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“La sconfessione del cattivismo”, di Gad Lerner

Ci voleva un Papa per chiedere scusa ai migranti senza beccarsi l’accusa di “buonismo”? Ci voleva un Papa per abolire la pena dell’ergastolo senza subire insinuazioni di compiacenza con gli assassini? Sarò ingenuo, ma penso sinceramente che non sia addebitabile a meri calcoli di natura servile la reazione, forse perplessa, ma pacata, ai messaggi di civiltà lanciati da Francesco.
MESSAGGI che pure – come dimenticarlo? – ribaltano il senso comune allarmista
e securitario su cui la politica italiana ha lucrato per anni, rappresentando
nel dibattito pubblico l’immagine caricaturale di un paese incarognito. Nessuno
fra i ministri firmatari del trattato italo-libico se l’è sentita più di
rivendicare il respingimento in mare manu militari dei profughi verso i campi
di prigionia allestiti nel deserto. Nessun opinion leader spiritoso ha
indirizzato a papa Bergoglio il ben noto invito sarcastico: “Se gli piacciono
tanto i clandestini, perché non li ospita a casa sua anziché rifilarceli?”.
Al contrario, nella destra italiana si sono levate solo un paio di voci per
manifestare civile dissenso. Fabrizio Cicchitto: “Un conto è la predicazione
religiosa, un altro è la gestione da parte dello Stato”. Giuliano Ferrara: “Il
gesto è meraviglioso ma la globalizzazione porta speranza”… Magari, negli anni
scorsi, di fronte a fenomeni complessi e drammatici come i flussi migratori e
la gestione della pubblica sicurezza, il confronto si fosse mantenuto su toni
così pacati!
Quando il ministro dell’Interno Roberto Maroni, nel febbraio 2009, proclamava
che “non bisogna essere buonisti ma cattivi per contrastare l’immigrazione
clandestina”, fra i sedicenti liberali e garantisti della destra italiana si
era forse udita una presa di distanza?
La nostra classe dirigente, allora, non si macchiò solo della colpa dell’
indifferenza denunciata a Lampedusa dal Papa. Essa considerò vantaggioso
manifestarsi peggiore del suo popolo. Volle trasformare l’indifferenza in
ostilità, col grido ignobile di fora da i ball. Questa è la verità storica. Se
quello stesso anno fu introdotto il reato di immigrazione clandestina,
rivelatosi del tutto inutile ai fini della deterrenza, lo dobbiamo a una
campagna ideologica di dileggio finalizzata a ridicolizzare i sentimenti
altruistici e il rispetto dei diritti fondamentali. La disumanizzazione si
avvaleva di quel famigerato neologismo con cui la stessa bontà viene tradotta
in ipocrisia, come tale riservata a una minoranza di privilegiati: il
“buonismo”, appunto.
Così il vergognoso trattato italo-libico dei respingimenti ha finito per
essere votato quasi all’unanimità da un Parlamento opportunista, riducendo all’
insignificanza le voci di dissenso. Ma soprattutto, quando nel 2011 le rivolte arabe hanno dato luogo a una fuga via mare in cerca di salvezza verso le nostre coste, i nostri governanti hanno perso il senso delle proporzioni. Berlusconi ha parlato ndi “tsunami umano”. La Russa si è costernato annunciando un “esodo biblico” (da ntifoso dei faraoni, la fuga degli schiavi verso la libertà non deve essergli mai piaciuta). Frattini e Maroni hanno sparato previsioni stratosferiche sui migranti in arrivo: due milioni, mezzo milione, trecentomila. Ci fu anche chi propose di evacuare gli italiani da Lampedusa trasformando tutta l’isola in un grande centro di espulsione. Alla fine furono censiti in tutto 22 mila sbarcati, in un paese che conta 60 milioni di abitanti.
E’ dunque solo per timore reverenziale di papa Francesco se questo grossolano
armamentario di luoghi comuni ostili, adoperati da un ventennio per rendere la
vita impossibile agli stranieri e per nascondere la tragedia umanitaria del
Canale di Sicilia, oggi non viene più riproposto dagli imprenditori politici
del rancore e della paura?
Credo (e spero) che non sia così. Il brontolio rimane sottotraccia. Certo, la
Lega non smette di abusare dello stigma minaccioso per cui gli stranieri
irregolari e i profughi diventano “clandestini”. Ma è un segno dei tempi che i
suoi tentativi di organizzare contestazioni pubbliche della ministra per l’
Integrazione, Cécile Kyenge, falliscano regolarmente. La Grande Depressione
lacera, certo, una società sofferente; ma ha destituito di credibilità la
ricetta secondo cui la salvezza andrebbe cercata nella scorciatoia delle
piccole patrie. Semmai, in alternativa alla guerra fra poveri, torna a
proporsi, lontano dalla politica, il bisogno di comunità. Lo spirito di
fratellanza. La ricerca di buona vita.
La predicazione di papa Francesco intercetta questa ricerca diffusa di un
nuovo spirito pubblico. Lui, per fortuna, non può essere tacciato di incoerenza
o furbizia. Se, di fronte alla tentazione delle belle automobili, Bergoglio
raccomanda ai sacerdoti di pensare ai bambini che muoiono di fame, nessuno può
permettersi facili ironie. Prima o poi è inevitabile che il becerume trovi
nuovi canali pubblici per manifestarsi; ma è lecito sperare che almeno una
parte della nostra classe dirigente abbia imparato la lezione del rispetto,
dopo gli anni in cui si era sgangheratamente avventata contro il “politically
correct”.

