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“Pizzarotti si arrende: un super consulente antidebito”, di Dario Di Vico

Passa il tempo ma una vera strategia antidebito il Comune di Parma stenta a metterla in campo. Un anno dopo la clamorosa vittoria ottenuta alle elezioni municipali, il sindaco grillino Federico Pizzarotti sembra faticare a trovare il bandolo della matassa. Il consigliere d’opposizione Massimo Iotti ha addirittura postato su Twitter un incredibile confronto tra Parma e Detroit, la città americana che ha dichiarato fallimento in questi giorni. Quel che è certo è che il sindaco, con una mossa che ha destato sorpresa, ha autorizzato la società partecipata Stt a emettere un bando per la ricerca di un consulente internazionale che elabori un piano di risanamento e ristrutturazione. Costo dell’operazione: 700 mila euro. A rendere ancor più singolare la mossa di Pizzarotti contribuiscono una serie di precedenti. L’economista Loretta Napoleoni, che avrebbe dovuto illuminarlo a titolo gratuito, «se ne è andata dopo pochi giorni» (parole del sindaco) e l’assessore al Bilancio, Gino Capelli, ha preferito tornare ai suoi incarichi professionali lasciando la giunta sul più bello. In materia di soldi buttati al vento nelle consulenze Parma del resto ha un pedigree assoluto: l’ex sindaco Pietro Vignali aveva fatto le fortune di tutti i guru italiani della comunicazione.

Se dalla cronaca delle consulenze girevoli tentiamo di passare a rintracciare numeri certi il quadro è ancor più sconsolante. Si parte da un debito consolidato (Comune più controllate) di 850 milioni. Pizzarotti sostiene di averlo ridotto di 265 ma in realtà ha semplicemente cancellato quella porzione di debito perché una società (Spip) che lo aveva in pancia è fallita e l’altra (Stu Pasubio) è stata alienata. Il debito si è ridotto ma solo in virtù di una forte perdita patrimoniale. Intanto si continuano a pagare interessi alle banche per 40-50 milioni l’anno e le società controllate, come la Stt e Parma Infrastrutture, accumulano nel frattempo ulteriori perdite di gestione anch’esse valutabili in circa 40 milioni annui. Il risultato è che i parmensi pagano già il massimo delle imposte e il Comune in compenso non ha un soldo da spendere.

Accusato di scarsa competenza amministrativa Pizzarotti però non demorde. La sua forza è l’empatia e così si fa vedere spesso in pubblico, magari per presentare libri. Con il Pd nazionale ha intessuto qualche rapporto che gli ha permesso di entrare nel direttivo dell’Anci e nei giorni scorsi, durante un’intervista pubblica con l’imprenditore Matteo Cambi, incappato in un recente passato in disavventure giudiziarie della sua azienda Guru, ha fatto sapere che sta studiando «un nuovo logo cittadino a forma di cuore». Di sicuro la generosità dei suoi concittadini è elevata visto che la società civile e la Confindustria, tradizionalmente molto forte in città, non gli hanno chiesto ancora il conto dell’anno di rodaggio. Quanto all’inceneritore, che i grillini avrebbe voluto vendere ai cinesi, prima è regolarmente partito e solo successivamente è stato fermato dal Comune con una serie di cavilli burocratici. Si aspetta a fine mese la sentenza del Tar per dirimere il contenzioso, nel frattempo però la società di gestione, la Iren, ha messo in moto il tassametro: chiederà danni per 200 milioni per ogni giorno di procurato fermo. Stando così le cose è facile pensare che tutte queste contraddizioni finiranno per scaricarsi sulle bollette dell’energia. Inceneritore a parte, per quadrare il cerchio e cercare di far partire un vero piano di rientro dal debito ci sarebbe necessità, secondo l’ex assessore Capelli, «di trovare nuova finanza». E forse quei 700 milioni offerti in consulenza servono proprio ad attirare (e garantire) qualche operatore di mercato voglioso di cimentarsi in una sorta di «finanza creativa alla parmigiana».

