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“L’anestesia del cuore che ci rende insensibili”, di Adriano Sofri

Nessun uomo è un’isola. Nessuna isola è un’isola. Anche la parabola del buon samaritano può essere raccontata di nuovo al passaggio da una strada di periferia a una strada d’acqua: “Donne e uomini, bambini e vecchi salivano dalla costa libica a Lampedusa, e i briganti li depredarono e li lasciarono mezzo morti in mezzo al mare. Una motovedetta maltese passava di lì, e allargò la rotta”.
“Anche una nave da diporto passava, e virò di bordo. Ma un peschereccio che tirava le reti li vide, e ne ebbe pietà…”. Interrompo la parafrasi grossolana, per non arrivare al punto in cui il ferito viene affidato alla locanda dal samaritano che paga di tasca sua, e parafrasare la locanda con un Centro di identificazione ed espulsione, in cui incarcerarli per sei mesi rinnovabili, per il reato di esser nati altrove — a Samaria, forse.
Lo scorso 23 giugno, quando all’ultimo momento il papa Francesco si tenne alla larga dal concerto per l’Anno della fede, adducendo “impegni improrogabili”, si mormorò che non volesse fare incontri impropri: chissà. Chissà se davvero abbia pronunciato la frase che gli è stata attribuita: “Io non sono un principe rinascimentale”. Frase singolarmente pregnante, in una situazione della curia che può ricordare i fasti e i nefasti di quel periodo meraviglioso, e che soprattutto richiamava involontariamente i cinquecent’anni dalla scrittura del Principe di Machiavelli. In questi giorni c’è stata una imprevedibile cadenza di inviti avanzati e disdetti, che ha coinvolto istituzioni civili, religiose, automobilistiche, e poi il desiderio del papa di non essere accompagnato nel suo pellegrinaggio da autorità politiche, a parte la signora sindaco dell’isola generosa. Devono essere segni dei tempi. Il papa Francesco ha confidato gran parte della propria entrata in scena ai gesti, gli improvvisati e i meditati. Il più meditato era questo: dove fare il primo viaggio. Ammesso che uno di noi si fosse messo nei panni del papa che prendeva la sua decisione (si può fare: quel Machiavelli lo scrisse addirittura tre volte in una sola lettera, di cui contava che fosse fatta leggere al papa di allora, “Se io fussi il papa…”; e prima Cecco, “s’ i fosse papa, allor sarei giocondo, ché tutt’i cristiani imbrigarei”), ecco, non ne avremmo trovata una più significativa e commovente di questa, di andare a Lampedusa. In un bellissimo mare d’estate, mutato da troppi anni nel cimitero d’acqua dei disperati e di chi ha voluto nonostante tutto sperare, e nel deserto d’acqua delle traversate dei superstiti. Il gesto primo era la corona deposta su quel mare, con la richiesta di perdono, incontro agli altri che arrivavano fortunosamente. Lo aspettavano, dei vivi, gli sbarcati, i pescatori e gli altri marinai impegnati a soccorrere la migrazione, e gli abitanti dell’isola vagheggiata come un ponte d’azzardo verso l’Europa. E poiché la gran parte di quelli che vengono dalla costa africana sono musulmani, la visita è stata anche una Ratisbona sui generis.
Ipersensibili ai gesti e ai simboli, le cronache si sono saziate dello zucchetto al vento, della motovedetta della Guardia Costiera, della papamobile sostituita da una campagnola presa in prestito (appena dopo aver deplorato i preti con le macchine ultimo modello: ci sarà una gran rottamazione…), di saluti e carezze nella lingua universale del Mediterraneo, del pastorale a croce fatto dei pezzi di legno colorato delle barche dei migranti, di tutto ciò che appartiene alla vita quotidiana e fa effetto di straordinario dopo tante cattive abitudini di etichetta e protocollo, e insinua perfino un sospetto di demagogia. Come presentarsi da un balcone molto alto, e dire: Buonasera.
Ma le parole erano altrettanto importanti, e anch’esse sono suonate tanto più straordinarie quanto più normali, a cominciare dal “Dio ci giudicherà in base a come abbiamo trattato i più bisognosi” consegnato al twitter Pontifex. Non solo Dio, del resto. Si può voltarlo, il twitter: “I bisognosi ci giudicheranno in base a come li abbiamo trattati”. Dice anche, il papa, che toccare la carne di chi soffre è come toccare Cristo.
“Anche la vita di Francesco d’Assisi è cambiata quando ha abbracciato il lebbroso perché ha toccato il Dio vivo”. Anche questo pensiero, questa esperienza, sa stare in piedi per sé, e una vita può essere cambiata quando si abbracci un lebbroso perché si è abbracciato un lebbroso. Era stato il parroco dell’isola a invitare il papa, il mese scorso. “Quando alcune settimane fa ho appreso questa notizia, che purtroppo tante volte si è ripetuta, il pensiero vi è tornato continuamente come una spina nel cuore che porta sofferenza. E allora ho sentito che dovevo venire qui oggi a pregare, a compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta, non si ripeta per favore”. Francesco predilige un tono affabile, come questo “per favore”, come la descrizione della meta cui tendono i migranti, “persone in viaggio verso qualcosa di migliore”. Ricorda i richiami di Dio ad Adamo, “Dove sei, Adamo?” e a Caino, “Dov’è tuo fratello?”, e toglie alla tragedia degli annegati il segno della sventura ineluttabile per assimilarla all’omissione di soccorso e, anzi, all’omicidio. “Tanti di noi,
mi includo anch’io, siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri”. Parola di naviganti, “disorientato”, di chi ha perso il suo oriente, della “anestesia del cuore”, della “globalizzazione dell’indifferenza”. “Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io. Ma Dio chiede a ciascuno di noi: ‘Dov’è il sangue di tuo fratello che grida fino a me?’. La cultura del benessere… ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla…”. Abbiamo dimenticato come si fa a piangere per la pena degli altri e la nostra indifferenza, dice, e ha cura di usare il “noi” che lo chiama in correità, salvo abbandonarlo per la terza persona plurale dei “trafficanti, quelli che sfruttano la povertà degli altri”, e “coloro che nell’anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada a drammi come questo”. Coloro, i pescicani umani piccoli e grossi, hanno già in uggia la mania (lieta, del resto, non lugubre né vittimista) di questo gesuita infrancescato per la semplicità e i poveri. Si sentivano al riparo della distinzione fra quel che è di Cesare e quel che è di Dio. I non credenti, o i credenti a loro modo, hanno però altrettante buone ragioni per temere il giudizio dei bisognosi e per abbracciare i lebbrosi. Che Cesare e i suoi impiegati non possono perseguitare o disprezzare se non tradendo se stessi, oltre che il loro Dio. Per non dire di Gesù, quel famoso pauperista.

