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“Basta calci al cinema”, di Roberto Andò

«La cultura è quello che resta quando si è dimenticato tutto », questa frase di Paul Valery, uno degli uomini-chiave del secolo scorso, sta lì, nel pantheon delle citazioni possibili, a ricordarci che ogni affermazione volontaristica a favore della cultura è vana rispetto al meccanismo che selezionerà ciò che sarà trasmesso ai posteri, il reperto che sarà loro inoltrato dalla civiltà di cui siamo stati parte. La dimenticanza, il suo implacabile setaccio, conterà più del ricordo. L’avvertimento di Valery non è una ragione sufficiente per astenersi dal fare certe battaglie ideali. Dal ricordare ciò che non va dimenticato. È bene, per esempio, ricordare alle giovani generazioni chi è stato Federico Fellini, e rendergli il doveroso omaggio nel ventennale della morte. Come potrebbero, altrimenti, i giovani, essere sollecitati a vederne i film? E dove?

A Federico Fellini, in vita, è toccato in sorte il ruolo di psicopompo, o mago, del cinema italiano, e con questo intendo dire che nessuno come lui ha certificato l’ambizione del nostro cinema, il suo talento, la sua grandezza. Nessuno come Fellini ha portato sulle proprie spalle le insegne del genio italiano, e in particolare, della potenza visionaria che attraverso il genio può esprimere il cinema. Una delle ragioni per cui queste insegne gli erano state affidate era la naturale eleganza con cui sapeva rappresentare il mestiere di regista. Fellini non amava le prediche ideologiche, il gesto impegnato, il gergo da iniziato. C’è una leggenda che ne tramanda il cinismo, il disincanto, l’opportunismo. Per come l’ho conosciuto, non credo che questa leggenda peschi nel vero, e tanto non lo credo, che, per confutarla, ho citato nel mio film, Viva la libertà, un frammento di una sua intervista, nel quale egli appare appassionato, furiosamente lucido, e, come a volte accade agli artisti più grandi, indisponibile all’accordo, alla conciliazio- ne, al compromesso. Nell’intervista Fellini dichiara di non essere disposto al negoziato con chi vuole interrompere i film per inserirvi spot pubblicitari, dice di essere pronto a farlo solo nel caso in cui il Papa accettasse per lo stesso motivo di interrompere la funzione della Messa. Fellini fu coerente con questa dichiarazione, e sino all’ultimo si comportò come il più strenuo oppositore delle interruzioni pubblicitare al cinema. Ricordo quest’episodio perché molte volte è accaduto che i registi italiani intervenuti per migliorare le condizioni in cui versa il cinema, siano stati pesantemente redarguiti da autorevoli editorialisti d’importanti giornali, e che, con l’occasione, puntualmente, venisse diffusa una immagine del nostro cinema volta a mortificarne l’indipendenza, l’onestà, il talento. Uno dei punti cruciali della ricorrente polemica è l’accusa che il cinema italiano sia assistito. Coloro che affermano questo, pensano anche che questo peccato originale sia il motivo per il quale il cinema italiano si è rivelato incapace di confrontarsi col mercato. In passato questa opinione poteva avere una sua fondatezza, oggi no. Il fatturato dell’audiovisivo italiano mostra con chiarezza inequivocabile che si tratta di una risorsa attiva dell’industria italiana, tutt’altro che parassitaria, e che il confronto col mercato può ampliarsi a condizione che si creino regole chiare per accedervi. Dagli anni 90 al 2011 gli spettatori sono passati da 10 a 40 milioni. La quota di mercato italiano oscilla dal 25 al 40% (Inghilterra, Germania, Spagna si attestano al 10). Gli investimenti pubblici diretti sul totale erano sino al 2004 il 65%, oggi il 12%.