Il Corriere della Sera 21.07.13

“Dalla «saldatura» tra cultura e territori la molla per ripartire”, di A. Bonomi

In un capitalismo che trasforma conoscenza, relazioni, il sentire e l’intelligenza personale e collettiva nei suoi mezzi di produzione più rilevanti, il tema dell’intreccio tra economia della cultura e capitalismo manifatturiero è la filigrana attraverso cui leggere la natura di transizione della crisi, con la coesistenza tra diversi modi di produzione, diversi modi di concepire lo sviluppo, l’emergere di nuovi gruppi sociali e (forse) future élite.
È questa la fotografia scattata dall’ultimo rapporto di Unioncamere-Symbola sull’industria culturale italiana, il 5,4% della nostra economia con 458mila imprese e quasi un milione e 400mila addetti tra industrie creative, culturali, patrimonio storico-artistico e arti visive a cui si affianca il sistema culturale della Pa e il non profit di associazioni e fondazioni. Numeri che indicano una resilienza del capitalismo nostrano, un vitalismo che non si è ancora spento. Tracce quantitativamente ancora deboli ma qualitativamente importanti soprattutto per il significato che rivestono. In primo luogo dal punto di vista della composizione sociale.
Le filiere della cultura sono uno dei vettori dell’emergere di una nuova composizione demografica più adatta a forme di produzione del valore la cui componente relazionale prodotta e organizzata attraverso la grande rete digitale appare sempre più rilevante. Non è un caso che in questo campo a crescere siano soprattutto le imprese femminili (oltre 75mila), degli under 35 anni (35.395) e guidate da stranieri (18.147): donne, giovani e immigrati, i tre segmenti sociali più compressi dentro la crisi. Protagonisti, a mio parere, non solo per le difficoltà ma perché “indigeni digitali e globali”.
Quella presentata nel rapporto è anche una economia della cultura che si articola geograficamente su polarità che sono l’evoluzione delle tradizionali mappe dello sviluppo italiano: il capitalismo metropolitano del Nord Ovest, oggi riarticolato sull’asse Milano-Torino, l’evoluzione del Nec di G. Fuà con le culture produttive di territori del made in Italy come Vicenza, Treviso, Pordenone, Arezzo, Macerata, le due polarità urbane di Firenze e Roma. Con una contraddizione di fondo che va affrontata se non si vuole rimanere in eterno a raccontare di buone pratiche che non riescono a fare sistema.
L’economia della cultura vive certo del protagonismo delle soggettività, ma può crescere solo se immersa in un ecosistema territoriale e funzionale adatto. Quello che manca in Italia. O meglio in Italia l’ecosistema prevalente è quello ereditato dal passato, sia sul piano dei beni culturali e paesaggistici che su quello dei saperi produttivi territoriali: ma tutto ciò non basta più, manca l’ecosistema della contemporaneità. Che non è questione meramente tecnologica, quanto di nuove culture dell’impresa, di forme di accesso alla finanza in grado di accompagnare le start-up, di motori della (grande) committenza che intervengano nel ritrarsi del pubblico costituendo gli sbocchi di mercato necessari a dare consistenza alle tracce di innovazione diffusa. Senza fare l’errore di concepire la grande industria come soggetto alternativo alla molecolarità dell’impresa culturale o quest’ultima come sostitutiva della manifattura. La storia di questo paese, da Olivetti fino alle medie imprese, testimonia del contrario. Sono convinto che la strada da praticare sia invece l’intreccio, metaforicamente rappresentabile come impollinazione reciproca tra capitalismo manifatturiero e nebulosa dei giovani “smanettoni” espressione della società terziarizzata. Un rapporto che va costruito. E di cui nelle filiere studiate da Unioncamere tracce ve ne sono soprattutto in quelle 228 reti di impresa tra le quali il 28,8% fa software ed è in rete con chi fabbrica computer e elettronica, il 5,6% è architetto e coopera con imprese edili specializzate, il 44,7% fa design e produzione di stile e il 6,5% fa comunicazione e branding e tutti sono parte di filiere ibride dell’agroalimentare e della meccanica.
Intrecci finalizzati allo sviluppo di reti lunghe per raggiungere i mercati strategici dei Brics (il 10% del valore dell’export è riconducibile a produzioni culturali), all’innovazione high-tech orientata alla multifunzionalità di produzioni mature come nel caso della domotica per la casa, dei software per il packaging o dell’R&S nella moda. Reti lunghe e innovazione che stanno dentro un orizzonte culturale di green economy fatto di efficienza ambientale e sostenibilità. Per dare forza a questo intreccio ed evitare che la composizione sociale che la incarna galleggi troppo a lungo nella condizione di un “quinto stato” senza ruolo sociale e politico, occorrono anche politiche che accompagnino l’ibridazione tra creatività e nuovi modelli di impresa sociale, e non ultimo politiche di nuovo welfare soprattutto nelle grandi aree metropolitane terziarie.
Occorre infine aprire una grande discussione sul fatto che in un capitalismo della conoscenza e delle reti post-crisi la produzione del valore dipenderà sempre più dalla capacità del lavoro e dell’impresa di ricostituire in modo condiviso ed etico quei beni comuni dell’identità, del paesaggio, della coesione sociale, della sostenibilità che alimentano la distintività del made in Italy sui mercati globali. Insomma senza ecosistema della contemporaneità in cui cultura e manifattura si innestino reciprocamente, la stessa economia della cultura stenterà a produrre quei moltiplicatori del valore che soli gli consentirebbero di fungere da volano anche per il resto del sistema produttivo.

