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“Università, le tasse d’oro aumenti fino al 167 per cento”, di Salvo Intravaia

Studenti universitari “tartassati” dalle tasse come nel film di Totò. In appena otto anni, gli iscritti negli atenei statali si sono assottigliati mentre le tasse universitarie sono cresciute del 50 per cento. Con picchi, per alcuni atenei, di oltre il 100 per cento. Il salasso emerge dai dati sui contributi degli studenti
pubblicati dal Miur.
UN FENOMENO, più volte denunciato dalle associazioni studentesche, che sarebbe anche all’origine del calo di matricole registrato in Italia. Pagare mille e più euro all’anno per fare studiare un figlio all’università
può diventare insostenibile per una famiglia. Bastano alcuni esempi: dal 2004 al 2012 l’università del Salento ha aumentato le tasse del 167 per cento mentre quella di Reggio Calabria del 119 per cento. Ma la stangata non riguarda solo i piccoli atenei. Tra i grandi, spicca l’università di Palermo che ha raddoppiato i contributi (+110 per cento) e la Federico II di Napoli che oggi registra un aumento del 94 per cento. Mentre l’ateneo più grande d’Europa, La Sapienza di Roma, si è contenuto: il carico per studenti e le famiglie è salito del 57 per cento.
Sul fronte opposto, ci sono le università virtuose, tra cui Firenze, che ha ritoccato del 4,7 per cento appena il balzello e il Politecnico di Torino, più 14 per cento. Mentre l’università pubblica più esosa in assoluto è il Politecnico di Milano, con una media di quasi mille e 700 euro. Al confronto, gli 842 euro a studente del Politecnico di
Torino e i 509 del Politecnico di Bari sono poca cosa. «Un ragazzo — dice Marco Mancini, presidente dei rettori italiani — decide di non iscriversi per due motivi: l’incremento delle tasse universitarie, di gran lunga più alto rispetto a quello degli stipendi delle famiglie, e un diritto allo studio a dir poco claudicante ». Su questo punto il nostro Paese ha la maglia nera.
«In Italia — continua Mancini — spendiamo una cifra ridicola: 260 milioni all’anno. In Francia sono un miliardo e 600 milioni, la Germania 2 miliardi. Ma di cosa stiamo parlando?».
L’aumento delle tasse – si giustificano gli atenei – è dovuto ai tagli imposti dall’ex ministro all’Istruzione Mariastella Gelmini. «A partire dal 2008-2009, il sistema universitario italiano è stato colpito da un taglio di circa un miliardo di euro (su 7,45 circa) del Fondo di finanziamento ordinario. E non mi stupisce — conclude il presidente della Crui — se le tasse siano state incrementate. Credo che, costi quel che costi, l’ultima cosa da fare è aumentarle ancora».
Le tasse poi sono solo una parte della spesa per ottenere una laurea. «Bisogna tenere conto di tutti i contributi extra, dai i test d’ingresso alla laurea», denuncia Michele Orezzi, portavoce dell’Unione degli universitari. A questi occorre sommare affitti e mensa per i fuorisede, trasporti e libri. Anche i giudici amministrativi si sono accorti che le tasse universitarie sono diventate troppo onerose. Qualche mese fa il Tar della Lombardia ha condannato l’ateneo di Pavia — che aveva superato, nel 2012, il limite di tassazione studentesca in rapporto al finanziamento statale — a restituire oltre due milioni di euro di contributi non dovuti.
Dividendo l’intera contribuzione studentesca del 2004 (più di un miliardo e mezzo) per il numero di iscritti, otto anni fa ogni ragazzo pagava mediamente 632 euro di tasse. Una cifra che nel 2012 è lievitata fino 947 euro. Un dato indicativo, certo, perché non tiene conto degli studenti esonerati. Ma dà la misura di quanto costi studiare oggi. «È indispensabile — conclude il rappresentante dell’Udu — che il governo e il ministro Carrozza pongano argini all’aumento indiscriminato delle tasse universitarie: già ora sono le terze più alte d’Europa ».

