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“Passo indietro indispensabile”, di Michele Prospero

Forse nessuno più di Alfano è consapevole che il voto del Senato non ha chiuso un pasticciaccio che lascia in giro molte ruggini. La crisi è stata al momento riassorbita, senza gravi contraccolpi. Solo grazie all’autorevolezza del Colle e al senso di responsabilità per l’ennesima volta mostrato dal Pd le istituzioni non precipitano nel caos.

Non è certo su queste precarie condizioni, di uomo salvato per grazia ricevuta, in ragione cioè di reiterate e sin troppo costose prove di ragion di Stato, che però Alfano confidava per accreditarsi come il capo dell’ala politica della destra, capace di trarre un qualche senso politico costruttivo dall’esperienza controversa del governo di servizio. Ora, se non coglie le ineluttabili conseguenze politiche della vicenda, il segretario del Pdl rischia di essere risucchiato proprio dalle componenti più oltranziste del suo schieramento. Cioè da quelle pattuglie barricadiere che, al progetto di una destra capace di avventurarsi oltre le spine della custodia giudiziaria del capo, non guardano neppure alla lontana. E non aspettano altro che gli echi di sentenze scomode per mettere in scena le ridicole prove di Aventino. Ci sono motivi formali che impongono ad Alfano un passo indietro. Dal punto di vista istituzionale, un ministro dell’Interno non può infatti rimanere indifferente dinanzi all’usura irreparabile del vincolo di trasparenza con la pubblica opinione (non solo italiana), alla rottura degli indispensabili canali di fiducia che lo legano al servizio degli alti funzionari del dicastero, alla emersione di inaccettabili zone di opacità nei movimenti di spezzoni degli apparati dello Stato. Al riguardo, in verità, emergono impressionanti reticenze, e persino un tocco di dilettantismo, che coinvolgono l’esecutivo nel suo complesso. Un autorevole governo di larghe intese non può accettare, senza reagire con la necessaria determinazione, di essere esposto al ridicolo da interventi illeciti orchestrati da ambienti diplomatici stranieri. Sconcerta che nessun atto ufficiale, fermo ed inequivocabile cioè, sia stato ancora intrapreso nei confronti di un ambasciatore che ha assunto comportamenti così irrituali e illegali. Ma il nodo politico della crisi è ancora più rilevante degli aspetti procedurali pur così eclatanti. Alfano potrà meglio giocare le sue carte, quelle di un interlocutore politico in una fase di transizione assai turbolenta, senza avere più a disposizione le chiavi di un dicastero ormai diventato troppo scottante per lui. La rinuncia alla delega, in un probabile rimpasto, non comporta una decapitazione del ruolo politico, che anzi potrà svolgersi con più efficacia senza i ricatti prevedibili, destinati a cadere su un ministro ormai dimezzato. Adesso che al Senato è stata sventata un’ardua prova di forza, che mirava diritta alla caduta del governo senza avere pronta alcuna soluzione di ricambio, si pone per tutti i partiti (a quelli che sostengono Letta anzitutto, ma anche alle formazioni di opposizione, che non possono ritenersi immuni dalla seria riflessione) il problema di un monitoraggio dell’esperienza sin qui compiuta. Una cultura del senso (certo solo contingente) delle larghe intese, come rimedio solo di eccezione ma ineludibile alla crisi di governabilità, manca nella politica italiana. E questo determina incertezze e brutte scorciatoie propagandistiche. Le forze che legittimamente scelgono di collocarsi all’opposizione, devono certo sviluppare una incalzante funzione di controllo e di verifica serrata, ma non possono condurre delle battaglie ad altissima intensità polemica, per non rendere poco credibili le necessarie politiche di alleanze che dovranno al più presto riaprirsi secondo una limpida polarità destra-sinistra.

Un esecutivo di larghe intese, d’altra parte, non regge se a portare la croce sono soltanto le forze che giacciono sull’asse della responsabilità, ossia se tutto l’onere ricade sul Pd e sul Quirinale. Troppo gracile appare nel lungo periodo questo tipo di sostegno, di sicuro destinato a naufragare dinanzi a scogli troppo grandi per essere schivati. La ritrovata compattezza del Pd non cancella i palesi tentativi orchestrati in questi giorni da una parte dei grandi media che intendono spezzare gli equilibri delicati del dopo voto, magari trovando degli agganci nelle confuse dinamiche interne per scaldare smodate volontà di comando e destabilizzare il sistema politico. Al governo e all’opposizione manca la percezione chiara che, sin quando non maturano altre soluzioni politiche, cioè intese adeguate ai rapporti di forza e alla drammaticità della crisi sociale, giocare oltre il lecito ai fianchi di un esecutivo di per sé anomalo è sintomo di una cecità assoluta e anche di una irresponsabilità storica. Proprio perché le larghe intese sono solo una parentesi per mancanza di altri sbocchi, e l’alternanza è invece una realtà fisiologica, sarebbe opportuno che al governo e all’opposizione maturasse un salvifico senso del limite.

L’Unità 20.07.13

Alta tensione nel Pd «Teniamo aperto il caso», di Maria Zegarelli

Il Pd compatto contro la sfiducia ad Alfano per salvaguardare il governo. Tre senatori non partecipano al voto. Ma le tensioni e i malumori in casa democratica restano per l’affare inaudito che ha coinvolto il Viminale. Il Pd tiene aperto il caso. Lo dice Zanda in aula, ma lo dicono anche senatori e deputati: è stata danneggiata la credibilità dell’Italia, bisogna riparare al più presto.
La frase che più deve aver fatto saltare i nervi ad Angelino Alfano è quella che il capogruppo Pd Luigi Zanda pronuncia quasi al termine del suo durissimo intervento in aula: «Lo dico per inciso, onorevole Alfano, ma forse può essere utile valutare se nelle 24 ore della sua giornata ci sia sufficiente tempo per la segreteria del suo partito, la vice presidenza del Consiglio dei ministri e il ministero dell’Interno». Alfano sbraccia, guarda Silvio Berlusconi, si chiede dove voglia arrivare il senatore Pd.

