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“Il branco di Montalto assisterà donne maltrattate”, di Maria Novella De Luca

Rubarono il futuro a Maria in una notte di maggio di sette anni fa nella pineta di Montalto di Castro. Erano in otto, tutti minorenni, e la stuprarono a turno, senza pietà. Ieri per l’intero branco di violentatori, nel frattempo diventati maggiorenni, il tribunale per i minori di Roma ha disposto ancora una volta non la condanna, ma l’affidamento ai servizi sociali. Quella “messa in prova”, prevista dall’ordinamento minorile, già fallita una volta e revocata dalla Cassazione, perché proprio durante quel periodo di affidamento ai servizi sociali, uno dei violentatori era stato denunciato per stalking dalla fidanzata.
Ma l’esito ieri, nonostante le richieste di condanna a quattro anni per ognuno degli otto membri del branco avanzate dal pubblico ministero Carlo Paolella, è stato identico a quello del primo processo. Affidamento ai servizi sociali: i colpevoli, rei confessi di aver stuprato Maria (nome di fantasia) che nel 2007 aveva soltanto 15 anni, per circa un anno e mezzo dovranno “prestare servizio”, presso residenze per anziani e comunità. Ma anche, ed è un paradosso nel paradosso, dovrebbero essere utilizzati nei centri dove si rifugiano le donne maltrattate, le donne violentate, in fuga proprio da uomini che hanno compiuto i reati degli otto del branco. Si conclude cos ì una storia emblematica e triste, un processo infinito mai arrivato ad una sentenza e che adesso, se per i violentatori funzionerà la “messa in prova”, sarà annullato, estinto.
Come se nulla fosse accaduto quella notte, e poi negli anni seguenti, la dura battaglia di Agata, la madre di Maria, insieme ad un coraggioso e tenace gruppo di donne dell’Udi e alla consigliera comunale di Viterbo Daniela Bizzarri. Parla tra le lacrime Agata: «Sono più delusa che mai, non credo più nella giustizia italiana. Ogni giorno vengono violentate donne e ragazze, tutti gridano denunciate denunciate, ma poi per le vittime inizia il calvario mentre gli stupratori restano liberi. I giudici dicono: allora erano ragazzi, bisogna dargli una opportunità. E Maria allora? Non era quasi una bambina anche lei?». Aggiunge Agata: «Come mamma rifarei tutto dall’inizio, ma dopo sette anni di pianti non abbiamo ottenuto niente. Tra pochi mesi per loro sarà finito tutto, per noi la pena non finirà mai». E Agata racconta ancora. «L’avvocato mi ha detto che alcuni di loro andranno a “lavorare” nei centri per le donne maltrattate, come è possibile? ».
Commenta Teresa Manente, avvocato dell’associazione “Differenza donna”. «Stento a credere che un tribunale per i minori abbia pensato di inserire degli stupratori nei nostri centri, dove donne in grave pericolo di vita cercano di ritrovare se stesse…
Probabilmente c’è un equivoco. Ma questa messa in prova, per un delitto così grave come lo stupro di gruppo, paragonabile ad un tentato omicidio, dimostra ancora una volta quanto nei tribunali la violenza sessuale venga sottovalutata ». Di fronte a delitti così atroci, che distruggono e minano per sempre l’integrità di una persona, sottolinea Teresa Manente, «l’attenuante della giovinezza non dovrebbe esistere, oggi poi che gli aggressori sono tutti maggiorenni».
Ed è proprio questo per l’avvocato Giulia Bongiorno, ex presidente della commissione Giustizia della Camera, il vulnus più grave di molte vicende processuali. «In astratto difendo il principio della seconda prova per minorenni che compiono un reato, anche grave. Ma il vero problema è che la lunghezza dei processi, fa sì che la sanzione venga applicata a persone completamente diverse da quando hanno commesso il fatto. La messa in prova che può essere comprensibile per dei minorenni, può apparire incongruente per degli adulti… ». E Giulia Bongiorno ricorda quanto sarebbe importante ripartire dall’educazione, contro il sessismo e gli stereotipi.
Parla di una «decisione indegna », Lorenza Bonaccorsi del Pd, che annuncia una interrogazione parlamentare. Precisa invece l’avvocato Antonio Cardamone, difensore di uno degli otto stupratori: «Il tribunale dei minorenni ha applicato in maniera puntuale quello che è previsto dal processo minorile. Siamo in presenza di ragazzi che all’epoca avevano all’incirca 14 anni e penso che nessuno possa auspicare una detenzione carceraria. Hanno tutti chiesto scusa, hanno tutti dimostrato la loro resipiscenza, di più non si poteva fare». Chissà. Dice Agata: «Mai nessuno ha chiesto scusa, li ho visto soltanto ridere e scherzare». E Daniela Bizzarri, accanto a lei: «Maria doveva fare appello, opporsi, ma non ce la fa più. Dopo questa decisione quante donne rinunceranno a denunciare i loro aguzzini? ».

