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«Nella cultura lavora una generazione di precari sottopagati», di Paolo Fallai

«Perché l’Italia abbandona il proprio patrimonio culturale? Per rispondere dovremmo farci un’altra domanda: a cosa serve il patrimonio culturale? Ho l’impressione che l’Italia non sappia più quale funzione e quale ruolo abbia. I padri costituenti, invece, l’avevano molto chiaro, altrimenti non l’avrebbero messo nei principi fondamentali del Paese. In un’Italia distrutta dalla guerra, in quel momento tragico, loro videro che il patrimonio e il paesaggio sono fondamentali in un progetto di Nazione. Oggi sarebbero considerati dei pazzi».
È una costante il riferimento alla Costituzione nel discorso di Tomaso Montanari, docente di Storia dell’arte moderna all’Università «Federico II» di Napoli. Il suo ultimo libro (Le pietre e il popolo, minimum fax) è un viaggio impietoso nell’Italia che nega il valore civico del patrimonio artistico. Il 5 maggio scorso è stata una sua proposta a portare mille storici dell’arte a L’Aquila per chiedere la «ricostruzione civile» della città martoriata dal terremoto del 2009.
Come possono concorrere, oggi, patrimonio e paesaggio a un progetto di Nazione?
«È tutto scritto nell’articolo 9 della Costituzione. Il patrimonio produce cittadini attraverso la ricerca e la cultura. Nella nostra legge fondamentale il patrimonio non ha funzione economica, non è il petrolio d’Italia».
E come si fa a mantenerlo, visto che perfino la tutela dei nostri siti più importanti, vive una perenne emergenza?
«Dal 2008 a oggi il bilancio del ministero per i Beni culturali si è ridotto a un terzo, circa un miliardo di euro. È un ventiseiesimo della spesa militare. Sarebbe demagogia pretendere la pari dignità tra cultura e armi, ma 26 a uno è un suicidio della nazione. E non vorrei ripetere ancora una volta che l’evasione fiscale in Italia è seconda solo alla Turchia e al Messico. Ma col 2% dell’evaso il patrimonio si manterrebbe perfettamente. Non è che non possiamo, non vogliamo».
Quindi non possiamo neanche aspettarci dalla cultura posti di lavoro qualificati come sarebbe normale?
«Invece sì, dovremmo aspettarceli, perché il patrimonio ha bisogno di infinite professionalità di alto livello. Mentre la gestione parzialmente privata introdotta dalla legge Ronchey ha prodotto generazioni di schiavi del patrimonio, precari, sfruttati, sottopagati».
Cosa si può fare oggi, di fronte alle continue emergenze?
«Primo punto riportare il bilancio dei beni culturali a prima del 2008. Barack Obama ha detto che tagliare sulla cultura in tempo di crisi è come buttare il motore fuori bordo per far ripartire l’aereo. Cominciamo a far ripartire le assunzioni dei giovani archeologi, storici dell’arte e architetti al ministero per i Beni culturali».
Ma qualcuno non potrebbe vedere in questo la solita ricetta dell’aumento della spesa pubblica?
«Il patrimonio è come la scuola, come la salute, dobbiamo decidere se merita la nostra attenzione oppure no. Tutelare il patrimonio vuol dire lavorare per il futuro, non per il passato».
E alzando lo sguardo su una prospettiva un po’ più lunga?
«Ci vuole una nuova alfabetizzazione degli italiani che non sono più in grado di leggere il paesaggio e il patrimonio. Nessuno può desiderare di tutelare ciò che non conosce e quindi non ama. La chiave è nella scuola, e una vera rivoluzione sarebbe abolire la Direzione generale per la valorizzazione al Mibac e sostituirla con una Direzione generale per l’educazione al patrimonio».
Come giudica i primi passi del ministro Massimo Bray?
«Mi sembrano tutti andare nella giusta direzione, ma come ha mostrato la vicenda della circolare che impone una improvvida rotazione triennale dei direttori di museo, diramata all’insaputa del ministro, Bray deve liberarsi da una struttura burocratica palesemente inadeguata».

