagonisti attorno ai quali ruota il nostro (malato) sistema politico. Il Pd – il solo ad accettare la definizione costituzionale di partito – deve scegliere su quale strada avviare il proprio congresso: peserà questa scelta, eccome, sul destino della legislatura, sulla ricostruzione (o l’ulteriore sfilacciamento) del tessuto democratico, sul progetto di governo futuro. Il Pdl deve affrontare lo scoglio della sentenza della Cassazione: un giudizio favorevole a Berlusconi potrebbe forse regalare un altro rinvio; una condanna invece porrebbe la destra di fronte al dilemma irrisolto che riguarda la sua stessa natura. È una forza democratica che può pensarsi oltre il suo fondatore o è un partito patrimoniale, che rientra nella holding di famiglia e non ha altra funzione che presidiare gli interessi del padrone?

Ma anche il Movimento cinque stelle è a un bivio. Il diktat di Casaleggio – «mai con il Pd» – non aggiunge molto alla politica seguita da Grillo contro il tentativo di Bersani, al fine di rendere inevitabile la maggioranza Pd-Pdl. Tuttavia, la batosta delle amministrative provocata da tanti elettori delusi – che avevano usato il M5S come arma impropria per il cambiamento e poi hanno scoperto di avere a che fare con cinici difensori dello status quo – ha richiesto di modificare almeno il marketing politico. Nasce da qui lo strano ostruzionismo parlamentare, tanto aggressivo quanto privo di contenuti: basti ricordare che alla prima esperienza, contro il «decreto emergenze», i Cinque stelle hanno prima rischiato di far saltare gli aiuti ai terremotati, poi si sono addirittura astenuti nel voto finale (dimostrando così di condividere in parte le norme che avevano tentato di bocciare).

La ragione di questo comportamento sta in un politicismo deteriore: il bisogno di affermare l’alterità assoluta, a prescindere dal merito, e il tentativo di trarre la maggiore rendita di opposizione. Anche l’ostruzionismo M5S contro il «decreto fare» ha raggiunto alte vette di nonsenso: tra tutte, la sparata di Grillo contro uno dei pochi emendamenti passati per iniziativa dei suoi (che aumentava gli adempimenti burocratici per le piccole imprese). Ad un certo punto però, durante le notti insonni a Montecitorio, è stato inventato un obiettivo strategico per la battaglia ostruzionistica: impedire o ritardare il varo del ddl che dovrebbe favorire le riforme istituzionali. «Un attentato alla Costituzione», ha detto Grillo fingendo di dimenticare che il suo socio Casaleggio aveva appena spiegato come e perché questa Costituzione è da buttare.

Ovviamente, la polemica contro il ddl costituzionale precede la sortita di Grillo: fino a ieri non se n’era accorto, ora bisogna capire se la cavalcherà fino in fondo. Il ddl che modifica l’articolo 138, a dispetto delle tesi dei suoi detrattori, in realtà rafforza la «rigidità» della Costituzione (perché rende obbligatorio il referendum popolare). Ma il punto politico è un altro: se alla ripresa Grillo farà del no alle riforme la sua bandiera. Dal destino delle riforme dipende l’assetto del sistema politico. E la possibilità di riprendersi dall’attuale collasso. Senza riforme, rischia di vincere il presidenzialismo nella versione plebiscitaria. Solo riforme serie e coerenti con il modello parlamentare (e dunque con i principi dei costituenti) possono evitare la deriva politica.

Far saltare il piatto oggi non vuol dire aprire la strada ad elezioni immediate ed efficaci, ma probabilmente solo a un’ulteriore convulsione sistemica. Questo è il punto. Questa è anche la ragione dei ripetuti attacchi al Capo dello Stato, che ha legato il suo secondo mandato proprio alle riforme. Peraltro, la battaglia campale contro il ddl sulle «procedure» ha anche l’effetto di dividere il fronte anti-presidenzialista, che sulla carta è maggioritario e che potrebbe spendersi con successo per una riforma sul modello del Cancellierato.

