Latest Posts

“Ai congressi locali votano solo gli iscritti”, di Vladimiro Fruletti 

Via l’automatismo fra segretario e candidato premier. Congressi dei circoli, di federazione e regionali solo fra gli iscritti e prima di quello nazionale. Elezione del segretario nazionale attraverso l’albo degli «aderenti», non più degli «elettori» del Pd. Dimezzamento dell’assemblea nazionale (da mille a 500 persone) che sarà in parte scelta dai territori. In estrema sintesi è questa la proposta che il responsabile organizzazione del Pd, Davide Zoggia, ha in mente per il prossimo congresso. Una riforma, rispetto ai congressi di Veltroni e Bersani, che necessariamente dovrà passare attraverso la modifica di varie norme statutarie. E quindi dal voto a maggioranza assoluta dei componenti l’assemblea nazionale.
Del resto i cambiamenti sono sostanziali. Perché non si cambia solo la norma che prevede che il segretario sia anche candidato premier («è cambiato lo scenario politico e il segretario potrebbe farlo anche per 3 anni se il governo dura» esemplifica), ma tutto il rapporto fra leader nazionale e base. Per Bersani (e gli avversari Franceschini e Marino) c’era stato prima il voto nei circoli, dei soli iscritti, e poi le primarie aperte a tutti. Questa volta il segretario nazionale sarebbe eletto dopo i congressi di base. In più mentre l’altra volta i segretari regionali erano collegati ai candidati alla segreteria nazionale e erano stati scelti con le primarie, questa volta verrebbero eletti solo dagli iscritti e separati dalla sfida nazionale. In più l’assemblea nazionale che prima era eletta in base alle liste collegate al candidato segretario nazionale e la cui composizione quindi era proporzionale ai voti presi da ciascun candidato alla segreteria, domani verrebbe scelta per «il 40-50%» dai territori, cioè dai soli iscritti. Quindi tramite la sfida nazionale, cioè dagli elettori alle primarie, ne verrebbe eletto il restante 60-50%. Ed è l’assemblea che poi elegge la direzione nazionale.
Inoltre alle primarie ci sarebbe l’albo degli «aderenti» come lo definisce Zoggia. Non degli elettori perché, appunto, non ci sarà più da scegliere oltre al segretario anche il futuro candidato premier. Quindi chi vorrà votare, oltre a versare un contributo (2-3 euro, «5 mi sembrerebbero troppi», dice), dovrà sottoscrivere un manifesto di adesione ai valori e ai principi del Pd. Una specie di comune minimo denominatore ideale che sarà condiviso anche dai candidati alla segreteria. Un segnale di unità pur nelle differenti opzioni che ogni candidato proporrà nella propria mozione congressuale.
Quanto agli iscritti (oggi sono circa 500mila, nel 2009 erano 750mila) Zog-gia spiega che si potrà prendere la tessera anche prima del congresso del proprio circolo. Ma non la mattina stessa, «non un’ora prima, perché i controlli vanno fatti. Diciamo 15 giorni prima. Se si vota il 30 novembre, quindi almeno il 15 novembre si dovrà essere iscritti».
Il pacchetto insomma è complesso. Ma «i tempi ci sono» assicura Zoggia che già martedì vedrà i segretari regionali per presentargli queste idee. Sempre in settimana, probabilmente giovedì, poi è prevista la riunione della commissione che sta studiando le regole che entro lunedì 21 dovrebbero essere ufficialmente partorite. Il via libera formale poi avverrà alla direzione nazionale del Pd convocata per il 31 luglio. Non caso il giorno dopo la prevista sentenza della Cassazione su Berlusconi. Perché la premessa su cui si regge tutta la road map studiata da Zoggia è che «la situazione politica non cambi». È ovvio cioè che in caso di crisi del governo tutto lo scenario cambierebbe.
Ma stando così le cose l’intenzione è di celebrare il congresso, come promesso dallo stesso Epifani, entro l’anno. «Andare oltre – spiega Zoggia ai segretari di circolo della Toscana- sarebbe un problema visto che avremo da affrontare le elezioni amministrative». Da qui l’indicazione del 15 settembre per la riunione dell’assemblea nazionale chiamata a modificare lo statuto. E poi dal primo al 15 ottobre (indicativamente) il tempo per depositare ufficialmente le candidature alla segreteria nazionale. A seguire i congressi di circolo, quelli di federazione e, nelle intenzioni di Zoggia, anche quelli regionali. Infine la sfida, e saremo a dicembre, per la leader- ship nazionale.
LE INTENZIONI DI RENZI
Tempi che sembrerebbero coincidere con le intenzioni di Renzi che ha già prenotato per il 27 ottobre la stazione Leopolda di Firenze per quello che s’annuncia come l’avvio della sua corsa alla segreteria nazionale. Difficile però che il sindaco dia il suo ok alle proposte di modifiche statutarie ideate da Zoggia. Anche perché, casomai vincesse il congresso, rischierebbe di trovarsi senza maggioranza né nei territori, dalle regioni in giù, né negli organismi dirigenti nazionali.