Il Corriere della Sera 30.06.13

"Una scienziata militante che si batteva per i diritti", di Pietro Greco

Si è spenta ieri a Trieste Margherita Hack, la «signora delle stelle ». Forse il volto più noto della scienza italiana. Certo il più amato. Con lei il Paese perde una grande figura. Anzi, un modello. Uno dei pochi modelli popolari, ma non populisti, in cui gli italiani ancora si riconoscevano. E non solo d’istinto. Margherita Hack aveva un’indubitabile capacità naturale di entrare in sintonia con le persone. Ma l’immediata simpatia che suscitava non era solo frutto della sua verve tipicamente fiorentina. Era anche e soprattutto il frutto di un «modo di vivere» il suo essere donna di scienza. Margherita era una «scienziata militante», con una fede illuministica nella forza della ragione – della ragione al servizio dell’umanità – che riusciva a trasmettere toccando la mente (e i cuori) di tutti grazie alla sua libertà di pensiero. E alla trasparente, intransigente, rigorosa, generosa, disinteressata coerenza con cui la rappresentava, la sua libertà di pensiero. Suscitando empatia anche quando navigava – e succedeva spesso – contro corrente. È con la sincerità senza calcoli che Margherita Hack, anche a novant’anni, riusciva a parlare ai giovani. A entrare in empatia coi giovani.
E stata una grande donna di scienza, Margherita Hack. Non solo perché è stata una delle prime a rompere «il tetto di cristallo» e la prima donna italiana in assoluto a dirigere un osservatorio astronomico, quello di Trieste. Ma anche e soprattutto perché, nel corso della sua direzione durata dal 1964 al 1987, lo ha trasformato da piccolo osservatorio di provincia in un centro di ricerca di valore internazionale. Lei stessa si è affermata come grande esperta di spettroscopia stellare. È stata una grande comunicatrice, Margherita Hack. Pochi, come lei, sapeva parlare di scienza catturando l’attenzione dei pubblici più differenti. Ha fondato e diretto per anni una rivista L’Astronomia. Ha scritto sui giornali (è stata una delle collaboratrici più entusiaste e seguire dell’Unità). Ha bucato il video come, forse, nessun altro scienziato italiano. Non mancava davvero occasione di parlare alla radio, con la sua inconfondibile cadenza. Ha scritto una quantità enorme di libri di successo. Ha fatto teatro. Ha tenuto conferenze, riempiendo sempre le sale. Ciascuna di queste attività – ciascuna di queste qualità – meriterebbe un approfondimento. Tuttavia la dimensione maggiore della sua figura è quella di «scienziata militante». Capace di uscire dalla «torre d’avorio» e di mettere il suo illuminismo convinto fino all’ingenuità a disposizione di tutte le cause, piccole e grandi, di progresso sociale e civile.

Animalista convinta, circondata da cani e soprattutto gatti, si è battuta per affermare uno stile alimentare rigorosamente vegetariano oltre che contro ogni sofferenza inutile inferta ai suoi amici semoventi. Atea convinta, si è battuta per il rispetto della libertà religiosa. Ecologista convinta, si è battuta per le centrali nucleari. Icona delle donne in bicicletta, si è battuta per il diritto a guidare l’auto anche in tarda età se in possesso dei giusti requisiti fisici. Femminista convinta, non si è mai pianto addosso. I diritti alla parità vanno conquistati con forza e determinazione quotidiana, diceva, da parte delle donne. Tra le cause per cui si è spesa di più c’è quella della ricerca scientifica. Ma la sua battaglia non è mai stata corporativa. Credeva che la scienza è fonte di progresso intellettuale e civile per tutti. E che i risultati della ricerca, se applicati a beneficio di tutti, sono fonte di progresso sociale ed economico generale. In questo senso intendeva anche il suo impegno nella comunicazione e a fianco dei comunicatori. Non c’è giornalista scientifico italiano che non ne abbia apprezzato l’impegno, la disponibilità e la modestia. Non c’è giornalista scientifico italiano che non l’abbia considerata un’amica.