Ci sarà anche questa battaglia nel cuore del congresso Pd. Perché il punto di partenza non può che essere l’Italia e le vie nuove per uscire dal dramma sociale. Se il congresso diventasse un rito autoreferenziale di candidati leader e di correnti, sarebbe il fallimento del partito. Sulle regole non può non trovarsi un accordo. Lo statuto del Pd non funziona in molti punti, ma le regole condivise sono la precondizione di un gruppo dirigente che si rispetti. Di questo compromesso Renzi non può che essere parte e protagonista: altrimenti non ci saranno iscritti, aderenti, primarie aperte o semiaperte che eviteranno la sconfitta del progetto di partito. E di tutti i suoi attori: né Renzi, né altri possono salvarsi da soli.

Il congresso del Pd deve dare una missione al governo Letta. E deve dargli più forza. O il governo è un’opportunità per l’Italia o non potrà sopravvivere come mera necessità. Personalmente vorrei un segretario che si impegnasse a fare il segretario anche dopo le prossime elezioni. Perché la ricostruzione dei partiti e dei corpi intermedi ha un valore, nel contesto di questa crisi, ancora più ampio del programma di governo. Tuttavia se Renzi decidesse di dare, con la propria candidatura, un’altra impronta al dibattito, non per questo potrebbe eludere i nodi di una ridefinizione del quadro istituzionale e del partito come vettore di innovazione sociale. E neppure Renzi, a meno di una pulsione autolesionista, potrà evita- re di usare il governo Letta come un’opportunità. O almeno come il terreno di uno scontro politico, con Pdl e M5S, per fondare su basi più solide la prossima legislatura.

P.S. Ai lettori de l’Unità devo dire che ieri non ho condiviso l’impianto e i servizi di apertura del settimanale left, allegato al nostro giornale. Le critiche rivolte a Giorgio Napolitano sono a mio giudizio grossolane e influenzate dall’eco di culture ostili ad ogni responsabilità di governo. In particolare, non condivido l’obiezione di fondo: che Napolitano stia spingendo il sistema verso un semi-presidenzialismo di fatto. Questa purtroppo è la tesi della destra e dei presidenzialisti, cioè di coloro che oggi sostengono una riforma sul modello francese. Io continuo ad essere innamorato della nostra Costituzione e a considerare la flessibilità dei poteri presidenziali una delle virtù del nostro sistema parlamentare: per questo non modificherei mai l’istituto del presidente-garante, che si riduce quasi ad un notaio di fronte ad un governo espressione di una maggioranza forte e coesa, e che amplia le funzioni di indirizzo quando il Parla- mento tende alla paralisi. E non bisogna dimenticare che nuove elezioni con queste regole possono spingere il Paese ancor più nel baratro.

L’Unità 29.07.13

“Pene più severe per i violenti e stop ai processi lumaca ecco il pacchetto salva-donne”, di Caterina Pasolini