La Repubblica 05.07.13

“Addio Islamismo”, di Tahar Bel Jelloun

La prova è evidente: con le preghiere non si governa. Il fondamentalismo islamico continua a dimostrare la sua inadeguatezza. La sua incapacità a trovare soluzioni ai problemi quotidiani della popolazione. Più di due anni fa gli egiziani si sono rivoltati contro il regime autoritario di Mubarak. Oggi non si tratta più di rabbia transitoria o di rivolta, ma proprio di rivoluzione. Il popolo è diviso ma la maggioranza ha constatato che il fondamentalista Mohammed Morsi non è più democratico o più competente di Mubarak. Può anche sbandierare la “legittimità” conferitagli dalle elezioni, ma il popolo ha voluto la sua destituzione reclamando una vita giusta e dignitosa. La gente ha bisogno di azioni concrete che cambino la sua vita quotidiana. Invece il regno di Morsi è stato caratterizzato dalla violenza. Violenza contro le donne, linciaggio di una piccola comunità sciita, mancata protezione dei copti, arresto degli oppositori, torture, sparizioni. I Fratelli musulmani hanno creduto che l’Egitto appartenesse a loro. La cosa nuova è che gli egiziani non hanno più paura della repressione, della prigione e neppure della morte. È una questione di dignità, di valori e principi morali. La rivoluzione non si svolge solo in Piazza Tahrir, ma anche a Suez, ad Alessandria, in altre città. Non è il cattivo umore di un popolo, ma un violento desiderio di cambiamento. Morsi non l’ha accettato, pensava che sarebbe stato protetto dalla sua “legittimità”. Errore.
I fondamentalisti sono riusciti a far coalizzare contro di loro più della metà della popolazione. Venti milioni di persone sono scese in piazza. La soluzione è nelle mani dei militari, che però, sapendo che non potrebbero trovare le soluzioni agli infiniti problemi della società egiziana, non vogliono prendere il potere. Gli alti ufficiali hanno una doppia veste: militari e uomini d’affari. Mubarak, per avere la pace, aveva offerto ai generali dei posti nell’industria e in altri affari redditizi. Alcuni hanno allevamenti di polli, altri vendono cemento. Oggi quasi il 25% dell’economia del paese è nelle mani degli ufficiali superiori. Se quei generali prendono il potere, dovranno assumere decisioni impopolari che avranno la conseguenza di mettere contro l’esercito tanto i laici quanto i religiosi. In più, se riconoscessero che la destituzione di Morsi è un golpe perderebbero gli aiuti americani. Perciò il generale Abdel Fattah el Sissi ha rimesso il potere a Mansour e ha preso diverse decisioni dopo una riunione con elementi della società civile e con religiosi. Per non lasciar credere che si possa trattare di una rivoluzione contro l’Islam, ha intriso di religiosità il tono del suo discorso. Nondimeno, la destituzione e l’arresto di Morsi pongono un problema costituzionale: è stato eletto democraticamente ed è per mezzo delle elezioni che avrebbe dovuto essere battuto. Ma è la presenza straordinaria del popolo nelle strade a fare da contrappeso alla sua legittimità elettorale.
L’Egitto è il più grande paese arabo. Ma è un gigante malato, i suoi bisogni sono difficili da soddisfare. Ma una cosa è stata appena dimostrata in modo eclatante: la religione non risponde a tutte le aspettative di un popolo. Il fondamentalismo islamico è in declino. L’Islam è più che mai invitato a restare nei cuori e nelle moschee: la scena politica non gli si addice.
(traduzione di Elda Volterrani)

La Repubblica 05.07.13

Cratere sismico: mutui garantiti dallo Stato, sedato ogni dubbio

Ieri il presidente della Regione Errani ha chiarito una volta per tutte la questione. “Il Governo ha chiarito in modo netto che il contributo, per i cittadini e le imprese è garantito dallo Stato per tutto il periodo del mutuo, per tutta la durata e per l’intera somma riconosciuta dalla procedura. Questo e’ un impegno chiaro e preciso che risolve interrogativi che in queste settimane si erano diffusi” questa la dichiarazione di ieri del presidente della Regione Vasco Errani. Soddisfazione da parte di tutti i parlamentari modenesi.

