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“Il Copernico della cocaina”, di Roberto Saviano

Conosciamo ogni cosa, anche le più morbose curiosità, sulle famiglie dei grandi imprenditori italiani. Conosciamo ogni cosa degli Agnelli, dei Moratti, di Briatore, conosciamo Montezemolo. Eppure nessuno sa chi sia Roberto Pannunzi. Stiamo parlando di un “imprenditore” i cui affari, superano di gran lunga i fatturati delle famiglie che ho appena elencato. Stiamo parlando di un imprenditore che condiziona la vita del Paese da molto tempo, senza alcuna ribalta e senza la necessità di interloquire, per essere competitivo, con banche e politica. Non conoscere Roberto Pannunzi significa non capire dove arrivino denaro contante, mediazione internazionale, investimenti in ogni settore, fino alla gestione dei porti. Il denaro liquido che Pannunzi in questi anni ha generato e immesso nel tessuto economico italiano e mondiale lo rende a pieno titolo il più grande brokerd’Occidente.
Può competere, forse, con lui solo un altro sconosciuto, Pasquale Locatelli, broker di coca, narcotrafficante di Bergamo, che sta scontando la sua detenzione in Spagna: spero che presto il nostro governo ottenga il suo trasferimento in Italia per iniziare a conoscere sino in fondo la ragnatela delle sue attività.
Anche Pannunzi aveva fatto di Madrid la sede centrale dei suoi affari europei. Anche lui è un broker di coca. Una figura moderna che ha totalmente trasformato il narcotraffico mondiale: riesce a costruire con facilità operazioni finanziarie enormi e a spostare quantità di droga non gestibili per una sola cosca. Senza questa nuova figura, l’acquisto di coca avrebbe continuato a funzionare alla vecchia maniera: la famiglia mafiosa manda un uomo di fiducia in Sudamerica, paga in anticipo una parte del carico, lascia il suo uomo come pegno nelle mani dei
narcos, rischiando di farlo ammazzare se qualcosa va storto. Pannunzi cambia tutto. Raccoglie i soldi di cosche e privati, di imprenditori fidati e mafiosi. Con questi soldi acquista enormi quantità di coca a un prezzo assai conveniente e la gira nei territori dei suoi clienti. Lui nemmeno la vede la polvere, nemmeno conosce i reati dei suoi partner finanziari. Lui vuole solo la garanzia del business e del silenzio. Nasce con lui la mulgestione
tinazionale moderna del narcotraffico: è per questo che gli ho dedicato un capitolo di Zero Zero Zero.
È stato chiamato “il Pablo Escobar della ‘ndrangheta”, ma è una definizione che non posso condividere. Pannunzi non ha mai ucciso e non intende farlo. Perché non è un affiliato: lui tratta con tutti, anche con famiglie tra loro nemiche. Un affiliato, questo, non potrebbe farlo. È in contatto con più organizzazioni, ed essendo esterno a esse, ha un profilo molto più pericoloso rispetto a quello di
El Magico, il vecchio Pablito Escobar. Non obbedisce a nessun boss. Non deve rendere conto della dei denaro che gli viene affidato, ma solo del risultato. Coca buona a prezzi competitivi. Lo definirei invece “il Copernico della coca” perché ha compreso ciò che nessuno prima aveva capito: non è il mondo della coca che deve girare intorno ai mercati, ma sono i mercati che devono girare intorno alla coca.
La sua biografia spiega come si diventa il più anomalo e moderno signore della coca globale. Roberto è il nome di Pannunzi ma nessuno lo chiama cosi. Per tutti è “Bebè”. È romano, ma di madre calabrese. È un ex dipendente Alitalia che da ragazzo, con la famiglia, si è trasferito in Canada. A Toronto diventa allievo di Antonio Macrì, detto
Zzi ‘Ntoni, boss calabrese che aveva impiantato in Canada il traffico di droga senza pestare i piedi alla mafia newyorchese. Sempre a Toronto, Pannunzi, conosce Salvatore Miceli, siciliano, punto di riferimento di Cosa Nostra in quegli anni per il traffico degli stupefacenti. I due diventano amici e attraverso Miceli, Pannunzi ottiene da Cosa Nostra eroina raffinata a Palermo. Pannunzi diventa abile; vuole il migliore rapporto qualitàprezzo e riesce a ottenerlo, perché ha imparato a utilizzare nel modo migliore i contatti di Macrì nei porti di mezzo mondo. La roba di Pannunzi passa nei porti canadesi e italiani senza intoppi.
Pannunzi è disponibile per tutti, organizza spedizioni, fa giungere i carichi in zone del mondo dove l’eroina non arrivava. Fa da mediatore tra la cosca siciliana degli Alberti e i “marsigliesi” che invieranno a Palermo, convinti da Bebè, un loro chimico per allestire la prima raffineria di eroina a Punta Raisi. Fa da tramite tra le famiglie ‘ndranghetiste della costa ionica e quelle di Platì, perché lui ha una dote rara: unisce tutti e non divide. Lavora per tutti ma non appartiene a nessuno.