Il Sole 24 Ore 21.07.13

“Quanto ci costa l’irresponsabilità”, di Piero Ignazi

La politica ha salvato il ministro degli interni Angelino Alfano, ma non lo ha sollevato né assolto dalla sua responsabilità. I ministri sono sempre responsabili politicamente degli atti della loro amministrazione. Un principio, questo, che emerge alla fine del XVIII secolo in terra americana dove i padri fondatori introdussero nei
Federalist Papers (art. 65) il concetto di “responsabilità”.
Il principio venne poi sancito in Francia nella
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino
del 1789 (art. 15) laddove si asserisce solennemente che «la Società ha il diritto di chiedere conto ad ogni agente pubblico della sua amministrazione ». Quindi, poiché ogni atto del governo è compiuto in nome del ministro, questi deve assumerne la responsabilità di fronte al Parlamento e di fronte all’opinione pubblica. Se sono stati commessi errori il ministro può prendere provvedimenti disciplinari e sanzionatori nei confronti dei funzionari, ma ciò, come scrivono i costituzionalisti anglosassoni, «non lo assolve dalla responsabilità politica». A meno che il governo intero non si assuma collettivamente l’onere dell’azione compiuta. È esattamente quanto ha fatto Enrico Letta. Pur avendo voluto più di ogni altro far luce sulla questione dell’espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia, il presidente del Consiglio ha fatto scudo ad Alfano (e alla Bonino) avocando a tutto il governo la responsabilità – collettiva – dell’affaire kazako. In questo modo al pluri-incaricato ministro dell’Interno, vice presidente del Consiglio e segretario del Pdl, Angelino Alfano è stata assicurata la salvezza politico-personale.
I costi di questa rescue-operation rischiano però di essere superiori ai benefici. Il presidente della Repubblica ha steso il suo manto protettivo sul governo per evitare rischi di instabilità e metterlo al riparo dalle pressioni speculative di una estate che si preannuncia torrida su questo versante. C’è da sperare che sia stata la scelta più opportuna per il sistema nel suo complesso. Tuttavia la difesa della continuità governativa sic et simpliciter, lasciando passare questo episodio come un infortunio di qualche funzionario distratto, non ripara il danno gigantesco di credibilità del nostro Paese agli occhi della comunità internazionale.
L’intrusione nei più delicati apparati dello Stato e ai livelli più alti di un ambasciatore (sic!) e di altro personale diplomatico di un Paese non alleato e tenuto a distanza dal consesso delle nazioni democratiche per i caratteri autocratici del suo regime mette in pessima luce l’affidabilità e l’impermeabilità della nostra amministrazione. Abbiamo dato la sensazione di avere un apparato di sicurezza influenzabile e penetrabile da emissari di Paesi retti da despoti autoritari e, per di più, di essere supini e servizievoli nei confronti delle richieste di questi interlocutori esterni, tanto da venire persino telecomandati nelle indagini. Infine, abbiamo manifestato totale insensibilità e disprezzo (proprio gli italiani brava gente) nei confronti di persone deboli e indifese – una donna e una bambina – impacchettate e spedite a forza verso la totale disponibilità del satrapo kazako.
In tutto questo c’è la responsabilità politica del ministro che ha oggettivamente (e forse soggettivamente) consentito l’operazione deportazione; e tutto questo non accadeva in una sperduta caserma dell’entroterra molisano, ma ai piani alti del suo ministero. Se Alfano non è nemmeno politicamente responsabile dei vertici della sua struttura, allora è veramente irresponsabile.
E la sua irresponsabilità finirà per costarci carissima nell’impalpabile quanto inflessibile “mercato” della credibilità internazionale.
L’unica via d’uscita da un ulteriore “schettinizzazione” dell’immagine del nostro Paese consiste in un atto autonomo da parte del ministro dell’Interno, con un sussulto di dignità che gli farebbe e gli restituirebbe onore: offrire dimissioni volontarie. Se Alfano non ha questa sensibilità nelle sue corde, almeno che ci sia qualcuno a suggerirglielo.

La Repubblica 21.07.13

Visco: “Ripresa a ottobre ma serve stabilità politica”, di Tonia Mastrobuoni

Sulla credibilità delle agenzie di rating aveva già avuto modo di esprimere i suoi dubbi, ma il messaggio di fondo emerso dall’ultimo declassamento dell’Italia, ritenuto comunque «ingiustificato, se guardiamo ai fondamentali», quello di Standard&Poor’s, è difficile da smentire. Così, nonostante il Financial stability board stia cercando, come è emerso anche al G20 di Mosca che si è appena concluso, dei modi per rendere più indipendenti aziende, banche e Paesi dal giudizio delle «tre sorelle», Ignazio Visco ha detto molto chiaramente che il problema annoso dell’Italia resta la sua fragilità politica. «Il nostro Paese – ha detto in una conferenza stampa congiunta con Fabrizio Saccomanni – è in una fase critica: c’è un problema di stabilità, anche istituzionale e politica, che incide sulla capacità di cogliere le opportunità della ripresa».