L’Unità 14.07.13

“Attacchi assurdi, scelta in linea con la Consulta”, di Stefano Passigli

La proposta di legge del Senatore Mucchetti in materia di incompatibilità presentata già da alcune settimane, è stata sorprendentemente presa a pretesto per un nuovo attacco alla dirigenza del Pd e dei suoi gruppi Parlamentari. Dico sorprendentemente perché la proposta da un lato non è nuova ma ha venti anni di precedenti, e dall’altro riflette correttamente l’orientamento giurisprudenziale della Corte Costituzionale. Quest’ultima, infatti, onde assicurare quanto più possibile il rispetto del diritto di ogni cittadino all’elettorato passivo, ha nel corso degli anni progressivamente sostituito al principio della ineleggibilità quello della incompatibilità, affidando alla
legislazione ordinaria la fissazione dei termini per la rimozione delle cause di incompatibilità o per la decadenza dagli incarichi.
È proprio ispirandosi al principio della sostituzione della inelegibilità con la incompatibilità che si sono sempre mosse da venti anni a questa parte tutte le iniziative legislative del centro sinistra italiano: Pds, Ds, Margherita, e infine Pd.
Il primo organico tentativo di intervenire in via legislativa sul conflitto di interessi fu, infatti, la mia proposta di legge del 1994, poche settimane dopo l’avvento sulla scena di Berlusconi. Approvata dal Senato nel luglio 1995, quella proposta, ritardata alla Camera dalla sessione di bilancio, decadde all’inizio del 1996 per la fine anticipata della legislatura.
Quanto qui preme non è riferire il perché nella successiva legislatura 1996-2001 la maggioranza di governo di centro sinistra non sia riuscita ad approvare tale legge (un perché -ampiamente ricostruito nel mio libro “Democrazia e conflitto di interessi” del 1991, ove si sfatano molti luoghi comuni circa i presunti colpevoli di acquiescenza a Berlusconi), quanto sottolineare che la posizione del centro sinistra in materia non è mai cambiata, e che nei confronti di Berlusconi e del suo conflitto di interessi ci si è sempre indirizzati verso la incompatibilità e non verso la ineleggibilità. Quella mia prima legge del 1994, fondata appunto sul principio della incompatibilità, fu infatti ripresentata come proposta dell’intero gruppo nel 1996, e ripresentata nel 2001, primi
irmatari Fassino e Rutelli a significare la piena adesione di DS e Margherita.
Che oggi sorgano dentro e fuori il Pd dure critiche alla proposta Mucchetti è dunque frutto di ignoranza dei precedenti di giurisprudenza costituzionale, e della stessa storia dei comportamenti parlamentari di Ds, Margherita e infine del Pd, o più semplicemente frutto di una intollerabile spregiudicatezza che per porre sotto accusa la dirigenza del partito e dei gruppi parlamentari non esita a travisare la realtà senza considerare il rischio per la stessa tenuta del Governo, o – temo- puntando avventuristicamente proprio alla sua caduta.
Ignoranza o strumentale malafede, dunque. O un mix di entrambe, a riprova che spesso il nuovo, specie nelle assemblee legislative, fa rimpiangere le vecchie modalità di selezione della classe politica.