La Repubblica 12.07.13

“Il rebus delle tasse”, di Alessandro Santoro

I nuovi dati sull’evasione fiscale diffusi ieri dal governo durante l’audizione del viceministro Casero alla Commissione finanze della Camera non sono affatto sorprendenti. Quei dati fanno giustizia di alcune demagogiche semplificazioni che vengono fatte nel nostro Paese sulle cause dell’evasione fiscale. Procediamo con ordine. Secondo i dati diffusi dai quotidiani, dei circa 810 miliardi di ruoli emessi dal 2000 al 2012, meno di 70 miliardi sono stati effettivamente riscossi, mentre i rimanenti 730 miliardi sono stati «persi» in parte per provvedimenti di sgravio (legale) e, in parte, per mancata riscossione, per un importo superiore ai 500 miliardi di euro. È bene innanzitutto chiarire di cosa stiamo parlando.

Il ruolo non è altro che un elenco che contiene i nominativi dei debitori e le somme dovute al fisco. In sintesi, si tratta di imposte evase, nel senso lato del termine (perché l’evasione, in senso tecnico, può anche essere dovuta a dimenticanza o errore). Il ruolo viene trasmesso a Equitalia che ha il compito di provvedere alla riscossione. Tuttavia, tra l’emissione del ruolo e l’effettiva riscossione delle somme deve essere seguita un’articolata procedura. Ed è nelle diverse fasi del processo che si evidenziano i problemi. Innanzitutto, la cartella deve essere predisposta e notificata al debitore. Il che significa che il contribuente deve essere trovato. Sembra banale, ma non lo è. Se l’indirizzo è falso, se il debitore è sparito nel nulla o se non è facile capire chi egli sia nell’ ambito della società, la stessa notifica non sarà fattibile o sarà impugnabile. Senza contare che qualsiasi errore formale, dalle firme mancanti ai timbri non visibili, o può essere fatte valere per rendere la notifica non efficace.

Ma questo è solo il primo pezzo della storia. Una volta notificato il provvedimento, al debitore viene dato un certo tempo per pagare e, se non lo fa, si può avviare l’esecuzione forzata, ovvero la vendita all’asta dei suoi beni per ripagare il debito. Ma anche in questo caso non c’è nulla di automatico. Innanzitutto vi sono contribuenti che non sono in grado di pagare, magari perché nel frattempo sono falliti o comunque non hanno più un’attività economica. Non si pensi che questi fenomeni siano residuali: l’Italia è un Paese caratterizzato da un altissimo turn-over di attività economiche, e, mediamente, ogni anno tra il 10 e il 15% di soggetti fiscali muoiono e (in tempi normali) altrettanti ne nascono. E, in molti di questi casi, neppure l’esecuzione forzata cambia le cose, ad esempio quando non risultano titolari di alcun bene e hanno provveduto (nel frattempo o fin dall’inizio) ad intestarli a prestanome con i quali non hanno alcuna relazione formale.

Due sono le lezioni che dovremmo trarre da questi dati. La prima è che il nostro sistema produttivo e, di riflesso, fiscale, è troppo frastagliato, costituito da una miriade di attività economiche fragili, per le quali in alcune casi l’evasione è un sussidio occulto senza il quale non sono in grado di stare sul mercato. Anziché nascondersi dietro il paravento di formule equivoche quali l’«evasione da necessità» bisognerebbe lucidamente chiedersi se questa forma perversa di sussidiazione ha senso e, soprattutto, quanto sia illusoria e distorsiva la logica secondo cui bisognerebbe, anziché ridurre, aumentare ulteriormente la facilità di avvio di nuove attività economiche.