La Repubblica 09.07.13

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“Il messaggio è più forte dello strumento”, di GIANNI RIOTTA

In pochi mesi, con pochi gesti e parole, Papa Francesco ha rivoluzionato il nostro modo – decrepito – di studiare la comunicazione. Da decenni eravamo grippati sul motto, spiritoso e vacuo, dell’ex critico letterario Marshall McLuhan, diventato studioso dei media: «Il mezzo è il messaggio», persuasi che il «mezzo», tv, giornale, radio o web, determinasse la natura profonda del messaggio.

Era un’incongruenza, specialmente nell’era ubiqua della comunicazione web, eppure la formula magica accecava teorici e pubblico, ipnotizzandoli sul «mezzo», la tecnologia corrente, e rendendoli distratti, indifferenti, al «messaggio».

Papa Bergoglio ha compreso una verità che è insieme evangelica e filosofica: nel mondo dell’online 24 ore su 24 non è più lo strumento, ormai onnipotente e onnipresente, a contare. Ciascuno, cittadino o istituzione, artigiano o azienda monopolista, ha accesso al web, ma perché un messaggio risalti nel rumore di fondo assordante deve avere una sua verità, un significato. Come Gesù, serve parlare la lingua di tutti e in essa intrecciare i valori. Papa Wojtyla comunicava con la virilità del profeta che nella vita s’era scontrato con il totalitarismo e il consumismo. Papa Ratzinger è un intellettuale, professore adorato dagli studenti prima del 1968, in evidente disagio al ritmo ossessivo dei media.

Papa Francesco ha la felicità di comunicare in diretta mondiale come predicasse in parrocchia a Buenos Aires, di twittare come al catechismo dei ragazzi (e dovrebbe cambiare handle twitter, @pontifex troppo ieratica per lui), di andare sui giornali come se fossero bollettino di quartiere. La sua comunicazione incanta fedeli e no, «funziona» come si dice in gergo, perché priva di «spin doctor», nuda di strategia e public relations, quindi credibile. Il Papa persuade perché «è» autentico. Quando si proclama solo Vescovo di Roma dal balcone di San Pietro, dopo l’elezione, la piazza applaude l’umiltà spontanea, ma studiosi come Alberto Melloni segnalano subito l’apertura ai Cristiani ortodossi e infatti il Patriarca Bartolomeno va alla Messa di inaugurazione del Papa, ritorno storico dal remoto 1054.