Poche ore più tardi il segretario del Pd Guglielmo Epifani, intervistato dal Tg, è ancora più esplicito: «Il problema che io vedo è che di fronte a un autunno pieno di tensioni e di problemi, abbiamo bisogno della massima autorevolezza alla guida di tutta la compagine governativa e di tutti i ministeri, compreso il ministero dell’Interno». Per il leader democratico «se il governo riesce ad arrivare a settembre – nel senso che come tutti sappiamo abbiamo questa sentenza della Cassazione il 30 luglio nei confronti di Silvio Berlusconi – si pongono due problemi per il governo: primo, ridefinire il programma alla luce dell’aggravamento della situazione sociale ed economica; secondo, fare un tagliando alla qualità, all’autorevolezza e alla forza politica del governo».

Tornando all’intervento al Senato, Zanda chiede al delfino di Berlusconi di fare un passo indietro, di restituire le deleghe nelle mani di Enrico Letta. prima ricorda che finora sono stati «indotti» a dimettersi solo dirigenti dello Stato e poi che, mentre si respinge la mozione di sfiducia «nonostante molto sia ancora poco chiaro», dobbiamo ricordare «che servitori dello Stato debbono esserlo non solo i funzionari pubblici, ma anche i ministri della Repubblica».

Zanda parla dopo l’assemblea di giovedì scorso che ha fatto emergere forti malumori e grande difficoltà per molti senatori a votare no alla mozione di sfiducia. Chiama in causa Alfano: «Per una piena trasparenza dei fatti è importante che il ministro spieghi nel dettaglio come, ancor prima dell’incontro tra Procaccini e l’ambasciatore, già sapesse che i problemi che l’ambasciatore intendeva sottoporre al Viminale erano molto delicati. Se il ministro (che non ha voluto incontrare l’ambasciatore) sapeva che al suo Capo di gabinetto sarebbero state sottoposte questioni molto delicate, doveva anche conoscere qualcosa sul perché di tanta delicatezza», insiste il capo-gruppo Pd. La relazione che il titolare dell’Interno ha fatto alle Camere nei giorni scorsi non ha placato i dubbi dei democratici, sia di chi vota convintamente contro la mozione, sia di chi lo fa tappandosi il naso, per «disciplina di partito», come dice Felice Casson.

Zanda parla e Berlusconi diventa sempre più scuro in volto, Alfano gesticola, come a dire, «ma dove vuole andare a parare?». Qui: «I punti da chiarire non sono solo i possibili “errori” della polizia e il blocco cognitivo di cui ha parlato il prefetto Pansa. C’è da capire quali interessi, quali manine o manone, abbiano messo in moto la macchina investigativo-repressiva della polizia italiana». Anzi, prosegue Zanda, «il primo mistero da chiarire» è questo: «Tanta rapidità, tanti mezzi, non sarebbero stati possibili senza una committenza economica o politica, probabilmente obliqua, di grande rilievo».

Intervento applaudito a lungo e tanto da tutto il suo gruppo. Il Pd vota la fiducia al governo, come dice lo stesso premier ai senatori, ma sfiducia Alfano, con giudizi duri che però non sfociano in un atto politico. È una delle contraddizioni in cui è destinato a finire il Pd in un go- verno insieme al Pdl. Lo sanno i senatori, lo sanno i deputati ma faticano a capirlo gli elettori, quella base che si sfoga sul web per la mancata sfiducia.

«Dopo l’intervento di Zanda ho votato con maggiore serenità», dice la sottosegretaria Roberta Pinotti. Poco più in là Nicola Latorre spiega: «Alfano si dovrebbe dimettere, ma noi non mescoliamo la sua vicenda con la durata del governo». Non prendono parte al voto Walter Tocci (che aspetta che tutto finisca seduto su un divanetto), Laura Puppato e Lucrezia Ricchiuti. I renziani votano compatti con il gruppo. Zanda, uscendo dall’aula, assicura: «Nessun provvedimento nei confronti di chi non ha votato attenendosi alla linea decisa». Stefano Esposito, che si era detto stufo delle «belle fighette che si distinguono sempre», dice che solleverà la questione nella prossima riunione fissata per mercoledì prossimo: «Non ci sono mai state espulsioni in casi come questi? Be’, siamo giovani, possiamo sempre iniziare», provoca. Il ministro Andrea Orlando, giovane turco, non commenta, «per me ha parlato Letta», ma è facile intuire che preferirebbe fosse andata in modo diverso.

Lapsus froidiano per Casson, costretto a intervenire per spiegare di aver commesso un errore durante la votazione: voleva dire sì alla fiducia, quindi il suo deve intendersi «un no». I grillini, convinti che stesse votando la loro mozione, avevano applaudito: ecco perché dopo aver chiarito Casson si rivolge al M5S e gli dice di riprendersi «l’applauso perché immeritato».

Rosa Maria Di Giorgi, renziana, ammette di aver votato la fiducia al governo perché così ha deciso la maggioranza mentre dal Nazareno il responsabile organizzazione Davide Zoggia dice «bene Letta, discorso di altissimo profilo», ma bene «Zanda che con il suo discorso rappresenta tutto il partito». Mentre fuori da Palazzo Madama tuona, Zanda si aljonta dall’aula, gli riferiscono che Alfano si è molto arrabbiato con lui. «Davvero?». Sorride e alze le spalle: «Avevo gli occhiali da lettura, non ho visto cosa accadeva lontano da me…».