L’Unità 14.07.13

La solita politica “a mia insaputa”, di Francesco Merlo

“A mia insaputa”. Avanti un altro. Con Alfano torna l’intelligenza del farsi fessi per farci fessi che fu inaugurata da Scajola. Asua insaputa, infatti, il ministro dell’Interno, che è il delfino di Berlusconi, vale a dire dell’amico per la pelle del dittatore del Kazakistan, il famigerato Nazarbayev, ha consegnato una madre e una bimba, moglie e figlia del dissidente Muhktar Ablyazov, al satrapo centro-asiatico. Angelino Alfano esibisce meno sfrontatezza comica di Scajola ma certamente più goffaggine politica nel riprodurre la stessa linea di difesa minchioneggiante: «non sapevo nulla», «il mio capo di gabinetto mi ha cercato ma ero alla Camera (a litigare con Brunetta) e non mi ha trovato », «sono stato informato a cose fatte dal ministro degli Esteri».
C’era comunque un cinismo che sconfinava con l’ironia nella scelta disperata di Scajola che, beneficiario di una casa con vista sul Colosseo, disse che gliel’avevano regalata appunto a sua insaputa, per sempre rinnovando il frasario della ribalderia politica italiana. È invece drammatico il ministro che ha destinato, a sua insaputa, la signora Alma alla privazione della libertà personale e a processi penali senza garanzie, e la piccola Alua, sempre a sua insaputa, all’orfanatrofio.
“A mia insaputa” è una sindrome così contagiosa che anche il ministro degli Esteri Emma Bonino, la cui figura fiera e febbrile è legata alla tutela dei diritti, dei dissidenti, dei perseguitati, degli ultimi…, ecco persino la leader radicale, la donna faber, la donna sapiens, è riuscita a non sapere. E però non è dignitoso e non è accettabile che i diplomatici del Kazakistan, i quali hanno messo a disposizione l’aereo che ha sequestrato la donna e la bambina, abbiano trattato e concordato tutto e solo con la polizia e non anche con la diplomazia e con la politica italiane da cui traggono legittimazione e con cui hanno consuetudine, colleganza, amicizia. Dicono alla Farnesina: «Non potevamo fare nessun collegamento tra questa signora indicata con il suo nome da ragazza e di cui ci veniva solo chiesto se godesse o meno di copertura diplomatica, e la moglie di Ablyazov».
Ma così è anche peggio, visto che l’espulsione è stata velocissima, efficientissima, impiegando più di trenta poliziotti, con un aereo subito pronto. Bisognava fare un’indagine accurata prima di consegnare una donna e una bambina a un dittatore, prima di «deportarle » scrivono i giornali inglesi.
Qui in gioco non c’è l’onestà personale e la rettitudine morale di Emma Bonino che non c’è neppure bisogno di garantire personalmente, ma c’è il rifugio nella strategia dell’“a mia insaputa”, come via di fuga dalla battaglia. Non è vero che è meglio rischiare di fare la figura dei fessi che non hanno capito e ai quali l’hanno fatta sotto il naso, invece di impegnarsi in una denunzia che potrebbe rivelarsi politicamente mortale. È vero il contrario: è sempre meglio ammettere che la politica è stata umiliata e bastonata, ma in piena coscienza. È meglio confessare che i diritti sono stati venduti a interessi economici ma comunque e sempre dentro una politica consapevole. È meglio essere protagonista che fantasma
della storia.
D’altra parte c’è la solita Italia dell’otto settembre nel ritiro a cose fatte del decreto di espulsione, nella trasformazione badogliana del volenteroso carceriere in severo censore. Lo stesso governo che, a sua insaputa, ha consegnato la moglie e la figlia del dissidente al despota di Astana, adesso condanna, si scandalizza, non permetterà… Ma bisogna pur dire al presidente Letta che il farsi paladino dei diritti umani subito dopo aver pestato a sangue il cognato della signora e averle dato della «puttana russa» non solo non corregge l’errore ma ne esalta la violenza.
È appunto questa la furbizia dell’“a mia insaputa”: meglio esporsi allo scherno pur di non affrontare la responsabilità, meglio offrirsi all’imbarazzo e alla risatina come quella che cercava Scajola quando decise di farsi citrullo e inventò l’antropologia dei politici “a mia insaputa”. È questo il loro destino, questa la loro ultima spiaggia: provocare una soffocata ilarità pur di evitare l’indignazione, pur di non fare autocritica e pagare di persona.
Serve anche, la strategia dell’“a mia insaputa”, a non far scoppiare, come dovrebbe, lo scandalo internazionale, coinvolgendo l’Europa e, se del caso, le Nazioni Unite e ricordando a tutti che la legge italiana prevede la tutela dei rifugiati politici. Le operazioni di polizia illegali sono tipiche dei Paesi che non hanno sovranità e dei Paesi dove regna l’arbitrio. E va bene che gli italiani non conoscono la geografia e nessuno si impietosisce per il destino di due anime esotiche, per giunta non legate alla dissidenza culturale come potevano essere Sacharov o Brodskij, o come la premio Nobel birmana Aung San Suu Kyi, e mai ci saranno Inti Illimani che canteranno per Alma e per Ula. Ma dal punto di vista del diritto è come se, all’epoca, la moglie e la figlia di un dissidente cileno fossero state consegnate a Pinochet. Con in più il sospetto, certo non provabile, che lo scandalo sia legato agli interessi di Berlusconi, il quale da ieri è in Russia, nel cuore della Gasprom appunto, dall’amico Putin che con il Kazakistan è uno dei motori della politica energetica dell’Oriente.
Anche l’Eni, a cui la vulgata attribuisce più forza del ministero degli Esteri, è ovviamente amico del Kazakistan e si capisce che le ragioni economiche potrebbero davvero avere giocato un ruolo non solo nella gestione dello scandalo ma anche nella scelta della soluzione scajoliana di “a mia insaputa”.
Il solo innocente qui è il capo della polizia perché davvero non poteva sapere: quel giorno, infatti, il nuovo capo non si era ancora insediato, e il vecchio non c’era più. E però anche in questa vacatio si intravede la furbizia degli strateghi dell’“a mia insaputa”, perché nell’interregno è più facile non sapere ed è più semplice dribblare i controlli di legittimità.
Come si vede, erano tempi ingenui di pionieri quelli di Scajola. Solo adesso, con il debutto nello spionaggio internazionale, “a mia insaputa” è diventata una branca collaudata e matura della scienza politica italiana. Sotto a chi tocca, dunque.