Il governatore della Banca d’Italia ha espresso la previsione di un ritorno al segno positivo nel quarto trimestre, ma si è detto preoccupato delle turbolenze politiche che caratterizzano perennemente il nostro Paese. Non solo, dunque, da quando è scoppiato il caso kazako o da quando è stata resa nota l’anticipazione a fine mese della sentenza definitiva sul caso Mediaset. «Si è osservato – ha puntualizzato – che questa situazione ha portato a una revisione del rating» da parte di Standard&Poor’s del nostro debito pubblico, che è stato notoriamente motivato dalle incertezze politiche degli ultimi mesi.

Tuttavia Visco ha anche escluso, venerdì sera, che attorno all’incertezza politica che caratterizza il nostro Paese si siano coagulate preoccupazioni particolari, in seno al G20 – come è accaduto invece negli ultimi anni, soprattutto nelle fasi più acute della crisi dell’euro. Una tesi confermata anche dalla direttrice generale del Fmi, Christine Lagarde, durante la conferenza stampa conclusiva del G20: «non abbiamo parlato dell’Italia», ha puntualizzato. E anche Visco ha detto che «non c’è un rischio Italia».

Il governatore della Banca d’Italia ha anche ribadito che «la strada maestra è la crescita» per rimettere in carreggiata il Paese. Ma, ha aggiunto, «ci vorrà un sacco di tempo» per ritrovare «una crescita solida». Fabrizio Saccomanni ha ribadito, seduto accanto a Visco, che «ci meritiamo uno spread più basso» di quello attuale, ancora condizionato dalla crisi. Ma anche che il governo sta studiando un modo per rimediare alla difficoltà di approvvigionamento delle aziende. Serve «un’iniziativa di tipo pubblico – ha detto il responsabile dell’Economia – per trovare nuovi interlocutori che possano mettere in contatto le imprese con gli investitori disposti a investire a lungo termine, se hanno una corretta percezione del rischio e del rendimento a lungo termine».

A proposito dell’impasse del credito, Visco ha anticipato che la ricognizione del Fmi sulla solidità delle banche italiane che sarà resa nota in autunno non riserverà sorprese negative. «Il Fmi – ha sottolineato – ha condotto stress test che conducono a risultati simili a quelli della Banca d’Italia». Dovrebbero confermare, alla vigilia dell’importante analisi degli asset del sistema creditizio che la Bce condurrà il prossimo inverno – ancora in mancanza di un’autorità e di un meccanismo di risoluzione europeo unici – «che la loro capacità di tenuta, in termini di capitale, sarà buona rispetto all’eventualità di shock importanti».

Buone notizie per l’Italia arrivano, invece, sul fronte fiscale. Ieri sera il ministro dello Sviluppo Flavio Zanonato ha spiegato: «Penso che all’inizio dell’autunno sarà possibile annunciare che non ci sarà un punto di Iva in più e non ci sarà l’Imu sulla prima casa». Ricordando che il governo «non ha fatto scattare il punto di Iva in più» e ha rinviato la prima rata dell’Imu prima casa il ministro ha aggiunto: «Stiamo lavorando per stabilizzare queste misure e stiamo raggiungendo questo obiettivo». Riguardo all’Imu ha quindi ricordato che la sua volontà è quella di abolire la tassa non solo sulla prima casa ma anche su capannoni e edifici industriali.

La Stampa 21.07.13

“Cambiare, non farsi cambiare”, di Claudio Sardo

In un paese normale Roberto Calderoli si sarebbe dimesso da vice-presidente del Senato dopo l0oltraggio alla Ministra Kyenge, Angelino Alfano si sarebbe dimesso da titolare degli Interni dopo la rendition della signora Shalabayeva avvenuta nel disprezzo della dignità nazionale, e anche la ministra Emma Bonino starebbe riflettendo sul da farsi.
Ma non siamo un Paese normale. Come dimostra anche lo stato della maggioranza che sostiene il governo. Una maggioranza che ha le sembianze delle Grande coalizione, che viene contestata dai suoi oppositori come l’espressione dell’inciucio, ma che in realtà non si fonda sulla benché minima alleanza politica. Il governo Letta è il comitato esecutivo di un Parlamento privo di maggioranza, ha un programma di ricostruzione emergenziale (lavoro, crisi sociale, riforme in grado di scongiurare l’esito nullo delle prossime elezioni), tuttavia è indebolito quotidianamente da conflitti e tatticismi di ogni genere. Ad ogni tornante si spalancano le porte della crisi: che si parli di Imu o delle sentenze su Berlusconi, del caso kazako o di legge elettorale. Il paradosso è che a rendere fragile il governo non è il fantomatico inciucio, ma appunto l’assenza di un’agenda condivisa, finalizzata all’approdo in un nuovo, sano bipolarismo.

