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“La Repubblica dei partiti provvisori”, di Ilvo Diamanti

È in corso un cambiamento politico rapido e violento. Come vent’anni fa, tra il 1992 e il 1994. Eppure fatichiamo ad accorgercene. Probabilmente perché fissiamo l’attenzione sull’istante. E non vediamo il dopo. Non ce ne (pre)occupiamo. Ma la semplice osservazione dei fatti politici è sufficiente a descrivere una realtà evidente, quanto elusa. Tutti i partiti e tutti i leader che hanno guidato il Paese negli ultimi vent’anni sono a fine corsa. Fra un anno, al massimo, il sistema partitico sarà diverso. Molto diverso. Cambieranno le sigle, i protagonisti, le alleanze. Lo spartiacque sarà costituito dalle elezioni europee. Perché l’Europa e l’euro già costituiscono temi strategici dei principali partiti. In grado di dividere, tra loro e al loro interno, questa “strana” maggioranza e questa “strana” opposizione. Perché alle elezioni europee i partiti si presenteranno da soli. Ciascuno per sé e contro gli altri. Visto che le elezioni si svolgono con metodo proporzionale. Già, ma quali partiti? E quali leader? L’impressione è che il paesaggio su cui proiettiamo i nostri scenari futuri sia già “passato”. Più che ieri. Largamente ridisegnato e, comunque, destrutturato dalle elezioni di febbraio e dal dopo-elezioni. Partiamo dal centro. Avrebbe dovuto imporsi come il Terzo Polo, intorno a Monti. Con il sostegno dell’Udc di Casini e Fli di Fini. Tutto finito. Durato il tempo di un’elezione. Ora il partito di Monti è stimato intorno al 5%. Ma è in calo. Mentre Fli e perfino l’Udc non possono calare oltre. Perché sono praticamente spariti. Come i loro leader, d’altronde. In attesa di riaffiorare, ma, per ora, sotto il pelo dell’acqua.
Il centrodestra, gregario di Silvio Berlusconi, fatica a ridefinirsi, a rinominarsi e a riposizionarsi. Il Popolo della libertà è finito. Ha perduto 6 milioni e 300 mila voti, alle elezioni di febbraio. Ma è riuscito a fare la parte del non-sconfitto, perché le attese erano ancora peggiori. E perché il vincitore annunciato, il Pd, in effetti, non ha vinto. Il Pdl ha, però, perduto dovunque alle elezioni amministrative. E si è presentato per quel che è: un partito personale senza territorio e senza persone. Ad eccezione
di una: Silvio Berlusconi, il cui peso elettorale, misurato dai voti al partito, si è dimezzato negli ultimi 5 anni. Così Berlusconi stesso oggi annuncia la fine del Pdl e il ritorno a Forza Italia. Tuttavia, è difficile, anzi, impossibile riproporre la novità del 1994. Più che di Forza Italia 2.0, si tratterebbe di Forza Italia 20 (anni dopo). Berlusconi stesso ha quasi 80 anni. Molti processi e molti scandali sulle spalle. Di sicuro non è più “nuovo”. In tempi di rifiuto della politica, lui, più di altri, impersona la politica degli ultimi vent’anni. Comunque, il Pdl è finito. E la “nuova” Forza Italia sarà, comunque, un partito “personale”. Inestricabile da Berlusconi. Non è un caso che si parli – non da oggi – di una successione dinastica. Da Silvio a Marina. Perch é, al di là di tutto, quest’area politica è unita dal “patrimonio” – familiare. In senso lato: le imprese, i media, le risorse finanziarie e simboliche. Di cui Marina è erede. Certo più di Alfano, Brunetta o la Santanché.
Intorno a Berlusconi e al suo partito personale, d’altronde, a destra c’è il nulla. O quasi. An è scomparsa e i suoi surrogati – come i Fratelli d’Italia – non raggiungono il 2%. La Lega, infine, è debole e divisa. Alle elezioni politiche ha perso oltre metà dei voti. Governa ancora Regioni e Comuni. Ma non ha più la sua base. La Padania ha perduto i padani. E non ha più capitali.
Il Partito democratico è impegnato nelle primarie. Ormai da un anno, senza soluzione di continuità. Non ha vinto le elezioni politiche, nonostante le previsioni e le attese. Di tutti. Ha perduto il dopo-elezioni, non riuscendo a imporre i suoi candidati alla presidenza della Repubblica. E ha “subìto” la partecipazione a un governo di scopo – alleato con l’avversario di sempre. Certo, ha vinto le amministrative. Ma ci ò conferma il distacco fra la base e il gruppo dirigente nazionale. Il Pd: è un partito “impersonale”, perché non c’è “un” leader in grado di rappresentarlo tutto e unito. I partiti della Prima Repubblica,
da cui origina, gli garantiscono “resistenza”, ma non slancio, crescita. Alle elezioni di febbraio si è ridotto al 25% o poco più. Rispetto al 2008 ha perduto 3 milioni e mezzo di voti. Quasi un terzo. Ora, dopo le amministrative, pare risalito al 28%. Ma resta un partito incompiuto. Fra un anno non sappiamo chi ne sarà il leader. E di che consenso disporrà.
Alla sua Sinistra, d’altronde, è rimasto poco. Sel: legata alla figura di Vendola. L’Idv: scomparsa insieme al suo leader, Antonio Di Pietro. Né gli servirà il cambio di segretario a risorgere. Le formazioni raccolte intorno a Ingroia: latitanti e latenti, come il magistrato. Come Rivoluzione civile.
Resta il M5S. Un non-partito fluido. Istantaneo. Composito. Circa un terzo dei suoi elettori afferma di averlo votato per delusione e protesta verso gli altri partiti. I suoi parlamentari sono in costante fibrillazione. È difficile, d’altronde, trovare stabilità “inseguendo” Grillo. Impegnato, a sua volta, a “inseguire”, di giorno in giorno e un giorno dopo l’altro, le diverse domande e le diverse tensioni espresse dai suoi elettori. E dai suoi parlamentari. Di certo non è dato di sapere cosa ne sar à in futuro.
Il problema è che si è conclusa la parabola dei partiti personali. Raccolti da – e intorno a – un leader, una persona. Perché il declino dei leader coinvolge i partiti. Perché, comunque, i leader hanno bisogno di partiti. Le televisioni e la stessa rete non li possono rimpiazzare del tutto. I partiti servono. A offrire presenza e visibilità nella società e sul territorio. A organizzare le attività e le decisioni in Parlamento. A fornire prospettive, durata. Oltre la biografia del capo.
Così oggi discutiamo di partiti provvisori e di leader di passaggio. E ci illudiamo di proiettare e progettare gli scenari del futuro.
Mentre, in realtà, usiamo foto d’archivio. E prevediamo solo il passato.

