attualità, politica italiana

“Chi è che gioca con le riforme”, di Piero Ignazi

La riforma del sistema elettorale rischiava di essere inghiottita dai veti incrociati dei partiti e di diventare merce di scambio nel “grande gioco” delle riforme.
Per riprendere il Kim di Rudyard Kipling non sappiamo chi sia, tra i colli di Roma, l’emissario zarista o l’agente britannico, ma certo tutti stanno cercando di sottrarsi all’imperativo, oseremmo dire “categorico”, di produrre un nuova legge elettorale. Per fortuna il presidente del Senato ha riacceso i riflettori su questa inadempienza del Parlamento. Nel farlo con un’intervista ieri su
Repubblica, ha ricordato le recenti sollecitazioni della Consulta ad intervenire e, soprattutto, ha segnalato la priorità e l’urgenza della riforma del sistema elettorale rispetto a tutto l’impianto costituzionale.
Il fuoco di sbarramento alzato dal Pdl rende l’idea del grande gioco dietro alle riforme: non si può far avanzare una pedina (conquistare un emirato, avrebbe detto Kim) se non si sono già definite le altre mosse in vista dell’obiettivo finale (la conquista del diamante della corona britannica, l’India), vale a dire un presidenzialismo populista ritagliato su misura per il Cavaliere. Eppure, per procedere sulla strada delle riforme, bisogna togliere dal tavolo delle trattative la legge elettorale. Questa materia è, in quasi tutti i paesi, affidata alla legislazione ordinaria, non a quella costituzionale, e quindi va distinta dai rapporti tra i poteri dello Stato che sono invece, giustamente, materia propria delle costituzioni. All’obiezione che legge elettorale e ridefinizione della forma di governo vadano trattate insieme, è facile rispondere che i sistemi elettorali non sono concepiti per quello scopo bensì per “trasferire” i voti in seggi.
Questo trasferimento può avvenire in mille modi. Due soli però sono i criteri fondamentali a cui tutti si riconnettono: quello di assicurare la più fedele trasmissione delle scelte degli elettori garantendo il massimo della proporzionalità (come in Olanda e in Israele dove basta lo 0,67% dei voti per eleggere un deputato), oppure quello di favorire i partiti maggiori distorcendo la proporzionalità in cambio di una probabile, ma non certa, maggiore governabilità (si veda l’inedito governo di coalizione prodotto dalle elezioni britanniche del 2010).
Ai sistemi elettorali sono poi attribuite anche molte altre proprietà, a volte del tutto taumaturgiche, come quella di migliorare la qualità della classe politica. Al di là di queste e altre illusioni va ripetuto ancora che qualche buona pratica il sistema elettorale maggioritario a doppio turno può innescarla. Lo abbiamo già sperimentato qui da noi con le elezioni per il sindaco. La competizione che prima consente il massimo della libertà di scelta tra i candidati (al primo turno) e poi seleziona il vincente (al secondo turno) ha portato alla ribalta spesso figure nuove e di rilievo, e ha spinto i partiti ad allearsi in coalizioni alternative. Chi ha memoria della rissosa politica locale pre-1993 non può che convenire sulla bontà del nuovo sistema adottato per le cariche elettive sub-nazionali. Dinamiche simili scatterebbero anche a livello nazionale per l’elezione dei parlamentari.
Non è una panacea, ma quanto meno la frammentazione viene ridotta, i partiti estremisti emarginati e la tenuta delle coalizioni rafforzata. Tutto questo non ha nulla a che vedere con la scelta per un presidenzialismo intero o dimezzato, oppure per un parlamentarismo con premier
super partes o meno. Se il sistema elettorale è indipendente da queste opzioni allora non ci sono motivi per attendere ancora il treno delle riforme istituzionali. Anche perché il sistema vigente piace pochissimo agli italiani: un sondaggio del 2010 lo vedeva preferito da meno del 10% degli intervistati. E pure i grillini, in un loro sondaggio online dell’agosto scorso, scartavano decisamente il Porcellum in favore di sistemi maggioritari (39%). Ritornare a votare con le stesse regole sarebbe un insulto alle domande dell’opinione pubblica (oltre che della Consulta e delle maggiori cariche istituzionali). Insomma, il “grande gioco” va interrotto: venga presentata — da chi ha il coraggio — e messa ai voti una nuova legge elettorale.

La Repubblica 01.07.13