“Finalmente si scrive la parola fine ad una polemica pretestuosa, al limite del terrorismo psicologico, portata avanti nelle settimane scorse principalmente da esponenti del Movimento 5 stelle. La famosa ‘cambiale Errani’ è totalmente garantita, qualsiasi altra ipotesi è pura polemica politica figlia di interessi di parte”. Questo il primo commento dei parlamentari modenesi a seguito della dichiarazione rilasciata ieri dal Presidente Errani al termine dei lavori del Comitato istituzionale e di indirizzo riunito a Bologna. “E’ la dimostrazione – continuano i parlamentari – che quando si lavora in maniera compatta e coordinata a tutti i livelli, da quello locale a quello nazionale, i risultati arrivano. Come modenesi, non possiamo che essere soddisfatti del lavoro svolto in questi mesi per cercare in ogni modo di rilanciare la nostra terra così gravemente colpita dal terremoto dell’anno scorso. Un impegno che non mancheremo di portare avanti con tutte le nostre forze anche in futuro. Oggi intanto, aggiungiamo questo ulteriore tassello ad un lavoro collettivo che, ci auguriamo, porterà sempre maggiori frutti”.

“Uguaglianza tra uomini e donne le astuzie della via francese”, di Stefano Montefiori

erto la parità tra uomo e donna non si può imporre dall’alto, un decreto non riuscirà a ottenere la fine delle ingiustizie… Però aiuta. Ieri Najat Vallaud-Belkacem, portavoce del governo francese e ministro per i Diritti delle donne, ha presentato il suo piano di lotta contro le diseguaglianze. Partendo, intanto, dalla fotografia della società francese.
In media ogni donna dedica 4 ore e 1 minuto al giorno — l’uomo 2 ore e 13 minuti — ai lavori domestici. Tra questi aspirapolvere, cucina, stirare e spesa: 3h01 per le donne, 1h17 per gli uomini. Le donne guadagnano il 27 per cento in meno, sono poco rappresentate in politica (27 deputate, 14 sindache, 22 senatrici su 100) e nelle aziende: solo il 12 per cento dei capi sono donne. Le ragazze rappresentano il 70 per cento degli studenti in scienze umane e meno del 30 per cento di quelli in materie scientifiche: non certo perché le ragazze siano più portate per la letteratura, come per il lavoro a maglia, il pianoforte o i centrini di pizzo; anzi, di solito al liceo le femmine sono studentesse migliori dei maschi anche in matematica, solo che tradizioni secolari e magari qualche pressione famigliare le spingono poi verso facoltà meno impegnative (in Francia la distinzione è piuttosto netta) e meno promettenti.
Sotto l’impulso di Najat Vallaud-Belkacem il governo francese ha deciso di non abbandonarsi alla fatalità: accanto a misure più controverse, come l’avvio di asili sperimentali dove spariranno le distinzioni di genere (niente giochi da bambina o da bambino, bambole e macchinine per tutti), il nuovo piano per la parità prevede il raddoppio del congedo parentale, ma solo se sarà il padre a prendere gli ulteriori sei mesi (oggi solo 3 padri su 100 usano questo istituto); poi una garanzia dello Stato sugli alimenti negati dopo il divorzio, estensione delle quote rosa nelle aziende e nei partiti politici.
«È il momento di una terza tappa nei diritti delle donne», dice «NVB»: dopo il voto alla Liberazione e le conquiste sociali e economiche degli anni Settanta, l’obiettivo oggi è l’uguaglianza reale.

Il Corriere della Sera 04.07.13

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Sei mesi di aspettativa per i padri: è la riforma presentata dalla ministra trentacinquenne Vallaud-Belkacem Il pacchetto prevede inoltre incentivi per le imprese. Ma l’assegno mensile resta basso: meno di 600 euro
Congedo anche per i papà ecco la parità alla francese
di Anais Ginori