La Repubblica 01.07.13

Bray: «Sulla cultura il governo si gioca tutto», di Francesca De Sanctis

«Sull’emergenza culturale si gioca la credibilità del governo. I soldi devono arrivare e sono certo che arriveranno». È ottimista Massimo Bray, ministro dei Beni e delle attività Culturali e del Turismo da appena un paio di mesi. «Mi ci devo ancora abituare… ».
Intanto accetta per la prima volta di rispondere alle nostre domande nelle vesti di ministro. Prima di questo incarico, lo avevamo più volte ascoltato come direttore editoriale della Treccani, direttore della rivista Italiani/ Europei e come presidente della Fondazione Notte della Taranta. Pugliese, 54 anni, ora ha una sola e unica missione: salvare la cultura.
Ministro, in questi due mesi l’abbiamo vista girare come una trottola per l’Italia, da Pompei al Maggio fiorentino. Le priorità sono tante… partiamo dal Colosseo, nei giorni scorsi chiuso al pubblico a causa delle proteste di lavoratori e sindacati che chiedono più tutela contrattuale e professionale e soprattutto un progetto di rilancio del settore. C’è il rischio che il Colosseo possa restare ancora una volta chiuso davanti ai turisti?
«Sono intervenuto per sboccare le risorse necessarie per riconoscere il lavoro straordinario fatto in questi mesi, sensibilizzando la ragioneria della Stato. Resta la questione del personale che abbiamo in tutte le strutture dei Beni culturali. Colpisce che questa sia una cosa che sottolinea anche l’Unione Europea per Pompei. Abbiamo stimato che in Italia c’è la necessità di circa 2mila persone. L’ultimo concorso, quello del 2008, prevedeva solo 400 assunzioni, quindi il problema del Colosseo è il problema di Pompei, degli archivi, delle biblioteche… Ancora una volta insisto su un punto: se il governo ha realmente messo la cultura al centro deve trovare assolutamente le risorse per tutelare il patrimonio e consentire di poter assumere quelle professionalità necessarie: archeologi, architetti, bibliotecari, archivisti ecc..».
Ci vorrebbe un bel concorsone…
«Bisognerebbe innanzitutto andare oltre il blocco delle assunzioni e attingere alla lista degli idonei e poi sarebbe necessario poter ripartire con le assunzioni, ma le risorse devono essere rivolte anche alla formazione. Se il patrimonio culturale del Paese merita attenzione allora dobbiamo crederci e investire. Tutelare e valorizzare vuol dire che il futuro del Paese va verso questa direzione. È una scelta politica molto precisa che il governo deve fare».
Ha avuto rassicurazioni da Letta in questo senso?
«Nell’incontro che ho avuto con lui circa una settimana fa, il presidente del Consiglio mi ha assicurato che insieme valuteremo un piano di lavoro sui Beni culturali e insieme vareremo questo piano nella consapevolezza che tutto il governo ha che la cultura è al centro della sua attenzione. Sono sicuro che Letta dedicherà i prossimi giorni a varare un piano per fronteggiare le emergenze. Dal governo mi aspetto tutte le risorse necessarie. Il ministero ha un bilancio che è un terzo rispetto a quello che aveva. Alcuni numeri sono significativi. La riduzione del 58% delle risorse per le cosiddette emergenze è indicativo che qualcosa non funziona. Quando sono arrivato c’erano 8mila bollette non pagate, tutti segnali che indicano che non ci sono i soldi per andare avanti… I soldi devono arrivare, è un problema di credibilità mia e del governo. Se così non è significa che si è persa una sfida».
Nei prossimi giorni ha fissato un incontro con i lavoratori del Colosseo. Cosa vi direte?