Rientrato in Italia sposa Adriana Diano che fa parte di una delle più importanti famiglie di Siderno ( Zzi ‘Ntoni, il suo mentore, era proprio di Siderno). Si separeranno presto, ma Pannunzi comprende che mischiare il sangue è fondamentale nel mondo in cui si muove: mischiare il sangue è più vincolante di un contratto. Poi, come copertura e in omaggio alla sua collaborazione con i più importanti trafficanti d’eroina turchi, apre a Roma un negozio d’abbigliamento che chiama Il Papavero.
Ora Bebè, nonostante il nomignolo, è maturo e lavora da solo: i soldi che la ‘ndrangheta ha raccolto con i sequestri devono moltiplicarsi attraverso il narcotraffico. Pannunzi è pronto a investirli. Si comporta esattamente come i top manager ingaggiati dalle grandi holding: agisce seguendo il proprio intuito. Ecco perché, quando ancora il mercato dell’eroina è florido e nessuno crede possa perdere colpi, inizia a investire in coca. Capisce che è la nuova droga, che è l’affare su cui puntare, e mette le basi per la gestione di una joint venture.
È un passo davanti a tutti.
Nei suoi affari, è fondamentale il linguaggio. Utilizza sempre e solo nomi di copertura: Lupin, il Giovanottino, la Ragazza, il Ragioniere, il Lungo, il Nipote, l’Orologiaio, il Cagnolino, il Vecchietto, il Tintore, Coppo-lettone, il Biondo, il Topino, il Fratello del parente, la Zia, lo Scemo, il Compare, Sangue, Alberto Sordi, i fratelli Rotoloni, il Ragazzo, Miguel, lo Zio, il Parente dello Zio, l’Amico, il Gozzo, il Signore, il Piccoletto, il Geometra. Temendo di essere intercettato, non utilizza mai toponimi, numeri di telefono realmente esistenti, indirizzi. Per organizzare un appuntamento, nomi, luoghi, orari, soldi e merce saranno sempre e solo numeri. Ascoltare una sua conversazione e leggere un codice cifrato in tempo di
guerra: «21.14 – 8.22.81.33 – 73.7.15.: Sono iniziali, tre iniziali, hai capito?»
«Poi a capo, trattino: 18.11.33. – K 8.22.22.16 – 7.22.42.81.22. K.11.9.14.22.23. 18.81.33.9.22.8.23.25.14.11.11.25 – (+6) (+6): è il numero».
«Poi ancora 11.21.23.25.22.14.9.11.21.11. Questa è la città».
«Poi, a capo; il numero dell’ufficio: +1,- 2, (non so se ci vuole lo zero o meno) – 3, – 7, =, -7, +6, – 3, +5, +3, +4».
Ora forse questi codici potranno finalmente essere decifrati.
Nell’arresto di Roberto Pannunzi ha giocato un ruolo fondamentale quello di Massimiliano Avesani, avvenuto solo due giorni prima grazie agli uomini della polizia di Renato Cortese. Avesani, detto “il Principe” è il narcosborghese
che conosce i flussi di investimento dei soldi della cocaina nella capitale. Avvezzo ai grossi carichi fu arrestato nel 2011, ma riuscì a scappare. È considerato cerniera tra ’ndrangheta e criminalità romana. Questi due arresti nel giro di una manciata di ore, fanno pensare che, arrestato il Principe, Pannunzi abbia perso la protezione. Ma non è la prima volta che i due finiscono in manette. Ma entrambi sono sempre riusciti — presumibilmente corrompendo — a evadere.
Bebè, per esempio, era già stato arrestato nel 2004 a Madrid. Ma tradotto in Italia, del tutto sconosciuto all’opinione pubblica — la politica come sempre era concentrata su altro — era stato messo ai domiciliari in una clinica privata romana, Villa Sandra perché cardiopatico. Nonostante una condanna a 16 anni e mezzo non era considerato un pericolo pubblico, non era piantonato e riuscì facilmente — troppo facilmente — a scappare. L’arresto di Pannunzi ha un significato unico in questo momento perché è stato preso un manager in grado di versare nel sistema arterioso legale il sangue dei flussi economici del narcotraffico. In grado di gestire flotte di navi per far arrivare la coca ovunque. In grado di gestire quantità di denaro inimmaginabili. Potrebbe cambiare la storia del narcotraffico internazionale. Se collaborasse con la giustizia, conosceremmo i meccanismi sin nel dettaglio della sua attività. Scopriremmo in quali settori legali finivano i soldi, quale parte politica interloquiva con le sue aziende.
Come dice Gratteri, Pannunzi non ha mai contato i soldi perché chi li conta non ne ha abbastanza a ne vuole di più. Pannunzi i soldi li ha sempre pesati. Solo chi pesa i soldi ha denaro e quindi potere. L’Italia continuerà a guardare alle grandi famiglie d’imprenditori talvolta con speranza, altre con disprezzo, altre ancora semplicemente con spirito d’attesa, senza capire che la vera potenza economica è altrove. Ora che è arrivato in Italia in manette il romano Bebè Pannunzi, gli italiani potranno vedere finalmente in volto un rappresentate del vero potere finanziario.