Ma Margherita era una militante politica anche in senso tecnico. Ha dato la sua faccia e la sua voce a molti partiti, sempre di sinistra. Si è candidata a mille cariche, dal consigliere comunale e deputato nazionale. Non si è mai seduta su una sedia. Se non quella, forse, di consigliere comunale a Trieste. Molti, tra i suoi colleghi ricercatori, hanno mosso qualche critica a questa presenza continua di Margherita nella vita pubblica. Esponendoti troppo, non esponi solo te stessa – dicevano – ma anche la scienza. Ma lei alzava le spalle e tirava avanti diritto. Non ricordavano, i suoi colleghi, che quasi tutti i più grandi uomini di scienza – da Darwin a Einstein, da Russell e Bohr, da Maria a Elena Curie, da Maria Montessori a Ri- ta Levi Montalcini – sono stati «scienziati militanti» e hanno prestato nome, volto e impegno a grandi cause sociali e anche politiche. Non si accorgevano, i suoi critici (pochi per la verità), che la fiorentina Margherita non faceva diversamente. Non si accorgevano i suoi colleghi che con la sua schietta passione a favore dei più deboli, Margherita ha contribuito a «umanizzare » la scienza. Ovvero, a creare una percezione diffusa che gli scienziati sono uomini. Come gli altri. Spesso migliori degli altri. Un’operazione preziosa, in un paese che non comprende la scienza. Grazie, Margherita.

L’Unità 30.06.13

Grasso: “Prima delle riforme istituzionali va fatta una nuova legge elettorale E se cade Letta un’altra coalizione”, di Liana Milella