PARIGI Il cambio culturale ci sarà davvero quando, durante un colloquio di lavoro, un candidato si sentirà chiedere: «E lei pensa di avere figli?». L’imbarazzante domanda viene posta di solito alle donne perché, si sa, sono soprattutto loro ad assentarsi per la nascita di un bambino. La Francia del baby-boom non fa eccezione: le donne rappresentano il 96% delle domande di congedo parentale. Solo il 4% delle richieste riguardano i padri. «È questo squilibrio che crea poi, a cascata, le diseguaglianze nel mondo del lavoro e nella divisione dei compiti domestici» spiega la ministra delle Opportunità Najat Vallaud-Belkacem, beniamina del governo, ha appena 35 anni, e promotrice di una riforma destinata a trasformare, forse, la società francese.
Ieri il governo ha infatti approvato un pacchetto di misure che comprende una rivoluzione del congedo parentale. Agli uomini spetteranno per legge 6 mesi di paternità (oggi solo uno), sui tre anni autorizzati per ogni coppia, con assegno garantito dallo Stato. Contrariamente al passato, il periodo che spetta all’uomo non potrà essere scambiato con l’altro genitore. E per quelle famiglie che si adegueranno alla riforma è prevista una corsia preferenziale nell’accesso agli asili nido. D’altra parte, l’esecutivo vuole spingere le aziende a favorire la paternità. Molti dipendenti vorrebbero assentarsi per accudire i propri figli ma sentono ancora uno “stigma” nell’ambiente di lavoro rispetto alle donne. Il governo ha studiato una serie di incentivi per le imprese, tra cui un trattamento privilegiato nell’assegnazione degli appalti pubblici. Insomma, più che un invito sembra un ultimatum. Papà, state a casa. «Non c’è più tempo da perdere, dobbiamo imprimere una svolta» dice Vallaud-Belkacem che infatti ha inserito la nuova legge sul congedo parentale dentro a un pacchetto più ampio dedicato alla parità “donna-uomo” (e non il contrario). Sulla carta, sono tutte buone intenzioni: dalla prevenzione della violenza domestica fino al pagamento degli alimenti per le madri separate, dalla lotta agli stereotipi fino allo spazio concesso alle gare di squadre femminili. Certo, la giornata scelta per l’annuncio non è stata delle migliori. Proprio in queste ore François Hollande è accusato di sessismo. Il Presidente ha cacciato senza tanti convenevoli l’incauta ministra dell’Ambiente, Delphine Batho, colpevole di aver criticato l’austerity. Alcuni commentatori hanno sottolineato come Hollande fosse stato più clemente con altri ministri, altrettanto insolenti. Inoltre, l’uscita di Batho, sostituitada Philippe Martin, ha rotto la tanto sbandierata parità nell’esecutivo tra donne e uomini.
Ma al di là delle polemiche politiche, contano i fatti. E le misure approvate ieri potranno cambiare in meglio la vita di molte francesi. «Le diseguaglianze sono ovunque» sostiene la ministra delle Pari Opportunità. E aggiunge: «Il testo non riguarda solo il mio ministero ma coinvolge anche quello della Giustizia, dell’Interno, della Salute. Contiene campi inediti, finora inesplorati dal legislatore». Certo, non mancano le critiche. L’assegno versato per la paternità non è stato aumentato: è di soli 572 euro al mese. Molte associazioni denunciano la mancanza di coraggio nell’imporre le quote rosa al 50% nei consigli di amministrazione, oppure misure più drastiche per combattere la differenza salariale tra uomini e donne (ferma al 27%). Ma tutti riconoscono importanti passi avanti. Lo Stato si farà per esempio carico degli alimenti non pagati dagli ex mariti: un fenomeno in crescita con la crisi e che impoverisce le madri sole con figli. Saranno velocizzate le procedure per la denuncia di violenze domestiche e le vittime potranno chiedere in casa un allarme collegato con una centrale di polizia. Il governo ha raddoppiato la multa per i partiti che non rispettano la parità nelle liste elettorali, mentre saranno aumentati i programmi nelle scuole per lottare contro gli ste-reotipi di genere. Un’altra proposta contenuta nella riforma sta già facendo discutere. L’esecutivo ha chiesto alle televisioni di programmare in modo equilibrato le gare sportive disputate da squadre femminili. Non importa che le donne vincano o perdano: anche loro hanno diritto a un momento di gloria.

La Repubblica 04.07.13

“Perché ridurre gli ordini di acquisto”, di Claudio Sardo

Il Parlamento è il luogo democratico dove si assumono le decisioni politiche più importanti per il Paese, comprese quelle che riguardano il modello di Difesa e le linee di ammodernamento della tecnostruttura militare. Non sempre è stato così, ma la legge 244 approvata nella passata legislatura ha rafforzato il ruolo delle Camere, pur in presenza di una crescente interdipendenza dei sistemi d’arma.