La Repubblica 13.07.13

Malala conquista l’Onu «Talebani, non taceremo», di Umberto De Giovannangeli

Una sedicenne conquista l’Onu. Con la sua grazia, con la sua determinazione, l’ indomito coraggio. «Oggi non è il mio giorno, è il giorno di tutti coloro che combattono per i propri diritti. I talebani non mi ridurranno mai al silenzio e non uccideranno i miei sogni». A testa alta, coperta da uno scialle di Benazir Bhutto e con la voce ferma di chi, ad appena 16 anni, ha già la consapevolezza di essere il simbolo di chi vuole difendere i propri diritti, Malala Yousafzai,
la giovane attivista pakistana ferita lo scorso anno alla testa dai talebani,
ha parlato al Palazzo di Vetro. «Sono qui e oggi parlo per tutti coloro che non
possono far sentire la propria voce ha proseguito -. Pensavano che quel
proiettile ci avrebbe fatto tacere per sempre, ma hanno fallito», scandisce
Malala, lanciando un vibrante appello «all’istruzione per tutti i bambini». Le
sue parole sono state accompagnate dall’ovazione dell’assemblea. «Ecco la frase
che i talebani non avrebbero mai voluto sentire: buon 16esimo compleanno
Malala» le ha detto l’ex premier britannico Gordon Brown, oggi inviato delle
Nazioni Unite per l’educazione.
LO SCIALLE DI BENAZIR
Ogni parola di Malala viene dal profondo di un vissuto di dolore e di dignità.
«È un onore per me parlare di nuovo dopo tanto tempo, essere qui con tanta
gente onorevole e indossare questo scialle di Benazir Bhutto. Non so da dove
cominciare ha esordito la ragazza -. Non so cosa le persone si aspettino che io
dica. Prima di tutto grazie a Dio, per cui noi siamo tutti uguali, grazie a
tutti quelli che hanno pregato per me, all’amore che la gente che ha
dimostrato. Ho ricevuto cartoline e regali da tutto il mondo.
Grazie ai bambini i cui mondi innocenti mi hanno incoraggiata. Vorrei
ringraziare le infermiere, i medici del Pakistan e del Regno Unito, il governo
che mi ha aiutato». Poi un messaggio all’Onu: «Sostengo pienamente Ban Ki-moon
nella sua azione per l’istruzione» e «ringrazio tutti per la leadership che
offrono e l’ispirazione che ci danno».
Colpita perché ha difeso il diritto allo studio delle donne del suo Paese,
Malala ha accusato i talebani di temere la forza dell’istruzione, ma
soprattutto quella delle donne: «Capiamo l’importanza della luce quando vediamo
l’oscurità, della voce quando veniamo messi a tacere. Allo stesso modo nel
Pakistan abbiamo capito l’importanza di penne e libri quando abbiamo visto le
pistole» ha scandito la giovane. «La penna ha proseguito è più forte della
spada. È vero che gli estremisti hanno e avevano paura di libri e penne. Il
potere dell’istruzione fa loro paura. E hanno paura delle donne: il potere
della voce delle donne li spaventa. Per questo hanno ucciso 14 studenti
innocenti. Per questo hanno ucciso le insegnanti, per questo attaccano le
scuole tutti i giorni. Gli estremisti hanno paura del cambiamento, dell’
uguaglianza all’interno della nostra società». Poi ha aggiunto: «Oggi siamo noi
donne ad agire da sole, non chiediamo agli uomini di agire per noi come è
accaduto in passato. Non sto dicendo agli uomini di non parlare a favore dei
nostri diritti, ma mi concentro perché la donna sia autonoma e lotti per se
stessa».
APPELLO AI GRANDI
Un discorso appassionato quello di Malala, tra i più alti che il Palazzo di
Vetro abbia registrato nella sua storia. «La pace è necessaria a fini dell’
istruzione, il terrorismo e i conflitti impediscono di andare a scuola. Noi
siamo stanchi di queste guerre», scandisce.
Parla ai cuori e alle menti, Malala. E ha cosa da chiedere ai Grandi della
terra. Cosa concrete, impegni verificabili. «Chiediamo ai leader di tutto il
mondo di cambiare le politiche strategiche a favore di pace e prosperità, che
tutti gli accordi tutelino i diritti delle donne e dei bambini. Chiediamo a
tutti i governi di assicurare l’istruzione obbligatoria e gratuita in tutto il
mondo a ogni bambino, di lottare contro il terrorismo e la violenza. Chiediamo
ai Paesi sviluppati di sostenere i diritti all’istruzione per le bambine nei
Paesi in via sviluppo. Chiediamo a tutte le comunità di respingere i pregiudizi
basati su caste, sette, religione, colore, genere…Chiediamo ai leader di
tutto il mondo di assicurare la sicurezza di donne, perché non possiamo avere
successo se metà di noi subisce torti. E chiediamo a tutte le sorelle di essere
coraggiose, comprendendo il loro pieno potenziale e agendo». Nella mani di
Malala una petizione, firmata da quasi 4 milioni di persone, a sostegno di 57
milioni di bambini che non vanno a scuola e che chiedono ai leader del mondo
«fondi per nuovi insegnati, aule e libri». La petizione chiede anche l’
immediato stop allo sfruttamento di bambini nei luoghi di lavoro e al traffico
di minori.
La grande sala del Trusteeship Council le ha riservato una standing ovation
lunga e profonda. I rappresentanti delle istituzioni sono tutte in piedi.
«Malala tu sei la nostra eroina, sei la nostra grande campionessa, noi siamo
con te, tu non sarai mai sola», le assicura commosso il segretario generale
delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon. Le sue parole sono coperte dagli applausi che
avvolgono la sedicenne. Se la comunità internazionale avesse un alto senso di
sé, il prossimo Nobel per la pace avrebbe già un nome, un volto, una storia:
quelli di Malala Yousafzai.