Calcoli personalistici, errori, storture, ipocrisie: tante cose spingono il Paese sempre più nella palude, alimentano la sfiducia interna ed esterna, rinviano nel tempo l’inizio di un coraggioso cambiamento. Hanno qualche interesse Berlusconi e Grillo a costruire una democrazia di tipo europeo? Di certo, c’è una differenza etica, oltre che politica, tra la scelta compiuta da Iosefa Idem e il doppio rifiuto di Alfano e Calderoli. C’è il senso di una grave irresponsabilità istituzionale nella difesa di squadra operata dalla Lega. E c’è il senso di una debolezza estrema nell’arrocco del segretario del Pdl: proprio lui che vuole prendere la bandiera del centrodestra post-berlusconiano è diventato ostaggio dei falchi, che intendono blindare il partito patrimoniale del Cavaliere e, con esso, la seconda Repubblica.

Le drammatiche foto di gruppo di questi giorni ritraggono anche altre mostruosità: ad esempio, i grillini che volutamente minimizzano il caso Calderoli per evitare di dare sponda al Pd e invece forzano sul caso Alfano, non per danneggiare il Pdl, bensì per allargare le fratture nella sinistra. Ma forse l’esito più inquietante di questa impotenza delle istituzioni democratiche sta nel ribaltamento dei ruoli tra politica e apparati dello Stato. Se fosse tutto vero il rapporto del prefetto Pansa, lo scenario sarebbe il peggiore possibile: un fatto di tale gravità, carico di conseguenze politiche e diplomatiche di prim’ordine, è stato gestito da funzionari che non hanno sentito il dovere, e neppure il bisogno, di comunicare le loro azioni a chi, per Costituzione, ha la responsabilità dell’indirizzo politico.

Questo è il prodotto della seconda Repubblica. Questo è il precipizio nel quale siamo finiti. Per questo i casi Calderoli e Alfano non possono considerarsi chiusi. L’indignazione e lo sconcerto hanno molte ragioni. Ma la caduta del governo e l’apertura di una crisi senza sbocchi plausibili sarebbero stati un ulteriore colpo all’Italia, dopo la ferita, che resta insanabile, della rendition della signora Shalabayeva e della piccola Alua. Ora comunque bisogna guardare con onestà anche ai difetti del centrosinistra e domandarsi perché, quando Alfano si dimostra incapace di fare il ministro, è il Pd e non il Pdl ad entrare in crisi. E quando Berlusconi viene condannato o minaccia atti eversivi, è il Pd e non il Pdl a dividersi.

Questa fragilità, questa malattia, non può essere trascurata. Se ne occupi il congresso del Pd, perché altrimenti il Pd diventerà un fattore di crisi per il Paese. O incalzerà il governo, dandogli un missione che rispecchia le sue priorità politiche, oppure lo condannerà. I democratici sono oggi il collante del Paese, sono la sola forza politica in piedi, sulle cui spalle grava il peso maggiore del funzionamento delle istituzioni. Ma che siano all’altezza del compito, lo devono dimostrare. Allargando anziché restringere le radici nella società. Confrontandosi apertamente con il dissenso, nella prospettiva di una moderna sinistra plurale. Rilanciando sui temi del lavoro e dell’uguaglianza, perché una sinistra che si rispetti non si fa confondere dalla destra e neppure da radicalismi elitari. Trovando però l’unità quando è necessario: forse soffrirà qualche esibizionista, ma almeno verrà rispettato il voto di quei cittadini che hanno portato il Pd ad essere il partito di maggioranza relativa e che hanno il diritto di giudicarlo alle prossime elezioni, senza che si ripetano le scene dissolutive delle presidenziali.

Ovviamente non sarà mai una regola da sola, o una disciplina imposta, a indicare un destino comune. La regola però è la prova di una comunità. E la scelta di fondo del congresso Pd è se restare una comunità organizzata in un partito, oppure cedere al mito del capo carismatico. Cambiare il sistema politico o farsi cambiare. Da questa scelta deriva un’idea di Paese, oltre che di riforma costituzionale. È una questione di identità, di progetto. Solo un Pd più forte e incalzante può dare al governo una missione fino al semestre di presidenza italiana dell’Ue. Berlusconi, a quel punto, dirà sì o no. Ma se Letta fosse abbandonato nelle condizioni attuali, senza neppure definire al più presto un’intesa sul bipolarismo di domani, sarebbe meglio chiudere subito il sipario.

