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“Un patto tra produttori per il diritto alla salute”, di Giovanni Valentini

Ambiente e salute, da una parte; lavoro e profitto, dall’altra. Non sono, o non dovrebbero essere, valori contrapposti, alternativi, antagonisti. In una moderna democrazia economica e industriale, occorrerebbe anzi una “santa alleanza” fra imprenditori e operai per conciliare la difesa dell’ambiente e della salute con la tutela del lavoro e quindi di un legittimo profitto.
Ma purtroppo da Torino a Porto Marghera fino a Taranto, passando per la pianura padana, spesso la realtà non corrisponde a questa visione dell’interesse generale. Fabbriche che inquinano l’aria e l’acqua; diffondono sul territorio amianto, benzopirene, diossine e polveri sottili; minacciano sia l’ambiente sia la salute dei lavoratori e dei cittadini, realizzando così un arricchimento illecito con le risorse sottratte alle normative sulla sicurezza e agli obblighi di legge. E la stretta della crisi economica non favorisce evidentemente un’assunzione di responsabilità che comporta oneri e costi, spingendo le imprese verso più agevoli e convenienti delocalizzazioni all’estero.
Per cercare di contrastare questa pericolosa deriva nazionale, è sceso in campo nei giorni scorsi il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, leader di “Sinistra Ecologia e Libertà”. A un anno dall’approvazione dell’inedita legge regionale sulla “Valutazione di danno sanitario”, votata all’unanimità il 17 luglio 2012 sulla scia del disastro ambientale dell’Ilva di Taranto, e in vista della decisione del Tar di Lecce chiamato a pronunciarsi sul ricorso di sei aziende tra cui Eni e Edipower, il governatore pugliese ha inviato una lettera aperta al presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi. Con questa iniziativa, Vendola sollecita un confronto con l’associazione degli industriali e auspica “una svolta coraggiosa quanto indispensabile” sulla compatibilità ambientale del nostro sistema produttivo.
“Non basta – scrive fra l’altro il presidente della Regione Puglia, riprendendo i contenuti fondamentali della sua legge – essere in regola con quei limiti emissivi degli inquinanti che sono elementi convenzionali e non verità scientifica: bisogna essere in regola nei confronti del diritto alla salute e del diritto alla vita, che sono beni di rango costituzionale”. E qui il richiamo è agli articoli 32 e 41 della nostra Carta: il primo, sulla tutela della salute come “fondamentale diritto dell’individuo e della collettività”; il secondo, sul riconoscimento della libera iniziativa privata e sull’esplicita prescrizione che questa “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.In attesa di un riscontro da parte del presidente Squinzi, la prima risposta è arrivata intanto dal governatore della Toscana, Enrico Rossi, che ha definito la proposta di Vendola “condivisibile” rimettendola alla Conferenza delle Regioni; mentre la Cisl di Puglia – pur apprezzando lo scopo dell’iniziativa – ha invitato ad “abbassare i toni”. Ora si tratta, in pratica, di estendere su scala nazionale la normativa sulla Valutazione di danno sanitario che contempla misure di mitigazione, vigilanza e controllo: altrimenti, come sottolinea lo stesso Vendola nella lettera, la legge “rischia di rendere meno competitivo il territorio pugliese rispetto a tutte le altre regioni”. Ma quello che – in forza di un voto unanime e bipartisan – vale per l’Ilva di Taranto, non può non valere anche per tutte le altre imprese. Solo un “patto fra i produttori”, allora, può stabilire attraverso un confronto pubblico equi criteri di compatibilità fra le attività produttive e la salute collettiva.

La Repubblica 19.07.13

Anniversario Borsellino, Napolitano: la sua eredità base della lotta alla criminalità

Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione del 21 anniversario del criminale vile agguato di via d’Amelio, ha inviato a Manfredi Borsellino un messaggio nel quale rende “commosso omaggio alla memoria di Paolo Borsellino e di Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina, addetti alla sua sicurezza.

“Come ho ricordato il 23 maggio scorso, con i tragici attentati del 1992 in cui persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ‘L’Italia fu ferocemente colpita nelle persone di suoi servitori eccezionali, di grandi magistrati, di autentici eroi di quella causa della legalità e della difesa dello stato costituzionale con la quale si erano identificati’. L’esempio e l’eredità che Paolo Borsellino ci ha lasciato – come tutti coloro che si sono sacrificati per tutelare i valori di giustizia, libertà e democrazia – sono oggi alla base delle iniziative sempre più numerose che spontaneamente si sviluppano nella società civile contro ogni forma di violenza e di insidiosa infiltrazione della criminalità organizzata. Nel suo ricordo, mi stringo ai familiari, rinnovando i sentimenti di gratitudine e di solidarietà di tutti gli italiani”.

da www.gds.it

“Il riscatto dei produttori di parmigiano dopo il terremoto”, di Andrea Bonzi

Il sistema Parmigiano Reggiano fa quadrato. E resiste ai colpi – pur durissimi – inferti poco più di 13 mesi fa dal sisma che ha squassato l’Emilia-Romagna. Il tipico formaggio emiliano era diventato un prodotto simbolo del terremoto: 600mila forme cadute a terra, 37 caseifici di Modena, Reggio Emilia, Bologna e Mantova danneggiati, per un conto totale di 200 milioni di euro (dati Coldiretti). Il lavoro di una vita per persone come Oriano Caretti, titolare insieme al fratello dell’azienda di famiglia, a San Giovanni in Persiceto (Bologna), che, all’indomani delle scosse del 20 e 29 maggio 2012, si è ritrovato il magazzino quasi completamente distrutto. Tra i resti delle “scalere” crollate, le tipiche scaffalature dove riposano le forme, danni stimati per ben 5 milioni e mezzo di euro.