La telefonata di scuse al giornalaio di Buenos Aires, il panino portato alla Guardia Svizzera, le lunghe ore di lavoro, l’appello brusco ai giovani «non lamentatevi», il monito a preti, suore, prelati a non indulgere al lusso, la decapitazione dei vertici Ior, una condotta «no nonsense», dove la semplicità schietta prevale sull’intrigo machiavellico, appassionano i cattolici e attraggono l’attenzione dei laici. Con la politica prigioniera del calcolo a breve, la cultura confusa nel labirinto snob-nichilista, spettacolo e sport preda di volgarità e materialismo, il mondo cerca leader che guidino con l’esempio, non con la comunicazione scaltra. E la stessa Chiesa Cattolica, non solo in Italia, ha avuto scandali al punto da far gridare a Ratzinger, nell’Omelia del Venerdi Santo 2005, l’allarme sulla sporcizia che sommerge la barca cattolica.

Papa Francesco non minimizza i problemi, ma, con buon senso da porteño di Buenos Aires, invita a rimboccarsi le maniche e darci dentro, senza troppo rognare, con un sorriso e sperando nella Provvidenza. Siamo tutti così assetati di valori positivi che ascoltiamo. Attenti, laici o fedeli, al messaggio, scordandoci del mezzo che lo trasmette, con la monotonia dei mass media standard scaldata a confidenza personale, da amico. Bergoglio archivia McLuhan, il mezzo non è più, finalmente, il messaggio: e McLuhan, devoto cattolico convertito da giovane alla Chiesa di Roma, non se la prenderebbe di certo a vedersi superato da «questo» Papa.

La Stampa 09.07.13

“Se per Torino sono tutti nemici”, di Gad Lerner

Marchionne contro tutti? Non si ricordano precedenti al rimbrotto indirizzato dal direttore dello stabilimento di Pomigliano contro un vescovo colpevole di solidarizzare con i lavoratori della sua diocesi, senza distinzione di etichetta sindacale.
Indispettito da un pastore che aveva ricevuto anche i Cobas — perché no? — e si era permesso di raccomandare al gran capo della multinazionale di non badare solo al profitto, con zelo degno di miglior causa il dottor Figliuolo ha pensato bene di lanciargli un’accusa priva di senso: cioè di essersi messo dalla parte dei violenti. Per la verità monsignor Depalma era, sì, andato ai cancelli in un sabato di lavoro e di protesta, ma per raccomandarvi «più umanità da parte di tutti», spiegando ai lavoratori che «non si vincono le battaglie lanciando accuse gli uni contro gli altri». Perché allora la dirigenza Fiat ha pensato di coglierlo in fallo, quasi che il monito rivolto a Marchionne («non si badi solo al profitto») fosse un atto di lesa maestà?
Temo che l’ennesimo infortunio di una comunicazione Fiat che sembra non contemplare altro che il pubblico assoggettamento ai suoi disegni aziendali, sia l’esito di un’ossessione a dividere il campo tra amici e nemici. Non più solo fra i sindacati, ma anche nelle istituzioni politiche, nella magistratura, nella Corte Costituzionale, e perfino nella Chiesa. Ormai infranto lo storico luogo comune secondo cui gli interessi della Fiat coincidono sempre e comunque con gli interessi nazionali, Marchionne alimenta uno spirito di contrapposizione esacerbato. Fino a considerare intollerabile una lettera della presidente della Camera in cui si nega che l’economia possa trarre vantaggio dalla sistematica rinuncia dei lavoratori ai loro diritti. Spiace che la Boldrini sia stata accusata di venir meno ai suoi doveri di equidistanza per aver ricordato questo principio elementare (con il di più, sgradevole ma tipico, di evocarne l’incompetenza). Ma argomenti strumentali della medesima natura erano già stati rivolti contro i magistrati che in due gradi di giudizio avevano imposto il reintegro di 19 iscritti alla Fiom oggetto di discriminazione illegale; peccato che di fatto la Fiat continui ad escluderli dalle linee di produzione della Panda. Tanto più ora che la Corte Costituzionale ha dato ragione alla Cgil, pretendendo il riconoscimento aziendale dei sindacati più rappresentativi. Ci mancava solo la levata di scusi contro il vescovo Depalma, quasi che egli dovesse ignorare la realtà di quasi 2500 dipendenti di Pomigliano e Nola rimasti fuori dalla produzione con tutti i drammi che ciò comporta: il venir meno del reddito, la perdita di dignità, la discriminazione dei non allineati.
Da anni ormai la Fiat pretende deroghe ai contratti di lavoro senza peraltro fornire al governo e al Parlamento informazioni credibili sul futuro della sua presenza in Italia. Marchionne non perde occasione di magnificare gli investimenti che fanno di Pomigliano uno stabilimento automobilistico d’avanguardia nelle sue tecnologie. Come se fosse secondario il suo cronico sottoutilizzo. Come se la discriminazione, teorizzata ma illegale, di una quota significativa delle sue maestranze, non fosse questione da sanare al più presto.
Ho smesso di pensare che ci sia un calcolo razionale di disimpegno dietro a queste ricorrenti provocazioni. Certo, la Fiat ha già spostato fuori dall’Italia il suo baricentro produttivo. Ma è come se gli azionisti, incoraggiati dall’accanimento ideologico di Marchionne, volessero affermare una pretesa di restare protagonisti della vita pubblica nazionale imponendo il metodo delle loro forzature. Vogliono fare i loro comodi, scaricare sugli altri i loro insuccessi, e nello stesso tempo continuare a presentarsi come dinastia industriale egemone nel Paese. Se questo è il metodo, dubito che basteranno i 90 milioni investiti da John Elkann allo scopo di garantirsi il controllo del Corriere della Sera, con tanto di annuncio preventivo al presidente della Repubblica, per garantirsi il pubblico consenso ormai irrimediabilmente dissipato.