L’Unità 21.07.13

“Zanonato: in autunno via Imu e stop all’Iva”, di Roberto Petrini

Il governo è al lavoro per eliminare l’Imu sulla prima casa. E per stoppare l’aumento dell’Iva. Lo ha detto ieri il ministro dello Sviluppo Flavio Zanonato: «Penso che all’inizio dell’autunno sarà possibile dare l’annuncio». La dichiarazione dell’ex sindaco di Padova giunge dopo gli esiti incerti della riunione della “cabina di regia” e il giorno dopo il rilancio ufficiale della spending review. E al G20 a Mosca il governatore di Bankitalia, Visco, lamenta: «L’instabilità politica frena la ripresa».
«Penso che all’inizio dell’autunno sarà possibile annunciare che non ci sarà un punto di Iva in più e non ci sarà l’Imu sulla prima casa». Il ministro per lo Sviluppo economico, Flavio Zanonato, in una intervista al Tg1,
serve la soluzione dell’»ingorgo fiscale» ben prima della pausa di Ferragosto e prima ancora dell’impegno preso dalla «cabina di regia» governo-maggioranza, nella riunione di giovedì scorso, di agire sulle due tasse «incombenti » entro il 31 agosto.
Il governo, ha aggiunto Zanonato, sta lavorando per «stabilizzare » le misure prese prima dell’estate: ovvero i due contestati «rinvii», quello dell’Imu (dal 17 giugno al 17 settembre) diventato legge nei giorni scorsi con l’approvazione del provvedimento da parte del Senato e quello dell’Iva (spostato dal 1° luglio al 1° ottobre) con un decreto che deve essere approvato entro il 27 agosto pena la decadenza.
La sortita di Zanonato, già sindaco di Padova del Pd, giunge dopo gli esiti incerti della riunione della «cabina di regia» che si era limitata a parlare di «superamento» dell’Imu, ma soprattutto il giorno dopo il rilancio ufficiale della spending review con l’approvazione di un emendamento al decreto del «fare» che conferisce poteri straordinari al nuovo supercommisario per agire sulla spesa pubblica, mentre sul lato della spesa lo stesso ministro del Tesoro Fabrizio Saccomanni non ha escluso un rilancio della politica delle privatizzazioni e ha espresso l’intenzione di agire sulla valorizzazione degli asset dello Stato a partire dagli immobili.
Non a caso Zanonato ha citato espressamente il Tesoro, sotto forte pressione nelle ultime settimane da parte del Pdl: «Grazie all’impegno del ministro Saccomanni — ha tenuto a sottolineare — stiamo raggiungendo l’obiettivo» di stabilizzare i due rinvii e dunque di eliminare l’Imu sulla prima abitazione e sterilizzare l’aumento dell’Iva che rischia di schizzare al 22 per cento. Zanonato ha anche spiegato — ma questo lo ha attribuito espressamente alla sua volontà — di voler abolire l’Imu anche per capannoni ed edifici industriali.
Per l’intera operazione servono circa 5 miliardi per quest’anno: la cancellazione dell’Imu prima casa costa infatti 4 miliardi (finora trattandosi di un rinvio non si è speso nulla), mentre per lo stop di tre mesi dell’Iva, che quest’anno scattava solo nel secondo semestre, si è già impegnato un miliardo (finanziato con l’anticipo degli acconti Irpef) e ora ne serve un altro. E’ evidente, come ha detto il ministro dell’Economia Saccomanni, che dal prossimo anno le due «sterilizzazioni » costeranno 8 miliardi ogni dodici mesi.
L’autunno, al quale fa riferimento il ministro Zanonato è tuttavia la stagione della legge di Stabilità, che dovrà essere presentata in Parlamento e a Bruxelles entro il 15 ottobre e in quella occasione, riaperta la partita dei conti pubblici, potrebbero emergere le risorse necessarie. Nel frattempo potrebbe profilarsi un nuovo rinvio- ponte: in ogni caso un primo test sulle intenzioni del governo verrà fin da domani è atteso una nuovo vertice sul nodo-tasse, stavolta in Via Venti Settembre, tra i tecnici del Tesoro e i rappresentanti dei tre partiti che sostengono il governo.
Sul piano politico, se l’annuncio di Zanonato troverà seguito concreto, si sminerebbe uno dei passaggi più pericolosi per il governo Letta che, fin dalla nascita, ha visto contrapporsi in un lungo braccio di ferro il Pdl, schierato sul «no» totale all’Imu prima casa e all’aumento Iva e il Pd più incline a trovare una soluzione per escludere dal pagamento dell’imposta i redditi medio bassi che avrebbe potuto coinvolgere l’85 per cento dei proprietari lasciando l’onere di sostenere l’imposta solo alle fasce più alte.