Un altolà sulla magistratura: «Intangibili i capisaldi già in Costituzione». Da palazzo Madama come vede Letta?
«Comunica una sensazione di estrema serenità e assoluta imperturbabilità. È come se le polemiche gli scivolassero addosso e lui andasse avanti per la sua strada e i suoi obiettivi. Mi preoccupano però le fibrillazioni che restano il male costante della politica italiana».
Giusto questa settimana c’è stato trambusto sulle riforme. Come va a finire?
«Il presidente Napolitano ha accettato di tornare al Quirinale per consentire alle forze politiche di trovare un’intesa, la più ampia possibile, sulle riforme prospettando, con un monito molto severo, la possibilità di sue dimissioni nel caso in cui l’impresa dovesse fallire».
Vuole dire che l’impegno è ferreo?
«La necessità delle riforme non è negoziabile».
La legge elettorale è finita nel dimenticatoio. Eppure la Consulta va avanti sul quesito della Cassazione e da Milano si è appena costituito l’avvocato Aldo Bozzi.
«Sempre Napolitano, già nella precedente legislatura, aveva auspicato la riforma. Tutti i partiti hanno tuonato contro l’attuale legge e si sono impegnati a cambiarla al più presto. Se gli opposti schieramenti politici sono disponibili ad intese per riformare la Costituzione, che richiede maggioranze speciali, perché non approfittare del momento favorevole per approvare parallelamente, con legge ordinaria, magari ad iniziativa parlamentare se il governo non vuole prendere iniziative, la nuova legge elettorale?».
Che percorso ipotizza?
«Una riforma da fare subito su una strada del tutto separata e indipendente dal pacchetto delle riforme».
A che legge pensa? Di nuovo il Mattarellum?
«Una cosa è certa, e tutti dichiarano sul punto di essere d’accordo. Il Porcellum va cambiato. In questo modo si eliminerebbero retro pensieri o idee di colpi di mano di un possibile ritorno alle urne con la legge vigente. Tornare al Mattarellum è solo una delle possibilità, forse la meno complessa e la più rapida. Ma bisogna affrontare tutte le ipotesi senza tenere in conto le convenienze e gli interessi dei singoli partiti. Le due caratteristiche fondamentali sono garantire una rappresentatività reale dei cittadini e la stabilità dei governi».
Se poi passano le riforme istituzionali che succede? La legge elettorale si può cambiare di nuovo?
«Naturalmente, se venissero cambiate forma di governo e Parlamento, anche quella potrà essere adattata».
Lei che riforma suggerisce?
«La mia posizione istituzionale mi obbliga ad avere un ruolo super partes. La questione mi appassiona non da oggi e mi piacerebbe molto entrare nel merito. Posso dire solo che non mi sembra possibile modificare l’intero sistema costituzionale senza ricostruire quello di pesi e contrappesi tra poteri, che sono alla base della Carta».
A che pensa?
«Bisogna evitare il rischio di un processo costituente che travolga l’intero impianto costituzionale, che è utile modificare in punti specifici, mantenendo fermi i suoi principi e la sua stabilità. Come nel caso del giudice soggetto solo alla legge e dell’indipendenza e autonomia della magistratura. Se si alterasse la posizione giuridica del capo dello Stato bisogna rivalutare tutti gli aspetti di garanzia che, una volta caduti, altererebbero l’equilibrio costituzionale».
A chi vuole il presidenzialismo, come Berlusconi, cosa obietta?
«Nel governo presidenziale, come negli Usa, la separazione dei poteri è più rigida. Il passaggio a un sistema in cui la figura di capo dello Stato e di capo del governo coincidono, se pur eletto direttamente dal popolo, comporta preliminarmente di rafforzare il Parlamento, mantenendo un bicameralismo che abbia la stessa fonte di legittimazione nel consenso elettorale. Il sistema deve avere dei contrappesi per evitare derive anti democratiche. Come un’efficace legge sul conflitto di interessi, sull’anti trust, sulle lobbies, sul sistema dei partiti e così via».
E se la forma dello Stato resta quella attuale?
«Lascerei ai costituzionalisti la risposta. Ma non c’è dubbio che sia necessario rendere il regime
parlamentare più coerente con il complessivo sistema costituzionale, attraverso ipotesi di sfiducie costruttive al governo, limiti allo scioglimento anticipato delle Camere e soprattutto ciò che è unanimemente condiviso, la riduzione del numero di deputati e senatori. Quanto alla lentezza dei lavori parlamentari, non scomoderei la Costituzione, mi limiterei a modifiche dei regolamenti parlamentari, di cui ho già parlato con la presidente della Camera Boldrini».
E che mi dice di una riforma molto sentita come l’abolizione del Senato?
«L’idea che possa diventare un consiglio regionale allargato e addirittura integrato da sindaci non mi trova d’accordo perché svuoterebbe la funzione parlamentare affidata a rappresentanti di organismi che negli ultimi tempi peraltro, in alcuni casi, non hanno dato prova di eccelsa dirigenza nei loro ambiti territoriali».
Vede il clima per le riforme?
«Mi sono affacciato da poco alla politica, ma una cosa mi è stata subito chiara. Esistono piani diversi di azione e di comunicazione. Mentre da un lato i partiti lavorano a una riforma condivisa e a un’azione di governo che sta già dando i primi e importanti risultati, dall’altro si cerca di mantenere alta la temperatura del dibattito politico con accuse al governo e interviste incendiarie, cui seguono dichiarazioni di sostegno e di fiducia».
Parla dei falchi del Pdl?
«Esprimersi dentro una coalizione come una forza di opposizione al governo è quanto di più deleterio possa realizzarsi. Tutto ciò genera, e mi risulta dai contatti avuti a livello internazionale, insicurezza sulla stabilità delle nostre istituzioni che, trasmessa agli osservatori stranieri, può generare anche manovre speculative sui mercati esteri. Insomma, capisco che “si vis pacem para bellum”, si prepara la guerra per fare la pace. Questa sarà pure la dialettica politica, ma non credo che in questo momento un partito possa assumersi la responsabilità di far saltare il tavolo».
Come giudica la zeppa del Pdl sulla giustizia con l’emendamento per cambiare il titolo IV della Costituzione?
«È chiaro che se si decidesse di intervenire sui poteri del capo dello Stato, non v’è dubbio che sarebbe necessario prevedere modifiche ai poteri correlati, come il Csm. Ma da qui a mettere mano all’assetto della magistratura ce ne corre. Di certo, i principi in questione, dalla separazione delle carriere alla direzione delle indagini, rappresentano un patrimonio insostituibile della democrazia che tutti dovrebbero difendere non come un odioso privilegio di casta, ma come le basi per il controllo della legalità».
Quanto pesano i processi di Berlusconi sulle riforme?
«Al momento non pesano affatto. Tant’è che lui stesso ha rinnovato la fiducia del Pdl al governo. Non dimentichiamo che oggi il potere di sciogliere le Camere è nelle mani di Napolitano, il quale ha detto che “se dovesse rinvenire sordità e miopia da parte dei partiti”, non esiterebbe a trarne le conseguenze di fronte al Paese».
Quanto dureranno governo e legislatura?
«Personalmente credo che il primo durerà a lungo, se riuscirà a dare ai cittadini le risposte sul lavoro, sull’economia, sulla lotta all’evasione, sull’abbassamento delle tasse. La durata della legislatura però non è necessariamente legata alla durata del governo. Nel caso in cui venisse meno la fiducia a questo esecutivo, sono certo che Napolitano non escluderà alcuna possibilità per altre possibili coalizioni».
Il Pd. Chi vede come segretario? Voterebbe per Renzi?
«Sono nel Pd spinto da una maturazione ideologica che risale a quel ragazzo di sinistra che in gioventù si ispirava ai temi dei diritti, della libertà, dell’etica, della difesa delle fasce deboli, della giustizia garantita per tutti. Al congresso starò dalla parte di chi prometterà di battersi per questi principi. Non posso certo pronunciarmi sui nomi, tuttora ignoti, mi auguro però che il congresso si tenga nei tempi stabiliti e non si modifichino le regole per eleggere il segretario».
Questo governo, in termini di voti, non rischia di essere il bacio della morte per il Pd?
«Non credo. Il Pd ha una sua incredibile forza, il suo elettorato ha dimostrato una tenuta inaspettata. Si sono persi molti voti che hanno alimentato l’astensionismo e la protesta. Credo che i risultati delle amministrative dimostrino però che il Pd è in fase di recupero».