La riunione di ieri del Consiglio supremo di Difesa ha aperto una polemica perché il suo comunicato finale si riferiva, in modo esplicito, a una recente decisione del Parlamento sugli F-35 (avviare un’«indagine conoscitiva» prima di deliberare l’acquisto di nuovi velivoli). Tuttavia, se l’intento era ribadire il carattere ormai definitivo dell’impegno italiano sul programma F-35, il bersaglio polemico non può essere soltanto la larga maggioranza della Camera che ha votato la mozione, ma ad essa va aggiunto il governo stesso, che ha dato parere favorevole e non ha fatto valere le prerogative ora rivendicate dal Consiglio supremo.

Al di là della polemica, però, resta il groviglio di un dossier molto controverso, che rischia di diventare politicamente esplosivo. L’esigenza di ridurre le spese militari e, dunque, di ridimensionare il programma iniziale di ammodernamento della nostra flotta area nasce anzitutto da evidenti, incontestabili ragioni di redistribuzione della spesa pubblica, sotto l’incalzare di questa drammatica crisi. È ovvio che non c’è alcuna relazione tra i soldi da reperire per scongiurare l’aumento dell’Iva e l’acquisto di uno o due F-35 (anche perché i nuovi aerei rimpiazzeranno i vecchi a partire dalla fine del decennio). Ma è altrettanto vero che tutti i Paesi partecipanti al programma F-35 stanno modificando ordini e tempi di acquisto, chiedendo peraltro di risolvere al più presto alcuni dubbi di funzionalità di questi aerei e comunque riducendo, nell’insieme, il complesso degli ordinativi.

Non si scappa alla necessità di ammodernare la flotta aerea e le strutture militari. Sempreché vogliamo restare in Europa e svolgere un ruolo internazionale di pace, come è scritto nella Costituzione e come, ad esempio, è avvenuto in Libano con la missione Unifil 2, guidata appunto dal nostro Paese. Ma non è giusto, né possibile concepire la politica di Difesa come separata dal contesto nazionale, e dunque come una variabile indipendente della politica. Se è tempo di sacrifici, questi devono valere per tutti. E non c’è nulla di strano, né di pericoloso per l’Italia se il Parlamento si propone di verificare modalità e misure del nostro impegno nel programma F-35 (o in quello degli aerei Eurofighter, al quale pure partecipiamo con minore opposizione da parte di alcuni). Piuttosto, sarebbe bene discutere e migliorare la nostra posizione – in termini di partecipazione alla ricerca e alla produzione – in questi programmi di grande valenza tecnologica, mentre vengono aggiornati gli ordini in relazione alle necessità.

Ultima notazione, già sviluppata dall’ambasciatore Rocco Cangelosi sul nostro giornale: più l’Europa sarà capace di rafforzare i piani di difesa integrata, minore sarà l’apporto dei Paesi in termini di risorse umane ed economiche. Il prossimo Consiglio europeo sarà dedicato proprio ai problemi della sicurezza e della difesa. Non è ragionevole illudersi: tuttavia, maggiore saranno gli accordi di integrazione, minore sarà il numero degli F-35 o dei caccia Eurofighter che dovremo acquistare. Oltre una certa soglia, tenere aerei inefficienti diventa persino un costo maggiore. Ma oggi sono molti, anche nelle Forze armate, a pensare che l’acquisto degli F-35 vada ridotto di molte unità e che vada procrastinato nel tempo. L’indagine del Parlamento può essere utile. Anche il governo può trarne vantaggio nei suoi negoziati.

l’Unità 04.07.13

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Gian Paolo Scanu
Il capogruppo Pd in commissione Difesa: «La mozione è chiara, è uno stop all’acquisto dei caccia. Il Parlamento ha l’ultima parola»
«L’esecutivo dovrà attenersi a quanto deciso in Aula»
di Simone Collini