La Repubblica 07.07.13

“Province, provincialismi e ….provincialotti”, di Rossana Dettori

La Consulta, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale del Decreto Legge 201 del 2011, ripropone, al di là della netta censura sull’abuso della decretazione di urgenza da parte del Governo Monti, un tema sul quale gli Esecutivi che si sono succeduti in questi ultimi anni hanno impattato più volte e anche duramente: l’idea che gli assetti istituzionali siano una variabile indipendente dagli atti fondativi del nostro ordinamento repubblicano.
L’idea, cioè, che il tema dei livelli istituzionali, in quel complicato intreccio fra responsabilità e funzioni da garantire ai cittadini, appartiene alla sfera del “come funziona uno Stato” e non, come la Carta Costituzionale impone, a quella di “cosa è uno Stato”.
Gli snaturamenti costanti di quei principi costituenti ai quali il Paese ha assistito, dalla messa in discussione del carattere universalistico del nostro servizio sanitario ai finanziamenti alle scuole private, ha imposto alla Corte questa attività di strenua difesa dei pilastri fondamentali del nostro Patto.
Il caso delle Province è, per certi versi, il più emblematico: la strumentalizzazione politica del tema, in chiave propagandistica, ha prodotto una accelerazione senza precedenti che ha portato l’Esecutivo dei tecnici a scartare finanche il semplice disegno di legge di iniziativa governativa in favore della decretazione di urgenza, della scorciatoia.
La Cgil, la Funzione pubblica della Cgil sosteneva e sostiene tuttora l’esigenza di un disegno di riforma organica che, partendo da una chiara definizione dei ruoli, crei un sistema integrato di livelli istituzionali capace di governare e indirizzare i processi sociali ed economici, mettendo al centro i cittadini ed il loro territorio. Nella proposta che avanzammo all’epoca e che rinnoviamo oggi, si parla di “Carta delle Autonomie”, di gestione associata dei servizi per comuni fino a 10.000 abitanti, della fusione dei più piccoli e di Province che devono essere espressione dei comuni ricompresi nelle aree vaste e per le quali devono essere predeterminate caratteristiche e funzioni, anche per riorganizzare gli ambiti di intervento delle amministrazioni statali sul territorio ( “semplificare per rafforzare”).
La sentenza della Corte, quindi, riapre la possibilità di una interlocuzione complessiva e trasversale sul tema delle riforme che il Governo Letta deve saper cogliere fino in fondo.

Provincialismi
Per aprire questa nuova fase di confronto, però, non è mica necessario ripartire per forza daccapo, ricominciare, cioè, da quei comportamenti difensivi, spesso strumentali ad equilibri politici nazionali e territoriali, che per lunghi tratti di questa strana vicenda hanno appassionato il Paese: Pisa contro Livorno, Terni contro Perugia, i capoluoghi di regione contro le “province più estreme dell’impero”; la rincorsa ai localismi non fa bene a nessuno.
Il Paese ha bisogno di una riforma degli assetti istituzionali che, nel pieno rispetto della Costituzione, mantenendo cioè quella idea di Stato unitario e democratico, provi a sciogliere, ad esempio, la contraddizione di una doppia legislazione statale, caratterizzata dal decentramento normativo e dal centralismo finanziario. Sono i cittadini ad aver necessità di un federalismo unitario, cooperativo e solidale che solo un corretto equilibrio nella distribuzione delle funzioni fra centro e periferia può garantire.
Quindi, per favore, almeno stavolta evitiamo …i provincialismi.

“Provincialotti”
Il Professor Monti non perde occasione (l’ultima proprio qualche giorno fa) di accusare la Cgil di conservatorismo; di essere stata, in buona sostanza, l’ insormontabile ostacolo al dispiegarsi della sua azione di Governo tesa unicamente al progresso del Paese, al miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini. E’ la storia ad incaricarsi di smentire queste affermazioni. Il Paese, i cittadini e finanche il Governo Letta, stanno pagando e duramente gli effetti di quelle politiche economiche: dalla riforma del mercato del lavoro a quella delle pensioni, dall’Iva all’Imu, tutto il dibattito politico attuale ci rimanda a quelle responsabilità, talvolta assunte in via esclusiva, talvolta “in concorso con altri”.
Il Professor Monti, che ha raccolto da solo in circa un anno e mezzo di Governo così tante colpe sullo stato attuale del Paese quanto nemmeno i precedenti Governi degli ultimi dieci anni hanno saputo fare, dovrebbe avvertire il silenzio come una opportunità da cogliere.
I suoi orizzonti limitati, il suo guardare all’oggi (nel caso delle Province si doveva offrire al Paese l’idea di un efficientismo e di un decisionismo a prescindere), la chiusura mentale e l’indisponibilità al confronto ed alla contaminazione, ironia della sorte, sono proprio le caratteristiche sulle quali si è via via costruita la definizione di “provincialista” (o “provincialotto” che dir si voglia).“Il risultato innegabile, egregio Professor Monti, è che dopo un anno e mezzo, grazie a Lei, siamo di nuovo al punto di partenza”.

