attualità, lavoro

“Se per Torino sono tutti nemici”, di Gad Lerner

Marchionne contro tutti? Non si ricordano precedenti al rimbrotto indirizzato dal direttore dello stabilimento di Pomigliano contro un vescovo colpevole di solidarizzare con i lavoratori della sua diocesi, senza distinzione di etichetta sindacale.
Indispettito da un pastore che aveva ricevuto anche i Cobas — perché no? — e si era permesso di raccomandare al gran capo della multinazionale di non badare solo al profitto, con zelo degno di miglior causa il dottor Figliuolo ha pensato bene di lanciargli un’accusa priva di senso: cioè di essersi messo dalla parte dei violenti. Per la verità monsignor Depalma era, sì, andato ai cancelli in un sabato di lavoro e di protesta, ma per raccomandarvi «più umanità da parte di tutti», spiegando ai lavoratori che «non si vincono le battaglie lanciando accuse gli uni contro gli altri». Perché allora la dirigenza Fiat ha pensato di coglierlo in fallo, quasi che il monito rivolto a Marchionne («non si badi solo al profitto») fosse un atto di lesa maestà?
Temo che l’ennesimo infortunio di una comunicazione Fiat che sembra non contemplare altro che il pubblico assoggettamento ai suoi disegni aziendali, sia l’esito di un’ossessione a dividere il campo tra amici e nemici. Non più solo fra i sindacati, ma anche nelle istituzioni politiche, nella magistratura, nella Corte Costituzionale, e perfino nella Chiesa. Ormai infranto lo storico luogo comune secondo cui gli interessi della Fiat coincidono sempre e comunque con gli interessi nazionali, Marchionne alimenta uno spirito di contrapposizione esacerbato. Fino a considerare intollerabile una lettera della presidente della Camera in cui si nega che l’economia possa trarre vantaggio dalla sistematica rinuncia dei lavoratori ai loro diritti. Spiace che la Boldrini sia stata accusata di venir meno ai suoi doveri di equidistanza per aver ricordato questo principio elementare (con il di più, sgradevole ma tipico, di evocarne l’incompetenza). Ma argomenti strumentali della medesima natura erano già stati rivolti contro i magistrati che in due gradi di giudizio avevano imposto il reintegro di 19 iscritti alla Fiom oggetto di discriminazione illegale; peccato che di fatto la Fiat continui ad escluderli dalle linee di produzione della Panda. Tanto più ora che la Corte Costituzionale ha dato ragione alla Cgil, pretendendo il riconoscimento aziendale dei sindacati più rappresentativi. Ci mancava solo la levata di scusi contro il vescovo Depalma, quasi che egli dovesse ignorare la realtà di quasi 2500 dipendenti di Pomigliano e Nola rimasti fuori dalla produzione con tutti i drammi che ciò comporta: il venir meno del reddito, la perdita di dignità, la discriminazione dei non allineati.
Da anni ormai la Fiat pretende deroghe ai contratti di lavoro senza peraltro fornire al governo e al Parlamento informazioni credibili sul futuro della sua presenza in Italia. Marchionne non perde occasione di magnificare gli investimenti che fanno di Pomigliano uno stabilimento automobilistico d’avanguardia nelle sue tecnologie. Come se fosse secondario il suo cronico sottoutilizzo. Come se la discriminazione, teorizzata ma illegale, di una quota significativa delle sue maestranze, non fosse questione da sanare al più presto.
Ho smesso di pensare che ci sia un calcolo razionale di disimpegno dietro a queste ricorrenti provocazioni. Certo, la Fiat ha già spostato fuori dall’Italia il suo baricentro produttivo. Ma è come se gli azionisti, incoraggiati dall’accanimento ideologico di Marchionne, volessero affermare una pretesa di restare protagonisti della vita pubblica nazionale imponendo il metodo delle loro forzature. Vogliono fare i loro comodi, scaricare sugli altri i loro insuccessi, e nello stesso tempo continuare a presentarsi come dinastia industriale egemone nel Paese. Se questo è il metodo, dubito che basteranno i 90 milioni investiti da John Elkann allo scopo di garantirsi il controllo del Corriere della Sera, con tanto di annuncio preventivo al presidente della Repubblica, per garantirsi il pubblico consenso ormai irrimediabilmente dissipato.

La Repubblica 08.07.13