«Parlerò del mio impegno ad investire nella cultura e nella turismo come scelta di uno sviluppo differente. Mi piacerebbe tornare a fare sistema in un Paese che ormai non ha più questa capacità. Anzi, lancio un appello: i progetti devono essere progetti in cui crediamo. L’unico modo in cui possiamo dimostrare di saper lavorare in modo differente».
Questo implica anche una riforma del ministero? Ci sta pensando? Nei giorni scorsi ha parlato di una Commissione, come funzionerà?
«Ci sto mettendo tutto l’entusiasmo… Molti scherzano sul fatto che ho perso 4 chili in due mesi, tra un po’ non rimane nulla… Un’idea di trasparenza in tutte le sue parti. Mi piacerebbe farlo insieme a tutte le parti sociali, ai governi locali e penso soprattutto al turismo dove è necessario un dialogo con le Regioni, fare sistema significa avere come obbiettivo promuovere il nostro Paese. Dal Turismo può arrivare la risposta di crescita e di ricchezza per il Paese. Bisognerà fare presto delle scelte, per esempio trovare soluzioni per favorire chi nel turismo crede (per esempio con le agevolazioni fiscali). Per quanto riguarda la Commissione ci saranno tre gruppi di lavoro, uno che riguarderà appunto la riorganizzazione, un secondo che curerà i rapporti tra pubblico e privato, un terzo si occuperà della manutenzione del codice del paesaggio. Dovranno naturalmente lavorare in sinergia». Parliamo di Pompei: secondo l’Unesco il governo italiano ha tempo fino al 31 dicembre 2013 per adottare misure idonee… ce la faremo?
«Pompei è da sempre il mio chiudo fisso. Il simbolo prestigioso del nostro Paese. La mia prima visita da ministro è stata proprio a Pompei. Lì c’è il problema della Circumvesuviana e fa capire che le questioni di Pompei bisogna affrontarle da più punti di vista. Anche lì bisogna fare sistema».
E le basi ci sono?
«Abbiamo una grande sfida da affrontare: entro il 2015 varare tutti i cantieri, certo quello dell’Unesco non è un dictat ma un allarme che prendo in seria considerazione, però due dei primi 5 cantieri sono stati avviati, il terzo partirà presto. Entro 2015 dovremo aprirne 39, il governo è impegnato a vincere questa sfida, Pompei può essere un gioiello assoluto».
Le faccio almeno una domanda su un’altra questione cruciale: le Fondazioni lirico-sinfoniche rischiano di non sopravvivere se non si interviene subito. Come pensa di intervenire?
«Dieci giorni fa, dopo aver fatto una riunione sul Maggio fiorentino, ho chiesto quale era la situazione generale delle fondazioni lirico-sinfoniche e ho trovato una situazione debitoria di oltre 330milioni di euro. Mi sono chiesto: il Paese può permettersi di perdere una parte così importante della nostra cultura? Ecco perché chiedo al governo e agli enti locali di intervenire. Il mio ruolo deve essere quello di essere al loro fianco. Dobbiamo impegnarci tutti per trovare una soluzione».
Cinema e teatro: ripristino del tax credit e legge sullo spettacolo. Sono nel suo calendario?
«Con il cinema italiano riusciamo a mostrare l’identità di un patrimonio culturale. Il ministro Saccomanni ha creato questo primo fondo impegandosi a trovare da qui al 31 dicembre risorse per mantenere vivo un meccanismo capace di aiutare il cinema. Dovremmo anche sottolineare l’importanza di valorizzare il Festival del cinema di Venezia. Tra le priorità c’è naturalmente anche una legge sullo spettacolo. Il teatro è una tradizione del Paese. Bisognerà affrontare anche i tagli dell’Istat che mettono a rischio la vita di teatri come il Piccolo di Milano. Il governo dovrà intervenire anche su questo».