L’Unità 20.07.13

“Ventimila imprese per spingere l’export. Il piano del governo”, di Daniele Taino

Se vuole uscire dalla lunga stagnazione dell’economia, diventata poi recessione, l’Italia dovrà smettere di concentrarsi sul proprio ombelico, dovrà alzare lo sguardo e puntare ai mercati esteri. Il governo Letta ne sembra convinto. In realtà, a parole lo sono tutti: l’esecutivo, però, ha individuato alcune tendenze internazionali che le imprese del Paese possono potenzialmente cavalcare e si sta dando un programma per spingerle a farlo. Una volta tanto con obiettivi misurabili. Le esportazioni, per dire, nel 2012 hanno raggiunto un valore di 474 miliardi, il 30% del Prodotto interno lordo (Pil); entro il 2015, dovranno arrivare a 545 miliardi, il 33% del Pil. Altro esempio: in Italia, ci sono almeno 73 mila aziende (stima Unioncamere) che hanno la possibilità di esportare le loro merci e i loro servizi ma lo fanno solo saltuariamente: Carlo Calenda, viceministro allo Sviluppo economico incaricato dei problemi dell’internazionalizzazione, dice che l’obiettivo del governo è trasformare 20 mila di queste in «aziende stabilmente esportatrici».

Il piano di spinta all’internazionalizzazione è stato messo a punto e approvato da una «Cabina di regia» formata dai ministeri dello Sviluppo, degli Esteri, dell’Economia, delle Politiche agricole e da Confindustria, Abi, Unioncamere, Rete Imprese Italia, Alleanza delle Cooperative, Conferenza delle Regioni. Alla base c’è l’idea che nel mondo siamo a un cambio di stagione, che la globalizzazione sia entrata nella fase due: la Cina, l’India e gli altri Paesi emergenti per un paio di decenni hanno sottratto posti di lavoro alle economie occidentali; ora sono diventati mercati in continua crescita. «Dopo anni, siamo di fronte alla possibilità di raccogliere il dividendo della globalizzazione – sostiene Calenda – I differenziali di costo sono molto diminuiti, la manifattura sta tornando in Occidente e allo stesso tempo crescono nuovi mercati. E’ un fenomeno che le imprese italiane devono cogliere».

Inoltre, uno studio effettuato dalla società di analisi Prometeia per il ministero dello Sviluppo stima che l’Italia sarebbe il Paese europeo maggiormente beneficiato da un pieno successo dei negoziati tra Ue e Stati Uniti che hanno come obiettivo la piena liberalizzazione dei commerci transatlantici (Ttip). Secondo Prometeia, le barriere tariffarie e non tariffarie tra Europa e Usa hanno un valore medio del 20%, ma per l’Italia questo arriva al 28%: una loro eliminazione, dunque, avvantaggerebbe più le imprese italiane che non quelle tedesche, francesi, spagnole e britanniche. «Soprattutto per tessile, pelletteria, oreficeria, macchine utensili, alimentari», dice Calenda. L’export complessivo dell’Italia aumenterebbe dello 0,5%. Per cavalcare queste tendenze, la Cabina di regia si è data alcuni obiettivi.

Di base, interventi di breve periodo e non strutturali da parte dello Stato non hanno impatti significativi sull’economia. Rispetto alla necessità di migliorare la capacità dell’Italia di attrarre investimenti – un altro obiettivo del governo Letta che però si scontra con ostacoli giganteschi come la forza respingente della burocrazia e la lentezza della giustizia – il piano di internazionalizzazione ha però qualche chance in più: alcuni limiti del sistema produttivo possono essere affrontati. Ecco come.

Uno studio presentato nei giorni sorsi dal Comitato Leonardo, dall’Ice (Istituto per il Commercio estero) e da Prometeia servirà da base per individuare i mercati emergenti internazionali con le caratteristiche più favorevoli alle imprese italiane: analizza una serie di variabili del Paese – popolazione, Pil, Pil pro capite, ricchezza di materie prime, infrastrutture, capitale umano – e le rapporta ai diversi tipi di aziende italiane per disegnare una mappa delle opportunità. Per esempio, nei prodotti di consumo i target – oltre ai soliti Bric, Brasile, Russia, India, Cina – sono Emirati Arabi, Cile, Malaysia, Qatar, Arabia Saudita, Messico, Marocco, Serbia, Kazakistan, Angola. In vista delle liberalizzazioni transatlantiche, poi, l’Ice svilupperà un intervento sul sistema distributivo degli Stati Uniti con l’obiettivo di creare, già prima che l’accordo Ttip venga firmato, il terreno favorevole all’incremento dell’export italiano. In ottobre partirà un road show per l’Italia con lo scopo di coinvolgere le aziende potenzialmente esportatrici e dare loro gli strumenti per diventarlo su basi stabili. Ancora l’Ice metterà a disposizione un numero di «export manager», che potranno essere utilizzati dalle aziende anche su basi temporanee. Dovrebbero arrivare maggiori risorse alla promozione dell’Italia. Oggi i fondi nazionali sono pari a 28 milioni, che si confrontano con i 170 della Germania, i 150 della Francia, i 140 della Spagna: l’obiettivo è intervenire in 60 Paesi (dai 40 attuali) e di sviluppare attraverso l’Ice 800 iniziative (rispetto alle 300 di oggi).

Saranno poi organizzate – secondo il piano – «missioni di sistema» (visite commerciali miste tra governo, con presidente del Consiglio, e imprese) in Cina, Emirati Arabi, Brasile, Stati Uniti, Canada, Messico, Angola e Mozambico entro il 2014. In parallelo, si terranno missioni di settore e incontri commerciali bilaterali con obiettivi specifici. L’Ice è già stata ristrutturata nel 2012 dal governo Monti. La Sace (assicurazione del credito) e la Simest (sostegno alle imprese che investono all’estero) verranno potenziate e rese più efficienti. Il prossimo febbraio, ci sarà la verifica per capire se la Cabina di regia e il piano funzionano. E se, nella Globalizzazione.2, l’Italia ha qualcosa da dire.