RIALZARSI, DOPO IL COLPO

Giorni terribili, per Caretti e i suoi («non li voglio rimuovere, ma sicuramente cerco di non pensarci»), che però si sono rimboccati le maniche ed sono subito ripartiti. Tappe forzate: la produzione non si è mai fermata, ma il crollo del magazzino ha costretto l’imprenditore a rivolgersi ad altri stagionatori per conservarla. «Da Parma a Canneto sull’Oglio, nel Mantovano, fino a Pievepelago: ho portato il mio formaggio parecchio in giro – continua Caretti -. Ma ora diciamo che è di nuovo tutto a casa, in un magazzino realizzato secondo le più moderne norme antisismiche». In questo periodo, l’agricoltore ha toccato con mano gli «effetti collaterali» del disastro. A cominciare dalla solidarietà: «Ci hanno sbalordito le richieste arrivate dopo il sisma – ricorda -, da singole persone, aziende, attività commerciali, associazioni. Ci hanno contattato anche italiani all’estero, spiace non aver potuto accontentare tutti. Il grazie più grande va ai volontari: c’erano persone che avevano appena perso la casa, eppure erano qui ad aiutarci». Una corsa all’acquisto che ha complessivamente portato alla vendita di un milione di chili, nei territori di produzione del Parmigiano, con l’iniziativa «Campagna amica». Ci sono anche «pochi sciacalli» che ci hanno provato, «offrendosi di sgomberare tutto per due euro al chilo…». Negli ultimi mesi il braccio di ferro più desolante è stato con l’assicurazione, che ha una stima dei danni molto inferiore. Con le istituzioni è andata meglio: «È appena arrivato l’ok della Regione a risarcire quanto non coperto dall’assicurazione, non dubito che i soldi arriveranno».

MA LA PAURA RESTA

Certo che, da allora, la paura non ha mai abbandonato queste terre. «Le ultime scosse in Lunigiana le abbiamo sentite anche qui – spiega Andrea Nascimbeni, presidente del Caseificio Quattro Madonne, che ha 4 sedi tra Reggio e Modena -. Ora abbiamo la certezza che il magazzino non crollerà perché è stato ricostruito con tutti i crismi antisismici, però la paura c’è sempre, in qualsiasi momento». Nascimbeni è a capo di una cooperativa che riunisce 44 soci, aziende di varie dimensioni che producono dai 300 ai 20mila quintali di latte l’anno. Complessivamente, vengono realizzate 170 forme di parmigiano al giorno. Il terremoto del 29 maggio ha provocato 7 milioni e mezzo di danni tra prodotto (18mila forme cadute) e immobili. «A fine anno avevamo ricostruito le scalere, e a marzo abbiamo ripreso la produzione al 100%, inaugurando il 2 giugno scorso il nuovo spaccio – continua Nascimbeni -.

L’assicurazione ci ha pagato in tempi rapidi, mentre di soldi pubblici, nonostante la nostra richiesta di risarcimento sia stata accettata, non ne abbiamo ancora visti. E non siamo gli unici, in questa zona: ci vorrebbero più fatti e meno parole». La difficoltà maggiore è stata la mancanza di liquidità per pagare il latte ai soci che, avendo aziende agricole vicine all’epicentro, erano stati direttamente colpiti, «e a danno si è aggiunto danno». La solidarietà, anche in questo caso, non è mai mancata: «Grazie ai tanti gruppi di acquisto che ci hanno aiutato, non abbiamo mai pensato seriamente di chiudere l’attività – chiude il presidente del Caseificio Quattro Madonne -, anche se questo è significato non fermarsi nemmeno un giorno, anche a Capodanno: il latte, si sa, lo devi lavorare tutti i giorni».