La Repubblica 08.07.13

“Abbandono scolastico, lascia uno studente su cinque”, di Alessia Camplone

Vanno via in silenzio. Lasciano quasi sempre senza dire nulla. I maschi abbandonano più delle donne. Lasciano al sud più che al nord. Sono gli “early school leavers”, studenti che abbandonano precocemente la scuola. Non studiano più. E molto spesso nemmeno lavorano. Quello della dispersione è un fenomeno dove l’Italia ha un primato tristemente negativo. La conferma arriva dagli ultimi dati del Ministero dell’ istruzione, dell’università e della ricerca (il Miur). Seguono di pochi giorni le statistiche dell’Ocse. I dati del Miur, per il 2012, mettono il nostro Paese in quart’ultima posizione in Europa. Dietro di noi paesi come Spagna e Portagallo. Va meglio la Grecia. «Nella graduatoria dei ventisette Paesi Ue – si legge nel rapporto del Miur – l’Italia occupa ancora una posizione di ritardo». E lo stesso ministro Maria Chiara Carrozza, nel presentare le linee programmatiche davanti alle Commissioni riunite del Senato e della Camera ha evidenziato la necessità di una “politica di lungo respiro” per contrastare il fenomeno. Rispetto all’anno precedente un lieve miglioramento c’è stato. Ma non significativo. E l’Italia resta lontana dagli obbiettivi Ue.
LA COMMISSIONE EUROPEA
La Commissione europea, infatti, ha richiesto che per il 2020 il tasso di abbandono scolastico vada sotto la soglia del 10 per cento. E che sempre entro il 2020 il tasso di studenti con la laurea salga sopra al 40. Quasi un alunno su cinque, tra le medie e le superiori, lascia la scuola. La dispersione, infatti, si attesta in Italia al 17,6% (18,2 % nel 2011) contro una media Ue del 12,8% (13,5%). Il divario con il dato medio europeo è più accentuato per i maschi (20,5% contro 14,5%), in confronto a quello delle donne (14,5% contro 11%). Guardando a livello regionale il quadro appare eterogeneo. Il Molise è l’unica regione ad aver raggiunto il target europeo, con un valore dell’indicatore pari al 9,9%. Ma il fenomeno dell’abbandono scolastico è in genere più sostenuto nel Mezzogiorno con punte del 25,8% in Sardegna, del 25% in Sicilia e del 21,8% in Campania. Zone in cui sono maggiormente diffuse le situazioni di disagio economico e sociale. Tuttavia anche nelle aree più industrializzate e sviluppate, nelle regioni caratterizzate da un mercato del lavoro ad ingresso più facile e in cerca di mano d’opera meno qualificata: è qui che una larga fetta dei ragazzi trova più allettante la prospettiva di rinunciare agli di studi per entrare subito nel mondo del lavoro. Continue assenze, voti costantemente molto bassi, cambiamenti ripetuti di istituto: i sintomi che molto spesso portano alla dispersione. Un fenomeno che per gli esperti è prevedibile. Secondo le stime dello stesso ministero dell’istruzione nell’anno scolastico 2011/2012 il numero degli alunni “a rischio di abbandono” è di circa 3.400 ragazzi per la scuola secondaria di I grado (pari allo 0,2% degli alunni iscritti) e a quasi 31.400 per le scuole superiori. Nelle scuole medie gli alunni “a rischio di abbandono” sono iscritti al secondo e al terzo anno.
ALLE SUPERIORI
Ma è alle superiori che il fenomeno è più evidente. Soprattutto tra il terzo e quarto anno di corso. Le scuole dove è più facile lasciare? Negli istituti professionali, tecnici e nell’area dell’ istruzione artistica. Molto spesso alla base della dispersione c’è un disagio legato all’ambiente familiare e sociale. Ma conta pure una scelta degli studi sbagliata, poco vicina alle proprie inclinazioni. Magari una scelta imposta dai genitori e dai parenti.