«Per difendere tutte le Giulia d’Italia entro l’estate come governo presenteremo nuove leggi». Maria Cecilia Guerra, viceministro del lavoro con responsabile per le Pari Opportunità, sceglie con cura le parole dopo aver letto la lettera della ragazza in fuga dall’innamorato aguzzino.
Giulia si sente prigioniera e chiede giustizia
«Le sue parole sono chiare e descrivono con forza storie che si ripetono troppo spesso: la protezione che si trasforma in segregazione, la violenza alternata alla dolcezza per confondere le idee e impedire di reagire »
Chiede aiuto allo Stato. E lo Stato che fa?
«Come governo dopo riunioni fra i vari ministeri stiamo per presentare un pacchetto di norme che andranno ad integrare quelle esistenti in difesa delle donne maltrattate per evitare il ripetersi di nuove vittime».
Che cosa prevederete, in concreto?
«Si va dall’inasprimento delle pene ad un ampliamento dei casi in cui si prevede la custodia cautelare, a quelli in cui si può ricorrere all’ammonimento nei confronti di chi maltratta e abusa delle donne».
I processi sono troppo lunghi…
«Ecco, per tutelare la donna durante il processo ci sono vari interventi pensati perché non debba vivere segregata e con la paura perenne di essere aggredita dall’ex compagno che ha denunciato. Prevedono tra l’altro che sia avvisata se e quando all’ex convivente viene tolto il provvedimento di allontanamento e il permesso di soggiorno in caso di violenza domestica per le immigrate».
È sicura che bastino le leggi?
«No assolutamente, le leggi non bastano a risolvere il problema della violenza alle donne. Per questo ho ripreso il lavoro di task force pensato dall’ex ministro Idem e ho lavorato con gli altri ministeri dell’Interno, della
Giustizia, dell’Immigrazione».
Cosa avete deciso?
«L’idea è che bisogna saper riconoscere le situazioni di violenza, che ci vuole formazione, basi comuni per chi lavora alla soluzione del problema, all’individuazione dei casi. Per questo l’idea di fondo è avere protocolli di intervento e di indagine condivisi come ci sono in altri paesi»»
Protocolli di intervento condivisi?
«Assolutamente sì, in molte nazioni ci sono questionari ad hoc in modo che dalle forze dell’ordine agli assistenti sociali e ai medici tutti abbiano un metodo, un linguaggio comune per definire le situazioni a rischio. Per riconoscere i casi di violenza e mettere al sicuro le donne senza perdere tempo prezioso».
Ma le case rifugio sono poche.
«È vero, sono pochissime: un decimo di quelle che ci chiede l’Europa. E anche i centri antiviolenza sono rari e faticano perché senza o con pochi fondi pubblici».
Darà finanziamenti ai centri antiviolenza?
«In passato i fondi forse sono stati spesi diversificando gli interventi in troppi rivoli, la mia idea è invece di mettere i centri come priorità di spesa quando verrà fatta la legge di stabilità. Vedendo anche se si riesce a dare un sostegno sistematico».

La Repubblica 28.07.13

******

“Mai più casi come Giulia, ma lo Stato ci aiuti”

Allarme delle case-rifugio dopo la denuncia della ragazza picchiata dall’ex: servono fondi
Giulia si sente prigioniera, lei, la vittima, è costretta a nascondersi mentre chi la picchiava è libero. Eppure Giulia in quest’Italia dei femminicidi quotidiani è una di quelle poche donne fortunate ad avere trovato protezione in una casa alloggio dei centri anti-violenza: ci sono infatti solo 700 letti per accogliere ragazze maltrattate, madri in fuga con i figli da padri aguzzini.
«Dovremmo averne 5700 secondo l’Europa ma tutto o quasi è affidato ai privati, alle onlus, al volontariato. Lo Stato non dà fondi e così la situazione va sempre peggio: 63 sono centri creati da Dire (donne in rete contro la
violenza), dieci rischiano la chiusura e così altre donne non sapranno dove rifugiarsi, dove cercare aiuto, psicologico e legale. Perché da qui si parte per ricostruire un nuovo futuro. Per tornare
finalmente libere. Dalla paura». Titti Carrano, avvocato civilista, presidente di Dire, conosce bene il problema che i numeri – una donna uccisa ogni tre giorni da chi diceva di amarla – non bastano a raccontare. E così davanti alla richiesta di aiuto di Giulia, che ha scritto a
Repubblica chiedendo che lo stato «si metta dalla parte delle vittime», prova a fare il punto di quello che c’è e di quello che manca.
«Ci vogliono politiche globali e integrate, la repressione non basta. Le leggi ci sono, anche se possono essere migliorare, ma la cosa fondamentale è la loro applicazione. Per questo ci vogliono avvocati, poliziotti, carabinieri e magistrati preparati che sappiano distinguere quando è conflitto e quando è violenza. Che sappiano quando applicare la misura cautelare così poco usata. C’è bisogno di specializzazione, formazione, più sensibilità. C’è bisogno di responsabilità politica e finanziamenti non a singhiozzo altrimenti i centri chiudono. E con essi non solo un luogo sicuro ma il punto di partenza per le donne dove inventarsi un futuro». A Milano su 1500 denunce di donne malmenate ogni anno 1000 vengono archiviate, racconta Manuela Ulivi, presidente della Casa delle donne maltrattate, la prima creata nel ’91 con 40 milioni regalati dai milanesi. Per questo chiede più formazione dai giudici alle forze dell’ordine che «troppo spesso rimandando a casa la donna dicendo: è solo una litigata».
(c.p.)