La seconda riguarda Equitalia e gli agenti della riscossione. Le cronache non hanno riportato l’evoluzione temporale del rapporto tra ruoli emessi e ruoli riscossi. Dalle relazioni della Corte dei Conti, però, sappiamo che in generale Equitalia, anche grazie al rafforzamento dei poteri di cui ha potuto godere, si è rivelata ben più efficiente dei riscossori privati (essenzialmente di origine bancaria) che agivano precedentemente. Questo (insufficiente) miglioramento è tuttavia coinciso con la crisi economica, e ha consentito ai «soliti noti» di nascondersi dietro chi aveva (e ha) dei reali problemi di liquidità. Al solito quando si parla di fisco, la nostra opinione pubblica (ahimé, anche quella di sinistra) è entrata in cortocircuito, ed Equitalia è diventata oggetto di attacchi di tutti i tipi, giustificati dall’idea assurda che migliorare la riscossione non sia un incentivo indispensabile per convincere gli evasori a non pagare. Ragionando in questo modo, le cose non potranno che peggiorare.

L’Unità 12.07.13

“Abolire subito il Porcellum”, di Gianluigi Pellegrino

Adesso più che mai l’abolizione del porcellum costituisce un’urgenza democratica. Un dovere costituzionale che un governo che si proclama di necessità per il bene del Paese deve avvertire come priorità assoluta. E che il Presidente della Repubblica dovrebbe cercare di imporre con ogni mezzo al vertice dell’agenda nazionale, perché un paese senza una praticabile legge elettorale è privo di effettiva agibilità democratica. Una regola legittima e riconosciuta dai cittadini non svolge la sua funzione solo in caso di elezioni, ma agisce ogni giorno come monito ed opportunit à
per tutti gli attori in campo. È la precondizione esistenziale di una democrazia: vitale come è per un corpo l’aria che si respira. Altrimenti è come un fiume rimasto senza fonte. Smette di scorrere, ristagna, imputridisce. Diventa pantano, buono solo per tafani, alligatori e, appunto, caimani.
Se questo è vero sempre, figuriamoci in questo desolante passaggio italiano dove un atto dovuto del vertice della giurisdizione ha scatenato una crisi politica e una ridda di ultimatum al governo. Ma ci troviamo a dover subire tutto perché tanto “finché c’è il porcellum…”. Così diventano possibili i più disparati ricatti che non sai se definire eversione o disperato folklore, ma anche la paralisi e i veti incrociati trovano il terreno più fertile. Tocchiamo così con mano che la riforma elettorale è la precondizione per la stessa ipotesi di una qualche efficacia dell’azione della legislatura: dal versante economico a quello delle vagheggiate riforme istituzionali si può coltivare un lumicino di speranza di un sussulto virtuoso delle larghe intese, solo se i partiti avvertono come un monito sempre possibile il ritorno all’esame dei cittadini. Se invece resta l’impedimento del porcellum è come pagare una tassa da paralisi decisionale ogni minuto che passa.
Ecco perché un governo coerente con quel che dice, dovrebbe oggi mettere la legge elettorale davanti a tutto. Lo si è voluto politico e non tecnico proprio per accelerare le mediazioni anche su questo fronte dove gruppi parlamentari e partiti sono fisiologicamente bloccati dal proprio calcolo particolare, come avviene del resto per la legge sul finanziamento. Scriva allora il governo una norma elettorale per collegi uninominali (come chiedono Pd e M5S) con un secondo turno nazionale per l’attribuzione del premio di maggioranza (come è più congeniale al Pdl), riservando una quota proporzionale come diritto di tribuna per le più piccole minoranze. Una norma semplice idonea a risolvere insieme gran parte dei problemi istituzionali e non sbilanciata a favore di nessuno. Un sistema che andrebbe bene persino ove dovesse passare il presidenzialismo.
La scriva il governo e la porti di urgenza alle camere; chi si oppone se ne assume la responsabilità e ogni relativa conseguenza. Se invece come è doveroso la norma elettorale passa non c’è nessun automatismo che porti solo per questo al voto anticipato. Anzi il consiglio d’Europa raccomanda che le riforme elettorali siano sganciate e il più possibile lontane dall’appuntamento con le urne. Ciò che soltanto cambierebbe è che il governo resterebbe in piedi sino a quando ha benzina nel motore ed è davvero utile per il paese.
Per questo Letta deve farlo, se è vero che non vuole tirare a campare. E lo dovrebbe pretendere il Pd se non vuole confermare nei suoi elettori l’amara sensazione che l’intesa con il Pdl stia cambiando natura; da coabitazione provvisoria necessaria per il paese, a sodalizio politico per i più retrivi interessi di bottega.