L’Unità 19.07.13

“I tanti controllori del Caso Ligresti che non hanno visto”, di Sergio Rizzo

Nella storia dei grandi crac finanziari all’italiana c’è una costante: i controllori che non controllano. O lo fanno male. Raramente per scarsa professionalità o carenza d’impegno. Più di frequente, invece, a causa dell’assenza di una caratteristica imprescindibile per chi veste i panni di sceriffo dei mercati: l’indipendenza. Se troverà conferma ulteriore nelle indagini della magistratura, la storia rivelata l’altro ieri sul Corriere da Luigi Ferrarella ne è la prova provata. Un testimone ha raccontato come per anni i controlli sulla Fonsai da parte dell’Isvap, che avrebbero forse potuto evitare il peggio a tanti risparmiatori, abbiano latitato. Il prezzo? La promessa della nomina a componente dell’Antitrust per il presidente dell’Isvap Giancarlo Giannini, caldeggiata da Ligresti in persona presso il premier dell’epoca, Silvio Berlusconi.
Le entrature politiche di Ligresti e le sue relazioni con quel mondo che ha Berlusconi come punto di riferimento sono arcinote. È stata ricordata la sua amicizia con Bettino Craxi, faro del Cavaliere negli anni ruggenti, cementata dagli innumerevoli incarichi del suo plenipotenziario nelle partecipazioni statali Massimo Pini in tante aziende del gruppo dell’ingegnere di Paternò: dalla Milano Assicurazioni, all’Immobiliare Lombarda, alla stessa Fonsai. Per non parlare dei rapporti con la famiglia dell’ex coordinatore del partito di Berlusconi Ignazio La Russa. Suo padre Antonino La Russa, segretario del Fascio di Paternò e deputato missino per sei legislature, è stato per anni consigliere della Sai. Come lui anche Vincenzo La Russa, fratello di Ignazio. Mentre il figlio dell’ex ministro della Difesa, Antonino Geronimo La Russa, è entrato nel 2010, alla vigilia del crac, nel consiglio della Premafin, la holding dei Ligresti.
Niente da dire, ci mancherebbe altro. Ognuno coltiva le amicizie e le relazioni che vuole. Anche con i politici. Ma credere di poter approfittare dei rapporti con la politica, e nella fattispecie con il presidente del Consiglio, per evitare i controlli su una società quotata in Borsa nella quale hanno investito i risparmiatori, in cambio della promessa al controllore di una prestigiosa nomina pubblica è un’altra faccenda.
Sempre se i fatti si sono svolti come ha riferito il testimone e avrebbe confermato al giudice lo stesso Salvatore Ligresti, l’episodio dice però qualcosa di più. Come si fa a chiedere al premier di impegnarsi a nominare una persona ai vertici dell’Antitrust, nomina che spetta per legge esclusivamente ai presidenti delle Camere allo scopo di garantirne l’imparzialità? Se questa è l’idea di indipendenza dei controllori che ha certa finanza e purtroppo anche certa politica, allora si capiscono tante cose.
Si capisce perché nel corso degli anni la Consob non sia riuscita a impedire infortuni a ripetizione, regolarmente pagati dai risparmiatori. Basterebbe ricordare come avvenne negli anni Ottanta la quotazione in Borsa della Parmalat, azienda già allora fortemente indebitata e che sarebbe risultata poi protagonista del crac del secolo, ma di proprietà di un signore, Calisto Tanzi, che coltivava con assiduità i rapporti con il Palazzo.
La verità è che le cose sono andate decisamente peggiorando man mano che le nomine nelle authority entravano sempre più nel gioco dello scambio politico. Dai professori si è così passati a ex sindaci, deputati rimasti senza poltrona o non più candidabili, consiglieri di Stato con pedigree ministeriali. Un bel viatico per l’indipendenza, non c’è che dire. Lo stesso presidente della Consob Giuseppe Vegas, ex funzionario del Senato, è un ex deputato del Pdl: addirittura ha ricevuto l’incarico dal governo del quale era in quel momento viceministro dell’Economia.
Per garantire l’indipendenza dei controllori, e quindi il loro potere effettivo di controllo, non ci sarebbe che una strada: sottrarre le nomine alla discrezionalità dei politici. Basterebbe scegliere i candidati con un bando pubblico, meglio se europeo. Più facile di così… Peccato che da quell’orecchio non ci senta nessuno.

Il Corriere della Sera 19.07.13

“Quel ministro non può restare al suo posto”, di Eugenio Scalfari

Angelino Alfano non si dimetterà da ministro dell’Interno e da vicepresidente del Consiglio nonostante l’immane pasticcio di cui è responsabile per l’espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua e la sua consegna al regime dittatoriale del Kazakistan. Non si dimetterà perché Berlusconi lo incoraggia a restare al suo posto, Enrico Letta cerca di evitare la crisi di governo che avverrebbe qualora il premier sconfessasse il suo vice e il Pd ha dal canto suo le medesime preoccupazioni.

Il partito democratico è pressoché unanime nel considerare Alfano responsabile di quanto è avvenuto, sia che ne fosse al corrente, sia che (come lui afferma) fosse stato tenuto all’oscuro dai suoi più intimi collaboratori; ma il gruppo dirigente ha invece deciso, sia pure turandosi il naso, di non votare la sfiducia ad Alfano per evitare una crisi di governo con conseguenze nefaste sull’economia, sui mercati, sulla credibilità italiana in Europa che il pasticcio kazako ha comunque fortemente indebolito.

La conseguenza di questi fatti, che messi insieme determinano un vero e proprio evento politico, sarà comunque una crisi profonda del governo e del Pd, la cui base è in gran parte profondamente scontenta di quanto è accaduto e soprattutto di quanto non è accaduto, con tutte le conseguenze che questo scontento provocherà.