L’Unità 06.07.13

“Una decrescita tutt’altro che felice”, di Paolo Bricco

La recessione sta piegando la nostra vita. Niente soldi. E perfino a tavola si rinuncia ad alcuni cibi. Qualcosa che ricorda gli anni Venti e Trenta. Nessun richiamo alla sobrietà. È soprattutto la mancanza di denaro, avvolta nella nuvola nera della paura per il futuro, a spingere gli italiani a risparmiare in un modo così nuovo e radicale. «E mi dovrei stupire per i dati Istat? Il fenomeno di quest’anno sono i genitori che fanno mangiare a mezzogiorno i figli alla mensa scolastica e, poi, alla sera portano da noi, qui in via Dandolo, tutta la famiglia». Augusto D’Angelo, a Roma, è responsabile delle mense della Comunità di Sant’Egidio. A trecento metri, in via Anicia, Sant’Egidio distribuisce, ogni mese, seimila pacchi alimentari: ognuno con due chili di pasta, pomodori, qualche scatoletta di tonno, del parmigiano. «In Via Dandolo – racconta D’Angelo – si trovano persone dignitose e ben vestite. L’anno scorso abbiamo contato cinquemila volti nuovi». Non è sorpreso nemmeno Luigi Campiglio, ordinario di politica economica all’Università Cattolica di Milano, l’economista che ha più studiato uno degli ultimi processi di impoverimento strutturale della nostra società, il passaggio alla moneta unica che, per molti connazionali, ha fissato il cambio reale in mille lire per ogni euro. «Il dato dell’Istat sui consumi, in particolare alimentari, va letto insieme all’indagine Eu-Silc di Eurostat», dice Campiglio. Una domanda, posta a consumatori di tutta Europa, riguarda la capacità di permettersi un pasto con carne (o, in alternativa, pollo o pesce) ogni due giorni. «Già nel 2011 – nota Campiglio – il 12,4% degli italiani non se lo poteva permettere. Negli anni prima, questa quota era fra il 5 e il 6 per cento. Nel 2012 e nel 2013, la tendenza non è migliorata». Il 12,4% non è poca cosa. Ed è molto più dell’8,8% di tedeschi e del 6,8% di francesi che si trovano nelle stesse condizioni di indigenza. Siamo sempre più in difficoltà. Sapete, secondo l’Eurostat, quanti italiani hanno problemi a riscaldare la loro casa? Il 18%. Questo, a fronte del 6% dei francesi e del 5,2% dei tedeschi. Cibo e casa. Le ultime due cose. Quando non le hai più, sei povero. «Fra i miei pazienti, è comparsa una sindrome speciale: per la prima volta, torniamo a pensare che il futuro, in Italia, ci sia precluso. Nella testa, siamo ridiventati un Paese di emigranti». A sottolineare il mutamento identitario è Marco Greco, psicoterapeuta e direttore della scuola di psicodramma moreniano di Torino. Il quale aggiunge: «La crisi è sempre ambivalente. Sul tema del cibo, l’abbandono forzato dello spreco di un tempo può diventare un perno per ridisegnare abitudini troppo condizionate dagli eccessi dei consumi. Tuttavia, l’intensità della recessione è tale da offuscare, nell’emotività delle persone, anche questo aspetto di razionalizzazione virtuosa. E, poi, su tutto, c’è la durezza della quotidianità: in molti non riescono più, letteralmente, a mettere insieme il pranzo con la cena». Sull’esistenza di nuovi modelli di consumi è d’accordo Monica Fabris, presidente della società di analisi di mercato Episteme: «Esiste un richiamo alla austerità, ma intesa come invito alla moderazione, non alla decrescita». La decrescita è tutt’altro che felice. Il cibo e la casa. E la salute. Spiega Fabris: «Sempre più italiani scelgono di non curarsi. Rimandano gli esami. Il costo del ticket è, o sembra, proibitivo». La paura è tale che, in farmacia e al banco dei formaggi, si rinuncia a spendere. Siamo in una bolla. «Fra le domande che poniamo nei nostri focus group – afferma Fabris – una ha un esito scioccante. Il quesito è: l’anno prossimo la sua situazione economica sarà più sicura? Fino a tre anni fa, un terzo degli italiani rispondeva di sì. Oggi è il 2 per cento. Di fatto, nessuno».