La Repubblica 28.07.13

“Per salvare il paese il catalogo è questo”, di Eugenio Scalfari

Ci sono molte iniziative che in queste settimane di luglio si sono addensate e che riguardano in parte il governo e in parte il parlamento, producendo addirittura un ingorgo che metterà a dura prova di calendario le Camere costringendole ad un lavoro molto intenso. Alcuni pensavano che Enrico Letta eccedesse in annunci e rinvii. Si sbagliavano di grosso. Letta e i suoi ministri preparavano i percorsi appropriati. Ci hanno messo pochi giorni e adesso sono tutte o quasi tutte ai nastri di partenza, ma si scontrano, come era prevedibile, con ostacoli e diverso sentire della maggioranza ed un’opposizione di sistema. Questa è la difficoltà o altrimenti detto i nodi che arrivano al pettine.
Il governo delle larghe intese non è mai esistito e non poteva esistere anche se l’ipocrisia che è un elemento della politica l’ha battezzato in quel modo. Abbiamo più volte detto (e l’ha detto esplicitamente anche Letta) che è un governo di necessità e di scopo. Lo scopo è di portare l’Italia e l’Europa fuori dalla recessione. Non è una “cosetta”, è un obiettivo che coinvolge ciascun governo dell’Unione e l’Unione nel suo complesso e Letta a questo obiettivo sta lavorando con il nostro parlamento, con i partiti della maggioranza, con l’Unione europea, con la Bce, con i governi dei paesi di maggior peso politico ed economico. Qualche risultato si intravede ma i frutti più consistenti cominceranno ad arrivare nel prossimo ottobre e
poi nel 2014.
Lo sbocco è previsto nel 2015 se non interverranno gelate o grandinate che in un’economia globale possono arrivare da qualunque parte del pianeta.
La mitologia greca – sembra una divagazione ma invece è pertinente alla situazione che stiamo vivendo – diceva che il mondo è dominato da una forza che si chiama “Ananke” che significa necessità e fatalità, alla quale fa fronte un’altra forza che si chiama “Metis” che significa astuzia e fluidità. Spesso Metis riesce a raggirare Ananke. Aggiungo per maggior chiarezza che Metis è la madre di Atena, dea dell’intelligenza e della “polis” cioè della città, della convivenza e della politica. Noi speriamo che Metis e sua figlia Atena prevalgano su Ananke. Il mondo globale è quanto mai liquido e solo Metis può dargli
una forma accettabile.
***
Breve elenco delle iniziative da portare a termine. La prima è la riforma della legge elettorale. La vogliono tutti a parole, pochissimi nei fatti. Tra i pochissimi c’è il presidente Napolitano, c’è Letta, c’è Epifani e buona parte del Pd. Per quel tanto che vale c’è anche questo nostro giornale. Non una legge di semplice garanzia ma una riforma vera e propria che abolisca la “porcata” vigente e la sostituisca con una legge che dia al tempo stesso possibilità ai cittadini di scegliere i loro rappresentanti, un’equa rappresentanza alle forze politiche e una sufficiente governabilità.
Gli studi in proposito sono già molto avanzati. Il Pd prenda dunque l’iniziativa di proporla e chi ci starà ci starà, dentro o fuori della maggioranza. La legge elettorale non ha carattere costituzionale e non mette in discussione il governo. Potrebbe essere discussa e approvata dal parlamento già per ottobre e anche prima.
Poi viene il resto e non è da poco. La legge sul finanziamento dei partiti. Leggo su alcuni giornali che quella presentata dal governo non abolisce il finanziamento pubblico. È falso, lo abolisce con un approccio graduale di due anni salvo alcune facilitazioni sulle tariffe postali della spedizione del materiale di propaganda. Naturalmente i “tesorieri” dei partiti – tranne i 5 Stelle – vorrebbero conservare un po’ di sostegno pubblico ma Letta ha imboccato una strada diversa con la quale noi concordiamo totalmente. Perciò, se necessario, ponga la fiducia.
La legge sull’omofobia. L’ostruzionismo dei grillini contro il disegno di legge sulle riforme costituzionali ha sconvolto il calendario, ma l’omofobia non può e non deve aspettare. Se necessario si restringano al minimo le vacanze parlamentari ma la si voti subito.
A settembre arriverà il momento di discutere e votare la riforma costituzionale preparata dalla Commissione costituzionale delle due Camere in sede referente e non deliberante. Mi permetto di raccomandare che siano quelle strettamente necessarie e cioè l’abolizione delle Province (che Letta ha già svuotato dei poteri) il taglio del numero dei parlamentari e il Senato federale senza più il bicameralismo perfetto che non esiste in nessun Paese europeo (e del mondo).