Il nostro giornale ha dato ampio conto dei fatti di questi giorni e la nostra posizione è stata nettamente manifestata dall’intervento di Ezio Mauro lunedì scorso e nei giorni successivi dai nostri principali editorialisti. Noi siamo per le dimissioni di Alfano e per un voto conforme da parte del Pd, anche se ci rendiamo perfettamente conto delle conseguenze negative d’una crisi di governo. Vorremmo cioè che il governo Letta continuasse nell’opera intrapresa che riteniamo positiva nonostante le difficoltà che deve superare. Non vorremmo affatto una crisi di governo ma giudichiamo che in ogni caso il rischio vada affrontato perché un cedimento costerebbe l’implosione a breve scadenza di quel partito e quindi del perno della sinistra democratica italiana.

Personalmente – oltre a condividere pienamente queste valutazioni – penso che non sia nell’interesse politico di Berlusconi la prova di forza sul caso Alfano.

Conosco Berlusconi da quarant’anni. Siamo stati concorrenti quando era semplicemente un imprenditore televisivo. Amici mai, già allora troppe cose ci dividevano, interessi e valori; ma conoscenti sì, fino alla sua entrata in politica. Da allora non ci siamo mai più né visti né parlati. Ma ora, in quest’occasione, ritengo opportuno fargli presente che i suoi interessi (non parlo di quelli generali sui quali abbiamo opposte valutazioni) dovrebbero consigliargli di far ritirare Alfano dal governo e sostituirlo con altra persona di sua fiducia e più adatta a ricoprire gli incarichi governativi che gli spettano.

A Berlusconi, qualunque sia il vero giudizio che dà dell’attuale segretario del suo partito, di Alfano non importa nulla. Gli è servito e gli serve anche se i contrasti tra loro non sono mancati. Ma gli serve assai di più che il governo Letta resti in carica per tutto il tempo non certo breve necessario a portare il paese fuori dalla recessione. E gli serve, affinché questo avvenga, che il Pd non diventi ingestibile, come la presenza al governo di Alfano lo renderà.

L’attuale ministro dell’Interno riaffermi pure la sua “innocenza” nel caso kazako; Letta dia per certa questa tesi e Berlusconi ancora di più, ma suggerisca al suo rappresentante di ritirarsi per ragioni di opportunità. Avvenne già in Italia un caso analogo quando il ministro per la Difesa, Vito Lattanzio, fu indotto dall’allora presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, a dimettersi per la fuga del massacratore nazista Kappler dal carcere in cui stava scontando la pena inflittagli da una sentenza definitiva. Il ministro era all’oscuro della trama che aveva reso possibile quella fuga, ma Andreotti, su consiglio di Ugo La Malfa, lo invitò pressantemente a dimettersi per evitare che il governo fosse messo in crisi da un suo importante alleato.

Questo dovrebbe fare oggi Berlusconi. Se lo facesse, una volta tanto i suoi interessi coinciderebbero con quelli del paese.

La Repubblica 19.07.13

“Il rifiuto delle scorciatoie”, di Mario Calabresi

Giorgio Napolitano è come se guardasse alla situazione da lontano, o forse sarebbe meglio dire dall’alto. Dall’alto dei suoi 88 anni, dei sessant’anni di vita politica, da quella distanza che ha chi non cerca altri incarichi, altre prospettive, ma essendo già in un tempo supplementare gioca il pallone nel modo più diretto e efficace possibile.

Dal suo punto di vista si vede con chiarezza, e lo ha sempre detto senza giri di parole, il fallimento delle ultime legislature.

I l suo cruccio più grosso è il modo in cui il Parlamento e i partiti hanno sprecato l’occasione del periodo Monti per riformare la politica e la sua più grossa paura è che l’errore si ripeta, nell’illusione che buttando via tutto e riaprendo una stagione di campagna elettorale ci possano poi essere soluzioni radiose e miracolistiche dietro l’angolo.

Eppure, per dare risposte all’antipolitica montante e alla rabbia dei cittadini, una via maestra c’era: riformare la legge elettorale, dimezzare il numero dei parlamentari, rivedere i costi del sistema, abolire le Province. Niente di tutto questo è stato fatto, avendo però illuso gli italiani che questi erano passi irrinunciabili e a portata di mano. E’ la stessa via maestra, quella delle riforme minime e indispensabili, che si dovrebbe percorrere immediatamente.

Invece sei mesi fa, senza aver risolto quei problemi, si è tornati a votare, poi ci sono voluti due mesi per rendersi conto del risultato elettorale – un risultato che non permetteva alla coalizione di sinistra di governare autonomamente – e alla fine sono nate nuove larghe intese, politiche questa volta. Larghe intese che hanno senso di esistere solo se, vista la larghissima base parlamentare, sono capaci di dare risposte forti alla crisi italiana. Se invece devono servire a trovare soluzioni minime ma condivise allora ci avviamo al disastro.