La Repubblica 14.07.13

“Il labirinto degli specchi”, di Claudio Sardo

La crisi economica incide sempre più nella carne viva del paese, mette a dura prova famiglie e imprese, impone prezzi ormai insostenibili ai ceti più deboli. Ma le istituzioni democratiche appaiono impotenti. E la politica è come catturata in un labirinto di specchi, dove le figure e i propositi vengono deformati e capovolti, ma soprattutto dove la realtà – con i suoi conflitti, le sue diseguaglianze, le sue speranze – è drammaticamente separata.
Si potrebbe tornare sul caso delle due-tre ore concesse al Pdl per una fantomatica riunione del suo gruppo parlamentare, in luogo di quell’inaccettabile ritorsione contro la Cassazione, colpevole di aver fatto il proprio dovere nel processo Mediaset. Si potrebbe parlare delle assurde polemiche, fondate per lo più sull’ignoranza e sul falso, seguite alla presentazione della proposta Mucchetti in tema di conflitto di interessi. Ma, al di là del merito che ogni giorno affrontiamo sul nostro giornale, sono necessarie alcune considerazioni di fondo. Che riguardano il ruolo e gli affanni della sinistra, alla vigilia di un congresso del Pd molto importante. Che riguardano la missione del governo e le condizioni del suo agire. Che riguardano infine il rischio, elevato, di una vera e propria deriva sistemica, che ha apparenze anarchiche e populistiche ma una sostanza fortemente autoritaria.
Il primo punto è che Berlusconi oggi è debole, assai più debole del passato, benché sia ancora in grado di produrre danni gravi. Ha interrotto l’evoluzione democratica della destra, ha allargato le distanze con la famiglia popolare europea, è privo di una qualunque politica economica (salvo le sortite propagandistiche sull’Imu), non ha progetti di governo se non quello di partecipare pro-quota ad un patto di sindacato, ovvero ad un patto di potere. L’Aventino minacciato e poi ritirato non è un’idea dei «falchi»: è un’idea sua. Che rivela anzitutto paura. Il potere di condizionamento che esercita sul governo gli è stato conferito in primo luogo da Grillo, il finto innovatore, l’uomo che scommette sulla distruzione, non della politica, ma dell’Italia. Avrebbe potuto, il Movimento Cinque stelle, determinare un altro equilibrio in Parlamento. Ma ha deciso di rendere impossibile ogni soluzione diversa dalla maggioranza Pd-Pdl. Il nemico di Grillo è il Pd, non certo il Pdl, dalla cui forza residua pensa di lucrare una cospicua rendita di posizione.
È il gioco tipico delle leadership autoritarie. Il mito della spallata invece di un processo di innovazione e di riforma. La logica del tanto peggio tanto meglio, che porta infine a negare l’esistenza stessa della destra e della sinistra. Ne è testimonianza l’ulteriore con- vergenza tra Berlusconi e Grillo contro la
proposta Mucchetti, che cerca di regolare in modo serio e severo il conflitto di interessi in Italia. Nessuna obiezione sul merito: solo fuoco di sbarramento. Al Cavaliere interessa esclusivamente la dimensione proprietaria del partito e la tutela dei propri interessi porocessuali. Per Grillo la vera minaccia esistenziale è che il problema possa essere affrontato e risolto. Risolto vuol dire che si approvi una valida legge anti-trust non solo per Berlusconi, ma anche per il dopo Berlusconi. Meglio per Grillo inchiodare la politica sulla questione controversa dell’ineleggibilità, perché è irrisolvibile a meno di aprire un conflitto tra valori costituzionali primari. L’ineleggibilità è l’arma di Grillo contro il Pd, non certo contro Berlusconi.
In questo contesto è difficile governare. Tanto più se il governo poggia su una non-alleanza. Eppure l’Italia ha bisogno di un governo. Avrebbe bisogno che il governo Letta progettasse e portasse a termine la presidenza italiana dell’Unione europea nel secondo semestre del 2014. Avrebbe bisogno di riforme, nel senso di un rafforzamento della forma di governo parlamentare, perché non ci sarà legge elettorale capace da sola di assicurare governabilità con un sistema bicamerale perfetto. Avrebbe bisogno di un minimo di stabilità per provare a correggere le politiche europee in tema di lavoro e di investimenti.
Il Pd, la sinistra, non può mai mettere Maramotti l’Italia dopo i propri interessi di parte. Se lo facesse, la sua base si rivolterebbe molto più di quanto non ha fatto per i recenti errori in Parlamento. Tuttavia il governo Letta ha un limite invalicabile: il rispetto del Pdl per la seperazione dei poteri. Non potrà mai esser- ci mercato tra le istituzioni: i processi e le sentenze di Berlusconi riguardano lui e non la maggioranza. Se il Pdl li scaricherà sul go- verno, vuol dire che il governo cadrà. E non è detto che si precipiti a nuove elezioni.
Intanto il Pd dovrà avviare il suo congres- so. Che avrà un carattere rifondativo. Il Pd infatti non è chiamato solo a un rinnovamen- to politico e generazionale dopo la mancata vittoria elettorale: come dimostrano le polemiche di questi giorni, alcune delle quali tanto violente quanto strumentali, sta saltando il compromesso sul quale il Pd si è fondato. Si è appannata la sintesi tra i valori dell’Ulivo e l’idea di un partito nuovo, non è più scontata la prospettiva del Pd come ponte verso una nuova stagione democratica. Oggi sono cambiati i fondamenti di questa sfida. Ma non per questo c’è meno bisogno del Pd come frontiera moderna di una sinistra europea. Sarà il Pd capace di questo salto? O tutto si giocherà in una battaglia di potere per la leadership? La risposta non è scontata. E la responsabilità del Pd è grande, come dimostrato dalle ultime amministrative. Si può lasciare l’Italia nelle mani di Berlusconi o di Grillo?