IL GRIDO D’ARTISTA

«In quanto narratori di storie, autori, noi non possiamo continuare a farci prendere a calci e sputi in faccia» urla Fellini in quella intervista. Mi piacerebbe che queste parole urlate dal Maestro divenissero oggi le nostre parole d’ordine. L’arretratezza legislativa con cui si è proceduto a tenere il cinema italiano al di fuori delle regole di mercato da anni vigenti negli altri paesi, è il delitto cui ancora non si riesce a porre rimedio. Si invoca il mercato ma non si tiene conto del fatto che il cinema è una industria (nella patria del supposto e inneggiato liberismo, gli Stati Uniti, è addirittura una industria strategica – perché non dovrebbe esserlo nella patria di Fellini, De Sica, Rossellini, Antonioni, Monicelli, Rosi, Risi, Olmi, Taviani?) e, che, come ogni industria che si rispetti avrebbe bisogno di piazzare i propri prodotti senza rischiare che gli vengano impunemente rubati (pirateria), avrebbe bisogno che i film, i prodotti, fossero garantiti da regole che rendano efficaci, accertate, le condizioni della loro produzione, commercializzazione e distribuzione. Per non parlare del ricatto feudale in cui si trova l’autore di un film rispetto ai diritti di cui sovranamente dovrebbe essere detentore.
Pur messo ai margini, in questi anni terribili, il cinema italiano è riuscito a rimanere vivo e vegeto, a mantenere l’originalità e le peculiarità che ne hanno sempre contraddistinto il passo. Ci sono grandi autori, grandi film (grande anche la presenza dei film italiani nei festival), grandi attori, e, come sempre, ci sono anche film medi, film brutti. Quel che è certo è che non c’è il respiro economico per farne di grandi, anche se qualcuno se ne fa ancora. Così com’è certo che l’industria cinematografica è allo stremo, che le professionalità tecniche e creative sono state lasciate sole, e che esse vivono da tempo in uno stato di resistenza, alla giornata, sino a quando sarà loro possibile tirare avanti. Se esistesse ancora un dialogo tra chi produce cultura e immaginazione e chi governa il paese, i partiti, i numeri di chi lavora nel cinema e nella televisione sarebbero quelli di un comparto verso cui la politica dovrebbe manifestare un grande rispetto. Se si comparano le cifre che ruotano intorno ad altri settori industriali si capisce che il cinema da tempo vive di poco, solo dell’esiguità delle proprie forze, con risorse inadeguate alla dimensione di un paese come l’Italia, mortificanti se confrontate con gli al- tri paesi d’Europa, piccoli o grandi che siano. Sono tante le azioni concrete che il governo presieduto da Enrico Letta, che il ministero della Cultura retto da Massimo Bray (due per- sone che per sensibilità possono legittima- mente divenire i demiurghi di una inversione di rotta) potrebbe intraprendere per dare impulso a questo settore industriale che è anche una delle leve cruciali della cultura del nostro paese. Ci sono tavoli da indire per mettere a confronto i vari attori che potrebbero concorrere al reperimento delle risorse necessarie alla rinascita del cinema (produzione, distribuzione, esercizio, tv generaliste e pay, provider di internet dai broadcast). Ci sarebbe da lavorare in seno all’Unione Europea creando collegamenti, incentivando le coproduzioni. Insomma, ci sarebbe tanto da fare per il cinema in quel mucchio di macerie che è l’Italia di oggi, se l’orgoglio di rivendicare l’importanza della propria tradizione culturale divenisse azione politica.
Il deficit di attenzione che ha contraddistinto il modo con cui in Italia la politica ha sinora guardato alla cultura, a ciò che essa rappresenta in quanto espressione della libertà di un paese (che cosa è stato il neorealismo cine- matografico se non la lingua della ritrovata identità nazionale?), oggi non è più accettabile.

Il rischio concreto e tangibile è che in questo grave contesto di crisi si approfitti della crisi per ridurre ancora la possibilità che il nostro cinema possa riprendere quota, come dimostra la vicenda del tax credit, ridotto da 90 milioni a 45 milioni. Così facendo si impoverisce ulteriormente l’iniziativa dei produttori indipendenti, quelli che più di altri possono ridisegnare il profilo di una cinematografia che non vuole arrendersi all’omologazione, all’imperialismo della commedia.

«Noi non possiamo continuare a farci prendere a calci e sputi in faccia », ricordiamo le parole di Federico Fellini e riascoltiamole come si ascoltano le parole dei profeti: per orientare il nostro destino. Per passare all’azione.

L’Unità 07.07.13

“Al Colle? No, al mare… Il web contro Grillo in Sardegna”, di Toni Jop

Qualcuno dei suoi gli avrà detto: cheffai, non vorrai mica andare da Napolitano pallido-pallido? Giusto, si sarà risposto: prima mi abbronzo e poi mi piazzo davanti al presidente in tutta la bellezza del mio grigio argento su campo bronzeo.

Così, ecco Beppe Grillo, in attesa dell’incontro al Colle, galleggiare terso nelle acque della Costa Smeralda senza obiettivi da raggiungere tranne una abbronzatura «nature». Libero e bello in questa eccellente briatorata di luglio. Lo raccontano benevole le immagini che ieri hanno fatto il giro delle redazioni: lui in acqua, lui fuori dall’acqua, in barca, gli affetti, la pace, il relax.

Ma non sta andando a fondo l’Italia? È così che dobbiamo prepararci al grande tonfo di settembre? Non è forse Grillo il titolare di una forza politica di primaria importanza, oggi, nel Paese? Non è lui la sorgente di una nuova consapevolezza che si aggrappa alla decrescita felice, a uno spartanismo dal quale il piacere viene vestito con un burqua aspro e forte? Eppure, non ha fatto altro che un bagno, una immersione, ha preso un po’ di sole, alla pari di qualche milione di italiani nell’azzurro mare delle nostre inquietudini.