La Repubblica 30.06.13

Con la "garanzia europea" 450 mila posti da trovare, di Marco Sodano

Dovrebbe succedere a partire da gennaio 2014: entro quattro mesi dal titolo di studio o dal giorno in cui hanno perso il lavoro tutti i neodiplomati e i neolaureati dovranno ricevere un’offerta di impiego. Vista dall’Italia, la Garanzia per i giovani su cui l’Europa ha deciso di investire fino a nove miliardi ha il sapore della sfida impossibile. Togliendo luglio e agosto, quando la burocrazia italiana gira al minimo, significa che abbiamo quattro mesi per mettere in piedi un’organizzazione dalle dimensioni ciclopiche.

Il primo termine del problema è noto. Nel 2012 si sono diplomati 448 mila studenti, 225 mila dei quali hanno deciso di non proseguire gli studi. Dalle Università, invece, sono uscite 229 mila persone tra lauree brevi e specialistiche. Il totale dei candidati a godere della youth guarantee assomma a 454mila ex studenti. Anche il secondo termine del problema è noto: il sostegno al lavoro, dice il piano europeo, dovrà passare attraverso i Centri per l’impiego. Tornando a spulciare i dati sul 2012 si scopre che i posti ottenuti via Cpi sono stati poco più di 17mila. Significa che l’anno prossimo i Centri dovranno essere capaci di aumentare la loro produttività (i posti di lavoro assegnati) di ventisei volte. I numeri sono importanti perché i fondi di Bruxelles (il miliardo e mezzo disponibile di cui ha parlato il premier Enrico Letta) saranno pagati solo sulla base di progetti nazionali precisi, documentati e verificati dall’Unione europea. Riassumendo: produrre il progetto, approvare leggi e regolamenti che si renderanno indispensabili, farlo confermare dall’Unione europea. Tutto entro gennaio 2014.

Oggi i Centri per l’impiego italiani sono gestiti attraverso le Province (che, a rigore, dovrebbero essere in via di abolizione) e fanno quello che possono. Poco. Ancora i numeri del 2012: su un milione di ragazzi tra i 15 e i 24 anni che hanno trovato lavoro nel 2012 solo l’1,8% è passato attraverso i Cpi. Metà o poco meno si sono rivolti a conoscenti o amici, un quarto hanno fatto richiesta direttamente al datore di lavoro, il 5,5% è stato assunto al termine di uno stage o di un periodo di tirocinio, il 4,6% è passato attraverso le agenzie interinali, il 2,4% ha trovato grazie a internet. Prima della riforma del 1997, quando i Centri per l’impiego si chiamavano ancora Uffici di collocamento, riuscivano a sistemare circa il 3,2% dei loro clienti. L’ennesima riforma all’italiana, di quelle che peggiorano la situazione che dovrebbero cambiare in meglio.