Il Messaggero 08.07.13

“Il lavoro: banche dati, microchip e borse di tirocinio ecco il piano del governo per occupare i giovani”, di Valentina Conte

Quarantotto ore per tirare fuori i giovani italiani dal cono d’ombra in cui la crisi e la mancanza di prospettive li ha ricacciati. E accompagnarli verso un dignitoso percorso di formazione, stage o apprendistato. Una chimera? Piuttosto un piano concreto, allo studio del governo, per mettere in moto la Youth Guarantee, il programma europeo di sostegno all’occupazione dei giovani. Dopo le parole del Consiglio europeo di fine giugno, degli incontri di Roma e Berlino, è il momento dei fatti. Presa in carico, orientamento, formazione, tirocinio, mediazione per l’inserimento lavorativo o l’avvio di un’attività autonoma. Questo il modello operativo “chiavi in mano” che Isfol e Italia Lavoro, le due agenzie governative specializzate in materia, hanno elaborato e sottoposto all’attenzione del ministro Giovannini. E che già questa settimana sarà discusso con enti locali e Camere di commercio, la “cabina di regia” prevista dal recente decreto lavoro.
Un traguardo ambizioso che stavolta l’Italia non può fallire, a meno di buttare al vento i soldi dell’Europa: un miliardo subito, nel prossimo biennio, un altro mezzo miliardo dal 2016. I tempi stretti, la rete inadeguata, il personale in parte impreparato, la burocrazia rendono il percorso complicato. Mentre i ragazzi che non studiano, non si formano, non lavorano (“neet”) sono un milione e 300 mila fino a 25 anni, un milione in più fino ai 29. E la scadenza, fissata da Bruxelles, è alle porte: si parte il primo gennaio. Tra sei mesi.
Quarantotto ore, dunque: di orientamento (sei ore per tre giorni) e di formazione (sei ore per cinque giorni), si legge nella proposta Isfol. L’orientamento serve a fare un “bilancio delle competenze”, ovvero esaminare il curriculum, rilevare eventuali buchi nella formazione e individuare le azioni (tornare sui banchi, magari con corsi mirati, oppure puntare all’ingresso in azienda). La formazione, organizzata in moduli, fornisce invece competenze di base e trasversali. E prepara alla fase seguente, il cuore della Garanzia giovani: il tirocinio o l’apprendistato.
Un iter questo che molte Regioni già conoscono e che ha dato buoni frutti, specie al Nord. E che funziona grazie ai Centri per l’impiego, oggi gestiti dalle Province. «La
Youth Guarantee necessita di una rete efficace, ma le nostre strutture non sono sufficienti ed adeguate», si allarma Carlo Dell’Aringa, sottosegretario al Lavoro. «I Centri per l’impiego sono 500, vi lavorano 7-8 mila operatori. Ma in Francia, Germania, Inghilterra sono 10 volte tanto, da 70 a 100 mila. E i rispettivi governi vi investono 5 miliardi l’anno. Noi 500 milioni. Un gap difficile da colmare in sei mesi».
Il primo ostacolo, dunque, è far funzionare l’esistente. L’idea è quella di una “task force” tra Isfol e Italia Lavoro — supervisionata dalla “cabina di regia” — che, grazie ai 1.400 operatori specializzati, rivitalizzeranno e formeranno il personale dei Centri per l’impiego. I Centri avranno il compito di aprire lo Sportello Giovani nelle Regioni dove i neet sotto i 25 anni superano il 25%: tutte tranne Trentino Alto Adige e Veneto. Qui il giovane, neo diplomato o disoccupato, stipula un “patto di servizio”, viene inserito in una banca dati per incrociare
le offerte delle aziende (che andranno incoraggiate a fidarsi di nuovo del sistema pubblico) e riceve anche una carta con microchip, in cui registrare le ore di formazione, stage, ma anche i denari per “borse di tirocinio”. «Saranno coinvolti anche gli enti privati accreditati, tramite bandi, che ogni anno garantiscono 300-400 mila occupazioni full time», spiega Dell’Aringa. «Ma a patto che vadano a cercare anche i giovani ai margini, con meno chance di occupabilità».
C’è poi un altro nodo da sciogliere: le risorse. Facendo un calcolo grezzo, le famose “48 ore” costano 1.680 euro per ogni ragazzo (se fatte da un ente privato), 1.417 euro (se presso il Centro per l’impiego). Dato che le risorse europee sono pari a 500 milioni l’anno (per 2014 e 2015), questo significa 400 euro per ogni ragazzo under 25. Meno ancora — 225 euro — se includiamo gli under 29. Briciole. Solo per le “48 ore” occorrerebbero dunque 1,6 miliardi in più. Ma poi c’è la borsa di tirocinio da finanziare, eventuali incentivi o bonus alle aziende. La faccenda si complica.