Perché, e questo è ciò che Napolitano ha voluto mettere al centro del suo discorso di ieri, il Paese non è guarito, non è fuori pericolo. Non ci vogliono le agenzie di rating, l’Europa o gli organismi internazionali per certificarlo. Per sapere come stiamo basta uscire di casa; andare ad un mercato e vedere l’attenzione parsimoniosa con cui gli italiani fanno la spesa; osservare quanti anziani raccattano la frutta da sotto i banchi; ascoltare una maestra che racconta quante famiglie non possono permettersi di mandare i bambini in gita o a un semplice spettacolo teatrale; camminare nel centro di una città italiana e contare quanti negozi hanno chiuso; parlare con un qualunque sindaco di un qualunque paesino alle prese con i debiti e con una macchina comunale che non ce la fa più.

Se si chiede poi ad una famiglia qual è la priorità, ormai la risposta è sempre soltanto una: lavoro e un futuro per i figli.

Napolitano guarda alla situazione e vede uno Stato che ha cominciato finalmente a pagare i debiti che aveva con le imprese, che sta cercando di varare sostegni all’occupazione giovanile, che sta provando a non soffocare i consumi con l’aumento dell’Iva e ad aiutare le famiglie più in difficoltà togliendo l’Imu. E’ convinto che di questo ci si debba occupare, che non sia possibile smontare tutto un’altra volta, alzare ancora bandiera bianca in nome di egoismi e calcoli personali. Non si può buttare via un’altra legislatura e tornare a votare con questa legge elettorale e senza aver messo mano a nulla.

C’è bisogno di più impegno, di più lavoro, non di più distinguo e passi indietro. Il Capo dello Stato ha parlato con chiarezza dei tre temi che hanno impegnato il dibattito politico e hanno occupato le prime pagine dei giornali in queste ultime settimane, tre problemi che chiamano in causa la giustizia e il rapporto tra la politica e la legge (l’attesa sentenza della Cassazione su Berlusconi), i diritti civili e il rispetto degli altri (gli insulti di Calderoli al ministro Kyenge) e i diritti umani (l’espulsione della mamma kazaka con la sua bambina). Non ha fatto sconti su nessuno di questi, chiarendo che le vicende di Berlusconi non devono interferire con la vita del governo e che ci si difende all’interno del processo e prendendo posizione sugli insulti razzisti e sulla violazione dei diritti nell’«inaudita» storia kazaka.

Ma quello che sembra dirci è che tutto questo non può farci perdere di vista il declino del Paese, per questo si è esposto notevolmente nel caldeggiare la continuazione dell’esperienza di governo Letta e di non tentare avventurismi pericolosi. La responsabilità adesso è tutta di Letta e soci e dei tre partiti che sostengono questo governo: devono essere capaci di dare risposte efficaci in tempi brevi, senza sfinirci con giochini tattici e rinvii snervanti. Se ancora una volta prevarrà la tentazione di alzare bandiera bianca, di chiudere la legislatura e di ricorrere alle urne come scorciatoia per ripulirsi dai fallimenti, sappiano solo che nessuno è più disposto a credere che in una nuova stagione diventeranno improvvisamente capaci e virtuosi.