Il Sole 24 Ore 06.07.13

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Saraceno: «Meno quattrini e più paure: così si ipoteca il futuro», di Oreste Pivetta

Sempre meno quattrini in tasca, sempre più paure in testa. Spiegazione di quanto ci dice l’Istat: crollano i consumi. Una sorpresa? Di sicuro no per le famiglie che hanno visto svanire i propri mezzi, di sicuro no per chi studia questi andamenti. «Le avvisaglie c’erano tutte – spiega Chiara Saraceno, sociologa che ha scritto testi fondamentali sulla famiglia, sulla condizione della donna, sulle povertà (e ha presieduto la commissione parlamentare di studio sulle povertà, ministra allora Livia Turco) – e tutti gli indicatori concordavano. Anche i dati raccolti dall’EuSilc mostravano la piega negativa dei consumi già dal 2010 al 2011, poi confermata tra il 2011 e il 2012».

EuSilc è la rete statistica europea che indaga appunto su redditi e famiglie. Ma se la crisi viene da lontano ormai, qualche effetto si è forse presentato in ritardo…

«Da quanto dura la crisi? Da cinque, da sei anni? Da quanti anni si perdono posti di lavoro, aumentano i disoccupati, cresce il numero dei cassintegrati e di quanti, senza lavoro, vedono ormai esaurirsi la possibilità della cassa integrazione o di quanti ancora la cassa integrazione non hanno mai potuto vederla? Moltissimi sono senza protezione, colpa di un sistema sgangherato di welfare come il nostro… Che cosa ci ha salvato per un tempo non breve? È successo che chi aveva due soldi da parte, li ha spesi per difendere la qualità della vita e quindi dei consumi per sé e per la propria famiglia. Adesso non può più permetterselo: non sarebbe saggio in queste condizioni intaccare ancora il piccolo patrimonio familiare, perché nessuno sa prevedere che cosa ci capiterà».

Quindi c’è qualcosa che nasce nella psiche di ciascuno di noi in questo crollo: incertezze, pessimismo, dubbi sul futuro?
«Una cronaca torinese riferiva che sta aumentando l’entità dei depositi liquidi nelle banche. Significa che siamo tornati ricchi? No, significa che si risparmia: anche chi ha un reddito adeguato non spende, preferisce risparmiare, tagliando i consumi, per costruirsi un piccolo salvadanaio. La prudenza è di tutti, anche di chi non è povero, di chi può godere di buone entrate e sicure». Non dovremmo essere ancora a quel punto… Siamo un Paese fermo?

«Non solo fermo. Un Paese che arretra, un Paese che sperimenta la sua grave recessione: basterebbe riferirsi al cambiamento nelle tendenze alimentari. Si è chiusa la fase in cui si rinunciava ad altri consumi, ma non si accettava l’idea di toccare quelli alimentari. Ora si il 62% delle famiglie taglia sul cibo, sulla qualità del cibo: si acquista meno e peggio, si conserva, si ricicla. Se fosse lotta allo spreco, sarebbe una questione di buona educazione. Ma sappiamo che non è così». Un Paese che mangia meno sembra un Paese in ginocchio, da carestia. D’altra parte quanti ormai non cercano neppure più una occupazione?

«Il rovescio della medaglia è la ricerca invece di un lavoro qualsiasi, anche se poco qualificato, con contratti a termine, in varie fo me, da parte delle donne. Paradossale: torna a crescere un certa impiego femminile, di colf, badanti, nelle imprese di pulizie. Sono le mogli di mariti che hanno perso il posto e che si adattano…».

Che cosa pesa di più: la sfiducia o il reddito?
«Berlusconi s’era inventato quello spot che invitava a spendere. Trovare le risorse e metterle in gioco: questa è la via per risalire».

Qualcosa potrebbe arrivare alla lotta dall’evasione fiscale?
«Certo. Ma la lotta all’evasione fiscale è diventata un mantra. Si pensa, si annuncia e non si fa, perché non si fa lotta all’evasione fiscale inviando qualche bravo finanziere a Cortina. Si deve fare anche questo, ma soprattutto si deve mettere in atto un sistema che scoraggi e poi condanni severamente l’evasione. Non è facile, anche per le caratteristiche del tessuto produttivo italiano di piccole imprese e di lavoro autonomo e si sa che lì attecchisce più facilmente l’irregolarità. La grande impresa non può evadere». L’eventuale soppressione dell’Imu potrebbe aiutare?

«Sarebbe una decisione irresponsabile, segnata dall’ingiustizia. In qualsiasi Paese si paga una tassa sulla casa in proprietà. Si può pensare di rimodularla, aiutando chi ha meno reddito, ma cancellarla mai: sarebbe solo un favore ai ricchi (purché non posse gano un castello). E poi: per chi sta in affitto niente?».