La Repubblica 08.07.13

“Creare lavoro non solo difenderlo”, di Mario Calabresi

Nei primi cinque mesi dell’anno sono fallite in media 35 imprese al giorno, questo significa che dall’alba al tramonto si certifica la fine di un’attività ogni venti minuti. Si spengono le luci delle aziende e quelle dei negozi, questa è l’emergenza dell’Italia, anche se si continua a parlare molto di più di Imu, di Province e di Ruby.

Si parla di deindustrializzazione del Paese, chi è qui fatica e rischia di chiudere, chi può se ne va attratto dalle sirene delle regioni oltreconfine (oggi sono molto più calamitanti la Savoia, la Carinzia, il Canton Ticino o la Slovenia rispetto alla Romania o alla Cina del decennio scorso) e chi è fuori non ci pensa più a venire da noi. La settimana scorsa Confindustria ha lanciato l’allarme sugli investimenti esteri in Italia crollati del 70 per cento nel 2012: sono le multinazionali che non mettono più piede nel nostro Paese scoraggiate dalle troppe incertezze del nostro sistema.

L’idea prevalente, pur di fronte a questi dati, resta però che il lavoro si difende, non che si crea. C’è una sfiducia profonda nell’idea che le cose possano cambiare, che ci possano essere lavori nuovi e diversi, che ci sia bisogno di aggiornarsi e di rimettersi in discussione.

Non c’è dubbio che sia sacrosanto difendere i livelli di qualità e i diritti fondamentali raggiunti sul lavoro, ma quest’ottica ha il limite di chiudersi solo nell’idea della difesa, della trincea, finendo per tutelare soltanto chi è dentro e quei pochi che riescono ad entrare e non mettendo al centro della discussione tutti quelli che sono fuori.

Un anno fa avevamo fatto un viaggio nei fattori penalizzanti dell’economia italiana, individuando gli ostacoli al fare impresa, dalla burocrazia al costo dell’energia, dai ritardi dei pagamenti alla lentezza della giustizia all’alta tassazione, ora ne cominciamo uno sul lavoro che si crea, sulle caratteristiche che devono avere i territori per permettere che germogli l’impresa, sulle sfide delle tecnologie, sulle ricette che la manifattura non può perdere, sulle elasticità che il sistema dovrebbe essere capace di darsi e sulle porte che si possono aprire ai giovani.

I giovani sono quelli che più stanno pagando questa crisi, perché sono vittime non solo della mancanza di lavoro ma anche della chiusura del sistema a difesa dell’esistente. Ho sotto gli occhi un esempio che riguarda i giornali che mi sembra illuminante: le aziende editoriali in stato di crisi – la maggioranza oggi in Italia – che accedono ai contributi per i prepensionamenti non possono assumere nessuno, nemmeno fare contratti a termine (per sostituzione malattia, maternità o ferie) e nemmeno ospitare stagisti delle scuole di giornalismo.

In questo schema ci sono almeno due soggetti tutelati: il giornale, a cui viene data una possibilità per sopravvivere e ripartire, e il giornalista a cui è garantito uno scivolo alla pensione. Un solo soggetto è sconfitto: i giovani giornalisti o gli aspiranti tali, quasi che il problema fossero loro. Non solo gli si dice che per salvare l’esistente è necessario alzare un muro che li tenga lontani ma non gli si da nemmeno la possibilità di fare gli stages: insomma non devono farsi vedere. E pensare a quanto i giornali avrebbero bisogno di energie nuove, di pensieri freschi, di aggiornarsi alla società, di aprirsi ai nativi digitali. La logica, qui e in tutto il mondo del lavoro italiano, andrebbe ribaltata: chi vuole avere contributi in fase di ristrutturazione non deve chiudersi ma gli andrebbe chiesto, al contrario, di investire in tecnologie, giovani e cambiamento.

L’obiezione a questo punto è sempre la stessa: che ci sono aziende che i giovani li sfruttano senza riconoscere nulla o che fanno lavorare gli stagisti come dipendenti a tempo pieno. Ma anche qui la risposta non può essere che i giovani vanno lasciati a casa: la risposta deve essere che vanno perseguiti gli sfruttatori e aiutati tutti gli altri a crescere.

