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Pubblica amministrazione, più efficienza e meno sprechi: si può fare

Il ministro della pubblica amministrazione, Gianpiero D’Alia, ha recentemente affermato di voler convocare sindacati e Aran per dare il via a una «negoziazione» sulla parte normativa dei contratti. Un passo importante, significativamente bene accolto dalle rappresentanze dei lavoratori, che ora ha l’opportunità di trasformarsi in un cammino riformista pienamente concertato.

È possibile e doveroso lavorare all’efficientamento delle tante realtà nazionali e locali della pubblica amministrazione e a organi di raccordo su cui interferiscono troppe intermediazioni parassitarie. Vuol dire combattere sprechi e inefficienze; diminuire drasticamente i troppi collettori di spesa, centralizzandoli e controllandoli rigorosamente.

E ancora: abbattere consulenze e costosi quanto inutili outsourcing, valorizzando le tante e ottime risorse interne alla pubblica amministrazione; dare attuazione alle nuove disposizioni sulle piante organiche, aggiornando lo strumento della mobilità e spostando, ove possibile, il lavoro e non i lavoratori.

Soprattutto vuol dire utilizzare le somme recuperate da queste operazioni per andare incontro a dipendenti pubblici che, specialmente negli anni governati dalla destra, hanno subito solo tagli lineari, vedendo crollare drasticamente il proprio potere d’acquisto.

Qualificare la spesa pubblica, elevare gli standard dei servizi e agganciare le retribuzioni alla produttività, sono traguardi fortemente interdipendenti. E possono essere raggiunti in breve tempo solo reimpostando relazioni industriali secondo nuovi e più moderni criteri partecipativi. Per essere chiari, occorre rilanciare la contrattazione di secondo livello anche nelle amministrazioni pubbliche.

Operare insieme alle parti sociali per realizzare “piani organizzativi”, nel solco dei piani industriali del segmento privato. Riconoscere un’autonomia specifica e una conseguente puntuale responsabilità alle singole amministrazioni, chiamate a definire, insieme alle rappresentanze dei lavoratori e agli utenti, veri e propri piani strategici capaci ottimizzare i costi dei servizi prodotti, elevandone al contempo la qualità.

Innovare si può e si deve. Ma, nella pubblica amministrazione come in ogni altro campo, è impensabile arrivare a una riforma di sistema stabile senza la cooperazione responsabile di tutti gli attori coinvolti. Partecipazione e produttività: sono questi i due elementi da mettere sul tavolo per uno “scambio” tra governo, autonomie locali e sindacati. Ed è su questa via, di sicuro difficile e molto stretta, che devono essere costruite le condizioni di un coraggioso ricambio generazionale.

Gli apprezzabili sforzi dell’esecutivo per impostare una staffetta tra vecchie e nuove leve nel segmento privato devono essere estesi anche nel settore pubblico. Introdurre un criterio di maggiore flessibilità nel sistema pensionistico, unitamente alla graduale ripresa di un turnover, garantirebbe la riqualificazione tecnologica della forza lavoro, dando respiro a decine di migliaia di precari e vincitori di concorsi mai immessi in servizio, accelerando una macchina pubblica che resta la più anziana d’Europa.

Come dimostra il totale fallimento dell’amministrazione Brunetta, non è delegittimando e picconando la pubblica amministrazione che si arriva a ridefinirne contorni più snelli e meccanismi più trasparenti ed efficienti. Il governo Letta deve entrare in una logica opposta, riconoscendo il pieno protagonismo del corpo sociale nella definizione di nuove e più efficaci norme che regolino, a tutti i livelli, i processi decisionali e di controllo.

Non c’è strada migliore per reimpostare i rapporti tra politica e istituzioni, incardinando la nuova dirigenza su binari manageriali e lontani dalle logiche dello spoil system. Non c’è via più diretta per sfrondare radicalmente la burocrazia, rilanciare modelli organizzativi e progetti innovativi, trasformando finalmente l’amministrazione pubblica in un fattore decisivo di crescita e di sviluppo nazionale.

