attualità, cultura

“La palla al piede del Wi-Fi italiano”, di Juan Carlos De Martin

Il Wi-Fi in Italia sembra affetto da una maledizione. Ogni volta, infatti, che il suo uso sembra sul punto di venir finalmente liberalizzato qualche contraddizione nelle norme, qualche codicillo ignorato, qualche lacciolo ancora vigente salta fuori e si mette di traverso. Ritardando, quindi, il diffondersi in Italia di un’esperienza che all’estero è da anni normale, mentre da noi è ancora rara, ovvero, sedersi in un caffè, una biblioteca o un aeroporto e connettersi direttamente, semplicemente a Internet. Senza compilare moduli più o meno complessi, senza fornire i dati della propria carta di credito, senza doversi iscrivere a servizi di autenticazione. Sembra scontato, ma in Italia non lo è. E non da ieri: sono, infatti, ben otto anni che l’Italia ci tiene a far sapere al mondo che il Wi-Fi – la modalità di accesso a Internet più semplice, più economica, la più disponibile in dispositivi di tutti i tipi – proprio non le garba.

Otto anni inaugurati nel luglio 2005, quando, subito dopo l’attentato di Londra, il governo Italiano fece, emanando il cosiddetto decreto Pisanu, una scelta senza paragoni nel mondo sviluppato, ovvero, impose non solo l’identificazione con documento d’identità di chiunque accedesse a Internet da una postazione pubblica (Wi-Fi o fissa), ma anche la preservazione delle relative tracce della navigazione. Così facendo, veniva, in nome della sicurezza, affibbiata una palla al piede del Wi-Fi italiano precisamente nel momento in cui il Wi-Fi si accingeva a esplodere in tutto il mondo, nelle catene di negozi come nelle biblioteche, nei campus universitari come nei giardini pubblici. In Italia, infatti, il bar o la biblioteca che avesse voluto offrire connettività ai propri utenti doveva non solo dotarsi di connessione a Internet e degli appositi punti di accesso Wi-Fi, ma doveva anche preoccuparsi di identificare in maniera forte ogni singolo utente e di dotarsi di apposito software per l’archiviazione dei relativi dati di navigazione.

Troppo per un paese già poco digitale di suo come l’Italia.

Veniva quindi a mancare il terzo pilastro che, a fianco dell’accesso fisso e del cellulare, altrove è servito e tuttora serve a diffondere Internet, appunto, il Wi-Fi. Lasciando agli italiani in mobilità una sola scelta, ovvero, l’accesso a Internet tramite la rete cellulare, non a caso uno dei pochi ambiti dove gli Italiani primeggiano nel panorama digitale internazionale.

Nel maggio 2010, però, il lancio dell’Agenda Digitale europea aumenta la consapevolezza dell’arretratezza digitale dell’Italia, che secondo un gran numero di indicatori oscilla intorno al 24° posto su 27 paesi. Si rafforzano, quindi, le voci che sottolineano l’assurdità del decreto Pisanu in un paese in così grave ritardo digitale come il nostro.

A fine 2010 parti cruciali del decreto Pisanu non vengono prorogate, aprendo varchi importanti verso la piena liberalizzazione del Wi-Fi in Italia. Ma rimangono ancora alcuni dubbi normativi, sufficienti a spaventare la maggior parte degli esercizi commerciali e la quasi totalità delle pubbliche amministrazioni (con la lodevole eccezione della Regione Piemonte).

E’ da allora, quindi, che si attende un intervento legislativo che spazzi via gli ultimi ostacoli e dia il via libera definitivo al Wi-Fi italiano. Ancora nei giorni scorsi un emendamento al decreto del governo ha riproposto i vecchi ostacoli. Il presidente della commissione Bilancio Francesco Boccia ieri sera ha promesso che le difficoltà saranno superate e l’accesso diventerà finalmente libero. Sarà vero? Oggi lo sapremo.

La Stampa 22.07.13