Danilo Taino

“L’eredità di Borsellino”, di Pietro Grasso

Ricordo come fosse ieri quel 19 luglio del 1992, quando appresi dell’uccisione. Erano trascorsi poco meno di due mesi dalla morte di Falcone e l’Italia perdeva nuovamente un valoroso magistrato, un fedele servitore dello Stato. Paolo Borsellino ha sacrificato la sua vita perchè la nostra fosse migliore; ha vissuto e lavorato per la giustizia, considerandola non solo una professione, ma prima di tutto una missione. Oggi voglio ricordare non solo il magistrato con il quale ho avuto la fortuna di lavorare, ma anche l’uomo che ho avuto il privilegio di conoscere e di apprezzare nelle sue qualità più intime e personali.

Ricordo benissimo l’anno in cui conobbi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: era il 1979. Ero stato chiamato a collaborare al maxiprocesso e mi sentii onorato e emozionato, perché sapevo che da loro avrei imparato tanto. Delle numerose giornate passate a studiare gli atti non posso dimenticare l’affetto e il sostegno di Paolo, il suo entusiasmo, la tenacia con la quale affrontava ogni giorno il suo lavoro, pur sapendo che questo gli sarebbe costato la sua stessa vita.

Per me è stato un grande maestro, sempre prodigo di suggerimenti e di chiarimenti, sempre motivato ad andare avanti con la serenità di un cittadino

comune. Il profumo della sua terra di Sicilia, il calore della gente che iniziava a venir fuori dal guscio di omertà, rap- presentavano per lui linfa vitale. In quegli anni, il lavoro di Falcone e Borsellino ebbe il grande merito di creare una rivoluzione culturale, di smuovere gli animi e le coscienze di tutti coloro che non era- no più disposti ad accettare passivamente la presenza della mafia.

I cittadini iniziarono a capire che era necessario andare avanti nella lotta alla mafia, senza fermarsi di fronte alle inti- midazioni e alle paure. La magistratura si impegnò a dimostrare all’opinione pubblica che la possibilità di cambiamento, di salvezza, era reale e concreta.

Le parole che Paolo Borsellino pronunciò a un mese esatto dalla morte di Falcone, e a pochi giorni dalla sua, sono tuttora un monito per tutti, a partire da noi che sediamo in quest’Aula. Parlando, presso la Biblioteca comunale di Palermo, delle vittime di mafia e del suo caro amico Giovanni disse:«Sono morti per tutti noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera: facendo il nostro dovere; rispettando le leggi, anche quelle che ci impongono sacrifici; rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che potremmo trarne (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro); collaborando con la giustizia; testimoniando i valori in cui crediamo, in cui dobbiamo credere, anche dentro le aule di giustizia; troncando immediatamente ogni legame di interesse, anche quelli che ci sembrano più innocui, con qualsiasi persona portatrice di interessi mafiosi, grossi o piccoli; accettando in pieno questa gravosa e bellissima eredità di spirito; dimostrando a noi stessi ed al mondo che Falcone è vivo».

Questa è la grande eredità che Paolo ci ha lasciato. A distanza di 21 anni, in Sicilia, come in Italia, c’è una maggiore consapevolezza sociale e politica del problema. Molti sono i successi ottenuti nella lotta alla criminalità organizzata, molte le sfide ancora da affrontare. Questo é il compito cui tutti noi siamo chiamati, questo l’impegno al quale dovremo tenere fede in nome delle promesse pronunciate dinanzi ai corpi martoriati di Paolo e di Giovanni.

A tutti noi, come membri di questa istituzione rappresentativa, spetta il compito di promuovere le riforme necessarie per dare al Paese concrete alternative all’illegalità e alla sopraffazione. La lotta alla mafia non può essere solo una battaglia di ideali: dobbiamo intervenire sulle condizioni di sviluppo, sulla capacità dei territori di attrarre investimenti e risorse professionali, dobbiamo dare ai magistrati gli strumenti tecnico giuridici e le risorse per combattere la mafia anche attraverso la repressione dei reati correlati, a partire da quelli di corruzione, falso in bilancio, riciclaggio e autoriciclaggio. Dobbiamo sottrarre un’intera generazione di ragazzi che non studiano e non lavorano alle lusinghe del crimine e del potere.

Alla vigilia di questo anniversario, il Senato ha approvato all’unanimità la legge istitutiva della Commissione Parlamentare Antimafia, riconoscendo l’urgenza di dare subito al Parlamento un’importante strumento di indagine e di intervento. E’ un segnale che accende la speranza che il Parlamento possa fare la sua parte nella ricerca della verità e un, seppur piccolo, significativo contributo alla memoria di Paolo.

Nei giorni scorsi la Camera dei Deputati ha approvato all’unanimità la modifica dell’articolo 416-ter sullo scambio elettorale politico mafioso, dando una risposta ai circa 275.000 cittadini che hanno firmato la campagna “Riparte il futuro”, promossa da Libera e sottoscritta da deputati e senatori di tutti i gruppi parlamentari. Per dare un ulteriore segnale positivo e un ulteriore con- tributo alla memoria delle vittime della mafia, ho provveduto ad assegnare alla Commissione Giustizia del Senato in se- de deliberante il testo approvato dalla Camera, in modo da riuscire, con la stes- sa sensibilità e la stessa celerità dimostrata ieri, ad approvare definitivamente la modifica del 416-ter prima della pausa estiva.

Solo se sapremo dare risposte concrete alle sfide che la lotta alla criminalità e la ricerca della verità ci pongono potremo dire di aver onorato la memoria di Agostino Catalano, Emanuela Loi, Eddie Walter Cosina, Claudio Traina, Vin- cenzo Li Muli e di Paolo Borsellino.