L’Unità 01.07.13

“Sindacati e imprese cercano lo sviluppo”, di Massimo Franchi

Duecentomila posti di lavoro in più per gli Under 30. Il tasso di disoccupazione giovanile in calo di due punti. Le promesse di Enrico Letta e di Enrico Giovannini sul pacchetto Lavoro varato dal governo sono importanti e impegnative. Pubblicato definitivamente sulla Gazzetta ufficiale, il decreto Lavoro del governo può essere analizzato, sviscerato e soppesato. Come sempre avviene i testi approvati dal Consiglio dei ministri vengono ulteriormente limati e passano il vaglio della Ragioneria dello Stato e del presidente della Repubblica, che prima di mettere la sua firma vaglia con attenzione le norme contenute. Autorevoli commentatori, a partire da Tito Boeri de lavoce.info hanno criticato duramente il provvedimento, sostenendo che servirà solo a pagare alle imprese assunzioni già decise. Prendendo come riferimento gli effetti dei 231 milioni di sgravi decisi dal governo Monti al tempo del Salvaltalia che ebbero come effetto netto pochissime assunzioni. Imprese e sindacati invece, seppur con molti distinguo e per ragioni diverse, apprezzano il decreto. Sia nel merito, la decontribuzione per le nuove assunzioni e le norme sull’autoimprenditorialità; sia per il metodo, entrembe sono state consultate e ascoltate prima di mettere a punto le norme. «Le previsioni sono una cosa, poi bisogna vedere se il risultato è effettivamente quello», ha commentato come al solito in modo pragmatico il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi. «Il pacchetto – ha ribadito Squinzi – è un passo nella direzione giusta, c’è qualcosa da mettere a posto. Ci sono cose positive, ma non c’è tutto quello che abbiamo suggerito». Più nello specifico è andata il suo predecessore in Confindustria, Emma Marcegaglia: «Mi sembra che alcune iniziative siano positive, come quelle sui contratti a termine e che ci sia un pò più di liberalizzazione. È stato però al momento stralciato il pacchetto flessibilità per l’Expo che invece credo vada assolutamente rimesso ed è molto importante che questo venga fatto ». Il riferimento è alla possibilità, proprio in vista dell’Expo 2015 a Milano, che i contratti a tempo determinato possano essere rinnovati fino a 48 mesi (4 anni) contro i 3 (e con altre limitazioni) attuali. Anche le piccole imprese rappresentate da Rete Imprese Italia esprimono «un apprezzamento per l’atteggiamento propositivo e il dialogo positivo che ha caratterizzato » il varo del pacchetto. «Le prime misure vanno nella giusta direzione» ma evidenziando, al tempo stesso, «l’importanza, soprattutto in questa fase, di non esitare sulla flessibilità in entrata e sugli interventi che occorrono al mercato del lavoro». Spostandosi ai sindacati, anche per la Cgil il giudizio è positivo ma articolato. «Il rischio di buttare soldi pubblici e di favorire solo le imprese è sempre presente – spiega Claudio Treves, coordinatore del Dipartimento politiche del lavoro della Cgil – ma questa volta mi pare che il decreto sia uno strumento molto migliore e rigoroso rispetto a quelli precedenti. In primo luogo questa volta gli sgravi sono più schermati perché prevedono condizioni aggiuntive per essere utilizzati e anche nel caso degli incentivi per trasformare contratti precari in tempi indeterminati comportano nuove assunzioni che porteranno ad un incremento netto dell’occupazione ». Su quanti posti produrranno, Treves non fa previsioni: «Il mestiere precedente di Giovannini – si limita a dire – mi sa pensare che i numeri da lui dati non siano a casaccio». Nelle 25 pagine di decreto non è poi presente la norma che tutto il sindacato avversava di più: quella che con la scusa dell’Expo 2015 a Milano rendeva possibile prolungare i contratti a tempo determinato a 48 mesi. «È importante che il governo ci abbia ascoltato, sarebbe stato lo stravolgimento di qualunque regola». Ma nelle 25 pagine per la Cgil non mancano anche tante ombre. «Sulla flessibilità in entrata c’è una triplice combinazione molto negativa: sui contratti a termine si rimuove la causale rendendola possibile per contratti fino a 36 mesi, poi c’è l’abolizione della natura occasionale dei voucher che renderà possibile sostituire personale con contratti a tempi indeterminati con personale assunto con voucher fino a 5mila euro. Infine la norma sul lavoro intermittente lo limita a 400 giorni in tre anni, ma significano ben 3 mesi e 10 giorni l’anno e sono sufficienti per tutte le professioni stagionali, allargandone l’uso in modo rilevante». Un ultima norma viene sottolineata da Treves. «Si torna a parlare di articolo 8, la norma voluta da Sacconi e che permette di derogare in sede aziendale ai contratti nazionali. Mentre noi continuiamo a chiederne l’abrogazione, nel decreto all’articolo 9 comma 4 si prevede che le applicazioni dell’articolo 8 siano valide “subordinatamente al loro deposito presso la Direzione territoriale del lavoro competente per territorio”. Credo che la ratio sia quella di farli emergere e scoprire quindi quanto l’articolo 8 sia stata usato, ma era certamente meglio cancellarlo». La sintesi della posizione della Cgil è però come sempre legata ad una questione molto più importante. «Il decreto servirà solo se riparte la domanda interna, diversamente gli effetti saranno limitati»,