Mi pare che una ricetta anticrisi sia comune: aumentare i soldi in tasca agli italiani, riavviare i consumi, rianimare il mercato. Ma viene da chiedersi: non c’è anche una questione di qualità dei consumi? «Dibattito aperto. Ce lo siamo spesso chiesti: quante automobili dobbiamo comprare, quanti vestiti, per tenere in piedi l’economia? A parte il fatto che qualcuno una risposta se l’è dovuta dare, ad esempio comprando meno pane e meno pasta, l’obiettivo quando non c’è lavoro è creare le condizioni perché il lavoro torni e non c’è dubbio che in questo momento ci si può riuscire solo facendo girare denaro e soprattutto più rapidamente. Leggevo in questi giorni di un imprenditore che vanta un credito nei confronti di enti pubblici di 750mila euro e denunciava le lentezze e le complicazioni burocratiche imposte da leggi e regolamenti per ottenere il pagamento. È uno scandalo, perché i soldi per rimborsare quell’imprenditore ci sono, sono stati stanziati, ma giacciono in qualche anfratto regionale. Ora pare che il ministro Saccomanni abbia rassicurato l’imprenditore. Speriamo che le assicurazioni del ministro abbiano buon esito. Resta il guaio di una inefficienza burocratica che contribuisce a paralizzare il Paese, che blocca gli investimenti, un’inefficienza che scoraggia e talvolta uccide. Ecco, mettiamo in conto la scarsa produttività della pubblica amministrazione, quando qualcuno chiama in causa a giustificare la crisi la scarsa produttività del lavoro, ricordando sempre che non potremo mai competere con Cina o India, riducendo il costo del lavoro o aumentando l’intensità dello sfruttamento».

L’Unità 06.07.13

Le condizioni per la ripresa”, di Leonardo Becchetti

Dobbiamo dare atto a questo governo di saper fare equipaggio in modo egregio nella barca europea, dimostrando capacità e diligenza e comunicando con i toni giusti. Il problema però è se, per troppo garbo, non si fa presente che la rotta non è proprio quella giusta. Draghi procede con grandissima abilità ad orientare nel modo corretto le aspettative degli operatori (la Bce continuerà con le sue politiche espansive, accentuandole se necessario, finchè le economie dei Paesi membri non si saranno riprese).

La Ue, invece, è ancora prigioniera di una politica fiscale troppo restrittiva pagata dalla stagnazione dei Paesi del nord e da un avvitamento ancor più grave con crollo della domanda interna che aggrava la recessione nei Paesi del sud. Nonostante i ripensamenti dello stesso Fondo monetario e di molti autorevoli esponenti del «rigorismo espansivo», la politica dell’Unione persevera diabolicamente nell’errore quasi per inerzia, agganciata a dogmi come quelli del 3% del rapporto deficit/Pil, del pareggio di bilancio e del fiscal compact che lo stesso ministro Saccomanni ha fatto presente andrebbero ridiscussi. Malgrado il nuovo campanello d’allarme del Portogallo, piegato da tre anni di recessione aggravata dal crollo della domanda pubblica e privata, non sembriamo volerci liberare del macigno che rischia di portare a fondo l’euro. Tutto ciò mentre i dati continuano a lanciare allarmi. La caduta mensile dei consumi riportata ieri dell’Istat del 2,8% è la più forte dal ’97. I dati sulla disoccupazione aggregata e giovanile sono anch’essi preoccupanti e nulla lascia presagire in Europa quella robusta inversione di tendenza osservata negli Stati Uniti dove l’obiettivo di riportare la disoccupazione sotto il 7% è stato «rivoluzionariamente» fatto proprio dalla stessa banca centrale. In questi giorni ci stiamo rallegrando degli spazi di manovra conquistati: il miliardo e mezzo della quota di fondi europei per rilanciare l’occupazione giovanile, e il «permesso» di arrivare al limite del 3% senza dover muovere verso il pareggio di bilancio, che ci consentirebbe di spendere altri 8-10 miliardi che potrebbero raddoppiare se utilizzati come cofinanziamento di progetti europei a disposizione ma non ancora attivati. Altre risorse potrebbero arrivare dall’anticipo dei pagamenti dei crediti della pubblica amministrazione. Per ora i dati come quelli di ieri ci dicono che potrebbe non bastare. Sono dati che hanno indotto gli stessi alfieri del rigore a cambiare del tutto avviso, proponendo all’Italia di chiedere la deroga al 3% per una manovra shock di riduzione delle tasse sul lavoro e sul reddito in grado di far rilanciare la domanda interna. Già, perché i dati che i saggi hanno riportato nel loro rapporto al presidente della Repubblica ci ricordano che l’economia non può vivere solo di export e che il circa -2% del Pil dello scorso anno è il risultato di un +2% apportato dall’export e di un -4% determinato dal crollo della domanda interna.