La Repubblica 21.07.13

“Il solo modo per salvare un governo ammaccato”, di Eugenio Scalfari

La mozione di sfiducia individuale contro il ministro dell’Interno (e vicepresidente del Consiglio) Angelino Alfano è stata respinta con il voto pressoché compatto dei tre partiti della “strana maggioranza”. Nel Pd ci sono stati tre astenuti e tre assenti nei confronti dei quali (voglio sperare) non ci sarà alcuna censura. Si tratta infatti di un tipico caso di obiezione di coscienza motivato dal fatto che sia Enrico Letta, sia il segretario Epifani e sia il presidente della Repubblica avevano definito il caso kazako come incredibile e intollerabile al punto da rivolere indietro madre e figlia incautamente e inopportunamente estradate in Kazakhstan.
Resta tuttavia in piedi la questione della permanenza al governo di Alfano, sanata solo parzialmente dalla non del tutto provata sua ignoranza dei maneggi dei suoi più intimi collaboratori, in parte già sostituiti nei ruoli che avevano. Enrico Letta ha assunto su di sé la certificazione di quella ignoranza-innocenza, ma resta comunque aperta la questione della responsabilità politica che rappresenta uno dei cardini della pubblica amministrazione. L’ha ricordato ieri su questo giornale Stefano Rodotà, ma – mi piace qui ricordarlo – si tratta di un principio che ha contraddistinto la storia costituzionale italiana fin dai suoi albori, da quando la affermò Marco Minghetti e con lui Ruggero Bonghi e Zanardelli e da quando Silvio Spaventa creò la sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato proprio per difendere i cittadini dai possibili arbitrii della pubblica amministrazione.
Nel caso specifico, la responsabilità politica di Alfano risulta tanto più piena e ineludibile in quanto il ministro era perfettamente al corrente delle richieste dell’ambasciatore kazako al quale, qualora le due estradate non dovessero esserci al più presto restituite, il nostro ministero degli Esteri dovrebbe togliere il gradimento e rispedirlo in patria.
Del resto il Senato e in particolare il Pd, come risulta dalla dichiarazione di voto del capogruppo Luigi Zanda, ha votato contro la mozione di sfiducia dando al proprio voto il significato di un voto di fiducia a Letta e al governo da lui presieduto. Lo stesso Zanda ha rilevato che Alfano ha troppi incarichi per poterli adempiere con la dovuta diligenza, una constatazione che lo stesso Alfano, avendo ormai ottenuto il riconoscimento della sua ignorante innocenza ma non certo l’esenzione dalla responsabilità politica che incombe su di lui come un macigno, dovrebbe riconoscere e al più presto dimettersi lasciando al suo partito il diritto di mettere un altro al suo posto.
Questo dovrebbe avvenire, questo ho suggerito venerdì scorso a Berlusconi e questo – penso io – sarebbe gradito anche al Quirinale perché rafforzerebbe il governo nel momento in cui ne ha il maggior bisogno.
Non dovrebbe esser dimenticato da alcuno che dei tre partiti favorevoli al governo il Pd è quello che dispone della maggioranza assoluta alla Camera e della maggioranza relativa al Senato. È vero che all’attuale formula di governo non ci sono alternative politiche, ma possono esserci alternative numeriche; sicché, qualora le condizioni politiche cambiassero, un’alternativa potrebbe configurarsi sempre che abbia come perno, numericamente e politicamente indispensabile, il Pd. Fino quando durerà questa legislatura senza di loro nulla si può fare. Questo punto è bene sia tenuto presente da tutti, a cominciare dallo stesso Pd che a volte sembra dimenticarsene sia a livello degli organi dirigenti sia a quello dei militanti e degli elettori.
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Non mi pare ci siano altre considerazioni da aggiungere sulla stretta attualità politica e tantomeno sulla sentenza definitiva che riguarda il processo Mediaset alla quale mancano esattamente dieci giorni. Si tratta, come lo stesso interessato-imputato ha più volte riconosciuto, di un evento molto importante per lui ma del tutto distinto dalla vita del governo.
Nessun salvacondotto è disponibile e neppure pensabile, fermo restando che la sentenza può confermare la condanna o decidere di una parziale o totale invalidazione nei limiti dei poteri che l’ordinamento assegna alla Corte di Cassazione. Le sentenze, proclamate a nome del popolo italiano, possono essere tecnicamente discusse, ma accettate con rispetto nella loro sostanza. Ripercussioni politiche squalificherebbero chi le mettesse in atto e non penso sarebbero gradite dai cittadini elettori, quali che siano le loro personali convinzioni.