La Repubblica 12.07.13

“Commemorazione del genocidio di Srebrenica”, di Marina Sereni

E’ con profonda emozione che porgo il benvenuto, a nome della Camera dei deputati, ai promotori di questa commemorazione delle vittime del genocidio di Srebrenica, avvenuto nel luglio di diciotto anni fa.
Ringrazio, in particolare, il collega Mario Caruso, il presidente Casini, l’ambasciatore Nerkez Arifhodzic, il prof. Antonello Biagini ed il prof. Francesco Guida che hanno deciso di accogliere l’invito a partecipare a questa iniziativa, moderata dallo scrittore e giornalista Guido Rampoldi, che tutti noi conosciamo per la qualità dei suoi saggi e delle sue opere letterarie.
Sono altresì grata all’attrice italo-bosniaca Nela Lučić che animerà questo incontro con la lettura di alcuni brani del grande drammaturgo bosniaco Abdullah Sidran, il più grande poeta e scrittore bosniaco, conosciuto anche in Italia per avere sceneggiato alcuni tra i più bei film di Emir Kusturica.
Esprimo inoltre il mio più profondo apprezzamento per la scelta di “fare memoria” della tragedia del luglio 1995 anche attraverso la presentazione di alcune struggenti opere del maestro Safet Zec che ha dedicato un suggestivo ciclo pittorico alla tragedia di Srebrenica.
Ricordare oggi quelle vittime significa non solo ascoltare le storie dei sopravvissuti ma interpellare le nostre coscienze affinché tutte le stragi dei Balcani, i dieci anni di guerre, le centinaia di migliaia di morti non divengano ricordi sbiaditi nella storia e nella memoria europee.
Il genocidio di Srebrenica è forse una delle incarnazioni più radicali ed eclatanti di quella che Hannah Arendt definiva “la banalità del male” che “può invadere e devastare tutto il mondo perché cresce in superficie come un fungo”.
Il dramma dei conflitti della ex Iugoslavia ha, infatti, riproposto in tutta la sua emblematicità le ragioni di quella riflessione sulle “incertezze dei diritti umani”, sulla grande aporia della cittadinanza moderna che si rivela drammaticamente attuale di fronte alla tutela delle minoranze, degli apolidi e dei migranti dei nostri giorni.
Esattamente venti anni fa iniziava il lungo e terribile assedio di Sarajevo. Ho di quegli anni molti ricordi personali, legati alla mia militanza nel movimento per la pace umbro e nazionale. Ricordo una carovana di pacifisti italiani ed europei che concludemmo proprio a Sarajevo con un grande meeting per chiedere alla comunità internazionale di prevenire la guerra, di sostenere quelle forze che allora tenacemente e testardamente sceglievano il dialogo e la nonviolenza. Purtroppo restarono inascoltate e l’Europa ha conosciuto di nuovo una guerra, terribile e crudele.
Proprio Abdulah Sidran, che ho prima citato, si è recentemente domandato cosa abbia significato l’assedio della capitale bosniaca, come abbia modellato la Storia quella tragica vicenda di morti e di privazioni. “La mia generazione – ha scritto il grande intellettuale bosniaco – resistendo al nazionalismo serbo, lottando in nome di una società multiculturale, ha conservato un volto, una forma ed un discorso. Quella dell’assedio fu una conoscenza dalle origini, essenziale. Fu una prova e una maturità. Fu la ragione contro i mostri. La lotta tra il Bene ed il Male è iniziata sulle mura di Sarajevo! Venti anni fa!”.
A fronte delle tremende responsabilità delle élites balcaniche dell’epoca, anche le classi dirigenti dell’Europa comunitaria non seppero affrontare quella lacerante tragedia di popoli e di società, poiché furono prigioniere di un catastrofico errore di valutazione, che riconduceva il processo di allargamento del progetto comunitario ad Est ad un incontro tra la “vecchia” Europa, occidentale, comunitaria ed atlantica ed una “nuova” Europa, orientale ed ex comunista.
Non esiste invece nessuna “nuova Europa”.
Esiste, più semplicemente, un’”altra Europa”, insieme laica e credente, cattolica ed ortodossa, ebraica e mussulmana, che è sempre stata parte integrante del nostro continente.