L’Unità 14.07.13

“La grande confusione del partito democratico”, di Eugenio Scalfari

Si sapeva da tempo, anzi da sempre, che una condanna definitiva di Silvio Berlusconi, quando fosse arrivata, avrebbe provocato un terremoto. Si sapeva e non stupiva nessuno: Forza Italia prima e il Pdl poi sono partiti acefali, anzi non sono partiti, sono elettori che hanno in comune alcune emotività come l’anticomunismo, l’odio per le tasse e l’ostilità verso lo Stato e sono anche “lobbies” portatrici d’interessi concreti da soddisfare rapidamente.
Questa massa notevole che a volte viene definita liberale, a volte moderata, a volte populista e antipolitica e spesso tutte queste cose insieme, viene gestita dai luogotenenti d’un capo-padrone con formidabili capacità di venditore, cioè di demagogo moderno, che è anche il proprietario di quella struttura poiché possiede gli strumenti di comunicazione necessari per tenerla insieme ed estenderla.
Perciò un’eventuale condanna che lo mettesse fuori dal gioco politico significherebbe il crollo dell’intera architettura. Questa essendo la situazione – finora editata a colpi di leggi “ad personam” concentrate soprattutto sui termini della prescrizione – è evidente che l’improvviso incombere d’una sentenza definitiva che potrebbe confermare la condanna inflitta in appello, crea il panico nel Pdl e una gran confusione nel Pd.
Il panico nel Pdl, come abbiamo già ricordato, è comprensibile; la confusione nel Pd molto meno.

Essa è determinata dall’esistenza d’un governo di coalizione dettato dallo stato di necessità dovuto alla crisi economica che dura ormai da sei anni e dai risultati elettorali dello scorso febbraio che hanno trasformato il precedente bipolarismo in un tripolarismo non gestibile dal punto di vista parlamentare. Di qui il governo di necessità voluto dal presidente della Repubblica per mancanza di alternative e per la stessa ragione accettato dalle forze politiche della “strana maggioranza”.
Ho ricapitolato fin qui cose a tutti note ma spesso dimenticate o passate in sottordine rispetto a pulsioni emotive che sono spiegabili nei cittadini ma assai meno nei gruppi dirigenti dei partiti o meglio dell’unico partito esistente che è quello democratico. I 5Stelle sono un movimento che ha anch’esso un proprietariovenditore; Scelta civica è da tempo una scheggia irrilevante; del Pdl abbiamo già detto.
Il Pd è dunque il solo partito attualmente esistente, alla cui sinistra c’è soltanto il massimalismo che ha sempre combattuto il riformismo nella storia d’Italia, favorendo oggettivamente le destre conservatrici.
Ebbene, il Pd si trova da tempo in una sorta di stato confusionale. Personalmente ho evitato finora di approfondire un tema sgradevole per chi, come me, vota per quel partito fin da quando nacque nella forma dell’Ulivo e poi nella forma attuale. Ma ora quell’approfondimento s’impone perché, se la confusione continuasse potrebbe seriamente compromettere l’interesse generale e la
stessa democrazia già abbastanza fragile nel nostro Paese. * * * La causa primaria della confusione è del tutto evidente: nasce dal fatto che un’alleanza, sia pure di necessità, con l’avversario di sempre, guidato per di più da un demagogo indiziato di reati per fatti commessi prima e durante la sua ascesa politica, non è accettata da una parte notevole degli elettori democratici e da una parte assai “vociante” del gruppo dirigente del partito, ormai diviso anzi frantumato in correnti che sono diventate fazioni.
La differenza tra correnti e fazioni può sembrar sottile ma non lo è affatto. Le correnti sono modi d’interpretare la visione del bene comune propria di tutti i partiti, accantonandone alcuni aspetti e accentuandone altri. Le fazioni si dividono invece sul tema della conquista del potere; le modalità d’interpretazione del bene comune rappresentano per loro un dettaglio facilmente modificabile quando la modifica può essere utile all’obiettivo che si propongono.
Il grosso guaio del Pd attuale consiste dunque, secondo me, nel fatto che le correnti si sono trasformate in fazioni salvo naturalmente poche “anime belle” che ci sono dovunque e non hanno mai contato nulla.
Le fazioni utilizzano il mal di pancia causato dall’esistenza del governo di necessità, accettato da tutti (o quasi tutti) ma facile da usare come strumento di discordia in un partito il cui gruppo dirigente è ormai diviso su tutto.
Questa è la penosa e preoccupante situazione, confermata quasi ogni giorno da episodi che appaiono logicamente incomprensibili ma sono invece comprensibilissimi dal punto di vista dei contrapposti interessi che antepongono il “particulare” al generale interesse
del Paese.
* * *