L’Unità 13.07.13

“La fabbrica che ha sconfitto il terremoto dell’Emilia”, di Jenner Meletti

Manca soltanto la banda. La festa però è bella. Non si era mai vista, da queste parti, l’“inaugurazione” ufficiale di una fabbrica. Di aziende ne nascevano tante e fra ceramiche, macchine movimento terra e assemblaggi vari, don Ettore Rovatti avrebbe dovuto passare con il suo aspersorio quasi ogni giorno. POI, nelle zone industriali Crocetta e Canaletto, è arrivata la crisi e di fabbriche nuove non se ne sono più viste. Non solo: il 20 maggio dell’anno scorso la sberla del terremoto ha fatto crollare capannoni e speranze. Oggi però don Rovatti benedice l’Unifer. «Per questo — dicono il sindaco Fernando Ferioli e l’assessore alle attività produttive Angelo D’Aiello — l’inaugurazione di una nuova fabbrica oggi è una notizia importante e buona.
Questa azienda garantisce 86 buste paga che presto saranno cento e forse di
più. La crisi e il terremoto sfibrano la società, le famiglie e anche il morale
delle persone. Per questo ci è sembrato giusto, oggi, fare festa. Vogliamo dare
un segno di speranza».
L’Unifer produce componenti per marmitte. I clienti sono i più grandi gruppi
del mondo, da Faurecia a Tenneco a Eberspacher. «Abbiamo chiesto di costruire il nuovo stabilimento — racconta Stefano Morville, amministratore delegato dell’Unifer — nell’aprile del 2011, in piena crisi, dopo avere comprato l’azienda, più modesta, che aveva lo stesso nome. Nel maggio 2012, quando c’è stato il sisma, lo stabilimento era quasi pronto. I danni sono stati lievi e siamo andati avanti, cominciando ad assumere. Degli 86 dipendenti di oggi solo 15 sono interinali. Ma vogliamo crescere ancora. Vede il grande piazzale accanto alla fabbrica? Oggi abbiamo 5.000 metri quadrati coperti e nel piazzale potremmo
fare un altro capannone di 3.000 metri. Per questo non l’abbiamo asfaltato. I cento dipendenti sono l’obiettivo più vicino, ma con il nuovo pezzo di fabbrica potremmo aumentare produzione e occupati di un altro 30%».
Non è facile trovare una collaborazione stretta fra un’impresa e un’
amministrazione comunale. «Noi volevamo aprire — dice Stefano Morville — e il
Comune ci ha dato pieno appoggio. Niente di eccezionale, almeno da queste
parti. Nessun favore particolare. Ma se hai un problema qui te lo risolvono
in cinque giorni e non in cinque mesi o in cinque anni, come succede altrove.
Vorremmo che anche il governo nazionale fosse efficiente. Per ora sono arrivate
solo promesse. Se ci fosse un fisco più leggero sulle buste paga noi, con i
soldi risparmiati, potremmo assumere a tempo indeterminato anche i 15
interinali. Un terzo livello appena assunto da noi guadagna 1.200 euro, poi con
l’anzianità arriva a 1.500 — 1.600 euro. Stipendi decenti ma se in casa lavora
uno solo, ci sono problemi. Con una defiscalizzazione del dieci per cento l’operaio si troverebbe in tasca quei 200 — 300 euro in più che oggi sono ormai
indispensabili ».
«L’inaugurazione della nuova Unifer — dicono il sindaco e l’assessore — è una
boccata di ossigeno. In questa zona industriale, la Crocetta, le cose non vanno
male. Fiori costruisce betoniere per mezzo mondo. La Titan, che produce
cerchioni di metallo per la John Deer, la Landini e tanti altri, con il
terremoto ha avuto 40 milioni di danni ma si sta risollevando. I 260 operai in
questo mese di luglio stanno lavorando anche il sabato così ad agosto possono
fermare la produzione e avviare la riparazione del tetto. Sono risollevate
anche la Ciga assemblaggi e la Bcr tornitori. Ma nell’altra zona industriale,
la Canaletto, le ceramiche hanno tutti gli operai in cassa integrazione, la J.
Colors vernici non ha riaperto, all’Ecogeri che ricicla la plastica i
lavoratori dopo la cassa integrazione stanno finendo anche la mobilità».
Anche altri imprenditori sono arrivati all’Unifer. Sperano che la festa sia
solo la prima. «Il mercato dell’auto — dice Stefano Morville — è in crisi e lo
sarà per un bel pezzo. Noi ci difendiamo bene perché puntiamo sulla ricerca e
sulla qualità ed esportiamo il 95% del prodotto. Solo noi sappiamo forare il
tubo di acciaio inox per le marmitte. E’ il nostro segreto. Gli altri forano le
lamiere e poi assemblano. Ecco, guardi questo messaggio. E’ della Jaguar, che
dopo avere visitato i più grandi produttori d’Europa ha scelto una nostra
marmitta per la Jaguar F-Type. Buona tecnologia, lavoratori seri e
professionali. E’ così che si riparte».