Ingroia, con Vendola e Grillo, parla di soppressione dell’articolo 138 e di conseguenza di vero e proprio golpe costituzionale. Ma non mi pare che esista nulla di tutto questo. Nel progetto di legge l’articolo 138 è scrupolosamente rispettato e c’è addirittura un’estensione del referendum confermativo anche per le riforme che avessero ottenuto alle Camere la maggioranza qualificata che esclude l’obbligo referendario. Mi sembra che sia un rafforzamento e non l’abolizione del 138.
Il catalogo è questo. Il tempo necessario arriva fino al semestre di presidenza europea assegnato
all’Italia e quindi a Enrico Letta con scadenza al 31 dicembre del 2014. Poi, nei primi mesi del 2015 il governo si dimetterà e chi avrà tessuto di più ne raccoglierà i frutti.
Nel frattempo però si pone la questione non marginale del congresso del Partito democratico.
***
Il Pd è ancora accartocciato su se stesso. Non ci sono leader, così leggo in quasi tutti i giornali, salvo Matteo Renzi. A me non sembra che Renzi sia il solo, anche se ha carisma e una sua corrente ormai numerosa.
Epifani è un buon segretario e può aspirare ad essere eletto dal congresso. Cuperlo anche. Civati è un oppositore consapevole. Ma poi ci sono persone come Chiamparino, Fassino, Barca, Bindi, Rossi, ma anche Veltroni, anche Bersani, anche D’Alema.
Si dirà: è la vecchia nomenclatura. In parte sì ma in parte no. Non Renzi, non Cuperlo, non Civati, non Barca. Molti sono stati rottamati o si sono autorottamati ma se decidessero di candidarsi e piacessero agli elettori non esistono che io sappia impedimenti alla loro elezione. Dico queste cose solo per segnalare che tra vecchi e nuovi la classe dirigente del Pd è ricca di nomi nessuno dei quali ha l’età di Matusalemme.
Le regole. Le primarie finora sono sempre state aperte. Io personalmente non sono mai stato iscritto al Pd ma ho partecipato a tutte le primarie votando Veltroni, Franceschini, Bersani. Nessuno di loro è stato presidente del Consiglio. Alle primarie di coalizione ho sempre votato Romano Prodi e lo voterei ancora.
Penso che si voti il segretario e non il candidato premier. Primarie aperte per il segretario. Quando si dovrà scegliere a fine legislatura il candidato per la premiership sarà il segretario a decidere se vuole presentarsi anche in quella occasione oppure no. Spetta solo a lui una decisione che lo vedrà sfidarsi con gli altri contendenti.
***
Quando leggerete questo note mancheranno due giorni alla sentenza della Cassazione sul processo Mediaset. La precedente sentenza ha condannato in appello l’imputato Berlusconi a quattro anni di carcere (tre condonati per indulto) e a cinque anni di decadenza dai pubblici uffici.
È opportuno non fare previsioni sulla sentenza, salvo che essa non può che riguardare questioni di diritto e non un nuovo approfondimento dei fatti che restano in ogni caso quelli accertati dalla Corte di appello.
Se sarà un sentenza di conferma, la Camera di appartenenza (in questo caso il Senato) dovrà ratificare la sentenza per renderla applicabile. Normalmente si tratta di una pura formalità poiché la commissione del Senato non può mettere in discussione le decisioni di un giudice ordinario. Ma qualora i senatori del Pdl perdessero la testa, la maggioranza ci sarebbe comunque perché è da immaginare che i senatori di tutti gli altri gruppi ratificherebbero il pronunciamento della Cassazione.
Il governo subirà contraccolpi? Berlusconi lo ha più volte escluso. Per quanto mi riguarda lo prendo in parola. E Alfano?
Il tema della sua responsabilità politica sul caso Shelabayeva è ancora in piedi e lui lo sa. Sarebbe opportuno che ne traesse le conseguenze. Personalmente sono quasi convinto che non sapesse dell’estradizione ma sono altrettanto convinto che un ministro dell’Interno, preventivamente informato dei precedenti, avrebbe dovuto esser lui a chiedere notizie sul seguito di quella pratica. Non è dunque soltanto politicamente responsabile di quanto è avvenuto, ma anche tecnicamente inadeguato a ricoprire quel ruolo. Perciò in punta dei piedi se ne deve andare e sarà un bene soprattutto per lui oltreché per il governo.