L’Unità 01.07.13

“Chi è che gioca con le riforme”, di Piero Ignazi

La riforma del sistema elettorale rischiava di essere inghiottita dai veti incrociati dei partiti e di diventare merce di scambio nel “grande gioco” delle riforme.
Per riprendere il Kim di Rudyard Kipling non sappiamo chi sia, tra i colli di Roma, l’emissario zarista o l’agente britannico, ma certo tutti stanno cercando di sottrarsi all’imperativo, oseremmo dire “categorico”, di produrre un nuova legge elettorale. Per fortuna il presidente del Senato ha riacceso i riflettori su questa inadempienza del Parlamento. Nel farlo con un’intervista ieri su
Repubblica, ha ricordato le recenti sollecitazioni della Consulta ad intervenire e, soprattutto, ha segnalato la priorità e l’urgenza della riforma del sistema elettorale rispetto a tutto l’impianto costituzionale.
Il fuoco di sbarramento alzato dal Pdl rende l’idea del grande gioco dietro alle riforme: non si può far avanzare una pedina (conquistare un emirato, avrebbe detto Kim) se non si sono già definite le altre mosse in vista dell’obiettivo finale (la conquista del diamante della corona britannica, l’India), vale a dire un presidenzialismo populista ritagliato su misura per il Cavaliere. Eppure, per procedere sulla strada delle riforme, bisogna togliere dal tavolo delle trattative la legge elettorale. Questa materia è, in quasi tutti i paesi, affidata alla legislazione ordinaria, non a quella costituzionale, e quindi va distinta dai rapporti tra i poteri dello Stato che sono invece, giustamente, materia propria delle costituzioni. All’obiezione che legge elettorale e ridefinizione della forma di governo vadano trattate insieme, è facile rispondere che i sistemi elettorali non sono concepiti per quello scopo bensì per “trasferire” i voti in seggi.
Questo trasferimento può avvenire in mille modi. Due soli però sono i criteri fondamentali a cui tutti si riconnettono: quello di assicurare la più fedele trasmissione delle scelte degli elettori garantendo il massimo della proporzionalità (come in Olanda e in Israele dove basta lo 0,67% dei voti per eleggere un deputato), oppure quello di favorire i partiti maggiori distorcendo la proporzionalità in cambio di una probabile, ma non certa, maggiore governabilità (si veda l’inedito governo di coalizione prodotto dalle elezioni britanniche del 2010).
Ai sistemi elettorali sono poi attribuite anche molte altre proprietà, a volte del tutto taumaturgiche, come quella di migliorare la qualità della classe politica. Al di là di queste e altre illusioni va ripetuto ancora che qualche buona pratica il sistema elettorale maggioritario a doppio turno può innescarla. Lo abbiamo già sperimentato qui da noi con le elezioni per il sindaco. La competizione che prima consente il massimo della libertà di scelta tra i candidati (al primo turno) e poi seleziona il vincente (al secondo turno) ha portato alla ribalta spesso figure nuove e di rilievo, e ha spinto i partiti ad allearsi in coalizioni alternative. Chi ha memoria della rissosa politica locale pre-1993 non può che convenire sulla bontà del nuovo sistema adottato per le cariche elettive sub-nazionali. Dinamiche simili scatterebbero anche a livello nazionale per l’elezione dei parlamentari.
Non è una panacea, ma quanto meno la frammentazione viene ridotta, i partiti estremisti emarginati e la tenuta delle coalizioni rafforzata. Tutto questo non ha nulla a che vedere con la scelta per un presidenzialismo intero o dimezzato, oppure per un parlamentarismo con premier
super partes o meno. Se il sistema elettorale è indipendente da queste opzioni allora non ci sono motivi per attendere ancora il treno delle riforme istituzionali. Anche perché il sistema vigente piace pochissimo agli italiani: un sondaggio del 2010 lo vedeva preferito da meno del 10% degli intervistati. E pure i grillini, in un loro sondaggio online dell’agosto scorso, scartavano decisamente il Porcellum in favore di sistemi maggioritari (39%). Ritornare a votare con le stesse regole sarebbe un insulto alle domande dell’opinione pubblica (oltre che della Consulta e delle maggiori cariche istituzionali). Insomma, il “grande gioco” va interrotto: venga presentata — da chi ha il coraggio — e messa ai voti una nuova legge elettorale.