Perciò riunificare l’Europa significa riconciliare il Continente con se stesso. La riconciliazione vive oggi una sua dimensione pratica, quotidiana, rassicurante: gli imprenditori dei paesi della ex Iugoslavia riprendono a collaborare tra loro, gli editori croati partecipano alle fiere del libro di Belgrado, le nazionali di calcio giocano l’una contro l’altra: a questi sforzi si aggiunge un nuovo spirito di riconciliazione che sembra animare anche i nuovi leader politici dell’area.
Sappiamo però dall’esperienza maturata in altri contesti post-bellici che questi gesti sono destinati a rimanere delle dimostrazioni di buona volontà, piuttosto che segni intenzionali di mutamento, se non vengono sorretti da programmi istituzionali di riconciliazione, i cui fondamenti vanno ricercati nella giustizia.
Ma non vi può essere giustizia senza verità.
E’ il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, a ricordarci la drammatica eredità delle guerre nei Balcani: mentre il peso del passato continua a impedire la riconciliazione, ci sono ancora più di 12 mila persone disperse, 423 mila rifugiati che non possono tornare alle loro case, circa 20 mila apolidi o che rischiano di divenirlo e almeno 20 mila donne vittime di violenza sessuale che hanno ancora bisogno di sostegno.
Il commissario Muiznieks ha recentemente ribadito l’importanza di tutte le azioni giudiziarie volte a perseguire gli autori dei tanti crimini commessi in quegli anni e di tutte le iniziative che aiutino le popolazioni a scoprire ed a comprendere la verità su quanto è accaduto e il ruolo essenziale che ha il dialogo tra gli Stati.
In questa prospettiva i Parlamenti possono svolgere un ruolo decisivo: in quanto luoghi della rappresentanza e del confronto tra le diverse istanze della società civile, le Assemblee costituiscono infatti la sede più idonea per la gestione dei processi di pacificazione e di riconciliazione nazionale, assolutamente necessari affinché le ferite degli anni Novanta possano definitivamente rimarginarsi.
Con l’adesione della Croazia all’Unione, la carta geografica della costruzione comunitaria incorpora ora una vasta area grigia, nel cuore dei Balcani. Al pari di altri paesi dei Balcani occidentali, la Bosnia-Erzegovina, rimane sospesa in un limbo, paralizzata dalla crisi economica, dalla disoccupazione e da un debole contesto normativo.
Malgrado questo, la Bosnia-Erzegovina vive oggi una stagione politica e sociale di rinnovamento e di progresso che fa ben sperare nell’accelerazione del processo di adesione all’Unione europea, come peraltro ha già auspicato l’8 luglio scorso il presidente croato Josipovic nella sua visita ufficiale a Sarajevo: non a caso egli ha definito l’adesione bosniaca una “scelta voluta e naturale” che conferma come la stabilità rappresenti un interesse vitale per Zagabria.
Nei prossimi mesi il Governo di Sarajevo sarà chiamato ad adottare alcune decisioni assai delicate in relazioni al mantenimento di un assetto democratico e pluralista: mi riferisco alla spinosa questione del censimento della popolazione ed alla risoluzione della questione relativa alla condizione di minorità in cui versano i cosiddetti ostali, “gli altri”, o meglio “i rimanenti”, quella parte della popolazione che non si ascrive a nessuna delle tre nazionalità costitutive della Bosnia-Erzegovina (i serbi, i croati e i bosniaci musulmani), e che sono attualmente discriminati nell’assunzione di cariche istituzionali.
Vorrei richiamare a tale proposito, ricordando ancora la lezione di Hannah Arendt, come lo status giuridico degli “ostali” bosniaci – al pari di quello che ha riguardato altre situazioni analoghe che hanno tristemente attraversato l’Europa dei tragici anni Trenta e Quaranta, sia il terreno sul quale si misura l’effettiva vigenza del primo e più importante dei diritti umani: “il diritto di avere diritti”.
Concludo, riaffermando il pieno sostegno del Parlamento italiano alla democrazia bosniaca, che sorge dalla consapevolezza, condivisa da tutte le forze politiche italiane e ribadita dal Capo dello Stato in occasione dell’ingresso della Croazia nell’UE, che il nostro Paese possa fornire un importante contributo per aggiornare la road map delineata nel vertice europeo di Salonicco di dieci anni fa, per una piena integrazione di tutti gli Stati dei Balcani occidentali nella costruzione europea.