«La sovranità del Parlamento non può essere derubricata come mero esercizio di veto», dice Gian Paolo Scanu ricordando tra l’altro che è in vigore una legge dello Stato che attribuisce alle Camere la «competenza primaria in materia di acquisizione e riordino dei sistemi d’arma». Per il capogruppo del Pd in commissione Difesa di Montecitorio, quindi, la nota del Consiglio supremo di difesa «nulla cambia» sulla vicenda dell’acquisto dei caccia F35: «Semplicemente perché nulla può cambiare. Il governo si dovrà scrupolosamente attenere a quanto decide il Parlamento. E a quanto ha già deciso il Parlamento».
Lei come si spiega l’uscita dell’organismo presieduto dal Presidente della Repubblica?
«Sinceramente, mi sto ancora chiedendo quale possa essere la ragione di quel comunicato».
Nel senso?
«Nel senso che con tutto il rispetto per questo organo, che svolge un ruolo di equilibrio e di garanzia secondo i principi costituzionali, sono le Camere a decidere in materia di armamenti. Lo prevede la legge di riforma dello strumento militare approvata nel dicembre 2012 e controfirmata dal Capo dello Stato».
E il Consiglio supremo di difesa?
«Non ha alcun tipo di competenza in questo campo».
Il Parlamento dovrà tener comunque conto di quanto sostenuto, rispetto alla vicenda degli F35, o no?
«Ne potrà tener conto come di un contributo importante al dibattito in corso, ma nulla cambia rispetto a prima che ci fosse questa nota».
Potrebbe spiegare perché?
«La legge 244 approvata nel dicembre scorso, con il contributo fondamentale del Pd, ha interrotto un sistema inaudito. Quello cioè previsto dalla legge Giacchè, che attribuiva al governo la titolarità di decidere in materia di armamenti. Secondo quel sistema il Parlamento poteva esprimere soltanto un parere consultivo, che però poteva essere disatteso. Ecco, oggi non è più così. Il potere esecutivo non può essere sovraordinato rispetto al potere legislativo. Il Parlamento ha l’ultima parola su qualità e quantità degli armamenti. Il governo può fare proposte, ma non può andare oltre».
Se però il Consiglio supremo di difesa ora fa quest’uscita, la mozione di maggioranza sugli F35 approvata la scorsa settimana presenta delle ambiguità, non crede?
«No, quella mozione è chiara. Impegna il governo a non acquistare alcun F35 fino a quando eventualmente non verrà ritenuto opportuno dal Parlamento. È uno stop all’acquisto dei caccia fondato sulla base della potestà in questa materia conferita alle Camere dalla riforma dello strumento militare. Che, ripeto, è stata controfirmata dal Capo dello Stato. Da questo non si torna indietro». C’è il rischio di uno scontro istituzionale? «Questo è un momento in cui non si sente bisogno non dico di scontri ma nemmeno di leggere frizioni a livello istituzionale. Il Parlamento andrà avanti doverosamente esercitando la propria sovranità».
Rimane quella parola: veto.
«Il Parlamento svolge il ruolo che gli è proprio, non fa uso di veti».
Non teme però che il governo possa utilizzare il pronunciamento del Consiglio supremo di difesa per superare la mozione sugli F35 approvata la scorsa settimana?
«No perché il governo aveva dato parere favorevole rispetto a quella mozione, perché il Parlamento è sovrano e perché il governo si dovrà scrupolosamente attenere a quanto hanno già deciso e decideranno le Camere».
La Lega chiede al governo di riferire, lo farà anche il Pd?
«E perché? Il Consiglio superiore della difesa non ha competenza in questa materia e non ha titolo per interferire né in quanto stabilito per legge né in quanto deciso dal Parlamento. Ribadisco, nulla cambia. Quindi non ravviso l’utilità di un chiarimento da fornire da parte del governo».
Dice che tutti la pensano come lei nel Pd?
«Abbiamo votato in modo compatto la mozione di maggioranza sugli F35. Anche chi aveva firmato quella di Sel si è espresso poi a favore. Non vedo motivi di divisione adesso».