La Repubblica 13.07.13

“Un atto di viltà”, di Massimo Giannini

C’è uno scandalo politico da illuminare, nella linea d’ombra che attraversa gli Stati e gli apparati, la diplomazia e la burocrazia, i diritti e gli affari. Solo in Italia può succedere che cittadini stranieri, ma domiciliati qui, possano essere «sequestrati» in gran segreto dalle autorità di sicurezza e rispediti nel Paese di provenienza, dove si pratica abitualmente la tortura.
Solo in Italia può accadere che questi cittadini siano rispettivamente la
moglie e la figlia minorenne di un noto dissidente del Kazakistan, rimpatriati
a forza con il pretesto di un passaporto falso per fare un «favore» a un
premier «amico» come Nazarbayev, con il quale si fa business ma del quale si
parla come di un dittatore violento e senza scrupoli. Solo in Italia può
avvenire che un simile strappo alle regole dei codici nazionali e
internazionali sia scaricato, tutto intero, sulle spalle dei funzionari della
pubblica amministrazione, mentre i ministri del governo della Repubblica si
lavano serenamente le mani e le coscienze. Perché questo è, alla fine, il
comunicato con il quale Palazzo Chigi prova a chiudere l’oscuro caso Ablyazov-
Shalabayeva: un atto di viltà politica e di inciviltà giuridica, che invece di
ridimensionare lo scandalo, lo ingigantisce.
Il testo, redatto alla fine di un vertice tra il presidente del consiglio Letta
e i ministri Alfano, Bonino e Cancellieri, è un concentrato di buone intenzioni
e di clamorose contraddizioni. Chiarisce che le procedure che hanno portato all’
espulsione di Alma Shalabayeva e della sua figlioletta di sei anni sono state
assolutamente regolari sul piano formale. Trasferisce sulla Questura di Roma e
sulla Digos la colpa «grave» di non aver comunicato ai vertici del governo e ai
ministri competenti «l’esistenza e l’andamento delle procedure di espulsione».
Riconosce l’errore, revoca il provvedimento e si premura di verificare «le
condizioni di soggiorno della donna» ora detenuta nella capitale kazaka,
auspicando che possa al più presto «rientrare in Italia per chiarire la propria
posizione».
Il cortocircuito è evidente: si prova a coprire questa vergognosa “rendition
all’amatriciana”, ma di fatto si sconfessa senza ammetterlo l’operato di
Alfano, che ne aveva negato l’esistenza. Sommerso dalle critiche internazionali
e dalle polemiche interne, l’esecutivo prova a dire l’indicibile all’opinione
pubblica: di questa vicenda non sapevamo niente, ha fatto tutto la polizia
senza avvertirci, ma ha fatto tutto secondo le regole, e nonostante questo ci
rimangiamo l’espulsione. Un capolavoro di ipocrisia pilatesca, che non regge
alla prova dei fatti e meno che mai a quella dei misfatti. Basta ricapitolarli,
e incrociarli con le spiegazioni farfugliate in queste settimane dai ministri,
per rendersi conto che la linea difensiva non tiene. Le domande senza risposta
sono tante, troppe, per non chiamare in causa direttamente il vicepremier e
responsabile del Viminale Angelino Alfano, e in subordine le “colleghe” Bonino
e Cancellieri.
Come si può credere che la Digos organizzi di propria iniziativa un blitz
imponente, che nella notte tra il 28 e 29 maggio impegna non meno di 50 uomini,
per arrestare Muktar Ablyazov, «pericoloso» oppositore del regime kazako di
Nursultan Nazarbayev, inseguito da «quattro ordini di cattura
internazionale» (in realtà ne risulta uno solo)? Come si può credere che la
Questura di Roma e poi il prefetto decidano di propria iniziativa il decreto di
espulsione a carico della moglie del dissidente Alma, per poi trasferirla
insieme alla figlia Alua al centro di accoglienza e infine imbarcarla su un
aereo per il Kazakistan con il pretesto di un passaporto della Repubblica
centrafricana falso (che in realtà si rivelerà autentico)?
Pensare che un affare di questa portata politica, che va palesemente al di là
della dimensione della pubblica sicurezza, possa esser stato gestito in totale
autonomia dal capo della Digos Lamberto Giannini e dal dirigente dell’ufficio
Immigrazione Maurizio Improta, è un’offesa al buonsenso e alla dignità delle
istituzioni. Eppure è quello che si legge ora nel comunicato di Palazzo Chigi.
I fatti si sono svolti ormai quasi un mese e mezzo fa. Da allora, i ministri
coinvolti hanno taciuto, e manzonianamente troncato e sopito.
Dov’era Alfano, mentre per ragioni ignote si rispedivano nelle mani di un
governo accusato da Amnesty International di «uso regolare della tortura e dei
maltrattamenti» le familiari di un dissidente che vive tuttora in esilio a
Londra? Dov’era Alfano, mentre l’ambasciatore kazako Andrian Yelemessov
tempestava il Viminale di telefonate, per sollecitare l’operazione di polizia
poi consclusa con l’arresto di Alma e Alua? Dov’era la Bonino, giustamente
sempre così attenta ai diritti umani, mentre un aereo messo a disposizione dalla stessa ambasciata kazaka imbarcava madre e figlia a Ciampino, per ricacciarle nell’inferno di Astana? Dov’era la Bonino, mentre il Financial Times e i giornali internazionali denunciavano su tutte le prime pagine lo scandalo
di una doppia «deportazione» che viola apertamente la Convenzione del 1951 sui
rifugiati politici?
A queste domande non c’è risposta, se non l’omertoso comunicato ufficiale. I
ministri coinvolti non sentano il dovere di assumersi uno straccio di
responsabilità.
«Non sapevamo», dicono, mentendo e ignorando che in politica esiste sempre e
comunque una responsabilità oggettiva, e che la politica impone sempre e
comunque doveri precisi connessi alla funzione. Non sentono il dovere di
rendere conto, e di spiegare chi e perché ha esercitato pressioni, e chi a
quelle pressioni ha ceduto, in una notte della Repubblica che ricorda alla
lontana un’altra notte del 2010, alla Questura di Milano, quando un presidente
del Consiglio chiedeva per telefono ai funzionari presenti di rilasciare una
ragazza perché era «nipote di Mubarak». Chi ha telefonato a chi, questa volta?
E con quale altra ridicola scusa di «parentela eccellente » ha trasformato un’
operazione di polizia contro un rifugiato politico in un gesto di cortesia a
favore di un despota asiatico ricchissimo di gas e petrolio, a suo tempo in
amicizia con il Berlusconi premier e tuttora in affari con il Berlusconi
imprenditore?
Altrove, per molto meno, saltano teste e poltrone. In Italia, com’è evidente,
non funziona così. Sul piano etico, il minimo che si può chiedere è che a
quella madre e a quella figlia, purtroppo cacciate con il fattivo contributo
delle nostre autorità, sia restituito il diritto di tornare nel Paese in cui
avevano deciso di vivere. Sul piano politico, il massimo che si deve pretendere
è che chi ha sbagliato, chi ha mentito, o anche solo chi ha taciuto, ne
risponda di fronte all’Italia e agli italiani.