“Se le aziende diventano prede”, di Patrizio Bianchi

La vendita di Loro Piana alla multinazionale del lusso Lvmh ha coinciso con l’ulteriore declassamento da parte di Standard and Poor’s del debito pubblico italiano. L’acquisto è testimonianza del complesso riordino delle attività produttive. Si tratta di un riordino che si sta realizzando in Europa a dodici anni dall’entrata dell’Euro e a quindici anni di avvio di quel fenomeno di globalizzazione che ha ridisegnato la mappa dei vantaggi competitivi a livello mondiale. I nostri punti di forza sono dati da circa 5000 medie imprese famigliari, che hanno affrontato la nuova fase specializzandosi sempre di più in beni di consumo di alta qualità e in beni di investimento sempre più personalizzati per clienti, che sono a loro volta imprese, che si muovono a livello globale.

Le imprese, che hanno seguito coerentemente la via del riposizionamento sui nuovi mercati globali, hanno progressivamente aumentato la loro quota di produzione all’estero e progressivamente si sono integrate a li- vello mondiale in circuiti di mercato in cre- scita. Ad esempio i nostri produttori di mac- chine per il packaging dei beni alimentari e farmaceutici, di macchine per produrre pa- sta e cuscus, di macchine per produrre pia- strelle hanno continuato la loro crescita an- che negli anni più bui, perché la crescita del-

e imprese cinesi, indiane, brasiliane richie- devano le nostre macchine, tanto che le esportazioni meccaniche dal 2004 al 2010 crescono da un terzo a due terzi del totale del nostro export. Contemporaneamente proprio la crescita accelerata di quei paesi determina lo sviluppo dei segmenti di merca- to dei beni di lusso, che prima sui mercati interni erano nicchie esclusive, ma che ora sul mercato globale diventano mercati di grandi volumi, con bisogni di reti distributi- ve di estensione crescente, con il rincorrersi delle stesse grandi firme da New York a Shangai.

Qui cresce la contraddizione e si eviden- ziano i punti di debolezza della nostra indu- stria. La prima contraddizione è che nel frat- tempo il mercato interno è sempre più de- presso ed a forza di manovre di risanamento l’encefalogramma della domanda interna è sempre più piatto, con la conseguenza di una frattura sempre più netta fra le imprese che sono già riuscite nel salto nell’iperspazio del mercato globale, e quelle invece rimaste incagliate nella palude del mercato interno. Il secondo elemento di preoccupazione è ap- punto che le imprese che si sono inserite nel mercato globale – quelle 5000 sopra indica- te – in questi anni si sono sempre più integra- te in circuiti internazionali, in cui le nostre imprese migliori realizzano le parti finali dei cicli produttivi, ma le grandi multinazionali controllano sempre più le fasi di distribuzio- ne finale di questi beni, proprio perché han- no massa critica e risorse finanziarie adegua- te a sostenere reti di vendita e reti logistiche di dimensione globali. Qui le nostre imprese dimostrano tutti i limiti della loro dimensio- ne – che è punto di forza in termini di qualità dei prodotti e di controllo dei processi, ma è un vincolo, proprio nelle fasi di crescita e di

riposizionamento sul mercato mondiale, co- sì come in vincoli si trasformano la stessa proprietà famigliare e la stessa struttura bancaria italiana, storicamente più attente al mantenimento del controllo che alle pro- spettive di rapida crescita delle imprese. Quindi un paese il nostro con imprese dina- miche, ma nel complesso un paese, come ci testimonia oggi il duro giudizio di Standard and Poor’s, considerato anche ben poco affi- dabile. E quindi le nostre imprese famigliari più dinamiche, proprio perché isolate nel contesto locale paludoso e molto esposte a livello internazionale, ottime nella produzio- ne, ma fragili nella distribuzione, diventano prede sicure per i gruppi che invece, con l’as- sistenza dei rispettivi sistemi bancari, voglio- no muoversi sul grande mercato globale.