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Pompei, PD: “Risposte insufficienti, il degrado non nasce per caso”

Una delegazione di deputati PD della Commissione Cultura della Camera si recherà nella mattinata di lunedì 8 luglio in visita all’area archeologica di Pompei. L’obiettivo è verificare le condizioni del sito, lo stato di attuazione dei progetti, la situazione del personale. La delegazione, guidata da la vicepresidente della commissione, Manuela Ghizzoni, e dalla deputata napoletana Luisa Bossa, ex sindaco di Ercolano, incontrerà la sovrintendente Elena Cinquantaquattro, il sindaco di Pompei Claudio D’Alessio, una delegazione di sindacati e lavoratori dell’area archeologica.

“Consideriamo Pompei una delle priorità del lavoro di recupero che il Governo deve fare sui beni culturali del nostro Paese – dice Luisa Bossa – la presenza sul posto dei deputati della Commissione risponde sia al bisogno di acquisire direttamente elementi di conoscenza sulla situazione sia quello di manifestare la vicinanza del Parlamento a chi sta operando per il recupero di un presidio culturale di così straordinaria importanza. Visiteremo i cantieri aperti con i fondi europei, incontreremo il sindaco, i sindacati e affronteremo la questione che riguarda la necessità di nuove assunzioni di guide e di custodi.

Personalmente – ha chiarito Bossa – ho depositato, fin dalla scorsa legislatura, decine di interrogazioni su Pompei, prima ancora che cominciasse quella drammatica sequenza di crolli.

Le risposte non sono quasi mai state soddisfacenti. C’è stata, per anni, un’ampia sottovalutazione dei problemi. La situazione di oggi, quindi, non è casuale. Con il ministro Barca, nei mesi scorsi, qualcosa è cambiato. Incalzeremo anche il ministro Bray perché dalla salvezza di Pompei passa la possibilità per il nostro Paese di costruire sui beni culturali anche un progetto di rilancio economico oltre che territoriale”.

La delegazione sarà formata inoltre dai parlamentari democratici della commissione Cultura, Mara Carocci, Maria Coscia, Manuela Ghizzoni, Flavia Piccoli Nardelli, Gianna Malisani, Simona Malpezzi, Roberto Rampi, Maria Grazia Rocchi.

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“La confusione sulle Province”, di Marco Olivetti

Che la riforma e il riordino delle Province, decise con vari decreti-legge dal governo Monti, fossero operazioni costituzionalmente illegittime avrebbe dovuto essere quasi scontato, proprio per le ragioni indicate l’altro ieri nel comunicato stampa della Corte costituzionale: la previsione con decreto-legge di riforme ordinamentali da attuarsi con successivi atti con forza di legge è intrinsecamente contraddittoria con la natura del decreto-legge, quale provvedimento di necessità e urgenza.

Inoltre l’art. 133 della Costituzione, che delinea un procedimento legislativo rinforzato per il mutamento delle circoscrizioni provinciali, senza disciplinare il procedimento per la loro soppressione come singoli enti, avrebbe dovuto indurre alla conclusione che la via appropriata per procedere in tal senso è la riforma della Costituzione. Tuttavia la decisione della Consulta non era scontata: non solo per la forte pressione dell’opinione pubblica su questo tema, ma anche per la giurisprudenza anti-regionalista ed anti-autonomista del giudice delle leggi italiano, che ci ha abituato in materia a non poche capriole argomentative.

Chiuso comunque questo capitolo secondo la logica del diritto costituzionale, si pongono due problemi non da poco: si deve effettivamente procedere all’abolizione delle Province, o si deve ricercare una soluzione meno radicale, che ne riduca il numero, magari lasciandola sussistere nelle Regioni più grandi? E in quale modo si deve procedere? La questione, infatti, è molto più complessa di quanto certe campagne di stampa lascino supporre, e non solo per la resistenza di una parte del ceto politico. Varie parti del territorio italiano sono infatti caratterizzate da Comuni troppo piccoli e da Regioni troppo grandi, e richiedono l’esistenza di enti di «area vasta», che del resto esistono in Francia, Spagna e Germania. Peraltro la complicazione del «millefoglie territoriale» italiano è solo in parte prodotta dall’esistenza delle Province, dovendosi piuttosto alla proliferazione di enti sovracomunali di vario tipo, fra i quali occorrerebbe mettere ordine.