Non c’è male, non c’è peccato, davvero, siamo contenti che le roi s’amuse, che il re si diverta. Del resto, ha giocato una partita difficile, sotto il profilo delle relazioni istituzionali proprio a ridosso di questa sintetica vacanza. Aveva invitato il presidente della Repubblica a dire la verità sul tracollo imminente della barca tricolore, lo aveva accusato di non voler dire come stanno le cose per ingannare i cittadini, si era lamentato di non aver ricevuto risposte ad una sua richiesta di incontro al Colle.

Il Quirinale aveva spiegato di non aver ricevuto richieste formali, ma la pratica è stata celermente sbrigata: venga, anche subito, gli hanno risposto. Ci spiegheranno perché un semplice Megafono trova tanto velocemente udienza presso i più prestigiosi «ossari» del nostro impianto democratico: magari non sono banali scatolette di tonno. Tuttavia, incalzato da questa sorprendente disponibilità, Grillo aveva chiesto tempo; cioè, vuole udienza, gliela danno subito, e lui, sorprendentemente, frena: pensiamoci bene prima di pronunciare frasi immortali.
Fatto: in costa Smeralda, che è un luogo come un altro ma non è Ostia Beach. Che gli frega, lui è un megafono, non un personaggio pubblico, un politico che deve rendere conto di alcuni aspetti del suo «privato». Un genio. Ecco, allora, che se la prende comoda e squadra le cernie con occhi preoccupati perché, alle cernie – che ne sanno, beate loro – non lo comunica, a settembre si fa il botto. La Rete gli si scaglia contro. «Ecco dov’era tanto impegnato», dicono alcuni maligni. «Mentre i grillini restituiscono i soldi, lui se li gode», scrive qualcun altro riferendosi alla restituzione dei fondi pubblici inutilizzati. Dal suo sito, nel frattempo, l’ex comico spara contro il Pdl: «Vuole chiudere il mio blog».

Che la nuova legge sulla stampa che riguarda anche i blog sia pensata in primis per lui glielo fa pensare «lo stesso firmatario del disegno di legge Salvo Torrisi del Pdl, quando spiega che non c’è nessuna censura nei confronti dei 5 stelle. Ma internet non può continuare a essere il luogo virtuale dell’impunità». Intanto, il Papa – esatto, proprio il Papa – non è stato carino con lui: è vero che se l’è presa con i prelati che viaggiano in macchine lussuose, per dire che una vita di agi conclamati non fa del bene alla Chiesa, alla sua sostanza e alla sua immagine.

E vero, quindi, che non si riferiva direttamente al capo dei Cinque Stelle, ma doveva puntualizzare giusto ieri a proposito della morigeratezza dei costumi di chi ha sulle sue spalle un carico etico difficilmente smaltibile come fuffa demodé, proprio mentre le foto di Beppe raccontavano quell’aplomb sereno e sufficiente agli italiani morsi dalla crisi? Sfiga nera, più che abbronzata. Capita: o vogliamo prendercela con un Papa che deve avere certamente rubato lo spot nella cantina di Casaleggio? Giallo estate.

L’Unità 07.07.13

“Beni culturali, anche il ministero è moroso: bollette non pagate per 40 milioni”, da repubblica.it

L’Italia è il paese con il più grande patrimonio storico culturale al mondo, al primo posto nella lista Unesco per numero di tesori dichiarati patrimonio dell’umanità, eppure il Ministero per i beni culturali rischia quasi il tracollo per morosità e per il drastico taglio dei finanziamenti cui continua a essere sottoposto dai governi di ogni colore. Gli ultimi dati forniti dal ministro Bray sono emblematici: quasi 10 milioni di euro in meno rispetto al 2012 per le “spese per interventi urgenti per le emergenze”; una disponibilità per il ‘programma ordinario dei lavori pubblici’ che passa dai 70,5 mln di euro del 2012 ai 47,6 mln del 2013 (nel 2004 erano 201 milioni), il sostegno dalle giocate del Lotto che dai 48,4 mln di un anno fa precipita ai 25,4 di quest’anno.

In questo scenario, non c’è da stupirsi se i musei sospendono le aperture, se il Colosseo resta chiuso per una vertenza dei custodi e se persino il ministero è costretto a chiedere un intervento straordinario al Tesoro per poter pagare bollette e canoni inevasi per un totale di 40 milioni. “Le risorse relative alle principali programmazioni per l’esercizio dell’attività di tutela – si legge nel documento presentato dal ministro – hanno subito una riduzione del 58,2% passando da 276.636.141 a 115.632.039”.