La Repubblica 13.07.13

Malala all’Onu: “Parlo per chi non ha voce, i talebani non mi ridurranno al silenzio”, da repubblica.it

“Oggi non è il mio giorno, è il giorno di tutti coloro che combattono per i propri diritti. I talebani non mi ridurranno mai al silenzio e non uccideranno i miei sogni”. A testa alta, coperta da uno scialle di Benazir Bhutto e con la voce ferma di chi, ad appena 16 anni, ha già la consapevolezza di essere il simbolo di chi vuole difendere i propri ditritti, Malala Yousafzai, la giovane attivista pakistana, ferita lo scorso anno alla testa dai talebani, ha parlato dal Palazzo di Vetro. “Sono qui e oggi parlo per tutti coloro che non possono far sentire la propria voce – ha proseguito -. Pensavano che quel proiettile ci avrebbe fatto tacere per sempre, ma hanno fallito”, ha detto, lanciando un vibrante appello “all’istruzione per tutti i bambini”. Le sue parole sono state accompagnate dall’ovazione dell’assemblea: “Ecco la frase che i talebani non avrebbero mai voluto sentire: buon 16esimo compleanno Malala”, ha detto l’ex premier britannico Gordon Brown, oggi inviato delle Nazioni Unite per l’educazione.

Con lo scialle di Benazir Bhutto. “È un onore per me parlare di nuovo dopo tanto tempo, essere qui con tanta gente onorevole e indossare questo scialle di Benazir Bhutto. Non so da dove cominciare – ha esordito la ragazza -, non so cosa le persone si aspettino che io dica. Prima di tutto grazie a Dio, per cui noi siamo tutti uguali, grazie a tutti quelli che hanno pregato per me, all’amore che la gente che ha dimostrato. Ho ricevuto cartoline e regali da tutto il mondo. Grazie ai bambini i cui mondi innocenti mi hanno incoraggiata. Vorrei ringraziare le infermiere, i medici del Pakistan e del Regno Unito, il governo che mi ha aiutato”. Poi un messaggio all’Onu: “Sostengo pienamente Ban Ki-moon nella sua azione per l’istruzione” e “ringrazio tutti per la leadership che offrono e l’ispirazione che ci danno”.

La paura dei talebani per i libri e per le donne. Ferita perché ha difeso il diritto allo studio delle donne del suo Paese, Malala ha accusato i talebani di temere la forza dell’istruzione, ma soprattutto quella delle donne: “Capiamo l’importanza della luce quando vediamo l’oscurità, della voce quando veniamo messi a tacere. Allo stesso modo nel Pakistan abbiamo capito l’importanza di penne e libri quando abbiamo visto le pistole – ha detto la 16enne pakistana -. La penna – ha proseguito – è più forte della spada. È vero che gli estremisti hanno e avevano paura di libri e penne. Il potere dell’istruzione fa loro paura. E hanno paura delle donne: il potere della voce delle donne li spaventa. Per questo hanno ucciso 14 studenti innocenti, per questo hanno ucciso le insegnanti, per questo attaccano le scuole tutti i giorni. Gli estremisti hanno paura del cambiamento, dell’uguaglianza all’interno della nostra società”. Poi ha aggiunto: “Oggi siamo noi donne ad agire da sole, non chiediamo agli uomini di agire per noi come è accaduto in passato. Non sto dicendo agli uomini di non parlare a favore dei nostri diritti, ma mi concentro perché la donna sia autonoma e lotti per se stessa”.