*Stralcio del discorso del presidente del Senato nell’aula di Palazzo Madama

L’Unità 20.07.13

Carrozza: “15mila docenti a settembre. Tutti universitari dovranno fare stage”, da repubblica.it

Il ministro dell’Istruzione al videoforum di Repubblica Tv: “Il 50% dei nuovi insegnanti verrà dalle graduatorie, l’altro 50% dal concorso. La diminuzione è dovuta alla riforma che impedisce molti pensionamenti. Cerchiamo le coperture per chi vuole lasciare”. Sugli studenti: “Non si può arrivare a 25 anni senza lavorare neanche un giorno”
Concorsone per i nuovi insegnanti scolastici al centro del videoforum di Repubblica Tvcon il ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Maria Chiara Carrozza, intervistata da Corrado Zunino. “Verranno tutti assorbiti i vincitori? Mi auguro di si – ha esordito il ministro – le selezioni sono in corso, alcuni più avanti. Ci sono stati problemi perché i compensi per chi è in commissione sono molto bassi, nonostante avessimo chiesto di assorbirli”.

Resta da capire quanto saranno i nuovi docenti alla partenza del prossimo anno scolastico. “Non appena sarà possibile immetteremo 15mila dipendenti, 50% dalle graduatorie, 50% dal concorso”. Numeri più bassi delle previsioni iniziali: dovevano essere 26mila. “Anche se il concorso ha validità 3 anni – precisa il ministro – e potranno essere assunti successivamente”.

TURNOVER BLOCCATO – La diminuzione delle nuove immissioni in ruolo è dovuta alle conseguenze della riforma Fornero. Norme che impediscono a molti che avevano già maturato l’età pensionabile, la cosiddetta quota 96, di lasciare. “C’è una proposta di legge a riguardo di Manuela Ghizzoni – dice il ministro – stiamo cercando le coperture per sanare il problema. Molte persone classe ’52 sono costrette a rimanere in servizio al di là della loro volontà”.

Altro canale d’ingresso di cui bisognerà capire il destino è quello dei corsi Tfa. Chi li ha frequentati lamenta i costi elevati, a fronte di un futuro ugualmente incerto: “Cercheremo di dare risposte anche a loro – promette il ministro – capisco la loro preoccupazione”.

TEST E POLEMICHE – Capitolo università: si discute dell’utilità dei test d’ingresso alle facoltà. “Alcuni servono per l’autovalutazione, come quelli per ingegneria – spiega Carrozza – che sono molto importanti per verificare se si sarà in grado di affrontare quel percorso”. Discorso diverso per quelli a numero chiuso. “Non tutti si possono aprire. E’ il caso di quello di Medicina, perché rientra in una logica Paese di possibile immissione alla professione, e di equilibri da salvaguardare”.

Non sempre convince l’attinenza dei quesiti sottoposti ai candidati. “Non è vero che le domande che vengono fatte ai test non sono attinenti – chiarisce il ministro – gli insegnanti che le criticano, devono capire l’importanza del processo e sentirsi coinvolti”.

TURISMO SCOLASTICO – La data delle prove è uno degli aspetti più discussi. “Non sono d’accorso sullo spostare il test d’ingresso alla fine del primo anno. E’ un anno sprecato in qualche modo. L’ammissione al corso secondo me, deve avvenire prima dell’esame di maturità, come succede dappertutto”. Non preoccupa, invece, il turismo scolastico di chi sceglie di provare i test all’estero per avere più possibilità d’ingresso. “Se le scuole rumene di medicina sapranno attrarre i nostri studenti non vedo problemi – minimizza Carrozza -. Non bisogna bloccare le persone, ma aiutare i nostri studenti nella preparazione”.

“NO A BARRIERE PER FUORICORSO” – Tra le criticità del sistema universitario spicca la presenza massiccia di fuoricorso. “Sono contraria a barriere e sanzioni – precisa il ministro – vedo l’università efficiente quella che riesce a massimizzare le risorse e a far laureare lo studente in tempo. I fuoricorso sono un male soprattutto per se stessi e per le proprie famiglie”. Anche agli studenti però è richiesto un cambio di mentalità. “Non si può arrivare a 25 anni senza aver lavorato neanche un giorno. Tutti devono aver fatto stage ed avere esperienze di tirocini”.

CALENDARIO DA RIFORMARE – Tra gli interventi necessari anche una riforma del calendario scolastico. “Abbiamo mesi pienissimi ed altri sgonfi”, evidenzia il ministro. Per l’anno appena concluso possibile un primo bilancio della maturità. “Voti meno alti? Pare di sì, ma la percentuale di promossi è in lieve aumento. E’ corretto comunque che il 100 e lode sia dato con alcune regole. Deve avere il giusto peso su tutto il territorio nazionale”.

RISORSE A SETTEMBRE – Dopo un insediamento segnato da minacce di dimissioni, poi rientrate, l’intervento del ministero si articola in questa fase su più fronti. “Misure per l’edilizia e la sicurezza scolastica sono all’approvazione in questo momento”, per circa 150 milioni di euro. Molto dipenderà dalle altre risorse a disposizione. “Stiamo cercando di trovare finanziamenti ulteriori laddove è possibile. Sicuramente abbiamo l’idea di un pacchetto per la scuola su cui lavoreremo”. Arriveranno a settembre? “Sì a settembre, vediamo”.

UNIVERSITÀ IN SOFFERENZA – Restano nodi irrisolti. Come i precari, “un organico di fatto che dovrebbe essere messo in condizione di entrare stabilmente”. Anche le università lamentano situazioni di sofferenza: “Faremo una riunione con gli atenei in difficoltà. Ma non sono per intenti sanzionatori. Per quanto riguarda le università telematiche eviterei slogan e valutazioni ex ante, per questo ho deciso di istituire una commissione indipendente”.

Tra le cose da fare anche una riforma del concorso per l’ingresso nelle

scuole di specializzazione dell’area medica: “Vogliamo spezzare l’attuale atteggiamento clientelare, già dal 2014 se possibile”.

Dopo tanti interventi firmati da ministri dell’Istruzione sembra esclusa al momento una riforma Carrozza: “Non tengo a una riforma che porti il mio nome – chiarisce il ministro – e soprattutto non penso sia necessaria. Vedo una serie di interventi di prospettiva: tante norme da inserire in un programma di lungo termine”.