La Stampa 19.07.13

“Messaggio mai così esplicito”, di Stefano Folli

Sotto il profilo politico, il passaggio più stringente del discorso di Giorgio Napolitano è quello in cui il capo dello Stato fa capire in modo netto che un’eventuale caduta del governo Letta non aprirebbe la porta a nuove formule o a maggioranze alternative. Le conseguenze della crisi sarebbero, sì, «irrecuperabili» sul piano economico, ma soprattutto sarebbero imprevedibili. Come dire che nessuno deve farsi illusioni: la fine delle larghe intese non condurrebbe a quella maggioranza con i Cinque Stelle che nel Pd più di qualcuno ha vagheggiato. È chiaro che Napolitano non ha fatto nomi e non ha citato alcun soggetto politico. Tuttavia le sue parole erano trasparenti per chi ha voluto intenderle. Del resto, basta ricordare che di recente il tentativo di gettare ponti verso i “grillini” si era fatto più insistente e si è anche voluto accreditare la tesi che lo stesso capo del movimento fosse sul punto di cambiare linea e aprirsi a una possibile collaborazione con il Pd. In altri termini, si profilava un vago disegno. Ma con un grave punto debole. Dato per scontato che esiste nel Partito Democratico una vasta area di disagio nei confronti delle larghe intese, il problema degli scontenti era ed è lo sbocco della crisi. Sulla carta, far cadere Letta non sarebbe nemmeno troppo difficile: anzi, la sorte aveva fornito un magnifico “casus belli” con l’inaudita vicenda della mamma kazaka e della sua bambina deportate in quel lontano paese. Ma la questione politica riguarda il “dopo”. Si poteva sospettare che il Quirinale non sarebbe stato disposto alle avventure. Ieri è arrivata la certezza. Così come a suo tempo Napolitano impedì a Bersani di andare in Parlamento al buio a cercarsi i voti dei “grillini”, o di una parte di essi, così oggi egli non potrebbe autorizzare una riedizione di quel piano di potere. Per ragioni interne e internazionali. Sul piano interno non esiste alcuna garanzia che si possa individuare una maggioranza coerente fra il centrosinistra e una forza anti-sistema che nel suo programma, fra l’altro, elenca l’uscita dall’euro o comunque un indebolimento del legame con l’Unione. Per le stesse ragioni, sul piano internazionale una deriva italiana di questo tipo susciterebbe panico fra i partner. Per l’instabilità che ne discenderebbe, certo. Ma anche perché rafforzerebbe la spinta verso i movimenti populisti un po’ ovunque. Ed è noto che la Germania teme seriamente che dai Cinque Stelle possa nascere un sottoprodotto tedesco. Esclusa una diversa maggioranza, quale altro sbocco resterebbe? Naturalmente le elezioni anticipate, da fare per ò con l’eterno “Porcellum” mai riformato. Ed è nota l’assoluta contrarietà del capo dello Stato. Ecco allora cosa ha spento il fermento nel Pd. Il “partito della crisi”, chiamiamolo così per comodità, si è reso conto di non avere sbocchi realistici. Primo fra tutti, Matteo Renzi ha dovuto prendere atto che l’impazienza e la fretta lo hanno condotto in un vicolo cieco. Probabilmente la tattica guerrigliera non è la più adatta per un giovane leader ansioso di arrivare a destinazione. Meglio un’andatura pi ù calma, ma anche più utile per definire strada facendo il profilo di uomo di governo. Peraltro bisogna riconoscere che il Pd si stava preparando a salvare Alfano sull’affare Kazakistan anche prima dell’intervento perentorio di Napolitano. Ma quanti sarebbero stati i dissidenti? Probabilmente molti. Quello che è cambiato, dopo il “ventaglio” al Quirinale, è che tutti (tranne sette, solo tre renziani) si sono tirati indietro. Proprio perch é è apparso con chiarezza che non ci sono ipotesi alternative alle larghe intese in caso di crisi. O meglio, una ci sarebbe. Napolitano l’ha solo vagamente adombrata. Ma l’unica vera conseguenza «irreparabile» sarebbero le sue dimissioni, esito finale dell’impazzimento del quadro politico. Un rischio che nessuno si sente di far correre al paese.

Il Sole 24 Ore 19.07.13

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Cerimonia di consegna del Ventaglio intervento del Presidente della Repubblica
“E’ indispensabile proseguire nella realizzazione degli impegni del governo sul piano della politica economica e sociale, dell’iniziativa europea, e delle riforme istituzionali”

“Desidero iniziare rivolgendo l’espressione della mia viva solidarietà alla famiglia di Domenico Quirico, inviato de La Stampa di Torino, che da 100 giorni attendiamo di poter riaccogliere tra noi.” Lo ha detto il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, intervenendo al Quirinale alla tradizionale cerimonia di consegna del Ventaglio da parte dell’Associazione Stampa Parlamentare.

“Pur in un momento davvero difficile per i giornali e per i giornalisti, alle cui problematiche – qui, sobriamente, appena accennate – sono – ha continuato il Capo dello Stato – e dobbiamo essere tutti, attenti e sensibili, la cerimonia del Ventaglio è sempre un’occasione gradita e significativa d’incontro con quel settore così importante del mondo dell’informazione, che è costituito dalla stampa parlamentare. E ancora una volta appare chiaro che il vostro stimolo quotidiano si rivolge anche a chi esercita le funzioni e le responsabilità d’insieme del Capo dello Stato. Voi sapete com’è accaduto che mi tocchi ancora esercitarle, nello spirito che ho chiaramente indicato nel messaggio del 22 aprile al Parlamento. Intanto traggo beneficio – anch’esso imprevisto – dal cortese dono di un nuovo bell’esemplare per la mia collezione di tradizionali ventagli artistici”.