Stanchi delle guerre. “La pace è necessaria a fini dell’istruzione, il terrorismo e i conflitti impediscono di andare a scuola. Noi siamo stanchi di queste guerre”, ha affermato la16enne.

L’appello ai leader “Più tutele per i bambini”. “Chiediamo ai leader di tutto il mondo di cambiare le politiche strategiche a favore di pace e prosperità, che tutti gli accordi tutelano i diritti di donne e bambini. Chiediamo a tutti i governi di assicurare l’istruzione obbligatoria e gratuita in tutto il mondo a ogni bambino, di lottare contro il terrorismo e la violenza, ai Paesi sviluppati di sostenere i diritti all’istruzione per le bambine nei Paesi in via sviluppo. Chiediamo a tutte le comunità di respingere i pregiudizi basati su caste, sette, religione, colore, genere…Chiediamo ai leader di tutto il mondo di assicurare la sicurezza di donne, perché non possiamo avere successo se metà di noi subisce torti. E chiediamo a tutte le sorelle di essere coraggiose, comprendendo il loro pieno potenziale e agendo”.

La petizione. Nella mani di Malala una petizione, firmata da quasi 4 milioni di persone, a sostegno di 57 milioni di bambini che non vanno a scuola e che chiedono ai leader del mondo fondi per nuovi insegnati, aule e libri. La petizione chiede anche l’immediato stop allo sfruttamento di bambini nei luoghi di lavoro, stop ai matrimoni e al traffico di minori.

Unesco e Save the Children: “50 mln di bambini senza scuola”. In un rapporto pubblicato proprio oggi, in occasione del Malala Day, da Unesco e Save the Children, si legge che nel mondo circa 50 milioni di bambini, dai 5 ai 15 anni, non vanno a scuola perché colpiti dagli scontri o arruolati nei corpi armati. Nel 2012, sono stati 3.600 gli attacchi di vario tipo per impedire ai bambini l’accesso all’educazione, tra i quali si contano violenze, bombardamenti di scuole, reclutamento dei minori in gruppi armati, torture e intimidazioni contro bambini e insegnanti sfociate in morti o ferimenti gravi. Inoltre, prosegue il rapporto, “resta scandalosamente bassa la quota di fondi destinati all’educazione nelle emergenze umanitarie, passando addirittura dal 2% del totale dei fondi umanitari in emergenza del 2011 all’1,4% del 2012, dunque ben al di sotto del 4% richiesto dalla comunità internazionale nel 2010”.

Ghizzoni e Patriarca “Apriamoci alla “buona globalizzazione”

I deputati Pd hanno partecipato alla tappa modenese della Carovana dello ius migrandi. “E’ ora di riaffermare il diritto dei giovani e delle persone a muoversi in libertà: apriamoci alla “buona globalizzazione”: è l’appello dei parlamentari modenesi del Pd Manuela Ghizzoni ed Edoardo Patriarca che, in mattinata, hanno partecipato alla tappa modenese della Carovana dello ius migrandi. “Continueremo nel nostro impegno – spiegano i deputati Ghizzoni e Patriarca – sancito già nel programma del Pd, di revisione del diritto di cittadinanza, di cancellazione del reato di clandestinità e di superamento del ruolo dei Centri di identificazione ed espulsione”.

“Questa è una legislatura difficile, ma noi non arretreremo. Siamo impegnati a concretizzare quanto scritto nel programma del Pd in tema di revisione del diritto di cittadinanza, di cancellazione del reato di clandestinità e per la riaffermazione di un diritto di movimento delle persone, al pari delle merci e dei capitali”: con queste parole i deputati modenesi del Pd Manuela Ghizzoni ed Edoardo Patriarca salutano l’arrivo in città della Carovana dello ius migranti, promossa dalla Rete 1° marzo e da Corriere immigrazione. Entrambi i parlamentari Pd, in mattinata, hanno preso parte all’iniziativa pubblica tenutasi in piazza Grande, a Modena. “I vincoli creati al libero spostamento delle persone – dichiarano Ghizzoni e Patriarca – sono fuori da un contesto europeo, ma anche fuori dal contesto di un futuro possibile. Non è una battaglia di retroguardia, è anzi una battaglia di civiltà. Il nostro Paese deve tornare ad essere un Paese accogliente come è sempre stato. E dentro questo pacchetto di riforme deve entrare anche quella relativa alle attuali strutture di trattenimento”. A più riprese, i parlamentari modenesi del Pd hanno visitato il Cie di via Lamarmora: sabato l’ultima visita in ordine di tempo a cui ha partecipato lo stesso Patriarca. “Le condizioni di vita dei trattenuti sono davvero precarie – confermano Ghizzoni e Patriarca – bisogna puntare al più presto a un suo superamento. E’ ora di rifinanziare il rimpatrio volontario, un percorso assistito di formazione e di accompagnamento al ritorno nei Paesi d’origine. Magari affidandolo alle associazioni del Terzo settore che tanta esperienza hanno acquisito in materia. Questo, credo, potrebbe aiutare a svuotare i Cie molto più di altre misure che, negli anni, abbiamo visto, hanno fallito”. “Si parla tanto di globalizzazione delle merci, della economia, della finanza, con tutti i danni che questo fenomeno ha portato. – concludono i deputati Pd Manuela Ghizzoni ed Edoardo Patriarca – Il neocapitalismo imperante, di questi anni, ha, purtroppo, dimenticato le persone E’ ora di dare spazio alla “buona globalizzazione”, quella che concretizza il diritto dei giovani e delle persone a muoversi in libertà.”.