La Repubblica 01.07.13

“L’Italia che investe poco su scuola e formazione”, di Benedetto Vertecchi

Per molti anni la pubblicazione di Education at a Glance (il rapporto annuale che l’Ocse dedica all’educazione) è stata l’occasione che ha consentito a troppi improvvisati soloni, e ad esperti ancora più improvvisati, di tuonare contro gli sprechi di pubblico denaro che sarebbero propri del modo di funzionamento delle nostre scuole. Per altri versi, era sempre l’Ocse a segnalare, tramite i rapporti periodici relativi alle rilevazioni Pisa (Programme for International Student Assessment) che i risultati mediamente conseguiti nelle prove di apprendimento avevano raggiunto livelli petroliferi, che ci vedevano solidamente attestati nelle posizioni di coda per quel che riguardava aspetti qualificanti del profilo culturale, come la capacità di comprensione della lettura, le competenze matematiche e quelle scientifiche. L’effetto combinato dei rilievi critici presenti in Education at a Glance e dei bollettini di Caporetto costituiti dai volumi di presentazione e commento dei dati Pisa è stato di offrire la parvenza di un fondamento di ricerca alle scelte malthusiane di politica scolastica che hanno caratterizzato i governi che si sono succeduti dall’inizio del secolo. In pratica, la scuola è stata accusata di dilapidare risorse senza assicurare al Paese la qualità attesa nell’educazione di bambini e ragazzi (ricordo che le rilevazioni Pisa riguardano i quindicenni scolarizzati: danno perciò un’idea riassuntiva del repertorio di cultura che si osserva alla fine dell’istruzione obbligatoria). L’edizione 2013 (che può essere scaricata all’indirizzo www.oecd. org), pur conservando un’impostazione teorica per la quale le scelte educative sono considerate subalterne rispetto a quelle economiche, giunge a conclusioni abbastanza diverse. Non solo non si rilevano più gli sprechi ravvisabili nelle condizioni di funzionamento in precedenza oggetto di più severa attenzione (per esempio, il numero complessivo degli insegnanti o il numero degli allievi per classe), ma si segnala la limitatezza delle risorse che caratterizza l’impegno pubblico per l’educazione.
ZITTITI I SOLONI
Non è un caso che alla pubblicazione del rapporto 2013 abbia fatto riscontro un silenzio inconsueto da parte dei soloni prima menzionati, e che, al contrario, certi rilievi critici siano stati colti e apprezzati proprio da quanti, in precedenza, rifiutavano associazioni troppo semplici tra i dati relativi al funzionamento e quelli descrittivi dei risultati. Non è un buon segnale quello che deriva da un confronto che si sviluppa sulla conformità o meno dei dati rispetto alle scelte contingenti di politica scolastica, perché quella che emerge è solo la povertà delle interpretazioni. Purtroppo, è quel che accade in Italia. Non c’è stato quell’impegno per lo sviluppo della ricerca educativa interna che avrebbe consentito sia di far corrispondere il governo del sistema a ipotesi di sviluppo sostenute dalla conoscenza dei fenomeni, sia di trarre reale vantaggio dalla partecipazione alle rilevazioni e alle comparazioni internazionali. È quindi accaduto, e continua ad accadere, che quel poco di elementi descrittivi sul funzionamento del sistema e sui risultati dell’attività provengano da progetti che rispondono a logiche piuttosto diverse da quelle che il nostro sistema scolastico dovrebbe perseguire. Sono, infatti, soprattutto logiche tese a porre in evidenza le ricadute in tempi brevi dell’attività educativa, mentre il nostro sistema scolastico, al pari di molti altri, è soprattutto orientato (o, almeno, lo era) a favorire nei processi educativi la comune acquisizione dei repertori culturali necessari per caratterizzare il profilo dei cittadini nell’intero corso della vita. All’enfasi posta sui risultati a breve termine si oppone l’impegno a favorire processi di adattamento che continuino a dispiegarsi nel corso della vita. L’aridità di una cultura immiserita dalla rincorsa di un’utilità immediata finisce col sopraffare la possibilità di sviluppare un disegno educativo volto ad accrescere la comprensione. Bisogna superare la tendenza al manicheismo che il più delle volte si manifesta quando si affrontano questioni educative. I rapporti dell’Ocse non sono, in sé, portatori d’interpretazioni, non importa se positive o negative, ma sono occasioni per avviare una riflessione sostenuta soprattutto da considerazioni che si riferiscono ad aspetti specifici del funzionamento e della cultura delle nostre scuole. Per esempio: si potrebbe osservare che i livelli degli apprendimenti scientifici sono migliori quando gli allievi hanno maggiori opportunità di verificare tramite pratiche di laboratorio (reale, non virtuale!) ciò che loro si propone di apprendere. In Italia, è raro che ciò accada. Anzi, in troppe scuole le dotazioni esistenti sono state dismesse.
SCELTE IDEOLOGICHE
È difficile negare che si sia trattato di una scelta ideologica: non c’era ragione per affermare che i vecchi laboratori (che potevano essere aggiornati) dovessero essere sostituiti da soluzioni alle quali si riconoscevano qualità didattiche non dimostrate, ma accreditate per l’alone di modernizzazione che le circondava. È evidente che se ci fosse stata una ricerca interna di qualche dignità non si sarebbe stati esposti, come si continua a essere, al condizionamento esercitato da ideologie antagoniste della cultura dell’educazione. E si avrebbero elementi per cogliere la continuità tra l’evoluzione in atto nel nostro sistema educativo e quella che parallelamente si riscontra altrove.