Di fronte alla deindustrializzazione del Paese è fondamentale cambiare passo ma anche cultura, non si può pensare di continuare a leggere la realtà con le lenti del Novecento e a considerare il lavoro e l’impresa come soggetti non interdipendenti. Non si può pensare che il lavoro si crei senza le imprese e che il benessere dell’uno non sia legato a quello dell’altro. Non abbiamo bisogno di nuovi scontri ideologici ma di capire in che modo si può riaccendere il motore, dobbiamo chiederci perché nessuno viene più a investire qui e ripartire da questa domanda. Perché se saremo in grado di avere un sistema di nuovo capace di attrarre gli stranieri allora di sicuro quel sistema sarà un buon posto per fare impresa e per dare lavoro anche agli italiani.

Le prime pagine del giornale di oggi ci raccontano il dramma di chi non ce l’ha fatta, da domani proveremo a raccontarvi come si può provare ad essere un’altra Italia.

La Stampa 08.07.13

“Abolite le Province ma non la mia”, di Ilvo Diamanti

È singolare, ma anche significativa, la vicenda delle Province. Da oltre trent’anni si parla di cancellarle o, comunque, di ridurle sensibilmente. Con effetti del tutto opposti. Erano, infatti, 95 negli anni Settanta. E già si parlava di “abolirle”. Rimpiazzarle con altri enti intermedi. Negli anni Novanta sono salite a 103. E oggi sono divenute 110. Il problema è che le Province non sono solamente ambiti amministrativi e di governo locale, ma rappresentano, da sempre, un riferimento dell’appartenenza territoriale per le persone. Insieme alle città e almeno quanto le Regioni, le Province servono a “posizionarci” e a definirci, rispetto agli altri “italiani” (come rilevano le indagini di Demos pubblicate, da quasi vent’anni, su
Limes).
Anche perché costituiscono sistemi urbani, economici, sociali e, in parte, politici omogenei. Non a caso le mappe elettorali che realizzo, da tanti anni, dopo ogni elezione hanno, come base, le Province. E, almeno fino a ieri, hanno riprodotto e dimostrato la sostanziale continuità dei comportamenti di voto, nel corso del dopoguerra. Coerentemente con i lineamenti economici e sociali del Paese. E delle sue province.
Anche per questo, invece di ridursi e di accorparsi – o di venire ridotte e riaccorpate –le Province sono sensibilmente cresciute, di numero, negli ultimi vent’anni. Perché delineano riferimenti importanti della storia e dell’identità sociale. Ma anche del potere locale. Perché, inoltre, coincidono con sistemi burocratici e assemblee elettive, molto difficili da ridimensionare, a maggior ragione: da cancellare. Tanto più che le Province hanno svolto e svolgono compiti importanti su base locale. Fra gli altri: in materia di trasporti, ambiente, edilizia scolastica. E poi: costituiscono il principale ambito di “mediazione” fra i Comuni e le Regioni. Soprattutto per i Municipi più piccoli, si tratta di istituzioni utili ad accorciare le distanze dai centri del Potere Stato-Regionale.
Per questo, fin qui, è sempre risultato difficile cancellare le Province o, almeno, ridurne il numero. E, anzi, mentre si discuteva in quale modo e misura ridimensionarle, si sono, invece, moltiplicate ancora. D’altronde, l’abbiamo detto, costituiscono dei luoghi di potere. Dove sono insediati attori politici, burocratici e socioeconomici poco disponibili a scomparire, oppure a farsi riassorbire in altri ambiti istituzionali e di potere.
C’è poi un’ulteriore questione. Riguarda la singolare via del federalismo all’italiana. Che si è sviluppata, dagli anni Novanta in poi, attraverso il trasferimento – e talora la duplicazione – di compiti e attribuzioni dal Centro alla Periferia. Dallo Stato agli enti locali. Non solo: attraverso la moltiplicazione dei centri e dei gruppi di potere locali. Un processo di cui è stata protagonista la Lega, ma non solo. Anche per questo i progetti volti a riassorbire le Province hanno avuto vita dura. Perché i maggiori partiti e, per prima, la Lega nel Nord si sono opposti alla prospettiva di perdere “potere” e risorse sul territorio. E, a questo fine, hanno brandito e agitato la bandiera del Federalismo. Dell’Autonomia Locale contro lo Stato Centrale.
Non è un caso, dunque, che l’attacco definitivo (così almeno si pensava) all’Italia delle Province sia stato lanciato un anno fa dal Governo “tecnico” guidato da Mario Monti. Per ragioni “tecniche” molto ragionevoli, orientate dalla spending review. Dalla necessità di revisione e riduzione della spesa pubblica. Visto che il collage provincialista del nostro Paese è divenuto, come si è detto, sempre più oneroso e dissipativo. Non è casuale l’iniziativa di un anno fa. Dettata dall’emergenza. Favorita dalla “debolezza” politica degli attori che hanno agitato la bandiera del territorio negli ultimi vent’anni. Per prima la Lega, affondata, alle elezioni recenti. E aggrappata alle Regioni del Nord, dove è ancora al governo. D’altronde, la Questione Settentrionale appare silenziata. Messa a tacere dalla Questione Nazionale imposta dalla Ue e dalle autorità economiche e monetarie internazionali. Che esigono risparmi e tagli. E hanno rovesciato le gerarchie geopolitiche, sotto-ponendo la periferia al centro. Il territorio ai poteri della finanza e della politica globale.
Così, l’Italia Provinciale è divenuta un problema. Trattata come un vincolo di spesa, una variabile dipendente da controllare e orientare. Il governo Monti ha, dunque, proceduto, dapprima, all’abolizione dei consigli provinciali e, quindi, a una sostanziosa riduzione del numero delle Province (da 86 a 50, nelle Regioni a statuto ordinario). Per decreto legge, con procedura d’urgenza. In base, appunto, a motivi di emergenza. Procedure e motivi non compatibili con una materia “costituzionale”, com’è quella dell’organizzazione territoriale dello Stato. Di cui le Province sono parte integrante.
Così l’Italia Provinciale resiste ed esiste ancora. Malgrado i tentativi e la volontà espressa da molti, diversi soggetti politici ed economici, di ridimensionarla. D’altronde, due italiani su tre pensano che le province andrebbero almeno ridotte. Ma il 60% è contrario ad abolire la Provincia dove vive (Sondaggio Ipsos per l’Upi, novembre 2011). In altri termini: gli italiani sono disposti a “cancellare” o, comunque, a mettere in discussione la provincia degli altri. Ma non la propria. Per questo non sarà facile, al governo guidato da Enrico Letta, abolire le Province dal lessico geopolitico nazionale, come prevede il Ddl costituzionale, approvato nei giorni scorsi. Dovrebbe, infatti, ridisegnare non solo l’organizzazione ma, insieme, la stessa identità territoriale del Paese. Perché le Province, per citare Francesco Merlo, sono il Dna «che in fondo ci rende tutti uguali, provinciali tra altri provinciali». Da Nord a Sud, passando per il Centro. E perfino a Roma. L’Italia: Provincia d’Europa e dell’Euro. Un Paese di compaesani (come l’ha definito il sociologo Paolo Segatti). Punteggiato di campanili e municipi. Unito dalle differenze. L’Italia Provinciale e Provincialista: riflette tendenze di lunga durata. Difficilmente verrà sradicata da un governo di larghe intese. E, dunque, di breve periodo.