L’Unità 04.07.13

“La Ue premia l’Italia: più flessibilità nei conti”, di Andrea Bonanni

“Ce l’abbiamo fatta”. Con questo tweet il premier Letta ha commentato ieri l’annuncio della Commisione Ue che ha concesso più flessibilità ai Paesi virtuosi, tra cui l’Italia, a patto però che si rispetti il tetto del 3% nel rapporto deficit-Pil. La Commissione europea riconosce il margine di flessibilità nei bilanci pubblici conquistato dai Paesi che, come l’Italia, sono usciti dalla procedura per deficit eccessivo. E nello stesso tempo cerca di fissare dei «paletti», delle regole che vincolino il governo ad un utilizzo virtuoso dei fondi (non molti) che saranno resi disponibili.
Ieri il presidente della Commissione Barroso ha annunciato al Parlamento europeo «la concessione di deviazioni temporanee dal percorso del deficit strutturale verso gli obiettivi di medio termine » per i Paesi che rispettano il patto di stabilità. Tradotto dal gergo eurocratico, significa che la Commissione, nell’esaminare i bilanci nazionali del 2013 e del 2014, è disposta ad accettare che i Paesi in recessione, o con una crescita molto debole, possano derogare dal vincolo del pareggio strutturale di bilancio per fare investimenti produttivi, sempre a condizione di non superare in nessun caso il limite del 3% di deficit nominale rispetto al Pil.
Era, questo, un risultato a cui il governo italiano puntava con tutte le sue forze. E infatti la reazione di Roma è stata di grande soddisfazione. «Ce l’abbiamo fatta! La serietà paga» ha scritto su Twitter Enrico Letta. Nel comunicato ufficiale, Palazzo Chigi parla di «un risultato importante, forse il più importante di tutti nel rapporto con le Istituzioni europee. E’ il premio per la scommessa che questo governo ha fatto fin dall’inizio sul rispetto degli obiettivi di finanza pubblica».
In realtà il riconoscimento della flessibilità di bilancio avrebbe dovuto essere inserito in una comunicazione della Commissione. Ma a quanto pare il collegio dei commissari non è riuscito a mettersi d’accordo su un testo formale. E dunque il compito di comunicare le condizioni da rispettare è stato affidato ad una lettera che il responsabile europeo per l’Economia, Olli Rehn, invierà ai governi interessati.
In questa lettera si fissano una serie di «paletti» all’utilizzo del margine di flessibilità, oltre al limite invalicabile del 3%. Le deroghe, scrive Bruxelles, dovranno essere «temporanee» e limitate al periodo di recessione o di crescita particolarmente debole. Gli investimenti autorizzati dovranno essere comunque legati al co-finanziamento di progetti europei, cioè saranno limitati al contributo che lo stato italiano deve versare per sovvenzionare, generalmente nella misura del cinquanta per cento, opere e investimenti che sono stati selezionati e approvati da Bruxelles. La decisione di consentire la deroga di bilancio verrà presa dalla Commissione «caso per caso» e tenendo conto dell’entità del debito pubblico (che per l’Italia è oltre il 130% del Pil). Infatti i governi che vorranno usufruire del margine di flessibilità dovranno comunque rispettare il piano di rientro del debito, che prevede di ridurre ogni anno del 5% la quota di debito che supera il 60% del Pil.
La decisione della Commissione mette anche fine alla speranza italiana di veder riconosciuta la cosiddetta «golden rule», cioè la non contabilizzazione nel deficit di una quota significativa di investimenti produttivi. Tutte le spese, infatti, saranno contabilizzate e andranno ad alimentare il fabbisogno. Quello che viene autorizzato e uno scartamento dal vincolo del pareggio di bilancio, purché non sfori il tetto del 3% del deficit.
Ieri intanto si è tenuta a Berlino una riunione informale dei ministri del Lavoro, cui hanno partecipato anche una ventina di capi di governo tra cui Enrico Letta, Angela Merkel e Francois Hollande, dedicata al tema della lotta alla disoccupazione giovanile. Letta ha illustrato ai colleghi il piano italiano per l’occupazione e ha fortemente sollecitato un ruolo più incisivo della Bei, la Banca europea degli investimenti, nel finanziare le piccole e medie imprese.