“Il vicepremier è ancora in bilico”, di Francesco Bei

Respinta la «sfiducia politica» al ministro dell’Interno, quella presentata dalle opposizioni e che avrebbe travolto l’intero governo, nella maggioranza non si considera affatto chiusa la questione Alfano. Sarà per il timore di nuove rivelazioni sullo scandalo kazako (una paura che pervade anche il Pdl), sarà perché la posizione del vicepremier è ormai oggettivamente troppo indebolita, nel governo ancora si parla di dimissioni del segretario del Pdl.
Potrebbe sembrare paradossale insistere su questo punto proprio nel giorno in cui la maggioranza si è ricompattata a difesa del vicepremier.
Eppure sul tavolo c’è di nuovo la questione Alfano. Anzi, il fatto che il governo di larghe intese si sia dimostrato in grado di respingere gli assalti di grillini e vendoliani potrebbe dare ora al premier la forza sufficiente per procedere all’operazione.
In fondo su qualcosa di simile Letta aveva già ragionato prima di partire per Londra. La soluzione, poi scartata per i troppi rischi che comportava, gli era stata prospettata come via d’uscita per salvare capra e cavoli. Dall’area dalemiana un suggeritore aveva infatti consigliato al premier di invitare riservatamente Alfano a rimettere le sue deleghe prima del voto sulla mozione di sfiducia. Sarebbe stato «un gesto politico », una sorta di ammissione volontaria di responsabilità, dopo di che Letta avrebbe dovuto restituirgliele e Alfano sarebbe rimasto al suo posto. Una soluzione bizantina, ma che avrebbe offerto almeno un po’ di soddisfazione a un Pd in grande sofferenza. Pressato da Napolitano e incalzato da Renzi, il premier non ha potuto concedere nulla. E tuttavia, sgombrato il campo dall’insidia della mozione di sfiducia,
l’ipotesi di dimissioni volontarie di Alfano sta nuovamente circolando nella maggioranza.
Intanto, dopo aver ottenuto ieri una nuova «fiducia politica » da un partito — il suo — che gliel’ha concessa turandosi il naso, Letta ha capito che dovrà spendersi personalmente in un’operazione di ricerca del consenso perduto. Tra i suoi compiti c’è infatti quello di riconquistare il cuore del Pd. Anzitutto quello dei parlamentari, tanto che mercoledì ha deciso di intervenire all’assemblea dei gruppi di Camera e Senato.
Ma il premier sa bene che c’è anche un elettorato da convincere e rimotivare. Elettori infuriati per un Pd che ha «salvato» Alfano, militanti che in questi
giorni stanno riempiendo di rabbia e di indignazione i social network.
Letta intende rispondere anche sul piano concreto, con una serie di provvedimenti che diano un segno più di “sinistra” alla sua agenda. E così da ieri a Palazzo Chigi si è tornato a parlare di un nuovo disegno di legge anticorruzione, da presentare prima della pausa estiva. E di una normativa antiriciclaggio, come quella pensata da Piero Grasso, per contrastare la criminalità organizzata. «Cercheremo di far capire a tutti — ha spiegato il premier a un amico — che il nostro è il governo più “democratico” che oggi possa ragionevolmente far nascere un parlamento come questo».
Quanto alla richiesta di Epifani di un “tagliando”, al momento non sembra suscitare molto entusiasmo. «Il governo è questo, non voglio toccare nulla», ha spiegato Letta al segretario del Pd e a tutti quelli che lo hanno sondato per capire quanto fosse fondata l’aspettativa di un generale rimpasto di governo a settembre. La situazione è talmente fragile che mettersi a spostare caselle potrebbe provocare un terremoto generale. Il premier ha aperto un unico spiraglio, pensando al congresso del Pd: «Se dovesse uscirne un nuovo equilibrio politico sarò pronto a valutare le eventuali necessità ». Un’apertura a Matteo Renzi, ora rappresentato al governo dal solo Graziano Delrio, a cui è stato affidato un ministero senza portafoglio come gli affari regionali. Visto che già nel partito è stato fatto spazio ai renziani, se il sindaco di Firenze dovesse conquistare la segreteria, Letta sarebbe pronto a concedergli un’adeguata rappresentanza nell’esecutivo. Un modo per garantirsi una coabitazione più tranquilla.

La Repubblica 20.07.13

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“L’Angelino dimezzato”, FRANCESCO MERLO