Ne segnalo due che sono i più recenti anelli d’una ormai lunga catena. Il primo è il clamore suscitato dalla sospensione dei lavori della Camera dalle ore 17 di mercoledì scorso per render possibile un’assemblea indetta dai parlamentari del Pdl, senatori compresi, per discutere i problemi derivanti da un’eventuale sentenza negativa della Cassazione. I falchi e le amazzoni di quel partito avevano chiesto la chiusura del Parlamento per tre giorni in segno di protesta contro la Cassazione per l’anticipo della sentenza Mediaset. Proposta ovviamente irricevibile. La sospensione di poche ore per render possibile la predetta riunione è decisione di tutt’altra natura che infatti è stata duramente contestata da amazzoni e falchi ma ancora di più dalle fazioni del Pd, da Renzi a Civati.
Non è mancata, specie a Renzi, l’occasione di ripetere il suo appoggio al governo Letta “purché faccia e non bivacchi”. Forse sarebbe venuto il momento che Renzi dicesse chiaramente che cosa significa per lui il “fare” di Letta. Deve minacciare la Merkel? Deve prospettare l’uscita dell’Italia dall’euro se l’Europa non ci consente di sfondare il pareggio del bilancio? O che cos’altro? Lo dica e ne prenderemo debita nota. Per quanto lo riguarda personalmente, Epifani ha già detto che le primarie per l’elezione del segretario saranno aperte e il congresso si farà entro l’anno. Allora decida. Il secondo episodio riguarda il disegno di legge sull’incompatibilità, presentato da un gruppo di deputati democratici tra i quali il capogruppo Luigi Zanda. Il testo dà un anno di tempo al concessionario di aziende che sia anche parlamentare; un anno per vendere la sua partecipazione a quelle aziende o lasciare la politica.
La proposta è stata bollata dal Pdl come l’ennesimo attacco contro Berlusconi, ma è stata bollata ancora di più dalle fazioni del Pd come un favore al proprio avversario. Anche Vendola non è mancato a questo appuntamento.
C’è da strofinarsi gli occhi quando si vedono cose del genere. La spiegazione sarebbe che con questa proposta si elimina l’ineleggibilità con l’incompatibilità. È vero ed è un passo avanti, non indietro. Ai fini specifici di Berlusconi è del tutto equivalente. E allora?
Per fortuna l’attuale segretario del Pd (che alcuni si ostinano a chiamare “reggente”) non soffre di questo costante mantra perché non appartiene né a correnti né a fazioni. Sa soltanto che il Pd deve sostenere il governo Letta se e fin quando esso non metta in discussione i valori democratici. Se questo accadesse, sarebbe lui a provocare la crisi e, personalmente, sono sicuro che lo farebbe.
Non spenderò parole sul caso riguardante il presidente della Repubblica e sollevato dal giornale “Libero” (e dal “Fatto”) sull’ipotesi di una “grazia” che Napolitano avrebbe pensato di concedere ad un Berlusconi condannato. Ipotesi non solo cervellotica ma avanzata per screditare e vilipendere il capo dello Stato. Questa è gente che gioca a palla con le istituzioni, anarcoidi di infima qualità.
* * *
Berlusconi si dice sereno e sicuro d’esser riconosciuto innocente dalla Cassazione e conferma il suo pieno appoggio al governo Letta ribadendo che comunque le sue vicende giudiziarie sono cosa diversa da quelle politiche. Riconosce che se fosse condannato la sua gente sarebbe presa da un’agitazione più che comprensibile, ma lui farebbe di tutto per calmarla.
Mi sembra difficile che le cose vadano in questo modo, ma credo che sarebbe saggio prender Berlusconi sul serio e attendere lo sviluppo dei fatti. Del resto l’ipotesi che la Cassazione non condivida in tutto o in parte le conclusioni della corte d’Appello non può in teoria essere esclusa, rientra nelle possibilità del libero convincimento del giudice che è uno dei cardini della giurisdizione. L’opinione pubblica può criticare una sentenza ritenuta tecnicamente sbagliata ma deve accettare il libero convincimento e prenderne atto, tanto più la sinistra democratica che ha fatto dell’indipendenza della magistratura uno dei cardini della sua visione politica.
Continuiamo dunque a difendere questo principio augurandoci che il libero convincimento della sezione feriale della Corte coincida con il nostro,chenon ha dubbi sulla colpevolezza dell’imputato.
Concludo questa nota con un plauso al disegno di legge approvato dal governo sulla parificazione dei figli naturali con quelli legittimi. È un passo avanti nel diritto e cancella una discriminazione non più compatibile con la concezione moderna dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
Ora ci attendiamo che il governo si allinei alle parole dette dal Papa a Lampedusa e intervenga sullo “ius soli” e sulle modalità di accoglienza degli immigrati. La Chiesa di Francesco è molto diversa da quella che finora abbiamo conosciuto. Questo è un discorso che merita di esser ripreso e approfondito con la dovuta ampiezza, come ci ripromettiamo di fare quanto prima.