L’Unità 01.07.13

"Chi minaccia il governo", di Claudio Sardo

Se mai c’è stata, la luna di miele del governo Letta è già finita. La crisi continua a mordere la carne viva dell’economia e della società, l’Europa tarda a correggere la rotta verso politiche espansive e nuovi investimenti, e da noi troppi opportunisti sono tornati ad occupare la scena pubblica.
Ma, se la crisi morde e la luna di miele è finita, non per questo è finito il tempo della responsabilità verso l’Italia, che ha bisogno di cambiamenti già in questa complicatissima legislatura per fondare finalmente la necessaria svolta politica. Berlusconi ha acconsentito alla nascita del governo, ma dopo le condanne dei tribunali si è chiuso nel bunker e ha imposto alla destra di regredire allo stato primordiale: partito personale, logica patrimoniale, politica del ricatto. Non si può più dare per scontato che il Cavaliere confermi a lungo la fiducia al governo Letta. I «falchi» lo incitano anzi ad alzare la voce, a porre ultimatum, a fustigare un governo che rappresenta solo le «colombe» della destra, quelli che pensano di utilizzare il tempo del governo Letta per dare una struttura democratica e una successione non dinastica al partito di Berlusconi. Gli scontri mediatici su Imu e Iva hanno, sullo sfondo, questa sostanza politica: nel Pdl ci sono forze che puntano a far saltare il governo, che vogliono tornare a Forza Italia per ancorare la destra a un nuovo radicalismo, per tagliare i ponti con il popolarismo europeo e l’area moderata, per avere le mani libere nel contestare la stessa Costituzione.

Berlusconi tentenna. È appannato. Cerca di camuffare il ritorno a Forza Italia come un’operazione di mero marketing politico. Non ha deciso se imboccare di nuovo la via del radicalismo anti-europeo. Ma dovrà decidere presto. Perché le elezioni dell’Europarlamento sono alle porte e il suo capo-partito europeo, Angela Merkel, non attenderà a lungo. In questo travagliato contesto, Beppe Grillo ha deciso di trincerarsi nel suo bunker prima di ogni altro. Ha avuto la possibilità di dar vita a un governo senza Berlusconi, o comunque un governo senza potere di veto del Pdl. Ma si è opposto con tutte le forze a questa eventualità. Grillo ha lavorato per il Cavaliere, per accrescere il suo potere di interdizione, scommettendo sul fatto che il Pd avrebbe pagato un prezzo altissimo alla maggioranza emergenziale. Tanti suoi elettori, che lo avevano votato perché avviasse un cambiamento, lo hanno abbandonato. E lui, per tutta risposta, li ha insultati, ha espulso chiunque osasse mettere in discussione l’infallibilità del capo. Ma non è stata l’ira di un pazzo. Grillo e Casaleggio sono disposti a perdere voti (e altri parlamentari) pur di congelare il loro capitale e tenerlo disponibile solo per un’impresa radicalmente eversiva dell’esistente. Sia chiaro, anche loro non è detto che ce la facciano. Nel Movimento Cinque stelle aumentano le spinte verso la politica, verso azioni di rinnovamento concreto: e sempre più si scopre che la rivoluzione di Casaleggio ha in realtà un involucro reazionario.

Il governo Letta è al centro di queste tensioni. Ormai è chiaro che la cosiddetta «pacificazione» non è mai stata la sua cifra. Qui non c’è niente da pacificare. C’è un Paese a terra, che deve fare assolutamente qualcosa per risollevarsi, che deve giocare subito la partita in Europa per cambiare la rotta economica, che deve fare le riforme per evitare che anche le prossime elezioni siano nulle. Questo è il compito del governo Letta. E la sua missione è appena iniziata. Si può discutere se abbia fatto bene a confermare i vincoli di bilancio per il 2013, spostando al 2014 gli effetti benefici della positiva conclusione della procedura d’infrazione. Si può discutere di questo o quel provvedimento fin qui adottato. Ma ha fatto del lavoro la sua bandiera, in Italia e in Europa, e fin qui è riuscito a evitare l’impatto devastante dell’aumento dell’Iva. Anche per questo va incoraggiato, spronato, aiutato.
Non avrà vita facile Enrico Letta. Ma sarebbe il colmo se anche il Pd, con il suo dibattito congressuale, finisse per destabilizzare il governo. Sarebbe un atto suicida, come lo sono state le assurde defezioni a scrutinio segreto durante le elezioni presidenziali. Il Pd deve spingere il governo a fare di più su lavoro e sviluppo. Deve accorciare le distanze con le parti sociali e costruire un’alleanza per lo sviluppo. Deve battersi in Europa con i progressisti affinché le prossime elezioni europee siano vere e proprie elezioni politiche sul destino del Continente e sulle sue politiche. Deve lavorare per le riforme possibili: il semi-presidenzialismo è anzitutto irrealistico perché richiederebbe una riscrittura dell’intera seconda parte della Carta; mentre la linea della conservazione assoluta rischia di rendere cro- niche le torsioni della seconda Repubblica. Il solo modo per salvare la Costituzione è rafforzare il sistema parlamentare con serie e limitate modifiche. È questo il ruolo nazionale della sinistra. Se il Pd eviterà di trasformare la scelta del segretario in una nuova smaniosa rincorsa a Palazzo Chigi, aiuterà anche chi nel centrodestra e tra i Cinque stelle oggi contrasta il potenziale eversivo dei loro capi.