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Desidero invece riprendere brevemente un tema sviluppato qualche giorno fa sul nostro giornale da Michele Serra, del quale sono amico ed estimatore di quanto pensa e scrive; ma sul suo ultimo intervento intitolato “Dire qualcosa di Sinistra” sento di dovergli sottoporre qualche osservazione.
Serra sostiene che, a partire dalla Rivoluzione francese dell’Ottantanove, ebbe inizio un cambiamento politico che con fasi diverse ed anche alterne è arrivato fino ai nostri giorni e ancora durerà, sempre opponendo la destra alla sinistra, la prima incline a conservare l’esistente e la seconda a cambiarlo.
La parola che distingue la sinistra è dunque cambiamento, che può andare dal più spicciolo riformismo fino alla vera e propria rivoluzione che tutto abbatta e tutto ricostruisca. Certe volte è preferibile l’uno e altre volte l’altra purché di cambiamenti si tratti visto che questa evoluzione è il destino della nostra specie. C’è chi frena e anche il freno è talvolta necessario purché ceda infine all’acceleratore cioè appunto al cambiamento. Spero di aver fedelmente ricapitolato.
La descrizione di Serra è giusta ma estremamente semplificata. Manca un elemento fondamentale che si chiama realtà, ed un altro ancor più determinante che si chiama “resto del mondo”. Sia la realtà sia il resto del mondo debbono esser tenuti presenti quando
si parla di cambiamento e dei due pedali che lo regolano, cioè il freno e l’acceleratore.
La rivoluzione dell’Ottantanove richiamata da Serra era in realtà cominciata due secoli prima con Colombo e la scoperta del Nuovo Mondo, poi con Galileo e Copernico nella scoperta della nuova scienza e con Montaigne nella cultura e nel pensiero; infine con l’Il-luminismo e l’Enciclopedia.
Di lì comincia un’epoca che si chiamò la modernità e i suoi cambiamenti, i primi dei quali, nella politica propriamente detta, ebbero inizio nientemeno con il regno di Luigi XVI che fu un sovrano riformista anche se alla fine ci rimise la testa insieme alla sua famiglia. Infatti chiamò al governo i fisiocratici e Turgot, indisse dopo circa due secoli la riunione degli Stati Generali e ne accettò la trasformazione in Assemblea costituente, anche per combattere una recessione che stava impoverendo le campagne; infine accettò la Costituzione del 1791 e l’Assemblea legislativa che ne fu il risultato.
Qui si ferma il cambiamento democratico che, avendo perso di vista l’elemento della realtà, si trasformò rapidamente nella dittatura di Robespierre ispirata dai giacobini e dalla Comune di Parigi e culminata nel terrore. Danton cercò di impedire quella deriva e di deviarla nella difesa patriottica contro gli eserciti delle monarchie europee, ma ci rimise la pelle anche lui, insieme ai repubblicani democratici della Gironda. Poi Robespierre fu rovesciato e cominciò il terrore del Direttorio; poi Napoleone e vent’anni di guerre, poi la restaurazione borbonica, poi il regno parzialmente liberale di Filippo d’Orleans, poi la seconda rivoluzione del Quarantotto che coinvolse tutta l’Europa cui seguirono i prussiani da un lato e Napoleone III dall’altro con l’annessa “cuccagna” del primo capitalismo corrotto fin nelle midolla, poi Sedan, poi la Comune e infine la repubblica parlamentare.
Insomma dall’Ottantanove alla fine dell’Ottocento tre anni di cambiamenti progressisti e un secolo di dittature, terrore, stragi, guerre. Seguirono trent’anni di
Belle Époque e poi di nuovo terrore, stragi e guerre dal 1914 al 1945. Finalmente una destra e una sinistra accettabili e un capitalismo di tonalità democratica. Nel frattempo però la modernità è terminata. Siamo agli albori di un’epoca nuova, socialmente “liquida”, globale, tecnologica, nella quale il linguaggio è radicalmente cambiato e quindi anche il pensiero che lo articola e ne è articolato.
Questa, caro Michele Serra, è la situazione nella quale dire qualcosa di sinistra, come tu chiedi, è certamente necessario, ma dove la parola che continua a significare cambiamento sta vedendo la fine di un’epoca mentre l’epoca nuova non è ancora cominciata. Per questo siamo liquidi, acqua priva di forma e assenza di contenitori.
Il cambiamento spetterà farlo ai giovani. Tu ed io, caro amico mio, abbiamo vissuto il nostro tempo. Chi vuole il cambiamento e si rivolge a noi può solo essere aiutato a non dimenticare l’esperienza passata ma non ad immaginare il futuro. Sarebbe come aver chiesto a Boezio i rudimenti della civiltà medievale mentre lui aveva in mente ancora la romanità e perciò non era adatto.

La Repubblica 21.07.13