L’allarme del ministro Massimo Bray è riassunto nei dati inviato alle Camere insieme con le linee guida del suo dicastero. Dieci pagine di tabelle in cui numeri e percentuali non hanno bisogno di commenti. Il bilancio del ministero, tanto per iniziare, quest’anno è sceso a 1.546.779.172 euro, oltre 100 milioni di euro in meno rispetto a un anno fa, il 24% in meno rispetto al 2008, quando la voce ‘previsione di spesa’ segnava 2.037.446.020 di euro.

I tagli riguardano tutti settori di intervento e tutte le voci di finanziamento. Come detto, il fondo per le emergenze ha subito una riduzione di oltre 58% rispetto al 2008, per le risorse per il programma ordinario di tutela del patrimonio la decurtazione è del 52% rispetto al 2008 e del 76% se si guarda al bilancio 2004.

Passando alle entrate dal Lotto, le somme programmabili per il 2013 ammontano ad appena 15.047.923,00 contro i 50,6 nel 2012. Qui il taglio in percentuale è del 71% rispetto al 2008 (134,7 mln di euro) e dell’81% rispetto al 2004.

Le conseguenze si vedono anche dalla ripartizione dei fondi: il restauro perde il 31% rispetto alla dotazione 2008 e per il 2013 può contare su soli 15.047.923,00 (erano 50,6 nel 2012).

Nelle riduzioni a caduta, il sostegno del Mibac per gli Istituti culturali scende a 14.670.000,00 (-18% rispetto al 2009).

Senza aggiustamenti in corsa, si riduce anche il Fondo Unico per lo Spettacolo (Fus), che con gli attuali 398.847.077,00 è in calo di quasi il 15% rispetto al 2009.

Lo stesso regolare funzionamento del ministero è a rischio, visto che gli stanziamenti relativi, come si legge nella relazione di Bray, “ammontano complessivamente a circa 23 mln di euro per il 2013, a fronte di una esigenza di circa 50 mln, comprovata anche – si legge nelle tabelle – dalla recente ricognizione che ha evidenziato un debito per circa 40 mln di euro (già comunicati al ministero dell’economia e delle finanze per l’eventuale ripianamento) dovuti principalmente al mancato pagamento di utenze e canoni”.

La situazione sarà “ancora più critica a decorrere dal 2014, che presenta uno stanziamento di circa 14,5 mln, con un decremento pari ad oltre il 37%”.

Infine, l’emergenza personale per il quale rimane il blocco delle assunzioni in vigore fino al “riassorbimento dell’esubero di personale in I area- addetti ai servizi ausiliari (267 persone) e nell’area dirigenti (4)”.

www.repubblica.it

Sulle spalle della sinistra”, di Claudio Sardo

Non ce la farà l’Italia se non sarà capace di cambiamenti radicali. Non ci sarà nuovo sviluppo senza una riduzione delle diseguaglianze, senza un primato del lavoro e dell’impresa sulle rendite e le consorterie, senza un rafforzamento del ruolo pubblico (che non è sinonimo di gestione diretta dello Stato). E tanto meno si ricostruirà un senso civico, un’idea di comunità senza una battaglia a tutto campo contro l’illegalità, le povertà, le solitudini, contro i diritti negati.
Non ce la farà l’Italia senza l’Europa. Ma neppure l’Europa senza l’Italia. Il cambiamento delle politiche economiche non può che avere una dimensione continentale. In gioco non ci sono solo le ricette (fallite) di banchieri e tecnocrati: in gioco c’è quella democrazia che i nostri padri ci hanno consegnato e che oggi rischia di perdere senso. La democrazia che ha prodotto la nostra civiltà, e il nostro welfare, è nata da una lotta, e poi da un compromesso, tra capitale e lavoro. Ora che il compromesso è saltato, viviamo una vera e propria crisi di identità, che l’impoverimento del lavoro, oltre che i dra matici costi sociali della depressione, può far diventare esplosiva.

La sinistra è dentro questa crisi epocale. Il lavoro, la democrazia, le autonomie sociali, l’idea stessa di comunità sono rimesse in discussione. Non hanno più basi certe. O la sinistra sarà capace di assumere una dimensione nazionale e, al tempo stesso europea, oppure andrà incontro a un fallimento storico. Rischia di restare stritolata dalle logiche di mercato da un lato, e dal radicalismo della protesta disperata dall’altro. In Italia, se possibile, la responsabilità sulle spalle della sinistra è persino più grande: è la sola realtà politica nazionale, è la sola cerniera di un Paese fratturato. Non c’è politica plausibile di riforme che non passi da qui. La destra è ancora sotto le macerie del governo Berlusconi. Al bivio tra evoluzione democratica e regressione proprietaria, il partito del Cavaliere ha scelto la seconda strada. Forse quella più comoda in termini di potere, ma certo la meno utile a un Paese che deve rialzarsi e che ha bisogno di una destra europea. Anche il movimento di Grillo si è negato a ogni ipotesi costruttiva: continua a scommettere sulla crisi di sistema, sperando di speculare sul fallimento. Due giochi di rimessa, opposti tra loro. Ma con tratti comuni: la sfiducia nel riscatto del Paese, l’egoismo di parte, il mantenimento dello status quo.