“Epifani: basta strappi Pdl o è meglio lasciare”, di Claudio Tito

«Preoccupato? È chiaro che sono preoccupato». Il segretario del Pd, Guglielmo Epifani, non nasconde le difficoltà che il governo e il suo partito stanno vivendo in questa fase. Gli strappi del Cavaliere, gli imbarazzi della base democratica e le divisioni emerse nel partito sono tessere di un mosaico mai definitivamente completato. Anzi con l’avvicinarsi della sentenza in Cassazione per il processo Mediaset che potrebbe sancire l’uscita dalla politica per Berlusconi, quelle stesse tessere sembrano rimescolarsi di nuovo. «Per questo serve un chiarimento – dice Epifani – se il centrodestra tira ancora la corda, per noi vengono meno tutti gli spazi di agibilità». Però, avverte, sul sostegno «responsabile » al governo Letta c’è «la stragrande maggioranza del Pd ». E anche le polemiche sulla sospensione dei lavori in Parlamento sono «esagerate». «Lì abbiamo vinto noi e non loro. Brunetta aveva delle pretese eversive e noi lo abbiamo stoppato».
Tutto infatti nasce dal voto di mercoledì sulla sospensione dei lavori. A molti non è andato giù che il Pd abbia accettato la richiesta del Pdl.
«Ma quel che è accaduto l’altro ieri è stato descritto in modo esagerato».
Perché esagerato? I Gruppi democratici hanno detto sì, con alcune eccezioni, alla sospensione dei lavori parlamentari.
«È stato esagerato perché tutto nasce dalle parole di Brunetta, quelle sì al limite dell’eversione. Quando si chiede di bloccare le Camere per tre giorni, si minaccia l’Aventino, le dimissioni in blocco, allora certo la risposta non può che essere ferma. Al Senato, però, Schifani ha motivato tutto in modo diverso. Si è limitato a chiedere di far discutere il gruppo. E poi c’è un altro aspetto».
Quale?
«Non è vero che non si è lavorato, lo si è fatto fino alle 17 dando il tempo, dopo, per le loro riunioni ».
Ammetterà che la base del suo partito non l’ha presa così.
«So bene che l’atteggiamento di Brunetta era grave e inaccettabile, ma è stato respinto. Anzi, abbiamo vinto noi. Lui voleva tre giorni di Aventino e ha avuto solo il tempo di una riunione».
La protesta dei militanti non si concentra sulla semplice sospensione dei lavori ma sul motivo che ha indotto il Pdl ad avanzare quella richiesta. Ossia l’attacco alla Corte di Cassazione, hanno definito i magistrati dei banditi.
«Lo so bene. Ma questo vale per loro, non per noi. Il punto è che loro vivono una fase di grande incertezza e difficoltà e qualcuno è tentato dalla logica del tanto peggio tanto meglio. Se un capogruppo, come ha fatto Schifani, ci dice “abbiamo bisogno di riflettere”, è chiaro che l’oggetto diventa il loro bisogno di parlare più che la sentenza del processo Mediaset».
Proprio lei però dice che così non si può andare avanti. Quindi qualche problema c’ è?
«Se si sgombra il campo dalle discussioni sterili, è chiaro che per noi stare in questo governo è possibile se ci sono margini di agibilità. Questa è una maggioranza con partiti di schieramenti diversi. Allora se ogni giorno qualcuno tira la corda, pone un ultimatum, tenta uno strappo, è chiaro che diventa più difficile anzi impossibile stare insieme. E poi c’è questa spada di Damocle del 30 luglio ». Ma non è che quella sentenza peserà più sul Pd che sul Pdl?
«Per noi la questione è semplice, sentenza o non sentenza: se ci fanno lavorare per affrontare la crisi di questo paese, bene. Altrimenti basta».
Magari i militanti del centrosinistra vi potrebbero dire “non si può stare con un condannato”.
«Si certo, lo capisco. Ma questo era anche due mesi fa. Allora io dico: bisogna distinguere le condanne personali dal fatto che quel partito ha preso otto milioni di voti. E poi, se proprio vogliamo dirla tutta, il processo che pone a noi i problemi maggiori è quello di Napoli. Se si accerta che ha comprato i nostri per far cadere Prodi… Comunque se davvero ci sarà la condanna Mediaset – e io su questo non sono in grado di avanzare giudizi loro non staranno fermi».
Per il momento Berlusconi ha confermato che non vuol far cadere il governo.
«Sta seguendo i suggerimenti di Coppi. Per ora».
Ma quando lei parla di chiarimento, cosa intende?
«Ad esempio, oggi hanno lavorato tutti, hanno lavorato le commissioni e l’aula. È stata approvato il testo per le riforme e la nuova legge sul reato di voto di scambio politico-mafioso. La verifica deve essere nei fatti».
Eppure in questi due giorni davanti a un Pdl frastornato, il Pd si è presentato a dir poco diviso.
«Condivido il documento firmato da 70 senatori che difende il lavoro del Parlamento e del governo. È chiaro che in un partito come il nostro le posizioni legittime come quelle di Civati o della Bindi non verranno mai meno ed è anche giusto. Però vorrei far notare che nell’ufficio di presidenza del gruppo della Camera, tutti avevano convenuto sulla scelta e poi qualcuno non l’ha votata in aula».
Sembra quasi che sia in corso un confronto tra “governisti” e “partitisti”. Fabrizio Barca parla di dorotei nel Pd.
«La vera discussione nel partito è un’altra. È tra chi ritiene che si debba sostenere questo governo perché al momento è l’unico possibile e chi pensa che si debba dare un taglio e tornare subito al voto. Ma la stragrande maggioranza è per appoggiare Letta. Se il documento del Senato venisse presentato alla Camera, otterrebbe un numero di firme ancora superiore».
Nonostante la strana maggioranza?
«Certo, perché quasi tutti capiscono che allo stato non c’è alternativa. Ogni altra soluzione è più difficile e viviamo una crisi economica terribile. Probabilmente ci aspetta il peggior autunno degli ultimi sei anni. E i sondaggi danno ragione al governo. Io vado in giro per il Paese e vedo che le persone sono per Letta. Su questo non mi sbaglio. Quando la crisi morde, la gente ha bisogno di attaccarsi ad una speranza».
Quindi quanto dovrebbe durare questo esecutivo?
«Non so quanto durerà, ma dipende dalle cose che fa. Vorrei sottolineare che il presidente del consiglio in poco tempo si è conquistato una grande credibilità internazionale».
La durata dipenderà più dal Pdl o dal Pd?
«Il nodo è il Pdl. Nei tantissimi comuni e regioni che governiamo, la maggioranza non è quella di Roma. Qui non ci sono i numeri. Quindi dipenderà da quel che farà Berlusconi».
Se staccasse la spina, voi potreste tentare un’intesa con Grillo?
«A me pare difficile, semmai con loro si può cambiare la legge elettorale. Ma sarebbe solo una extrema ratio».