Ora si tratta di scommettere sulla prossima riforma: che, se vuole raggiungere l’obiettivo prefissato, dovrà essere molto robusta. Anzitutto i Centri per l’impiego lavorano su base provinciale e dispongono, allo stato, solo dei dati sulla provincia di riferimento. Quello di Bologna non sa di quali lavoratori hanno bisogno le imprese di Ferrara. In secondo luogo, sono a corto di personale: i 553 uffici attivi in Italia devono gestire una mole enorme di disoccupati (la media è di circa 5.000 persone a caccia di lavoro per ogni sede, e nel conto non rientrano ovviamente neodiplomati e neolaureati che dall’anno prossimo avranno diritto alla garanzia europea). Gli impiegati sono in tutto novemila: come dire che già adesso ogni funzionario deve studiare un percorso professionale personalizzato per quasi trecento persone l’anno. Considerando domeniche, feste e ferie si tratta di un posto al giorno. Dopo saranno ancora di più.

L’ultimo dato che manca al problema è quello delle aziende disposte a prendere in carico tutti questi giovani. Avranno uno sconto fiscale, potranno pagarli poco, ma sono le stesse imprese che affrontano la crisi più severa che la storia del nostro Paese ricordi. Ecco perché il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi di fronte al miliardo e mezzo messo a disposizione dell’Europa ha levato il sopracciglio: «Mi pare una cifra modestina».

La Stampa 30.06.13

"Quel piatto di lenticchie per un'Italia affamata", di Eugenio Scalfari

Ritorna vincitore? Molti sostengono di sì e fanno l’elenco delle vittorie ottenute da Letta al vertice di Bruxelles: un miliardo e mezzo per l’occupazione dei giovani, l’attivazione di prestiti per le piccole imprese da parte della Bei, l’approvazione definitiva dell’uscita dall’Italia dal procedimento d’infrazione del deficit, i complimenti della Merkel per i compiti a casa scrupolosamente portati a termine. Ma molti altri sostengono invece che si tratta d’un pugno di mosche o d’un piatto di lenticchie.
Che il tesoretto sia quantitativamente modesto è certamente vero, ma che a Bruxelles sia avvenuta una svolta positiva nella politica economica europea (e tedesca) è incontestabile, soprattutto se si esaminano i progressi dell’Unione bancaria voluta da Francia Italia e Spagna e soprattutto dalla Bce. C’è ancora molto da fare sul tema delle garanzie dei depositi, ma il principio è stato ribadito e questo è un fatto di grande importanza che mette i debiti sovrani al riparo da eventuali dissesti bancari.
Nel frattempo, mentre Bernanke si propone di metter fine all’espansione della liquidità e di rialzare sopra lo zero attuale il tasso di interesse, Draghi non lo seguirà né sull’una né sull’altra di queste decisioni. Questo è il vero aspetto positivo del vertice di Bruxelles di cui l’Italia è stata uno dei protagonisti.
Non si poteva sperare di più; anche se la svolta è appena agli inizi.
Ma — obiettano i critici — la strana coalizione che sostiene il governo è sempre più rissosa. Berlusconi al mattino promette appoggio pieno e leale a Letta, nel pomeriggio spara contro la politica del governo, alla sera minaccia elezioni a breve scadenza e prepara un nuovo partito d’assalto che sarà il motore d’una vasta coalizione.
Il tormentone non ha tregua e il governo delle larghe intese non potrà reggere a lungo. Sarà un miracolo se arriverà alla fine dell’anno. È così?
In realtà non è così perché questo non è mai stato e non si è mai proposto di essere un governo di larghe intese, di pacificazione e di definitiva concordia. Questo, al di là delle opportune ipocrisie che fanno parte del cerimoniale, è stato fin dall’inizio un governo di necessità e di scopo. Si è concentrato — come il presidente del Consiglio non cessa di ripetere — sulle politiche concrete, sui temi che interessano la gente, i giovani, i lavoratori, le imprese, i consumatori, il Mezzogiorno. Le politiche, al plurale, non la visione politica globale che semmai tocca ai partiti e ai movimenti di elaborare.
Questo è un governo a termine, lo sappiamo tutti. Tra un anno avremo le elezioni europee la cui importanza non può sfuggire a nessuno. Poco dopo, nel luglio 2014, avrà inizio il semestre di presidenza europea spettante all’Italia e sarà Letta a presiederlo. Con ogni probabilità all’inizio del 2015 il governo sarà dimissionario e la legislatura avrà termine.
A quella data, Berlusconi avrà quasi ottant’anni. Quali che siano state nel frattempo le sue vicende giudiziarie, il suo percorso politico si chiuderà. La strana alleanza, non essendo più necessaria, cederà il posto al normale scontro politico tra conservatori e riformisti o se volete tra destra e sinistra, tra chi mette l’accento sulla libertà senza ignorare l’esigenza dell’equità sociale e chi lo mette invece sull’eguaglianza purché conviva con la libertà e i doveri con i diritti. Cioè la normale dialettica di ogni democrazia. Sempre che l’Europa stia uscendo dalla crisi che ormai da tre anni ci tormenta ed abbia imboccato la strada di uno Stato federale.
Questo percorso non ha alternative. Abbiamo più volte scritto che l’uscita dell’Italia dall’euro, vista come un modo per superare il divario di produttività rispetto agli altri Paesi del continente, è una solenne sciocchezza. Il ritorno alla liretta equivarrebbe ad un vero e proprio “default” che ci farebbe precipitare al di sotto di tutti i Paesi mediterranei abbandonandoci nelle braccia della speculazione. Capisco che Grillo indulga a quest’ipotesi, spesso adombrata anche da Berlusconi: puntano tutti e due a prender voti dai tanti allocchi che attribuiscono
all’euro gli antichi e nuovi mali dei quali soffriamo. Capisco assai meno che analoghe tesi siano sostenute da un finanziere come Caltagirone che non ha ambizioni politiche e dovrebbe avere qualche nozione di finanza e di economia.