“Quest’anno però certamente – ha sottolineato il Presidente Napolitano – non ci si può attendere che io tracci un qualche bilancio del periodo trascorso dall’incontro con voi del luglio 2012. Perché è stato un periodo tra i più intensi e inquieti nella storia politica e istituzionale dell’Italia repubblicana, per il succedersi di eventi straordinari, di svolte, di momenti di tensione e perfino di rischi di paralisi, nella vita pubblica, senza precedenti. Quel che comunque è rimasto sempre incombente e che deve anche oggi avere il primo posto nella nostra attenzione collettiva, quel che costituisce sempre il punto di riferimento fondamentale per le istituzioni e per le forze politiche e sociali, è la criticità delle condizioni economiche e sociali del nostro paese, la serietà delle incognite con cui ci confrontiamo. Riusciremo ad allentare presto e quindi a superare una crisi finanziaria e una recessione che in questi anni hanno fatto regredire la nostra economia e il tenore di vita di larghi strati della popolazione? Crisi finanziaria e recessione sono, come sappiamo, fenomeni europei, che toccano ormai anche paesi più avanzati ed efficienti del nostro e che non sono separabili da profondi cambiamenti, tra non lievi alti e bassi, sul piano mondiale. Europeo, come finalmente si è riconosciuto, nella sua complessità e nella sua impellenza, è il fenomeno della crescente disoccupazione giovanile. Riusciremo a darvi risposte in Italia e in Europa ? Riusciremo a portare via via il nostro sistema produttivo e insieme il nostro sistema istituzionale, il nostro assetto di governo e i nostri meccanismi amministrativi all’altezza di sfide che espongono l’Italia a un serio pericolo di declino ? Sono queste le domande e le esigenze di fondo cui deve rapportarsi ogni discorso sulle opzioni politiche di cui quotidianamente discutiamo, e su cui anche lei, gentile Presidente Sardoni, mi ha or ora interrogato”. A tal proposito il Capo dello Stato ha rilevato: “la premessa, nell’aprile scorso, era dare al paese un governo, non lasciarlo scivolare verso convulsioni destabilizzanti, nell’impotenza perfino di aver voce nel decisivo concerto europeo. Una voce che invece si è sentita, nei due mesi e mezzo trascorsi dalla formazione del governo Letta, con riconoscimenti e apprezzamenti per la capacità d’iniziativa e di proposta espressa dal Presidente del Consiglio, attraverso una ricca rete di passi, di incontri, di confronti in sedi europee e internazionali. Lo si può forse seriamente negare ? Si può mettere a repentaglio la continuità di questo governo, impegnato in un programma di attività ben definito, senza offrire pesanti ragioni ai più malevoli e anche interessati critici e detrattori del nostro paese, pronti a proclamare l’ingovernabilità e inaffidabilità dell’Italia ? I contraccolpi a nostro danno, nelle relazioni internazionali e nei mercati finanziari, si vedrebbero subito e potrebbero risultare irrecuperabili”.

Il Presidente Napolitano, riferendosi a quanto ricordato dalla dottoressa Sardoni, ha detto: “è stato lo stesso Presidente Letta ad affermare che egli certo non intende governare ‘ad ogni costo’, cioè anche a costo di subire freni e interferenze che blocchino la produttività degli sforzi dell’Esecutivo. Dobbiamo in quell’affermazione vedere una garanzia importante per tutti. Si concentri allora l’attenzione sugli indirizzi adottati, sulle decisioni prese e sottoposte al Parlamento, anche per discuterle nel merito, con spirito critico, con serietà e con capacità propositiva. Le forze sociali, che stanno dando prova del necessario senso di responsabilità, possono contare – verificandone in concreto l’attuazione – su misure, già decise dal governo, dirette a stimolare una ancora ardua ripresa economica e a sostenere processi di formazione e possibilità di occupazione per i giovani. Altre misure sono all’esame del governo, relative a nodi – anche di politica fiscale – che stanno per essere sciolti. Dev’esserci senso dell’urgenza e determinazione, da far valere anche nel contesto europeo ; si possono comprendere appelli a scelte di maggior impatto, volte a scuotere un’economia fiaccata in settori vitali ; ma essenziale è non perdere di vista il quadro complessivo dei risultati ottenuti e da ottenere, degli impegni e dei vincoli da osservare, come disse il 31 maggio scorso il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, concludendo le sue ‘Considerazioni finali’ : ‘I sacrifici compiuti per conseguire e consolidare la stabilità finanziaria rispondono a rigidità a lungo trascurate, a ritardi accumulati nel tempo. L’uscita dalla procedura di deficit eccessivo ne è un primo frutto, da non dissipare. Va considerato un investimento su cui costruire'”.

Il Presidente Napolitano ha quindi aggiunto che “la situazione in cui ci muoviamo va valutata con la massima ponderazione, senza oscurarne i dati di gravità, e insieme senza indulgere a catastrofismi. Ci aiuta in questo senso il Bollettino Economico della Banca d’Italia appena reso pubblico. Siamo esposti a incertezze e variabili del quadro mondiale, per quel che riguarda la crescita e gli scambi. Per quel che riguarda più specificamente il nostro paese, il documento della Banca d’Italia, pur senza indulgere a valutazioni sdrammatizzanti e a facili illusioni, riafferma dati positivi – anche confutando giudizi posti a base della recente decisione dell’agenzia Standard & Poor’s : dati positivi sulla condizione dei conti pubblici, come sulle partite correnti della bilancia dei pagamenti. Non ignorando i fenomeni più gravi, relativi al mercato del lavoro o alle difficoltà e al costo del credito alle imprese, è tuttavia possibile cogliere in modo obbiettivo e puntuale segni incoraggianti di stabilizzazione e ripresa dell’attività produttiva nella seconda metà di quest’anno, pur essendo il 2013 destinato a concludersi con un calo del PIL dell’1,9 per cento in media d’anno. Si fa affidamento, in particolare, sullo sblocco dei pagamenti alle imprese dei debiti commerciali delle Amministrazioni pubbliche. Ma l’avvertimento finale riguarda i rischi che sui mercati finanziari corre ancora l’Italia, sensibile – per via dell’alto debito pubblico e di deboli prospettive di crescita – ‘alle variazioni’ – si sottolinea – ‘del clima di fiducia degli investitori’, condizionato anche dalle valutazioni degli analisti. Inutile dire – ha aggiunto il Capo dello Stato – come il clima di fiducia verso l’Italia possa variare positivamente in presenza di una valida azione di governo e di un concreto processo di riforme su ampie basi di consenso parlamentare, e come esso potrebbe invece peggiorare anche bruscamente dinanzi a una nuova destabilizzazione del quadro politico italiano. E’ perciò indispensabile, nell’interesse generale, proseguire nella realizzazione degli impegni del governo Letta, sul piano della politica economica, finanziaria, sociale, dell’iniziativa europea, e insieme del ‘crono-programma’ di 18 mesi per le riforme istituzionali, già partito anche in Parlamento col primo voto sulla legge costituzionale che ne faciliterà il percorso. Proseguire con maggiore e non minore coesione, sapendo che esitazioni da un lato o forzature dall’altro, esibite polemicamente, possono far sfuggire al controllo delle stesse forze di maggioranza la situazione. E allora si sgombri il terreno da sovrapposizioni improprie, come quella tra vicende giudiziarie dell’on. Berlusconi e prospettive di vita dell’attuale governo. Dovrebbe riconoscersi che è interesse comune affidarsi con rispetto – senza pressioni né in un senso né nell’altro – alle decisioni della Corte di Cassazione, e affidarsi correttamente – chi ha da difendersi – all’esercizio dei diritti e delle ragioni della difesa. Anche al di là dei casi della giustizia, qualsiasi appello, rivolto politicamente in tutte le direzioni, ad abbassare i toni, ad abbandonare le posizioni ‘urlate’, a confrontarsi più pacatamente, va preso sul serio e può riuscire utile”.