RESTA, ma dimezzato. E non solo come ministro. Ridono infatti di lui i mezzi amici che l’hanno difeso e lo disprezzano i mezzi nemici che l’hanno salvato. E per la polizia è come il generale Cadorna che, dopo Caporetto, scaricò le responsabilità del suo tragico comando sui poveri soldati (morti): «La viltà dei nostri reparti ha
permesso al nemico …».
Ora i kazaki lo considerano ormai un dilettante incapace di gestire le conseguenze delle proprie azioni. Anche per loro Angelino Alfano ha fatto il lavoro a metà. Il dimezzamento è il suo destino.
«Alfano salvato, Alfano cucinato» dicevano dunque, ieri mattina, i berlusconiani, e non solo i falchi. La mascella serrata, le grandi mani che ancora più del solito non sapeva dove mettere, il ministro dimezzato ha ascoltato il dibattito con i nervi infiammati, impasticcandosi di quelle caramelle alla menta prescritte da Berlusconi, il quale generosamente gli ha perdonato la calvizie: «Il mio povero Angelino ci ha provato, ma in lui il trapianto attecchisce solo a metà» racconta il Cavaliere, per metà tenero e per metà malizioso. La storia del loro rapporto ancillare riempie gli archivi dei giornali: l’innamoramento
catodico di Alfano, la sua prima investitura con una telefonata, «finalmente ho trovato chi mi sostituirà in tv», e poi l’incarico di segretario tuttofare di Bonaiuti sino al rovesciamento dei ruoli, il ministero della giustizia, il famigerato “lodo Alfano”…. Schifani lo battezzò: «l’alfan prodige».
Nel Pdl con lui sono spietati e al giudizio di Previti, «se gli mozzi un’orecchia, lui ti porge l’altra», un ministro in carica aggiunge il seguente certificato di dabbenaggine politica: «La cosa più drammatica è che ha visto il turbinio di kazaki attorno al suo tavolo, ma non ha capito. Non è come Scajola, lui davvero non sapeva, perché non sa mai nulla».
E così ieri mattina il ministro dimezzato pativa le finte difese più dell’elemosina del voto nemico. Insomma ha vissuto molto male la mezza vittoria che è stata anche un mezzo funerale politico. Ma come capita spesso nella paradossale, attuale politica italiana, gli è arrivata addosso la calda solidarietà sincera di Emma Bonino, il ministro degli Esteri che, ieri mattina in aula, quando Alfano è stato finalmente assolto, si è alzata e gli ha stretto la mano e i miei occhi hanno faticato a credere che davvero fosse lei a guidare quella mano piccola e magra che, solitamente contratta come per effetto di una sostanza morale restringente, ieri mattina si espandeva nella realpolitik come per effetto di una sostanza amorale ampliante. La donna- maremoto della politica italiana, quella fiera signora che diceva un giorno «ho imparato da Marco a fare e a pagare di persona le cose che si pretendono dagli altri», ieri metteva la sua mano nella mano di Alfano e non nella mano di quella donna deportata, Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente Ablyazov. La Bonino non è insorta prima e non è volata ad Astana dopo, e non ha neppure mandato lì qualcuno di sua fiducia, non ha chiesto pubblicamente all’amico di Putin e del dittatore kazako Nazarbaev, a Berlusconi che tornava dalla Russia, di passare a prendere quella donna e riportarla nel Paese che non l’aveva protetta… Certo non ha la stesse responsabilità politiche di Alfano, ma in quella stretta di mano ha messo in gioco molto di più. Alfano è li grazie al padrinato di Berlusconi, la Bonino c’è per la sua bella radicalità, perche è stata la nostra coscienza civile, la passione e la tensione dei nervi d’Italia, la voce che faceva ballare le magnifiche parole radicali. Se a qualcuno interessasse studiare l’evoluzione più moderna del teatro dell’assurdo, se esistesse un premio teatral- politico intitolato a Ionesco, bisognerebbe certamente assegnarlo a quella stretta di mano che non era di solidarietà, ma di complicità.
E forse l’amore della Bonino risarcisce Alfano degli scherni del suo Pdl. Come ha spiegato il falco Verdini a Berlusconi: «Se il Pd non l’avesse salvato sarebbe stato meglio perché sarebbe caduto questo governo che ti vuole accompagnare in cella tendendoti per mano». Ma poi ha completato il pensiero la pitonessa Santanché: « E però, se gli avessero imposto le dimissioni, saremmo stati costretti a difenderlo davvero. E Alfano sarebbe diventato il nostro santo martire».
La storia italiana è piena di ministri dimezzati, la Dc li proteggeva costringendoli a dimissioni che diventavano immissioni a nuovo incarico. Così fu per Cossiga, per Lattanzi, per Andreotti… Sempre i dimezzati diventano infatti uomini senza pace, fuori posto anche quando, troppo tardi, lasceranno il posto, come Scajola che, proprio com’è ora accaduto ad Alfano, fu blindato dal governo Berlusconi e salvato da una mozione individuale che voleva sfiduciarlo perché aveva detto che Marco Biagi, ucciso dalle Br, era «un rompicoglioni ». E fu un insulto che, pronunziato da Scajola, faceva onore alla memoria del professore assassinato dai terroristi, perché «il rompi», nel vocabolario di Scajola, indicava l’intellettuale di tenace concetto, il competente che non cedeva, il tecnico che non attaccava l’asino dove voleva il padrone, che rivoleva le consulenze che gli spettavano e pretendeva d’essere protetto da una scorta che Scajola gli negava, e mai si stancava di spiegare, di scrivere, di mandare mail. Scajola fu salvato e dimezzato. Ma non durò.
E invece dalla prima nomina di coordinatore in Sicilia, all’ultima di ministro degli Interni, Alfano si è abituato al gusto e all’ideologia delle mezze porzioni politiche che rinvia alle mezze maniche, alla mezze calzette, ai mezzi uomini di Sciascia. Come se fosse ingombrato dalla propria interezza, Alfano raddoppia le cariche ma ne dimezza la funzione. Resta infatti coordinatore anche se in Sicilia perse le elezioni. E’ ancora delfino, ma Berlusconi gli ha tolto il quid. E’ segretario, ma la Santanché gli ha sfilato il partito, al punto che non c’è quasi mai alle riunioni ristrette convocate da Berlusconi. Verdini, la pitonessa e Capezzone sì. Il mezzo segretario no: «Alfano fa tutto per non fare nulla».
E al Viminale, per spiegarmi la differenza tra l’autorità di un ministro e il potere di un mezzo ministro, ora mi raccontano sprezzanti quanta polizia e quanti prefetti vennero coinvolti a fine giugno quando un ragazzino fregò la bicicletta di Alfano, a San Leone, la bella spiaggia di Agrigento. Beffando la scorta e le auto blu, il povero ragazzo era riuscito a fuggire, persino con più destrezza dei suoi antesignani “ladri di biciclette” celebrati da De Sica. «Vale più di tremila euro» aveva dichiarato Alfano, affranto e ferito nei suoi affetti più cari (più delle famose scarpe di D’Alema ma un po’ meno della bici del neosindaco di Roma Ignazio Marino). Secondo le agenzie di stampa, Alfano si «è subito trasformato in un perfetto detective» e in mezza giornata «ha ritrovato la bicicletta». In realtà, ha coinvolto l’Intelligence di Agrigento, i Ros, la capitaneria, i Nocs, i confidenti e forse persino gli uomini di panza. E il ladruncolo scappava e quelli urlavano. Il ragazzo ovviamente è stato preso. Ebbene, questa “smorfia” della legalità, questa parodia della polizia che arresta il pericoloso delinquente (e speriamo che qualcuno gli paghi un avvocato) fa il paio con il blitz kazako, è la stessa arroganza rovesciata, la stessa ferocia, lo stesso Alfano riflesso nello specchio di Alice.