Il congresso del Pd si svolgerà in questo contesto. E non è certo un bene che, a tutt’oggi, il Pd sia il solo a chiamarsi partito e ad avere una struttura democratica, cioè aperta, contendibile. Anziché essere un ponte verso un nuovo sistema, rischia di regredire anch’esso allo stato di partito personale. La sua centralità e le sue accresciute responsabilità non cancellano il fatto che il Pd resti un soggetto fragile, in parte incompiuto, tormentato da antagonismi personali, e non pacificato né sul ruolo della leadership né sulla forma-partito. Ha grandi responsabilità, avverte che il cambiamento è necessario, ma al tempo stesso deve guidare questo percorso attraverso un Parlamento «senza maggioranza». È un’equazione con tante incognite. Ma non ci sono scorciatoie. Ricostruire il partito rinnovandolo. Dare una missione al governo nel senso del lavoro e della riforme mentre si prepara il ritorno ad una competizione bipolare. Ridare speranza all’Italia confrontandosi con le ragioni dell’insuccesso delle ultime politiche. Cambiare davvero senza tagliare le radici nella storia nazionale e in quella Costituzione che rappresenta tuttora il punto più alto di sintesi democratica.

Non ci sono scorciatoie. Una competizione tra leader che non sciolga i nodi della rigenerazione del partito nella società, della speranza nella crisi, della comunità nella disperazione individuale, non sarebbe per il Pd una soluzione. E non solo perché una battaglia ridotta ai leader taglierebbe inevitabilmente le gambe al governo, innescando un cortocircuito che potrebbe azzoppare la sinistra anziché rafforzarla. Il leader rappresenta oggi un fattore indispensabile della rappresentanza politica. La leadership è funzione della sintesi. Anche della sintesi riformista. Ma c’è un confine che separa il leader di una comunità da una comunità costruita attorno a un leader. È il confine populista della democrazia. Un confine che lo smarrimento, l’opportunismo, la paura può far varcare.

La mobilità del consenso dà la misura del superamento di steccati ideologici. È un bene. Tuttavia esprime anche l’incertezza per il domani, e persino una crescente rabbia sociale. La politica non è un movimento senza meta da un leader a un altro, da un’illusione personale a un’altra. La competizione ridotta al leader non offre molteplicità di sentieri, ma rischia di condurci in un labirinto. Dove saremo più soli. Meno capaci di comunità. Oggi invece la prima battaglia da combattere è quella per riscattare il cittadino r masto solo davanti al mercato e allo Stato. È la ricostruzione delle reti di solidarietà, dei corpi intermedi. Il partito è dei corpi intermedi uno dei più complessi, non ha l’esclusiva di nulla, deve umilmente convivere con le altre autonomie sociali, anzi deve promuoverle anziché occuparle. Ma deve tornare alla vita civile. Rinnovato. Ringiovanito. Cambiato nelle forme. Tuttavia vivo. Non è scontato. Anzi, oggi è persino un proposito rivoluzionario, se ci si guarda attorno e se si pensa che ancora molti pensano alla politica come ad un sentiero obbligato, dove le tecnocrazie dettano le linee fondamentali e i governanti eseguono con disciplina.