Ciononostante, la domanda di semplificazione del sistema politico e dell’ordinamento territoriale è ormai troppo forte perché sia possibile resistervi e il governo Letta si è chiaramente orientato in favore della soppressione delle Province, sin dalle sue dichiarazioni programmatiche alle Camere. Se, tuttavia, abolizione ha da essere, sarebbe bene non solo che questa volta si utilizzasse la procedura appropriata (vale a dire la legge di revisione costituzionale), ma anche che in tal senso si procedesse in maniera ordinata, nel quadro del processo complessivo di riforma costituzionale che il governo ha avviato un mese fa. Da questo punto di vista, la questione delle Province non è una monade senza porte e senza finestre, ma un tassello di un ordinamento territoriale assai complesso (forse più complesso di quanto il Paese possa oggi permettersi). In questo contesto il rischio principale è scambiare la semplificazione col semplicismo e credere che i problemi possano risolversi con un tratto di penna. È nel quadro del non più rinviabile riassetto del sistema delle autonomie territoriali (a sua volta connesso alla riforma del bicameralismo e della forma di governo) che il tema delle Province (soppressione o riordino) deve essere collocato.

È bene tuttavia ricordare che questa riforma non sarà senza costi. Non solo vi è il rischio di abbandonare al loro destino migliaia di piccoli Comuni, soprattutto nelle zone montane, ma anche i benefici economici attesi dalla soppressione delle Province saranno assai ridotti. Nessuno, infatti, propone di licenziare i dipendenti provinciali, i quali verosimilmente transiteranno nei ruoli regionali, con conseguenti aumenti retributivi, e maggiori costi per la finanza pubblica.

L’Unità 05.07.13

“Quel grande ritardo sui pagamenti alle imprese”, di Federico Fubini

Quando un paio di settimane fa il telefono è suonato nella sua piccola impresa edile di Ivrea, Gianluca Actis Perino non avrebbe mai immaginato che dall’altra parte del filo lo stava cercando il ministro dell’Economia. Fabrizio Saccomanni aveva un paio di domande per lui
Perino è amministratore unico della Sicet, un’azienda edile di 15 dipendenti (cinque meno di due anni fa) che dopo molti mesi è riuscita a farsi pagare dalla provincia di Torino 720 mila euro di crediti scaduti per la manutenzione di due licei. Saccomanni aveva letto quel mattino un articolo sulla Stampa in cui l’imprenditore spiegava le sue difficoltà e l’ha fatto cercare. Ma più che congratularsi, chiuso nel suo ufficio di Via XX Settembre a Roma, il ministro voleva capire: quanto è difficile trasferire concretamente una somma dai conti del Tesoro fino a quello di un uomo che, spiega Perino, deve scegliere se comprare un nuovo camion per l’impresa «o dare da mangiare ai figli»?
I dati, di per sé, fanno pensare sia quasi impossibile. È almeno da febbraio che il governo, allora guidato da Mario Monti, promette di pagare almeno 20 miliardi di debiti commerciali arretrati entro quest’anno. Sei mesi più tardi la contabilità esatta dei progressi è disarmante: il 27 giugno scorso il Tesoro ha trasferito alla regione Lazio 924 milioni, con i quali la giunta in teoria dovrebbe iniziare a pagare le imprese creditrici entro 30 giorni; l’altro ieri poi dai conti di Via XX Settembre sono partiti altri 448 milioni di «anticipazione di liquidità » per il Piemonte. «In corso » sono anche dei pagamenti di circa 500 milioni dal Tesoro agli altri ministeri perché questi a loro volta saldino i propri creditori, mentre la Cassa depositi e prestiti ha trasferito 1562 milioni a 1500 comuni che ne hanno fatto richiesta.
In tutto, giunti già a metà del 2013, si tratta di poco più di tre miliardi sui venti da saldare. Ma per ora sono solo bonifici partiti da certi conti dell’amministrazione pubblica verso altri conti di altri rami dell’amministrazione pubblica. Alle imprese, di quei tre miliardi, è arrivata appena una frazione di entità per ora ignota. Lo Stato ritiene di avere circa 90 miliardi di debiti commerciali arretrati (un quadro più preciso si dovrebbe avere solo in settembre), ma non ha la minima idea di quanto sia già stato versato al creditore finale nel settore privato.
La telefonata di Saccomanni a Ivrea, e il suo impegno evidente nel saldare i debiti alle imprese, suggeriscono che alla radice del problema non c’è la riluttanza del governo. Sembra un fenomeno più complesso: una colluttazione dell’amministrazione statale con se stessa per arrivare, prima o poi, all’obiettivo enunciato. Basta dare un’occhiata al calendario degli incontri del Tesoro con le Regioni per capire quanto il processo possa
essere tortuoso. I tecnici del governo hanno incontrato quelli della Calabria, del Molise, della Liguria e della Toscana a maggio per i debiti contratti fuori dal settore sanitario. Ma siamo a luglio e i trasferimenti di denaro fra burocrazie non sono ancora avvenuti. La Calabria e la Toscana non hanno ancora presentato un «piano dei pagamenti», al Molise e alla Liguria manca anche una «norma di copertura». Quasi tutte le altre giunte sembrano essere addirittura ancora più indietro.
Non è chiaro il motivo per cui una Regione debba passare un atto di legge («norma di copertura») semplicemente perché è in ritardo nel saldare i fornitori. Wolfgang Munchau, sul
Financial Times, ha provocatoriamente scritto che legiferare per saldare il dovuto è un gesto da amministrazione insolvente: deve modificare il quadro di legge per fare semplicemente ciò che (altrove) sarebbe normale. Né è chiaro a cosa serva un «piano dei pagamenti», come se il calendario dei giorni di ritardo, nel Mezzogiorno a volte più di mille, non facesse già fede abbastanza. Ma, appunto, forse proprio questo strumento è ciò che manca. In certi momenti Saccomanni deve sentirsi come in una lotta contro i mulini a vento. L’altro giorno persino il presidente Giorgio Napolitano si è spinto a dare al ministro tecnico il suo sostegno esplicito, un gesto inusuale in mezzo alle baruffe fra i partiti e fra i rami della burocrazia pubblica. Perché anche il capo dello Stato senz’altro lo sa: più difficile che pagare 20 miliardi di arretrati in un solo anno, c’è solo pagare venti miliardi nella seconda metà dell’anno che ormai resta.