Anche se razionalizzare la spesa è importante, non illudiamoci di poter liberare tesori dalla riduzione della spesa pubblica cui molti fanno taumaturgicamente riferimento. Dobbiamo continuare, per quello che dipende da noi, a migliorare gli elementi strutturali del sistema Paese (tempi della giustizia civile, istruzione, information tecnology, burocrazia e corruzione, valorizzazione dei fattori competitivi non delocalizzabili) ma batterci anche per modificare quei fattori strutturali che ci remano contro e che non sono interamente nelle nostre mani.
Oltre al cambiamento della politica fiscale europea dovremmo iniziare a preoccuparci di costruire regole che spingano la globalizzazione al servizio del bene comune. Il metro di riferimento per giudicarla devono essere i diritti della persona e del lavoro: se la tendenza è quella di portare i centinaia di milioni di disperati che guadagnano un dollaro al giorno verso le nostre tutele allora bene, se il moto è contrario (come spesso sta accadendo) c’è qualcosa che non va. O costruiamo accordi di libero scambio con clausole sui diritti e prepariamo la strada per la nascita di un salario minimo mondiale, pur differenziato per aree, o continueremo ad essere risucchiati verso il basso in questa gara tra disperati. I lavoratori di Indesit, Bridgestone, Whirlpool, Natuzzi, Fiat, per citare solo alcuni dei casi in discussione in questi giorni, lo sanno bene. Politica fiscale europea da riformare, globalizzazione 2.0 e miglioramento del sistema Paese (da non confondere con la mera riduzione dei salari che non fa che deprimere la domanda interna) devono essere i fari della nostra azione. Non importa se non tutto dipende interamente da noi. Dobbiamo comunque convincere gli altri e farcela.

L’Unità 06.07.13

“Tagliare le tasse? Meglio investire sul welfare”, di Marcella Ciarnelli

E’ sbagliato considerare il welfare come un costo improduttivo o addirittura uno spreco che accresce il debito pubblico. È, al contrario, corretto considerarlo come un’occasione di crescita e di sviluppo. Un investimento, uno deí volani per avviare la ripresa economica. Questa la conclusione, dati alla mano, della ricerca promossa da 40 organizzazioni tra le più rappresentative che operano nel campo dell’economia sociale, del volontariato e del sindacato, intitolata, appunto «Il welfare produce occupazione », elaborata da un gruppo di ricercatori coordinati da Andrea Ciarini dell’Università La Sapienza di Roma. Dai dati raccolti emerge che il settore dei servizi e proprio quello, molto pìù che il secondario, a registrare una costante crescita in Italia ed in Europa, nonostante la crisi economica che continua a pesare. In tutta Europa, tra il 2008 e il 2012, a fronte di una perdita di occupazione nei comparti manufatturieri di 3 milioni e 123mila unità l’incremento nei servizi di welfare, cura e assistenza è stato pari a 1 milione e 623mi1a unità, il 7, 8 per cento in più. L’Italia è in ritardo. Per questo è necessario l’impegno a recuperare, tanto più essendo uno dei pochi Paesi a non aver elaborato una politica per l’autosufficienza sempre più necessaria dati i nuovi bisogni collegati all’innalzamento dell’età media. Nel nostro Paese sono più di 15 milioni, il 38,4 per cento della popolazione tra i 15 e i 64 anni, le persone impegnate regolarmente nel lavoro di cura di figlio coabitanti di meno di 15 anni, altri bambini della stessa fascia d’età o, adulti anziani, malati, non autosufficienti e con disabilità.

LE DONNE IN PRIMA LINEA Questa attività di cura interessa soprattutto le donne, sia in valore assoluto, 8,4 milioni di donne contro 6,8 milioni di uomini che in termini percentuali, 42,3 per cento a fronte del 34,5. Le stime dell’Istat segnalano che sono 240mila le donne costrette a scegliere il part-time per mancanza di servizi adeguati e che 489mi1a sono le donne ostacolate nell’accesso al mondo del lavoro. All’impegno diretto delle famiglia va aggiunto quello delle badanti o assistenti. Per il lavoro di cura privato nel 2009 la spesa è stata pari a 9,8 miliardi di euro contro i 7,1 miliardi di euro dell’intera spesa sociale dei Comuni registrata nello stesso anno. Da registrare è anche il profondo squilibrio tra Nord e Sud. Emblematica è la situazione degli asili nido, a macchia di leopardo. Insufficiente l’offerta rispetto alla domanda con un divario tra Nord e Sud tutto in due dati: 25,4 per cento in Emilia Romagna e 1,9 per cento della Campania. L’uso della spesa pubblica per creare lavoro, stando alla ricerca che si ricollega a recenti studi in materia, ha effetti sull’occupazione molto più alti e in tempi più rapidi di altre azioni: fino a dieci volte superiori rispetto al taglio delle tasse, da 2 a 4 rispetto all’aumento di spesa degli ammortizzatori sociali o alla riduzione dei contributi sul lavoro per le imprese. «Questo vale anche per il welfare a condizione che si operi non per creare un’occupazione qualsiasi, né un lavoro di pubblica utilità per i disoccupati, ma impieghi utili a rispondere ai bisogni presenti e urgenti nelle nostre società» è sottolineato nel rapporto che ha posto l’accento sulle criticità conseguenti ad una mancata politica nazionale. Il viceministro alle politiche sociali, Maria Cecilia Guerra ha concordato sul concetto di welfare come volano per l’economia. Bisogna cambiare angolo di prospettiva e considerare le politiche sociali «non più come interventi riparatori ma soprattutto come servizi e supporti inclusivi, affinché le persone siano davvero artefici e protagoniste della propria esistenza».