L’Unità 07.07.13

“Ricostruire la missione pubblica della Rai”, di Fulvio Fammoni*

“Non è mai troppo tardi” è stato il fortunato titolo di una trasmissione del passato che può essere applicato alla Rai di oggi. Ha dimostrato il convegno organizzato dalla Fondazione Di Vittorio e da Articolo 21, sul rinnovo della concessione per il servizio pubblico, che c’è grande voglia di discutere di merito, con trasparenza a partecipazione. Il contrario del silenzio con cui spesso si decide, e del clamore troppe volte inconcludente con cui se ne parla. Non a caso sono ripartite indiscrezioni su vendita e/o privatizzazione (a prezzi da svendita) tipiche di quando non si vuol discutere. Ma un primo punto importante è stato segnato dall’iniziativa della Fondazione Di Vittorio e di Articolo 21: il ministro Catricalà ha smentito la privatizzazione e ha escluso che il governo possa intervenire per decreto sull’azienda. A maggior ragione occorre la più ampia discussione di merito. Anche in questo caso la nostra richiesta è stata ascoltata: per le modalità e le regole della prossima nuova concessione è stata affermata la volontà della più ampia consultazione pubblica, sul modello della Bbc inglese. Questo punto dovrà essere più volte concretamente assicurato nella pratica. Si è già in ritardo rispetto al contratto di servizio. Le bozze che circolano, se sono quelle definitive, pongono problemi per quello che c’è ma soprattutto per una impostazione del tutto tradizionale rispetto a una realtà profondamente mutata. Se si vuole discutere davvero in modo innovativo del futuro i due anni e 10 mesi che mancano al rinnovo della concessione sono il tempo minimo necessario per cambiare regole e leggi attuali che sono in gran parte causa dei monopoli, del conflitto di interesse, della concentrazione pubblicitaria e così via. Questa è la vera anomalia italiana in Europa, non il servizio pubblico. Se qualcuno sostenesse che si può cambiare il sistema di comunicazione italiano lasciando tutto questo inalterato, mentirebbe sapendo di mentire. Per questo le due associazioni proseguiranno la loro iniziativa di coinvolgimento e di proposta su: 1) l’identità della Rai in Europa e nel mondo (come i principali servizi pubblici degli altri Paesi) a partire dalla diffusione della lingua italiana e del nostro patrimonio culturale e storico; 2) un forte rafforzamento in Rai delle tematiche sociali che con il moltiplicarsi dei canali sono invece calate; 3) il rapporto con le nuove tecnologie, facendo della Rai un attore importante per il superamento del digitaldividesu diffusione territoriale, capacità di utilizzo e costo di accesso alle nuove tecnologie. Ma anche con una presenza diretta in rete di chi ha per compito di istituto la garanzie delle verifiche delle fonti; 4) il modello organizzativo, societario e la governance (premettendo che non è nostra intenzione entrare nell’autonomia gestoriale dell’azienda), affrontando tutte le opzioni di fondo, a partire da temi fondamentali come la risorsa lavoro troppo spesso considerata solo come costo e del decentramento regionale; 5) un aspetto importante riguarderà inoltre il tema della produzione culturale (partecipando anche al giusto dibattito in corso sull’eccezione culturale) valorizzando una delle nostre poche «materie prime». Intanto abbiamo avanzato l’idea di una nuova carta d’identità Rai, che delinei la sua rinnovata missione di servizio pubblico e i valori ai quali ispirare la sua attività. Qualcosa di analogo, anche nella forma, a un articolo della Costituzione oppure alle poche righe che definiscono la missiondella Bbc. Su tutti questi aspetti svilupperanno specifici confronti. La nostra convinzione di fondo è che un cittadino formato e informato è più libero e più autonomo
*Presidente Fondazione Di Vittorio