La Repubblica 12.07.13

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“PSICODRAMMA A PARTI INVERSE”, di CURZIO MALTESE

I guai giudiziari di un uomo politico in un paese normale dovrebbero essere essenzialmente affari suoi. Oltre che, si capisce, di dirigenti ed elettori del suo partito. Da vent’anni i processi di Berlusconi sono invece diventati problema di un intero paese. E questo è già molto anomalo. Ancora più anomalo, per non dire grottesco, è che i guai con la giustizia del capo della destra stiano diventando uno se non “il” problema del principale rivale politico, il Partito democratico.
Non si pretende (non più) dal Pd che si comporti come qualsiasi altra forza democratica del mondo di fronte a un avversario colpito da condanne gravi per reati comuni, chiedendone l’immediata uscita dalla scena politica. Non siamo una democrazia normale, è evidente, altrimenti i primi a chiedere le dimissioni di Berlusconi sarebbero i suoi compagni di partito. È tuttavia paradossale che il Pd sia riuscito a importare in casa i guai altrui e a farne occasione di feroci contrasti interni, fra dirigenti e militanti, base elettorale e vertice del partito. Insomma le condanne di Berlusconi, lungi dal mettere in crisi la destra, servilmente compatta intorno al padrone, rischiano di spaccare la sinistra. L’hanno già spaccata, anzi, fra litigi, appelli, pesanti accuse reciproche, divisioni al voto, in uno spettacolo a un tempo preoccupante e assurdo. In ballo c’è la tragica prospettiva che la condanna in Cassazione il 30 luglio possa stroncare la carriera di leader di Berlusconi. Il futuro politico di un quasi ottuagenario in Italia è evidentemente più importante del presente economico di un Paese sull’orlo del baratro, dell’avvenire dei nostri figli.
Ora, in questo ennesimo psicodramma innescato dal berlusconismo, bisognerà forse ristabilire alcuni punti fermi. Il governo Letta e la strana maggioranza che lo sostiene scaturiscono da un’emergenza nazionale che non sono i processi di Berlusconi. Si tratta di un governo chiamato a fare due o tre cose essenziali, lo stimolo alla crescita, il controllo del debito pubblico e una legge elettorale decente, utile e perfino costituzionale. Per compiere questa missione nell’interesse del Paese, il Pd ha messo in conto di accettare qualche compromesso con l’alleato col quale, aveva detto, non avrebbe mai governato. Contro l’opinione di milioni di elettori, compreso chi scrive, ha fatto prevalere il valore della governabilità su ogni altro. Ma se la governabilità finisce per annientare l’identità stessa del Pd, allora tanto vale chiudere l’esperienza e tornare al voto. Dopo aver cambiato la legge elettorale, s’intende, perché il presidente Napolitano ha già detto e ripetuto che non scioglierà mai le camere con il Porcellum imperante.
Quello che il governo delle larghe intese aveva promesso agli italiani, in cambio del tradimento del mandato elettorale, era un’assunzione piena di responsabilità da parte di un ceto politico che per due decenni ha lasciato marcire i problemi del Paese per concentrarsi sui propri. E in particolare sui problemi di uno solo. Se dopo poche settimane siamo ancora lì, con una maggioranza appesa alle vicende personali del solito noto, in grado di paralizzare la vita politica e bloccare i lavori parlamentari, allora è stato tutto inutile. Ne prendano atto e tornino a casa. Non si può fermare una nazione perché il più ricco di tutti, secondo vari tribunali della Repubblica, non ha pagato le tasse. Tanto meno una nazione dove ogni settimana un piccolo imprenditore si uccide perché di tasse ne ha pagate troppe.

La Repubblica 12.07.13