La Repubblica 05.07.13

“Sugli aerei decide il Parlamento, lo dice la legge”, di Alberto Custodero

«Con tutto il rispetto per l’autorevolezza dei suoi componenti, ma il “Consiglio superiore di difesa” ha fatto un involontario scivolone». Gian Piero Scanu, capogruppo pd in commissione Difesa alla Camera, commenta così la dichiarazione del Csd secondo il quale, a proposito del programma F35, «il Parlamento non ha diritto di veto».
Ma com’è possibile che il Consiglio superiore di difesa abbia fatto questo “scivolone”?
«È la legge 244, che ha avuto il parere favorevole del precedente governo, a prevedere che gli acquisti dei sistemi di difesa di tutte le armi siano di competenza primaria del Parlamento, con il governo che svolge funzione concorrente.
Il Csd è scivolato su un terreno che non gli si addice perché non è competente a sollevare obiezioni su una legge che è stata controfirmata dal Presidente della Repubblica. La competenza spetta, semmai, alla Corte costituzionale ».
E adesso cosa succederà?
«Il Parlamento va avanti».
E il programma degli F35 sarà stoppato?
«Nient’affatto. Si farà una indagine conoscitiva per fare luce su alcuni misteri che circondano questa vicenda».
Ad esempio?
«Ci dovranno spiegare perché a suo tempo sono stati acquistati i prototipi degli aerei che sono ben più costosi di quelli prodotti in serie. E dovranno dirci quanti
ne hanno acquistati, perché al momento né il Parlamento, né gli italiani sanno se ne sono stati acquistati tre, sette oppure dieci».
Quindi, se alla fine dell’indagine conoscitiva, si dimostrerà che gli F35 sono necessari, magari non novanta, ma per esempio trenta, il programma sarà approvato dal Parlamento, e proseguirà?
«Sì, certo. Ma si potrebbe stabilire, ad esempio, che può essere fatta una scelta mista tra l’Eurofighter europeo e l’F35. Bisogna, però, puntare su due cose: ridurre la spesa militare. E creare, con le necessarie normative, un sistema di difesa degli Stati Uniti d’Europa che porterebbe a un notevole risparmio di costi».
Porterebbe, però, anche a una riduzione della sovranità — quantomeno degli spazi aerei — di ciascuno Stato membro.
«È innegabile che la Costituzione degli Stati Uniti d’Europa passi da una cessione di sovranità di tutti gli Stati. Occorre creare con urgenza un’entità europea che si occupi della propria difesa in un sistema di “interoperabilità” tra i diversi eserciti. Che cosa ce ne facciamo di 27 Marine, Aeronautiche, Eserciti che parlano tutti un linguaggio diverso? Si spenderebbe meno, il sistema funzionerebbe meglio. E finalmente potremmo investire di più nella sicurezza dei militari all’estero, e negli stipendi dei 550 mila addetti al comparto sicurezza che rischiano la vita per 1200 euro al mese».