L’Unità 07.07.13

“La sfida del lavoro di cittadinanza”, di Laura Pennacchi

Ora che l’emergenza lavoro è riconosciuta da tutti, ed è divenuto chiaro che non è un eufemismo l’espressione “Job catastrophe” usata dai democratici americani, bisogna affrontare problemi scottanti fin qui elusi, anche a sinistra. Tanto più che, per l’appena avviato dibattito congressuale del Pd, l’idea del congresso che muova «dal basso » (con il rischio di far concentrare i nostri circoli su questioni locali sottraendo loro il diritto di discutere i grandi nodi politici irrisolti) e la proposta di dissociare il confronto sulle idee da quello delle persone da candidare, fanno correre il rischio di lasciare sullo sfondo le vere differenziazioni di contenuto. Tra i problemi scottanti fin qui elusi c’è la differenza tra una strategia di «lavoro di cittadinanza» – intrinseca all’idea di un Piano straordinario per il lavoro comprensivo della creazione diretta di lavoro per giovani e donne – e una prospettiva che dia priorità al «reddito di cittadinanza». È necessario innanzitutto chiarirsi sui termini. L’Italia deve certamente dotarsi di strumenti, delimitati e circoscritti, di necessaria lotta alla povertà, come il «reddito minimo di inserimento» (che da noi fu introdotto sperimentalmente dal primo governo Prodi e poi soppresso dal duo Berlusconi-Maroni). Ma è opportuno avere chiare le differenze tra «lavoro di cittadinanza» (da cui scaturirebbe naturalmente anche un reddito decente), varie forme di «reddito minimo», «reddito di cittadinanza» (da cui non scaturirebbe altrettanto naturalmente un lavoro decente). Quest’ultima è un’ipotesi molto più ampia di quelle stesse di «reddito minimo», non solo per gradazione ma per qualità e natura, perché con esso si mira a garantire a tutti, per il solo fatto di essere cittadini di una comunità, un reddito universale e incondizionato. Il problema dei costi in termini di finanza pubblica – pur enormi, al punto che qualcuno parla di centinaia di miliardi di euro all’anno – dell’idea di «reddito di cittadinanza» non è il più rilevante sul piano culturale. A meno di non pensare che la situazione critica attuale sia immodificabile, e che in particolare non sia rimediabile la sua profonda carenza di lavoro alla quale ci dovremmo rassegnare compensandola e risarcendola sul piano monetario, c’è una domanda preliminare che dobbiamo porci. La strutturalità dei problemi contemporanei delle economie mondiali sarebbe scalfita mediante mere misure di trasferimento monetario del tipo «reddito di cittadinanza»? A me pare di no, tanto più che la strutturalità risalta se teniamo conto delle conseguenze delle caratteristiche del mondo globalizzato e dell’esplosione della crisi globale più lunga e più grave del secolo, crisi che gran parte del dibattito odierno sul reddito di cittadinanza, riproponendosi in termini abbastanza tradizionali, tende per lo più ad ignorare. Un’analoga inadeguatezza emerge se si vuole riproporre una concezione della giustizia che stressi, accanto alla libertà, l’eguaglianza e le capacità. Questo, infatti, è molto impegnativo. Mere ipotesi di trasferimento monetario da un lato esaltano la libertà (specie come libertà di scelta sul mercato) in termini tali da smarrire il suo rapporto con l’eguaglianza, dall’altro adottano una visione di eguaglianza (come mera parità formale dei punti di partenza) non all’altezza dell’impegno richiesto dalle capacità. Strumenti monetari tipicamente indifferenziati, elevati e generalizzati, che rischiano di proporsi come strumento unico con cui risolvere una marea di problemi aventi, viceversa, bisogno di policies articolate, mirate, concrete, non sono in grado di incidere davvero né sui problemi strutturali, né sulla volontà di rimettere al centro la giustizia. All’opposto, essi possono rafforzare alcuni rischi: che i veri problemi odierni (in particolare l’incapacit à del sistema economico di generare «piena e buona occupazione») rimangano oscurati e che, in ogni caso, rispetto ad essi si sia spinti ad assumere un atteggiamento rinunciatario; che attraverso compensazione, riparazione, risarcimento, molto diversi dalla promozione vera, lo status quo risulti confermato e sanzionato; che l’operatore pubblico sia indotto alla accentuazione di una deresponsabilizzazione già in atto (per qualunque amministratore è più facile dare un trasferimento monetario che cimentarsi fino in fondo con la manutenzione, la ricostruzione, l’alimentazione di un tessuto sociale vasto, articolato, strutturato). Si spiega così perché tanta preoccupazione possano suscitare le versioni di «reddito di cittadinanza». Lo fa la versione neoliberista con cui essa si presenta come compimento del «conservatorismo compassionevole»: riduzione drastica di spesa pubblica e tasse e rete protettiva ridotta all’osso per i deboli, come nella «imposta negativa» di Milton Friedman. Ma lo fanno anche versioni più nobili, che tuttavia finiscono con l’avvalorare l’immagine di uno stato sociale «minimo», non troppo diverso da quello «residuale» ipotizzato dalle destre, specie nelle varianti più conseguenti che suggeriscono di assorbire nel nuovo trasferimento tutti quelli esistenti (tra cui le prestazioni pensionistiche e l’indennità di invalidità civile) e di azzerare la fornitura di servizi pubblici dalla cui sospensione (parziale o totale) verrebbero tratte le risorse aggiuntive necessarie al finanziamento. Così tali proposte, oltre a comportare costi enormi (che le rendono del tutto irrealistiche nei fatti, ma sempre devianti sul piano culturale), non danno la garanzia che l’auspicata maggiore «libertà di scegliere» non si riveli per gli svantaggiati del tutto illusoria. Esse, infatti, rischierebbero di funzionare come sanzione e cristallizzazione proprio della precarizzazione e dualizzazione del mercato del lavoro, non offrirebbero risposte alla drammatica femminilizzazione, territorializzazione e cronicizzazione delle condizioni di povertà – dirette conseguenze della carenza dell’offerta di servizi e di interventi correttivi qualitativamente diversificati (come un trasferimento monetario non può mai essere) – si sostituirebbero all’attivazione di nuove strategie di inclusione sociale, le quali dovrebbero, invece, essere rivolte soprattutto a giovani e donne e articolate in politiche mirate per lavoro, formazione, condizioni abitative, reinserimento e così via.