“Occorre – ha quindi detto il Presidente Napolitano – sgombrare il campo egualmente da gravi motivi d’imbarazzo e di discredito per lo Stato e dunque per il paese, come quelli provocati dall’inaudita storia della precipitosa espulsione dall’Italia della madre kazaka e della sua bambina, sulla base di una reticente e distorsiva rappresentazione del caso, e di una pressione e interferenza, l’una e le altre inammissibili da parte di qualsiasi diplomatico straniero. Ne sono scaturiti anche interrogativi sul modo di garantire pienamente diritti fondamentali di persone presenti a qualsiasi titolo nel nostro paese. Il governo ha opportunamente deciso – partendo da una prima ricostruzione della vicenda – innanzitutto di sanzionare comportamenti di funzionari titolari di delicati ruoli in materia di sicurezza, che hanno assunto decisioni non sottoposte al necessario vaglio dell’autorità politica e non fondate su verifiche e valutazioni rigorose. Ancor più importante è che il governo intervenga – come ha annunciato di voler fare – su norme di condotta e catene di gestione burocratiche che possono mettere in simili casi, e di fatto in questo caso concreto hanno messo, in serie difficoltà l’esecutivo. Alla Presidente Sardoni dico peraltro che, anche per dei ministri (ma non solo per loro), è assai delicato e azzardato evocare responsabilità ‘oggettive’, ovvero (per usare la sua espressione) ‘consustanziali alla carica che si ricopre’. E’ comunque del tutto evidente che a questo proposito da parte di forze politiche di opposizione si tenda in questo momento a far franare un equilibrio politico e di governo che si giudica spurio prima ancora che inadeguato. Per spingere il paese, le sue istituzioni rappresentative, verso quale sbocco? Tutti i propositi alternativi, anche se appaiano velleitari, possono essere legittimi. Ma inviterei coloro che lavorano su ipotesi più o meno fumose o arbitrarie, a non contare su decisioni che quando si fosse creato un vuoto politico spetterebbero al Presidente della Repubblica e che io – mi spiace, Presidente Sardoni, di non poter rispondere a quelle sue domande – non starò certo ora ad anticipare. Non ci si avventuri perciò a creare vuoti, a staccare spine, per il rifiuto di prendere atto di ciò che la realtà politica post-elettorale ha reso obbligato e per un’ingiustificabile sottovalutazione delle conseguenze cui si esporrebbe il paese”.
Il Capo dello Stato rivolgendosi ai presenti alla cerimonia ha sottolineato: “siate certi che mai indulgerò alle tendenze di taluni a ‘fare della stampa un bersaglio’, o ad attribuirle colpe di parole e scelte dei politici. Ma il mio richiamo alle responsabilità del momento si rivolge certamente anche alla stampa, perché la componente della sollecitazione e dell’amplificazione mediatica influenza molto le parole e i comportamenti dei politici. Siamo inoltre dinanzi a minacce e pratiche di violenza (non occorre che ricordi episodi recenti), e dinanzi all’ingiuria indecente e aggressiva, specie se a sfondo razzista o maschilista, e ancor più se pronunciata da chi dovrebbe unire alla dignità personale quella istituzionale. Ebbene, rispetto a ciò è tempo di levare un argine comune”.

Il Presidente Napolitano ha concluso il suo intervento facendo proprie le espressioni della lettera che ha appena ricevuto da un amico di vecchia data e di chiari principi: ‘quando linguaggio e comportamenti politici sono senza freni e senza responsabilità, una società rischia il quotidiano disfacimento’. Stiamo tutti bene in guardia, care amiche e cari amici giornalisti, nei confronti di simili rischi”.

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