La Repubblica 08.07.13

Ghizzoni lunedì mattina in visita di verifica agli scavi di Pompei

La vicepresidente della Commissione Cultura guiderà una delegazione di parlamentari. Una delegazione di deputati della Commissione cultura della Camera, guidata dalla vicepresidente Manuela Ghizzoni, si recherà nella mattinata di lunedì 8 luglio in visita all’area archeologica di Pompei. L’obiettivo è verificare le condizioni del sito, lo stato di attuazione dei progetti, la situazione del personale. “Pompei, con la sua bellezza impareggiabile, deve diventare una risorsa, non un problema” dichiara la vicepresidente.

L’obiettivo è verificare le condizioni del sito, lo stato di attuazione dei progetti, la situazione del personale. La delegazione, guidata da la vicepresidente della commissione, la modenese Manuela Ghizzoni, e dalla deputata napoletana Luisa Bossa, ex sindaco di Ercolano, incontrerà la sovrintendente Elena Cinquantaquattro, il sindaco di Pompei Claudio D’Alessio, una delegazione di sindacati e lavoratori dell’area archeologica.
“Consideriamo Pompei una delle priorità del lavoro di recupero che il Governo deve fare sui beni culturali del nostro Paese – dice Luisa Bossa – la presenza sul posto dei deputati della Commissione risponde sia al bisogno di acquisire direttamente elementi di conoscenza sulla situazione sia a quello di manifestare la vicinanza del Parlamento a chi sta operando per il recupero di un presidio culturale di così straordinaria importanza”.
La delegazione, formata inoltre dai parlamentari democratici della commissione Cultura, Mara Carocci, Maria Coscia, Manuela Ghizzoni, Flavia Piccoli Nardelli, Gianna Malisani, Simona Malpezzi, Roberto Rampi e Maria Grazia Rocchi, visiterà i cantieri aperti coi fondi europei, incontrerà sindaco e i sindacati e affronterà la questione sulla necessità o meno di assumere nuove guide e custodi.
“In questi anni – spiega la vicepresidente Ghizzoni – le risposte non sono quasi mai state adeguate. Pompei, con la sua bellezza impareggiabile, deve diventare una risorsa, non un problema. Incalzeremo il ministro Bray perché dalla salvezza di Pompei passa la possibilità per il nostro Paese di costruire sui beni culturali un progetto di rilancio economico oltre che territoriale”.