L’Unità 07.07.13

“Il Datagate e il paradosso di Obama”, di Nadia Urbinati

Si scoprì alla fine della Guerra fredda che la Stasi, il servizio segreto della Germania comunista, aveva un dossier su ogni cittadino e aveva fatto di ogni tedesco una spia. In una società dove la vita privata delle persone non conosceva segretezza lo Stato godeva della massima segretezza. Nascondimento è potere fuori da ogni controllo. Ci si chiese allora che senso avesse lo spionaggio quando tutti erano spiati. Ma un senso c’era perché se è vero che per essere efficace il controllo deve essere selettivo, è altresì vero che occorre raccogliere tutte le informazioni per poter selezionare quelle “utili”. È pertanto fatale che la schedatura dilaghi a macchia d’olio. All’opposto, non vi è più radicale nemico della segretezza di Stato di un governo fondato sul pubblico e i diritti civili.
Diceva Norberto Bobbio che rendere pubblico il potere implica togliergli il velo della segretezza: questa è una delle promesse più importanti della democrazia. Una promessa che sta insieme alla pace e alla libertà. Alla pace, perché il sistema di segretezza e di spionaggio presume nemici potenziali o effettivi, la preparazione dei conflitti, non della cooperazione. Alla libertà, perché un governo che cela ciò che fa e raccoglie informazioni in segreto non può garantire la protezione dei diritti. I realisti hanno sempre deriso i democratici di idealismo, eppure con la loro proverbiale giustificazione della politica come arte della dissimulazione e della segretezza essi non sanno distinguere tra governo libero e governo arbitrario. Idealisti e realisti si trovano oggi a misurarsi di fronte a quello che sembra essere il caso di spionaggio più pervasivo e totale dalla fine della Guerra fredda.
Non la Stasi ma l’intelligence americana, non la Germania comunista ma gli Stati Uniti sono oggi il problema. In questo caso, i realisti sono gli americani che hanno messo in atto una gigantesca operazione spionistica non solo verso potenziali ed effettivi nemici, ma anche verso amici e alleati militari, come gli Stati europei e la Ue. La ragione accampata è la protezione dal rischio di terrorismo. Evidentemente il governo americano non si fida degli “amici” europei se acconsente a far mettere cimici nelle loro ambasciate e “scheda” la loro corrispondenza elettronica. Che le agenzie di cui si avvale la Cia emulino la Stasi ha del paradossale anche perché la Casa Bianca ha fatto dei diritti umani un cavallo di battaglia per condannare governi autoritari e aiutare movimenti di resistenza e rivoluzionari.
Le rivelazioni di Edward Snowden, l’ex analista del National Security Agency (Nsa), hanno avuto un effetto dirompente per la legittimità internazionale di Barack Obama che da questa vicenda non ne uscirà bene (nonostante la sorprendente docilità dei leader europei). E con lui il Partito democratico, del quale si dice, con buone ragioni, che ora tace perché governa la Casa Bianca, eppure fece in passato un’opposizione durissima al repubblicano George W. Bush su questioni di violazione della privacy e di diritti civili per ragioni di difesa nazionale. Il paradosso di Obama è di essere forte nei sondaggi perché difensore dei diritti civili – nei giorni scorsi ha esultato per la decisione della Corte Suprema di interpretare il matrimonio come un’unione non eterosessuale – eppure pronto a violare il diritto alla privacy, un valore che per gli americani ha un significato fondamentale, orgogliosi fino a pochi anni fa di rifiutare di avere documenti di identità e ora schedati fin nella loro corrispondenza. Obama con una mano dà diritti, con l’altra li offusca.
I realisti dicono che tutti i governi devo avere servizi segreti, agenzie per la raccolta di dati ed eserciti pronti a intervenire anche in violazione dei diritti, se ciò è necessario alla difesa del Paese. Nulla di nuovo, dunque. Ma così non è quando di mezzo c’è un governo democratico e, soprattutto, una cultura che ha fatto della società aperta il punto di riferimento per l’espansione del libero mercato in tutti gli angoli del pianeta. Oggi veniamo a sapere che l’ideologia del libero mercato ha il sapore di una truffa perché le multinazionali riescono ad avvantaggiarsi delle informazioni carpite per le agenzie americane di intelligence, che insomma il libero mercato riposa su una condizione di privilegio dell’informazione e assomiglia a un governo arbitrario che si camuffa con la propaganda della libertà. L’intervista rilasciata da Snowden, ascoltabile nel sito di Repubblica.it, è inquietante: spiegando la ragione per la quale ha deciso di diventare un ricercato globale senza un luogo dove vivere in sicurezza, ha messo a nudo la doppiezza della politica del suo governo. E ha ricordato ai realisti che un governo che mette in piedi un sistema di spionaggio mondiale sostenendo che è per il bene del Paese è pericoloso perché toglie al pubblico la possibilità di giudicare sui metodi usati per la sicurezza.
Snowden ha legato insieme come perle di una collana le qualità che sorreggono la democrazia e i diritti e ha spiegato perché si devono controllare le agenzie governative che conservano le informazioni su milioni di persone semplicemente perché potrebbero essere utili al governo in futuro. Dietro il paravento del terrorismo si cela la formazione di un sistema pervasivo di raccolta di dati che un qualunque potentato potrebbe usare a proprio vantaggio. Ecco perché il pubblico deve sapere e togliere il velo della segretezza ai governi, quelli democratici in primi luogo.

La Repubblica 07.07.13