La Repubblica 05.07.13

“Cassa in deroga firmato il decreto. Pronti 550 milioni”, di Valerio Raspelli

Mentre il Pd presenta un dossier con gli ultimi dati sulla crisi, il ministro Saccomanni e Giovannini firmano il decreto sugli ammortizzatori in deroga che assegna 550 milioni a Regioni e Province autonome per la concessione o la proroga della cassa integrazione in deroga per il 2013 ai lavoratori delle aziende in crisi. L’importo, che trova copertura nel Fondo sociale per l’occupazione, comprende il trattamento di sostegno al reddito e il riconoscimento della contribuzione figurativa.

TRE PUNTI CHIAVE Un provvedimento atteso e dovuto, specie se si guarda al dossier presentato ieri dall’associazione Lavoro e Welfare. Negli ultimi quattro anni l’occupazione in Italia è scesa, in valori assoluti, da 23 milioni e 376mi1a a 22 milioni e 919mila unità. Un calo di 465mila lavoratori, che rappresentano il 2 per cento. Occorre evidenziare che, nel solo quadriennio 2008-2012, il calo dei lavoratori dell’industria (senza le costruzioni) è stato di 392.562 unità lavorative. E questo nonostante il fatto che il numero delle persone in età di lavoro sia nel frattempo aumentato di circa 500mila unità. Sintetizzando: più aspiranti lavoratori, meno posti di lavoro. Matteo Colaninno, responsabile Economia del Pd, Cecilia Carmassi responsabile Lavoro del Pd e Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro della Camera hanno illustrato i dati ieri in una conferenza stampa. «Abbiamo ritenuto – spiegano – fosse utile illustrare, a grandi linee, il tema della crisi analizzando nel dettaglio la situazione attuale ed evidenziando l’andamento di occupazione e cassa integrazione dal 2008, anno di inizio della recessione economica, ai giorni nostri. Con questi dati la crisi cessa di essere generica ed astratta, e quindi per certi versi distante, e diventa tangibile». Una situazione di tale gravità impone, dicono i parlamentari, «l’adozione di misure coerenti di carattere generale per gli ammortizzatori sociali e le politiche attive per il lavoro, insieme con interventi specifici per i settori e i territori maggiormente in preda alla crisi e un piano straordinario per l’occupazione». Tre i punti chiave su cui intervenire, indicati da Colaninno: internazionalizzazione, capitalizzazione e innovazione, per crescere e reggere la concorrenza in una economia globalizzata. Il responsabile economico del Pd ha evidenziato due punti positivi, ossia la disponibilità ad ampliare i rimborsi dello Stato alle imprese in debito con la Pa, e la maggiore flessibilità di bilancio annunciata da Barroso per il 2014. Sul fronte del lavoro non ci sono soltanto i dati drammatici contenuti nel dossier. È di ieri la notizia della condanna dell’Italia, da parte dell Corte europea di giustizia per l’incompleta applicazione dei principi Ue in materia di diritto al lavoro per le persone disabili. La condanna della Corte segue una procedura di infrazione avviata perché «le garanzie e le agevolazioni previste a favore dei disabili in materia di occupazione dalla normativa italiana non riguardano tutti i disabili, tutti i datori di lavoro e tutti i diversi aspetti del rapporto di lavoro». Il nostro Paese deve adeguarsi, altrimenti rischia pesanti multe. Si potrebbe cominciare, propone la Cgil, dall’abolizione dell’articolo 9 della legge 138/11 (la cosiddetta manovra di ferragosto targata Tremonti-Sacconi): «Quella legge – spiega Serena Sorrentino – sterilizza le norme sul collocamento per i disabili e ripropone il rischio dei reparti confino».