La Repubblica 28.07.13

Congresso Pd, duello sulle regole Voto dopo la sentenza Mediaset”, di Simone Collini

I sorrisi, le pacche sulle spalle, all’inizio. I volti tesi, gli sguardi rivelatori di sospetti reciproci, alla fine. Doveva essere un appuntamento per discutere del rapporto tra partito e governo e invece la Direzione Pd si è trasformata in uno scontro sulle regole congressuali talmente acceso che alla fine, con la scusa delle troppe richieste di intervento ancora in lista, si è deciso di chiudere senza un voto e di rinviare ogni decisione a una nuova riunione, convocata per la prossima settimana.

Certo, c’è anche il fatto non secondario, come dice Guglielmo Epifani facendo riferimento al processo Mediaset, che «la sentenza del 30 luglio, qualunque sarà il verdetto, provocherà conseguenze» e quindi un nuovo appuntamento sarà «a valle» del pronunciamento della Cassazione. Ma è soprattutto la lacerazione che si è prodotta sulla platea degli elettori del prossimo segretario (primarie aperte o solo iscritti) a consigliare il rinvio di un voto.
E se ad andare in scena è lo scontro tra l’ala governista del Pd (l’asse Epifani-Bersani-Franceschini) contro renziani e cosiddetti giovani turchi (Renzi e Cuperlo, anche se saranno avversari, in questo passaggio hanno fatto fronte comune) ci sono ulteriori livelli di scontro interni agli stessi due fronti. Perché, ci si domanda tra i bersaniani, Franceschini intervenendo subito dopo Epifani ha detto che il prossimo segretario andrà eletto soltanto dagli iscritti? Perché, ci si domanda tra i renziani, Fassino che pure nei giorni scorsi aveva inviato segnali differenti al sindaco di Firenze, è intervenuto dopo e non l’ha stoppato? Ma questo è alla fine dei lavori, che pure si sono aperti con il leader del Pd che andando incontro alla richiesta dei candidati segretari ha di fatto indicato una data per il congresso nazionale: il 30 novembre. Poi la riunione a porte chiuse ha preso un’altra direzione.
Epifani lancia un primo segnale di rassicurazione dicendo che «il tempo del congresso è ora, spostarlo non serve», poi insiste sulla necessità di separare la figura del segretario, da quella del candidato premier: «Io credo che dobbiamo in qualche misura tornare in questa fase a un segretario che si occupi prevalentemente dei problemi del partito, ne consegue che anche la platea di riferimento per la sua elezione dovrà essere funzionale a questa scelta. Oppure, possiamo riconfermare la scelta tradizionale senza automatismi sapendo che anche quella scelta incrocia tanti problemi. Io chiedo su questo di esprimere un’opinione». Subito do- po interviene Franceschini dicendo: «Credo giusto che il segretario venga eletto dagli iscritti nel modo più coinvolgente possibile».