La Repubblica 20.07.13

“I trucchi del Cavaliere”, di Piero Colaprico

È crollata, per la seconda volta in un mese, la trincea delle “cene eleganti”. E adesso sulla testa di Berlusconi aleggia l’accusa di “corruzione in atti giudiziari”. Un’accusa inedita per il Cavaliere. Nella sua villa di Arcore funzionava, e questo ormai lo dicono ben due sentenze, un fiorente mercato del sesso, con prostitute, show girl e minorenni. Per coprire quello scandalo, Berlusconi ha mentito e fatto mentire: ma, così suggerisce la sentenza di ieri, ha seminato troppe tracce. Tant’è vero che, accanto alle ragazze a pagamento, è ormai lo stesso tandem legale Ghedini-Longo a incamminarsi verso una nuova, forse devastante inchiesta, che già viene chiamata
Ruby-ter.
I fatti sono semplici e vanno messi insieme se si vuol capire la situazione. Lo scorso 24 giugno l’ex presidente del Consiglio è stato condannato a sette anni di carcere. Colpevole di concussione e di essere stato il cliente di una prostituta minorenne, con l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Ieri c’è stato — e poteva accadere altrimenti, visto che numerose prove erano le stesse? — il bis: condanna totale da parte della quinta sezione penale per i tre “intermediari” di Arcore.
La stessa pena del cliente, sette anni, piove addosso ai suoi fedelissimi, e cioè il procacciatore Lele Mora, ex agente di spettacolo, e al selezionatore Emilio Fede, ex direttore del Tg 4. Cinque anni piombano anche su
Nicole Minetti. Assolta per quanto riguarda Ruby, che, minorenne, alla villa di Berlusconi era arrivata grazie agli altri due. Ma colpevole per aver favorito la prostituzione delle maggiorenni, gestendo le case gratis e spicciando faccende per loro e per il ricchissimo cliente.
Così com’era successo il 24 giugno nel processo Ruby-Silvio, anche ieri segue, alle condanne, una postilla. Il presidente Anna Maria Gatto, così come aveva fatto il giudice della quarta penale Giulia Turri, chiede di trasmettere in procura gli atti che riguardano le false testimonianze di decine di papi-girl. Ma — attenzione, questo è il passaggio cruciale — da ieri, tra queste, c’è Karima El Mahroug, un tempo Ruby Rubacuori.
In aula Ruby voleva, così assicurava, «dire la verità». Aveva protestato con tanto di cartelli sulle scalinate del tribunale. Seduta sulla sedia dei testimoni s’era però «persa» dietro troppi «non ricordo» e molteplici bugie, tanto da essere stata più volte avvertita e richiamata dal giudice. Ma poteva Ruby fare diversamente? È stato Berlusconi, che amava trascorrere varie serate hard con ballerine, minorenni e prostitute, a imporre a tutti i suoi l’incredibile trincea dell’ “erano solo cene eleganti”. E tutti, avvocati compresi, hanno ubbidito a questa “impresa”. Resa però impossibile — chi ha letto le carte e seguito le udienze non può non saperlo — sia dalla montagna di prove portata dall’accusa, sia dalla storia di questa ragazza scappata di casa la prima volta a 13 anni, arrivata a Milano a 17, in cerca di fortuna e di banconote da 500 euro, e fatta uscire dalla questura di via Fatebenefratelli dopo che Berlusconi aveva chiamato personalmente.
Poi Ruby era finita male, la polizia era tornata a occuparsi di lei: e non solo la polizia. Nella notte tra il 6 e il 7 ottobre 2010 (su www. repubblica. it c’è l’audio) Ruby venne interrogata a Milano dall’avvocato e politico forzista Luca Giuliante. Lei, ancora minorenne, raccontò di essere stata interrogata dai magistrati. E di aver parlato anche delle «scene hard con il pr…, con la persona». Tre mesi dopo, a gennaio, quando l’inchiesta giudiziaria arrivò allo zenit pubblico con le perquisizioni di alcune ospiti fisse del bunga bunga, Minetti compresa, Berlusconi le convocò tutte ad Arcore. Alla presenza — attenzione — dei suoi avvocati. Per dire, far dire o forse concordare che cosa, se già nelle perquisizioni in via Olgettina e a Napoli erano stati trovati, nei vari appartamenti, verbali d’interrogatorio difensivi?
I giudici dei due processi sono certi. Moltissime ragazze — circa una quarantina poco dopo la riunione di Arcore cominciarono a prendere uno stipendio di circa 2mila e 500 euro mensili — hanno mentito. Un reato — questo dicono due sentenze di primo grado — è stato dunque commesso. Quale? Subornazione di testimoni? Oppure, come già accaduto nel procedimento contro l’avvocato inglese David Mills, “corruzione di testimoni”?
In quel caso — è noto — Mills venne condannato come teste corrotto, ma Berlusconi, presunto corruttore, si salvò dai possibili guai grazie alla prescrizione del reato. Ora? Per questi reati, di sesso, concussione e falsa testimonianza, la prescrizione non è né a portata di mano, né di leggi ad personam. E già a ottobre, quando gli atti dei processi e le motivazioni delle sentenze saliranno in procura, si capirà se Berlusconi rischia — insieme con i suoi avvocati, le sue amiche, il cantante Apicella e persino il povero papà di Ruby — un altro giudizio immediato.

La Repubblica 20.07.13