L’Unità 06.07.13

Margherita Hack: “Dalle cannonate naziste alle stelle Io e la mia sfida contro l’ignoto”, di Marco Cattaneo

«Spesso mi facevano compagnia le cannonate che si scambiavano i tedeschi, che occupavano la città e sparavano dalla collina di Fiesole, e gli Alleati, che stavano guadagnando terreno da sud, dalla zona della Certosa». Era il 1944, quando la ventiduenne Margherita Hack svolgeva le osservazioni per la sua tesi di laurea nelle notti dell’osservatorio di Arcetri, a Firenze, insolitamente buie per il coprifuoco e dunque ideali per chi si affacciava all’oculare di un telescopio.
In verità — racconta nelle pagine di Il perché non lo so,
una suggestiva autobiografia per episodi in edicola con Repubblica e l’Espresso da lunedì 8 luglio — Margherita Hack era arrivata a quella tesi in astronomia quasi per caso. Le avevano negato una tesi in elettronica, e nell’altra materia disponibile, la fisica matematica, non si reputava particolarmente brillante. Così preferì trascorrere le lunghe notti in compagnia delle cannonate e delle Cefeidi, una classe di stelle variabili la cui regolarità serve a misurare la distanza delle galassie in cui si trovano. E ancora di recente ricordava quelle notti avventurose con l’entusiasmo contagioso di un ricercatore alle prime armi.
Alla fine della guerra ebbe un incarico come assistente volontaria all’osservatorio e una modesta borsa di studio dell’Istituto nazionale di ottica, per diventare assistente ad Arcetri nel 1948. Fu in quegli anni che, grazie anche all’incontro con il direttore Giorgio Abetti e con il francese Daniel Chalonge, cominciò ad appassionarsi all’astrofisica. Grazie alla spettroscopia, che permetteva di conoscere la composizione chimica di un astro, lo studio delle stelle smetteva di essere una pura pratica osservativa per diventare una scienza fisica a tutti gli effetti. E mentre proseguiva il suo lavoro di ricerca — con frequenti viaggi tra Berkeley e Parigi, Princeton e Utrecht — cominciò ad appassionarsi alla divulgazione scientifica, collaborando con un quotidiano. Nel frattempo si dedicava alle atmosfere stellari, producendo i suoi lavori scientifici più importanti nello studio dell’evoluzione stellare e nella classificazione spettrale delle stelle. Il suo primo libro rivolto al grande pubblico, L’universo Pianeti stelle galassie, edito da Feltrinelli, è del 1963.
Un anno dopo Margherita Hack è a Trieste, dove ha vinto la cattedra di astronomia e assume la direzione del locale osservatorio. «Quando cominciai a lavorare — scrive ancora in Il perché non lo so — trovai una situazione di abbandono». Lo staff era composto da due soli ricercatori, e l’unico strumento disponibile era un piccolo telescopio amatoriale. Così, risoluta come era in ogni sua espressione, avviò la costruzione di un nuovo osservatorio lontano dall’inquinamento luminoso della città, vicino a Basovizza, sul Carso triestino, attorno al quale raccolse giovani ricercatori invitando i massimi esperti della materia. Grazie anche alle sue qualità didattiche, che emergono in tutta la sua opera di divulgazione, e alle ottime relazioni internazionali, nel giro di pochi anni l’osservatorio divenne un centro molto attivo, che riceveva visite da tutto il mondo. E quando lo lasciò, vent’anni dopo, aveva uno staff di un’ottantina di persone.
Il perché non lo so è il racconto appassionato di una vita tutta ispirata dalla scienza. Dove si leggono la pazienza, la tenacia, il sacrificio e la solitudine che occorrono per misurarsi con l’ignoto, «proprio la situazione in cui si trovano Sherlock Holmes o Hercule Poirot». Ma, chiosa Margherita Hack senza alcun rimpianto, «nessuna fatica è inutile se lo scopo è importante ». Ed è forse questa l’eredità più preziosa che ci lascia.

La Repubblica 06.07.13

Carpi: domenica sera si parla di “Governo e Pd, il futuro che sarà”

Ospiti della serata, le parlamentari del Pd Alessandra Moretti e Manuela Ghizzoni
Proseguono gli eventi nell’ambito della festa Pd di Carpi “La nostra comunità, il nostro futuro”. Domenica 7 luglio alle ore 21 appuntamento con le deputate Pd Alessandra Moretti e Manuela Ghizzoni.
Appuntamento domenica sera, 7 luglio alle ore 21, Area piscine di Carpi, c/o il PalAbitcoop, alla festa del Partito Democratico, per discutere sul tema “Governo e Pd: il futuro che sarà”. Ospiti della serata le deputate del Partito Democratico Manuela Ghizzoni, modenese, e la vicentina Alessandra Moretti. Modera la serata la giornalista de Il Resto del Carlino, Silvia Saracino.