Insorgono i renziani, che parlano di una proposta di scambio (congresso il 30 novembre ma aperto solo agli iscritti) inaccettabile. Così come per loro è inaccettabile che le candidature per la segreteria nazionale siano presentate soltanto dopo la chiusura dei congressi locali, come proposto da Epifani. Ma anche Cuperlo, Civati, Pittella criticano duramente quanto ipotizzato. E anche Bindi, Bettini, Gentiloni, i prodiani Zampa e Gozi, i giovani turchi Orfini e Verducci. Cuperlo, che pure è d’accordo col porre fine alla coincidenza tra segretario e candidato premier, interviene per dire che «se si cambiano le regole, dobbiamo farlo insieme», che «se non c’è accordo sui ruoli deve decidere il congresso» e che se non si trova l’accordo sulla platea degli elettori «è meglio non votare qui in Direzione». Il candidato segretario vuole primarie aperte, così come Bindi, che chiede un «congresso competitivo, non acquietato solo perché non si vuole disturbare il governo», che domanda retoricamente «a chi interessa un partito che non sia anche una forza del cambiamento?». Gentiloni va all’attacco: «Una direzione eletta quattro anni fa sta discutendo di come cambiare faccia e natura del Pd». Zoggia difende il segretario: «Epifani non vuole procedere a colpi di maggioranza, anche perché il valore dell’unità in questa fase è fondamentale, ma se qualcuno ritiene le proprie posizioni irriformabili non si va avanti».
Letta resta seduto in quarta fila, poi va al microfono per l’intervento che chiuderà la riunione. Dice che «serve un segretario che lavori a preparare un partito che quando ci saranno le nuove elezioni sia pronto a competere e a vincere», ma anche che serve «un partito non un gruppo misto, perché uniti non ci batte nessuno».
Fine degli interventi, fine della Direzione. Il previsto voto sulla relazione del segretario non ci sarà. Viene deciso di rinviarlo alla prossima riunione. Che si farà dopo che la commissione congressuale avrà deciso le regole. E, visto che è convocata per il 31, probabilmente anche dopo la sentenza della Cassazione. Sarà poi l’Assemblea nazionale del Pd, convocata per il 14 settembre, a ratificare o meno le decisioni assunte. E i renziani si sfregano le mani.
Renzi, che durante la Direzione rimane tutto il tempo seduto ad ascoltare e armeggiare con pc e telefonino, lascia il quartier generale del Pd senza proferire parola. Poi ai suoi dice un paio di cose. La prima: «A una cosa è servita questa Direzione, a indicare una data». La seconda: il tentativo di blitz sulle regole è fallito e non riuscirà neanche nelle prossime settimane.
Bersani non interviene, ma a chi gli domanda un commento spiega: «Tutte le primarie sono aperte, ciascuna secondo la propria logica. Le primarie per il premier saranno aperte a chi si dichiara elettore del centrosinistra. Quelle per il segretario devono essere aperte a chi aderisce al partito». E si torna a parlare dell’ipotesi che ai gazebo possa andare chiunque, anche dichiarando il giorno stesso di aderire al Pd. Una mediazione che starebbe bene anche a Renzi.

L’Unità 27.07.13