attualità, politica italiana

“Un atto di viltà”, di Massimo Giannini

C’è uno scandalo politico da illuminare, nella linea d’ombra che attraversa gli Stati e gli apparati, la diplomazia e la burocrazia, i diritti e gli affari. Solo in Italia può succedere che cittadini stranieri, ma domiciliati qui, possano essere «sequestrati» in gran segreto dalle autorità di sicurezza e rispediti nel Paese di provenienza, dove si pratica abitualmente la tortura.
Solo in Italia può accadere che questi cittadini siano rispettivamente la
moglie e la figlia minorenne di un noto dissidente del Kazakistan, rimpatriati
a forza con il pretesto di un passaporto falso per fare un «favore» a un
premier «amico» come Nazarbayev, con il quale si fa business ma del quale si
parla come di un dittatore violento e senza scrupoli. Solo in Italia può
avvenire che un simile strappo alle regole dei codici nazionali e
internazionali sia scaricato, tutto intero, sulle spalle dei funzionari della
pubblica amministrazione, mentre i ministri del governo della Repubblica si
lavano serenamente le mani e le coscienze. Perché questo è, alla fine, il
comunicato con il quale Palazzo Chigi prova a chiudere l’oscuro caso Ablyazov-
Shalabayeva: un atto di viltà politica e di inciviltà giuridica, che invece di
ridimensionare lo scandalo, lo ingigantisce.
Il testo, redatto alla fine di un vertice tra il presidente del consiglio Letta
e i ministri Alfano, Bonino e Cancellieri, è un concentrato di buone intenzioni
e di clamorose contraddizioni. Chiarisce che le procedure che hanno portato all’
espulsione di Alma Shalabayeva e della sua figlioletta di sei anni sono state
assolutamente regolari sul piano formale. Trasferisce sulla Questura di Roma e
sulla Digos la colpa «grave» di non aver comunicato ai vertici del governo e ai
ministri competenti «l’esistenza e l’andamento delle procedure di espulsione».
Riconosce l’errore, revoca il provvedimento e si premura di verificare «le
condizioni di soggiorno della donna» ora detenuta nella capitale kazaka,
auspicando che possa al più presto «rientrare in Italia per chiarire la propria
posizione».
Il cortocircuito è evidente: si prova a coprire questa vergognosa “rendition
all’amatriciana”, ma di fatto si sconfessa senza ammetterlo l’operato di
Alfano, che ne aveva negato l’esistenza. Sommerso dalle critiche internazionali
e dalle polemiche interne, l’esecutivo prova a dire l’indicibile all’opinione
pubblica: di questa vicenda non sapevamo niente, ha fatto tutto la polizia
senza avvertirci, ma ha fatto tutto secondo le regole, e nonostante questo ci
rimangiamo l’espulsione. Un capolavoro di ipocrisia pilatesca, che non regge
alla prova dei fatti e meno che mai a quella dei misfatti. Basta ricapitolarli,
e incrociarli con le spiegazioni farfugliate in queste settimane dai ministri,
per rendersi conto che la linea difensiva non tiene. Le domande senza risposta
sono tante, troppe, per non chiamare in causa direttamente il vicepremier e
responsabile del Viminale Angelino Alfano, e in subordine le “colleghe” Bonino
e Cancellieri.
Come si può credere che la Digos organizzi di propria iniziativa un blitz
imponente, che nella notte tra il 28 e 29 maggio impegna non meno di 50 uomini,
per arrestare Muktar Ablyazov, «pericoloso» oppositore del regime kazako di
Nursultan Nazarbayev, inseguito da «quattro ordini di cattura
internazionale» (in realtà ne risulta uno solo)? Come si può credere che la
Questura di Roma e poi il prefetto decidano di propria iniziativa il decreto di
espulsione a carico della moglie del dissidente Alma, per poi trasferirla
insieme alla figlia Alua al centro di accoglienza e infine imbarcarla su un
aereo per il Kazakistan con il pretesto di un passaporto della Repubblica
centrafricana falso (che in realtà si rivelerà autentico)?
Pensare che un affare di questa portata politica, che va palesemente al di là
della dimensione della pubblica sicurezza, possa esser stato gestito in totale
autonomia dal capo della Digos Lamberto Giannini e dal dirigente dell’ufficio
Immigrazione Maurizio Improta, è un’offesa al buonsenso e alla dignità delle
istituzioni. Eppure è quello che si legge ora nel comunicato di Palazzo Chigi.
I fatti si sono svolti ormai quasi un mese e mezzo fa. Da allora, i ministri
coinvolti hanno taciuto, e manzonianamente troncato e sopito.
Dov’era Alfano, mentre per ragioni ignote si rispedivano nelle mani di un
governo accusato da Amnesty International di «uso regolare della tortura e dei
maltrattamenti» le familiari di un dissidente che vive tuttora in esilio a
Londra? Dov’era Alfano, mentre l’ambasciatore kazako Andrian Yelemessov
tempestava il Viminale di telefonate, per sollecitare l’operazione di polizia
poi consclusa con l’arresto di Alma e Alua? Dov’era la Bonino, giustamente
sempre così attenta ai diritti umani, mentre un aereo messo a disposizione dalla stessa ambasciata kazaka imbarcava madre e figlia a Ciampino, per ricacciarle nell’inferno di Astana? Dov’era la Bonino, mentre il Financial Times e i giornali internazionali denunciavano su tutte le prime pagine lo scandalo
di una doppia «deportazione» che viola apertamente la Convenzione del 1951 sui
rifugiati politici?
A queste domande non c’è risposta, se non l’omertoso comunicato ufficiale. I
ministri coinvolti non sentano il dovere di assumersi uno straccio di
responsabilità.
«Non sapevamo», dicono, mentendo e ignorando che in politica esiste sempre e
comunque una responsabilità oggettiva, e che la politica impone sempre e
comunque doveri precisi connessi alla funzione. Non sentono il dovere di
rendere conto, e di spiegare chi e perché ha esercitato pressioni, e chi a
quelle pressioni ha ceduto, in una notte della Repubblica che ricorda alla
lontana un’altra notte del 2010, alla Questura di Milano, quando un presidente
del Consiglio chiedeva per telefono ai funzionari presenti di rilasciare una
ragazza perché era «nipote di Mubarak». Chi ha telefonato a chi, questa volta?
E con quale altra ridicola scusa di «parentela eccellente » ha trasformato un’
operazione di polizia contro un rifugiato politico in un gesto di cortesia a
favore di un despota asiatico ricchissimo di gas e petrolio, a suo tempo in
amicizia con il Berlusconi premier e tuttora in affari con il Berlusconi
imprenditore?
Altrove, per molto meno, saltano teste e poltrone. In Italia, com’è evidente,
non funziona così. Sul piano etico, il minimo che si può chiedere è che a
quella madre e a quella figlia, purtroppo cacciate con il fattivo contributo
delle nostre autorità, sia restituito il diritto di tornare nel Paese in cui
avevano deciso di vivere. Sul piano politico, il massimo che si deve pretendere
è che chi ha sbagliato, chi ha mentito, o anche solo chi ha taciuto, ne
risponda di fronte all’Italia e agli italiani.

La Repubblica 13.07.13