L’Unità 30.06.13

"Le politiche di austerità aumentano le diseguaglianze", di Ronny Mazzocchi

Sembra passato un secolo da quando il primo ministro inglese David Cameron, in occasione del World Economic Forum del gennaio 2011, dichiarò che le misure di austerità fiscale e la ripresa della produzione non erano affatto alternative e che, anzi, le prime avrebbero incentivato la seconda. Si trattava di una convinzione allora largamente diffusa anche nelle classi dirigenti del nostro Paese e supportata da alcuni studi per la verità già molto contestati da una larga fetta di economisti sui cosiddetti effetti espansivi delle politiche fiscali restrittive.
Oggi, alla luce della gravissima recessione in cui siamo ripiombati proprio a causa dell’austerity, non c’è praticamente più nessuno disposto a difendere le posizioni politiche che andavano tanto di moda solo due anni fa. Sebbene rimanga ancora estremamente vasto l’insieme di coloro che credono che non vi siano alternative praticabili alle politiche di bilancio restrittive, tutti ormai concordano che quest’ultime, lungi dall’essere la medicina per rilanciare la crescita, costituiscono un’ingombrante zavorra da portarsi dietro sulla strada dell’uscita dalla crisi. Tuttavia gli effetti negativi delle politiche di austerità non si limitano soltanto alla contrazione di Pil e occupazione.
Troppo spesso vengono dimenticate le conseguenze che tali politiche tendono ad avere sulla distribuzione del reddito e della ricchezza fra i cittadini. Si tratta di effetti che dovrebbero riportarci alla memoria l’esperienza che il nostro Paese provò sulla propria pelle vent’anni fa, quando l’uscita della lira dallo SME e la crisi valutaria che ne seguì, costrinsero l’allora governo ad approvare una durissima manovra di rientro. Quel pacchetto di misure permise all’Italia di uscire dall’emergenza, ma ebbe tremendi effetti redistributivi, facendo aumentare bruscamente la diseguaglianza fra ricchi e poveri con una rapidità mai registrata prima nei paesi occidentali. Parlare di effetti distributivi dell’austerità non è quindi solo una disquisizione teorica per economisti, ma è una necessità per la politica.
Una recente ricerca del Fondo Monetario Internazionale permette di mettere a fuoco meglio il problema. Lo studio passa in rassegna 173 episodi di consolidamento fiscale che hanno caratterizzato 17 paesi OCSE negli ultimi 35 anni. Tre sono gli insegnamenti più interessanti che se ne possono trarre.
Il primo è che, in media, le misure di austerità aumentano la diseguaglianza nella distribuzione del reddito sia nel breve che nel medio-lungo periodo. In altre parole, una fase di stretta fiscale colpisce in modo assai differenziato ricchi e poveri, gravando soprattutto su questi ultimi, con effetti persistenti nel tempo.
Il secondo insegnamento è che le manovre di risanamento del bilancio pubblico tendono sempre a far peggiorare la quota salari, ovvero quella fetta di reddito nazionale che va ai lavoratori a reddito fisso. La ragione risiede non solo nelle varie forme di tagli, de-indicizzazioni e riorganizzazioni che colpiscono quasi sempre il settore pubblico nei periodi di crisi, ma anche nel generalizzato aumento del tasso di disoccupazione che come abbiamo purtroppo imparato negli ultimi mesi è un risultato quasi naturale delle politiche di austerità.
Il terzo insegnamento è che i programmi di risanamento basati sulle riduzioni di spesa tendono ad aumentare la diseguaglianza molto più di quanto non facciano programmi basati sull’aumento delle tasse. Proprio quest’ultimo elemento è quello su cui sarebbe bene focalizzare l’attenzione, soprattutto in questa fase politica. La scelta delle misure restrittive da adottare per tenere il bilancio pubblico in ordine non è ininfluente dal punto di vista distributivo. Misure di valore contabile analogo come togliere una tassa o tagliare una spesa possono produrre non solo risultati diversi su produzione e occupazione, ma anche sulla distribuzione dei redditi.
Contrariamente alla retorica in voga negli ultimi tempi, la ricerca del FMI suggerisce infine che anche l’orizzonte temporale su cui vengono distribuiti i sacrifici può avere effetti sperequativi anche molto accentuati: concentrare le misure di austerità in un breve periodo di tempo tende a far aumentare la diseguaglianza molto più di quanto non facciano i programmi di risanamento spalmati su più anni. Si tratta di un monito importante da tenere presente quando si andrà a disegnare la politica macroeconomica per i prossimi mesi.

L’Unità 30.06.13