Su questa considerazione si aprono spazi notevoli per una politica industriale, che vo- glia finalmente orientarsi alla crescita. Biso- gna lavorare sull’ampliamento del numero di operatori in grado di muoversi, in modo coordinato, su livelli di alta qualità a livello globale,ma anche sulla capacità di attrarre e radicare qui imprese multinazionali, che vo- gliano investire in qualità e innovatività del- le produzioni, ma su questo ambito bisogna investire di più in scuola e formazione pro- fessionale, perché la chiave per rendere sta- bili e solide le basi industriali sono nella ca- pacità di investire nelle persone e nelle loro competenze. Così, bisogna affrontare il te- ma stesso della crescita delle nostre impre- se, per spingerle a disporre di quelle masse critiche necessarie alla crescita in economia aperta. Ma per tutto questo bisogna che an- che il mercato interno riprenda, per non con- dannarci alla schizofrenia di un paese che deve guardare lontano, per non vedere la pa- lude ai nostri piedi.

Il testo di riforma del 416ter è adottato all’unanimità dalla commissione giustizia della camera. Un primo impegno concreto contro la corruzione. Ora il voto alla camera

270.000 cittadini hanno chiesto a gran voce la riforma del 416 ter e il testo definitivo è stato appena adottato all’unanimità dalla Commissione Giustizia della Camera. Dal 15 luglio si vota in Aula. Si tratta di un importante segnale che dimostra la volontà politica di intervenire su questa norma cruciale per la lotta alla corruzione in Italia, rispondendo all’istanza della società civile. Dopo 6 mesi di lavoro, finalmente abbiamo un testo definitivo. Merito di una mobilitazione popolare, che per la prima volta e con mezzi innovativi ha dialogato in modo costruttivo con i parlamentari sui temi della corruzione, merito del lavoro dell’intergruppo dei Braccialetti bianchi, i parlamentari di tutti i partiti che da subito hanno sposato la causa. E merito dei relatori in Commissione, Dambruoso (Scelta Civica) e Mattiello (PD), che hanno saputo andare avanti sulla via dell’accordo.

Il testo che verrà sottoposto alla discussione e votazione della Camera recita:

Chiunque accetta consapevolmente il procacciamento di voti con le modalità previste dal terzo comma dell art 416 bis in cambio dell’erogazione di denaro o di altra utilita è punito con la reclusione da 4 a 10 anni.La stessa pena si applica a Chi procaccia voti con le modalità indicate al comma precedente.

Innanzitutto si introduce il concetto di “altra utilità” richiesto da Riparte il futuro. L’intera formulazione permette poi di tipizzare meglio il comportamento specifico del politico che scende a patti con la criminalità organizzata per ottenere voti. Inoltre con il secondo comma è aggravata la pena inflitta al mafioso che si presta a procacciare voti a favore del politico. In riferimento alla frase “Chiunque accetta consapevolmente”, il verbo “accettare”deve essere interpretato intendendo sì il ruolo passivo, ma anche l’atto volontario e attivo del politico corrotto.
Un testo insomma non ancora impeccabile ma che rappresenta un enorme passo in avanti, a cui dovranno seguirne altri: il Paese chiede un segno chiaro e forte contro la corruzione e non è disposto ad accettare ritardi e vaghezza.

In attesa del voto alla Camera – che sarà palese come assicurato dalla Presidente Laura Boldrini – chiediamo a tutti di sostenere la campagna, invitando alla firma e diffondendo la voce il più possibile.
In un periodo così incerto e talvolta scoraggiante, Riparte il futuro ha aperto una strada di possibilità, contro un problema che da troppo tempo devasta il nostro paese nella semi-indifferenza di tutti.