La Repubblica 14.07.13

«Noi in prima linea diciamo: al Pd serve una scossa», di Vladimiro Fruletti

Difficoltà, imbarazzo, fatica e anche incazzatura. A sentire i segretari di
federazione del Pd, dal Nord al Sud Italia, il momento che vive il popolo dei
democratici non è (per usare un eufemismo) dei più semplici.
E se la sospensione dei lavori Parlamentari non è (forse) la goccia che ha
fatto traboccare il vaso (anche perché il vaso, assicurano, regge, almeno per
ora) certamente è un tassello in più in un mosaico la cui tinta dominante è la
frustrazione. «Sta aumentando il rischio dell’allontanamento, del disimpegno.
Mi dicono “ma come farò alle prossime elezioni a fare i banchini per chiedere
alla gente di rivotarci”» spiega Roberto Cornelli segretario della federazione
del Pd di Milano circa 11mila iscritti. Che stare con Berlusconi, soprattutto
da quelle parti, sia sentita come una «gabbia soffocante» è anche scontato.
«Qui abbiamo fatto manifestazioni su manifestazioni» ricorda Cornelli che però
sottolinea come sia diffusa anche la «consapevolezza» che dopo il disastro
delle elezioni politiche altre strade non c’erano per dare un governo al Paese.
«Ma il pericolo ora dice è che questo grande senso di responsabilità si traduca
in disaffezione più che in rabbia». Ecco perché il segretario milanese s’
attende una «risposta forte e data in fretta». Un segnale che lui vorrebbe
veder uscire dal congresso. «Per questo va fatto il prima possibile, per
indicare ai nostri iscritti e ai nostri elettori che c’è una strada nuova da
percorrere assieme».
Un messaggio per Roma. Che a Siena, il giovanissimo segretario di federazione
(quasi 10mila iscritti e la conferma del Pd alla guida della città, nonostante
tutto quello che è successo lì), Niccolò Guicciardini ha inviato ai vertici
democratici proprio sotto forma di lettera. Una specie di risposta alla email
che i capigruppo di Senato (Zanda) e Camera (Speranza) hanno mandato a tutti
gli iscritti. «Berlusconi dovrà difendersi nelle sedi opportune, ma non può
usare la politica o il suo consenso a fini personali. Sospendere i lavori
parlamentari con quelle motivazioni è inaccettabile e sbagliato. Fosse anche
per un minuto, è una questione di principi. La dirigenza del Pd ha sbagliato,
non c’è dubbio» scrive non usando perifrasi Guicciardini. E anche lui chiede il
congresso per ridare slancio a «un partito scrive che a livello nazionale ha
già commesso una buona dose di errori, ma che a livello locale sono convinto
abbia le energie e le capacità per ripartire».
Già perché la speranza è che proprio nei territori, negli amministratori
locali ci sia la chiave di svolta. «I successi alle amministrative, dalla
Serracchiani a Marino, per fortuna ci hanno dato un po’ d’ossigeno. Adesso però
è auspicabile che anche a Roma si rendano conto che sul territorio c’è
veramente un Pd capace di ripartire. Che ci sono tanti amministratori,
consiglieri comunali, sindaci che “ruscano” tutto il giorno e che sono un vero
patrimonio» sintetizza Alessandro Altamura da poco più di un mese (eletto all’
unanimità) nuovo segretario della federazione democratica di Torino che conta
12mila iscritti e oltre cento circoli. «Che il problema a governare col Pdl c’
era lo sapevamo fin dal primo giorno spiega -. Certo ricevo lettere di chi mi
dice che non è più disposto a sopportare, ma c’è anche chi chiede al Pd di
uscire dall’apnea e di essere più incisivo nel governo. I sondaggi dicono che
stiamo recuperando». E forse il malessere è più forte proprio fra i militanti,
fra chi si occupa quasi quotidianamente del Pd (dalle assemblee, al
tesseramento alle feste) che non fra gli elettori. «Che il clima non sia dei
migliori è evidente. Quello che è successo due giorni fa però non ne è stata la
causa scatenante. Il lutto per il disastro alle elezioni e i franchi tiratori
contro Prodi non è stato ancora elaborato. È come quando sei debilitato, anche
un raffreddore ti manda in crisi» dice Federico Ossari segretario della
federazione di Padova, 4mila iscritti («ne abbiamo persi almeno 500») e 111
circoli. «Io ho segretari di circolo che mi dicono che non si sento-
no più in grado di fare le tessere. “Perché continuiamo a farci del male “ mi
dicono. E io faccio fatica a tenerli. Letta per me sta facendo un lavoro
importante, ma se un problema del Pdl diventa mio non va bene. Ecco perché
serve il congresso. Dobbiamo iniziare a guardare avanti».
Lo schiaffo a Prodi continua a far male ovviamente soprattutto a Reggio
Emilia. «La sofferenza è grande e diffusa» dice Roberto Ferrari segretario
della federazione che conta oltre 11mila iscritti. Per Ferrari il governo Letta
può essere un’occasione, ma avverte anche il rischio che il Pd precipiti nell’
inutilità «come negli ultimi 6 mesi del governo Monti». «Mi dicono: “ok al
governo di servizio, ma siamo lì per servire il Paese non per essere complici
dei ricatti del Pdl». Guardare avanti è l’indicazione. «In tanti mi chiedono
che prospettive ha il Pdspiega Ferrari . Cioè sono disposti a spendersi per
ricostruire, sanno che è il Pd l’unica risposta vincente in Italia, però sono
come smarriti nel vedere con quanta enorme fatica il gruppo dirigente nazionale
si mette in discussione». Ecco di nuovo il congresso come possibile via d’
uscita. Di svolta. Magari senza ripetere, come avverte Vincenzo Di Girolamo,
segretario della federazione di Palermo quasi 6mila iscritti, «l’antico
vizietto degli accordi fra i capicorrente poi trasferiti sul territorio». Di
Girolamo dice che l’alleanza col Pdl è stata «una pillola amara che in tanti
non hanno ancora digerito» e quindi si augura che «questa scelta di necessità
sia la più breve possibile». Però chiede che nel frattempo il Pd faccia «un
congresso vero per costruire finalmente un partito vero, utile alla società e
non alle carriere di alcuni». Un’occasione «finalmente per chiarirci le idee»
per Giuseppe Lorenzoni, segretario della federazione di Sassari (4mila
tesserati) che però vede agitarsi anche pericolosi «venti di scissione». Almeno
di quelle silenziose di chi decide di restarsene a casa «se il conflitto fra le
varie componenti continuerò come oggi». Per Lorenzoni è indubbio che «le
puttanate» siano state fatte, che oggi il Pd paga gli errori commessi dal voto
di febbraio in poi, però «fare un congresso sul passato non ci servirebbe a
molto. Quello di cui il Pd ha bisogno è un dibattito vero sul domani proprio e
dell’Italia».