La Repubblica 04.07.13

“Sconfitta la filosofia dei patti separati”, di Umberto Romagnoli

Probabilmente, gli esperti diranno che quella pronunciata ieri appartiene alla categoria delle sentenze manipolativo-additive. Di sicuro, sancisce l’incostituzionalità dell’art. 19 dello statuto dei lavoratori «nella parte in cui», come si legge nella nota. «non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale sia costituita nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stressi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda». Insomma, il testo legislativo rimane invariato, ma d’ora in avanti sarà costituzionalmente obbligatorio leggerlo come se la sua capacità inclusiva fosse esplicitata. Per un giurista è imbarazzante commentare una pronuncia giurisdizionale senza averne letto il testo. Cionondimeno, questo è uno dei casi in cui ciò che conta, e fa notizia, è la decisione in sé. In effetti, l’art. 19 era stato utilizzato per negare alla Fiom il diritto di cittadinanza nel gruppo Fiat a mo’ di sanzione per la mancata sottoscrizione e, al tempo stesso, per blindare un mini-sistema relazionale nel quale l’escluso non può essere ammesso. Come è noto, dopo la modifica referendaria de11995 la soglia della rappresentatività del sindacato autorizzato a parcheggiarsi nella normativa promozionale si è abbassata al livello della singola azienda. Nella sua versione originaria, invece, l’art. 19 era figlio dell’idea che, in Italia, quella sindacale sia una storia di confederazioni «doc». Sotto-traccia, ma egualmente riconoscibile, è l’irata volontà dell’Alta Corte di trattare i sindacati come una volta i padri di famiglia trattavano i figli indisciplinati: gli si toglievano le chiavi di casa perché rientravano tardi la sera. Più ruvido e spicciativo, è stato invece il legislatore popolare che ha riscritto l’art. 19. In realtà, la versione dell’art. 19 sottoposta al vaglio di costituzionalità diverge due volte dall’indirizzo politico-culturale interiorizzato dallo statuto. Una prima volta, perché il sostegno legale originariamente concesso ai sindacati confederali spetta a qualunque associazione. Una seconda volta, perché la selezione del sindacato con visto d’ingresso nella zona del privilegio legale diventa una vicenda su cui interferisce necessariamente anche la controparte. Nell’immediato, invece, la criticità della dissociazione tra legislatore popolare e legislatore statutario è colta solo parzialmente. La vera essenza sta oltre la dizione testuale: sta nell’accoglienza ambientale che riceveranno. Perciò, non è che un segno dei tempi il prevalere per un certo periodo di una lettura riduttiva della plateale divaricazione delle scelte legislative. Non solo infatti resta nell’ombra la circostanza che a distanza di un quarto di secolo il legislatore ha interrato il seme del protagonismo della contrattazione che nel 2011 il legislatore definirà «di prossimità»; ma nemmeno innesca più di qualche scaramuccia la possibilità, che il nuovo art. 19 finisca per ridare spazio al sindacalismo aziendale. Anzi, là per là c’è chi la nega o la irride. Del resto, persino gli interpreti che la prendono sul serio non danno alcun peso all’eventualità che il rischio possa venire da comportamenti diversi da quelli colpiti dal divieto del sindacalismo di comodo e dunque in sé legittimi, come possono essere quelli ispirati da divergenze insorte tra sindacati sul loro ruolo in una società che cambia o sulla funzione ultima del diritto del lavoro che alcuni di loro vorrebbero ancillare ai processi dí cambiamento. 11 punto è che tali divergenze non sono altro che una dialettica cui la costituzione non può negare riconoscimenti e i dissenzienti devono poter continuare ad esistere in un regime di libertà. E questo è un dato di realtà che non potrà essere cancellato. Può darsi infatti che la Corte abbia risolto un solo aspetto della questione. Essa ci dice che la libertà ad esistere di un sindacato non è subordinata alla sua disponibilità ad accondiscendere. Non può dirci però come un sindacato acquisti la legittimazione a contrattare. Infatti, la Fiom torna nell’azienda da cui era stata estromessa. Ma intanto è fuori come agente del rinnovo del contratto di categoria. Per questo, la parola torna alle’ parti sociali e, perché no?, alla legge. Una parola stentata. Balbettata. Inquinata. Sta li a dimostrarlo l’estrema difficoltà di completare i discorsi giuridici sull’attivazione della principale fonte di produzione delle regole del lavoro. Quindi, ciò che allo stato può dirsi è che la sentenza di ieri ha costituito in mora le parti sociali, richiamandole all’urgenza di dare piena applicazione all’accordo interconfederale del 31 maggio. Che riprendeva quanto deciso con l’accordo del 28 giugno 2011. Che, a sua volta, riallacciava un dialogo cominciato nell’ultimo decennio del secolo scorso. Il tempo è scaduto.

L’Unità 04.07.13