www.riparteilfuturo.it

“La necessità di separare due destini”, di Luigi La Spina

La ventennale parabola politica di Silvio Berlusconi rischia di chiudersi nel modo peggiore. Non tanto e non solo per lui, se a fine mese la Corte di Cassazione confermerà la sentenza di condanna a quattro anni e la sua interdizione perpetua dai pubblici uffici, ma quel verdetto potrebbe trascinare l’Italia in una grave crisi politica e istituzionale.
Tutti i tentativi fatti, finora, per separare le vicende giudiziarie del Cavaliere dai destini del governo, dalle sorti della nostra economia e della nostra finanza, ma soprattutto dalle normali e corrette relazioni tra i fondamentali poteri dello Stato potrebbero dimostrarsi vani. La giornata di ieri, confusa e convulsa nelle aule del Parlamento e sulla piazza di Montecitorio, ma chiara, invece, nel suo preoccupante significato politico, ha annunciato, con la massima evidenza, l’accelerazione di un pericoloso smarrimento delle regole elementari sulle quali si basa una democrazia. Uno smarrimento che è cominciato da anni, che è proseguito con una colpevole assuefazione, sia da parte della classe politica, sia dall’opinione pubblica e che potrebbe portare a gravi conseguenze sul futuro del nostro Paese.

La richiesta del Pdl di sospendere per tre giorni i lavori del Parlamento, in segno di protesta per la fissazione della data in cui la Corte dovrà decidere la sorte giudiziaria di Berlusconi, non ha una giustificazione tecnico-giuridica, rappresenta una pesante minaccia nei confronti della serenità con la quale i giudici dovranno valutare le carte del processo, ma stabilisce anche un inaccettabile collegamento tra i destini di una persona e quelli della più importante istituzione politica dello Stato, quella che rappresenta la sovranità popolare. La limitazione temporale al solo pomeriggio di ieri, consentita da un voto al quale si è unito pure il Pd, non può cambiare il giudizio, perchè così si colpisce un principio fondamentale sul quale si regge l’equilibrio dei rapporti tra istituzioni e che non può essere calcolato a ore o a giorni, nè condizionato da compromessi per salvare un governo.

È giusto che si chieda alla Cassazione di osservare quella legge che impone di impedire le prescrizioni, in tutti i processi, non solo quando l’imputato è il Cavaliere, ma è paradossale e sintomo di debolezza nelle convinzioni di innocenza che si punti non alla rapidità di un verdetto, ma a una soluzione che non chiarisca da quale parte sia la ragione. Comprensibile, pure, che Berlusconi e il suo partito diffidino dell’imparzialità del tribunale di Milano, ma un simile sospetto non può certo toccare quella Corte che ha già dimostrato, più volte, di esprimere valutazioni del tutto diverse dalle sentenze di quei magistrati. Se, poi, si coinvolgesse tutta la magistratura italiana in un fantomatico e improbabile complotto contro il principale leader della destra, non si capirebbe come il più volte capo del governo italiano abbia accettato di ricoprire una delle più alte cariche di uno Stato a cui sarebbe mancato un principio fondamentale per essere giudicato una democrazia.

Né le lotte interne tra «falchi» e «colombe» nel partito di Berlusconi, nè le dispute nel Pd tra l’attuale dirigenza e le scalpitanti truppe di Renzi, ma neanche le conseguenze sul precario accordo di larghe intese sul quale si regge il ministero Letta possono confondere al tal punto le idee sullo stravolgimento di alcune regole basilari della nostra Repubblica, il cui rispetto non costituisce un ipocrita formalismo, ma l’indispensabile condizione per cui la lotta politica non degeneri in uno scontro civile. Le dosi omeopatiche di cloroformio sulla sensibilità democratica immesse nella vita pubblica italiana in questi anni stanno arrivando a compromettere la coscienza della nazione in modo assai allarmante e la sentenza su Berlusconi del 30 luglio rischia di svelare, in un drammatico finale d’atto, i guasti che troppe compiacenze, troppi compromessi, troppe sottovalutazioni hanno prodotto nella società italiana.

Da vent’anni la giustizia di questo Paese, che dovrebbe essere profondamente riformata, sia per le lentezze delle sue procedure, sia per le incertezze di un diritto troppo esposto a eccessive discrezionalità da parte dei magistrati, viene condizionata, invece, dai verdetti su Berlusconi e le leggi che il Parlamento emana in questo campo vengono valutate solo per le conseguenze che possono avere sulle sue sorti giudiziarie. Ora, il rischio è di affidare alla Cassazione non la sentenza su un leader politico, ma la sorte di un governo che molto faticosamente sta cercando di far uscire l’Italia da una pesante crisi economica e occupazionale, l’andamento della finanza pubblica e, magari, le possibilità di un civile confronto politico. Un destino che non è compito di una Corte di giustizia determinare e che, forse, l’Italia e gli italiani non meritano.

La Stampa 11.07.13