L’Unità 13.07.13

“La capacità di correggere gli errori”, di Gianni Riotta

Ricorre quest’anno il Cinquecentesimo anniversario della pubblicazione di uno dei capolavori del pensiero mondiale, Il Principe di Machiavelli, opera che rivaleggia con la Divina Commedia di Dante per traduzioni dalla nostra lingua. Se avrete la pazienza di rileggere la fatica del Segretario fiorentino resterete impressionati da come, nella sua visione del Potere, degli Interessi, della Forza e della Strategia nulla sia mutato dai turbolenti giorni delle Corti e dei Principati. Obama contro Putin, Xi Jinping contro il premier giapponese Abe, le manovre navali congiunte Mosca-Pechino, i marines che
arrivano in Australia, l’intero nostro tempo ancora si inquadra nel Potere che
si fa Leone, Volpe, che si cura di Essere o di Apparire, di far Paura o indurre
Amore.

Tutto, tranne i social media, il web, l’epoca dei personal media che rendono
il Potere sottoposto a un caleidoscopio di informazioni, controlli, dibattiti,
trasparenza. Se i familiari di Muktar Ablyazov, dissidente kazako, fossero
stati deportati dall’Italia al loro Paese nei giorni della vecchia diplomazia e
del vecchio potere, secondo la sintassi feroce così genialmente studiata (non
difesa, si badi) da Machiavelli, nessuno di noi avrebbe mai sentito parlare di
loro.

E questo articolo non sarebbe mai finito in prima pagina su La Stampa.
Soffrire di nascosto e in silenzio era la pena dei deboli, imporre la loro
ferrea volontà a piacimento era il privilegio dei forti. L’esilio, l’oblio, l’
emarginazione, condivise da Dante e Machiavelli, venivano comminate dal solo
capriccio del Principe. Se oggi il governo di Enrico Letta, Angelino Alfano ed
Emma Bonino, dopo una campagna di opinione pubblica guidata da questo giornale,
torna sui propri passi e riconosce l’incongruenza di affidare profughi inermi
ai loro possibili persecutori si deve al potere morale dell’opinione pubblica
diffusa dal web, oltre naturalmente alla loro sensibilità umana.

In altri tempi, la regola burocratica poteva essere applicata passando
inosservata, magari seguendo alla lettera la legge e il protocollo l’espulsione
poteva anche essere comminata, ma il web rende il motto antico «Summum ius
summa iniuria» una legge morale più forte di quella scritta. Seguire un diritto
la cui conseguenza è l’ingiustizia può salvare la coscienza di un burocrate, ma
oggi non è più difendibile davanti a tanti cittadini con in mano uno smartphone
e una connessione internet. L’ambasciatore italiano a Washington Bisogniero ha
chiesto a dirigenti della Casa Bianca, del Dipartimento di Stato e docenti Usa
di dibattere la «cyberdiplomacy» tra Usa e Europa e il risultato è stato
sorprendente: il consenso è che il web ha mutato per sempre i rapporti tra gli
Stati.

Se per i tiranni, delle grandi e piccole potenze, questa è una minaccia che
alla lunga potrebbe anche essere fatale, per i leader delle democrazie è
insieme una costrizione e un’opportunità. A breve li rende soggetti a
valutazioni da fare sotto pressione, come quelle opportunamente prese infine
sulla famiglia Ablyazov. Alla lunga però concede un termometro di temperatura
etica del Paese, dando ai governi, grazie al web, un dialogo fitto e continuo
con la gente. La capacità di autocorrezione degli errori e il dibattito libero
sono la vera forza della democrazia rispetto ai regimi autoritari, costretti
sempre a restare ingessati nella volontà assoluta del Capo, e blindati ai loro
errori.

Non si tratta di un antibiotico politico che cancella ogni male, naturalmente
e presto i leader, anche studiando l’andamento dei Big Data sul web,
riusciranno a manipolare e a guidare la discussione nei loro Paesi. Ma in
profondo, oggi, i sistemi hanno una chance di essere davvero «società aperte»
come sognava il filosofo Popper, che solo una generazione fa sarebbe stata
illusoria.

Bene ha fatto dunque il governo Letta a recedere da una scelta non felice,
bene hanno fatto tutti coloro che hanno lavorato online perché si arrivasse all’
esito positivo. Meglio ancora se, in futuro, l’Italia saprà prevenire incidenti
del genere, dandosi carattere da Paese amico dei dissidenti politici e aperto
agli esiliati, come ricordano i libri di scuola è nella tradizione del nostro
Risorgimento.

Quanto a Machiavelli, tornasse oggi tra noi a festeggiare il mezzo millennio
del suo capolavoro, non esiterebbe ad includere un capitolo sull’online,
indicando con la sua prosa lapidaria al Principe come governare il web da Leone
e ai suoi rivali digitali come opporsi da Volpi internet.

La Stampa 13.07.13