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Accanto alle “politiche” il governo Letta ha anche lo scopo di avviare un pacchetto di riforme costituzionali. Qui, a nostro avviso, è stato commesso un errore: si sono escluse riforme che tocchino la prima parte della Costituzione, quella che riguarda i principi, lasciando invece libero il campo a riforme che il Parlamento dovrà avviare senza stabilire esplicitamente quali.
Siamo per fortuna ancora in tempo poiché la legge costituzionale è ancora allo studio e sarà poi trasmessa al Parlamento seguendo la procedura immaginata di affidarne la redazione alla Commissione bicamerale competente e poi, per la decisione definitiva, alle due Camere secondo il dettato dell’articolo 138 rinforzato da vari referendum finali sui singoli beni.
E bene, i temi in realtà sono soltanto tre e sarebbe opportuno precisarli per evitare sortite spesso inconsulte: la riforma del Senato e del bicameralismo perfetto, che non esiste in un nessun Paese dell’Occidente; l’abolizione delle Province; il taglio nel numero dei parlamentari
e dei senatori.
Queste sono le riforme da portare a termine. L’abolizione del finanziamento dei partiti è già stata oggetto di una legge del governo della quale urge l’inizio della discussione parlamentare. La riforma della giustizia civile è già parzialmente iniziata e va rapidamente condotta a termine. La legge elettorale, che è stata infilata (non si capisce perché) nella legge costituzionale affidata all’apposita commissione dei 40; va a nostro avviso rimessa a disposizione del Parlamento. Non si può infatti correre il rischio che un improbabile ma possibile ritiro della fiducia al governo da parte di un partito della strana maggioranza avvenga senza che l’abolizione del “Porcellum” sia avvenuta.
Non dico che la nuova legge elettorale debba esser fatta subito; dico soltanto che non deve essere ingabbiata e condizionata dalle riforme costituzionali. Si tratta di una legge ordinaria ma fondamentale e non può essere sottratta alla libera disponibilità del Parlamento.

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Ci sarebbero molti altri argomenti da esaminare: i tagli di spesa per procurare risorse aggiuntive, la riforma del fisco che farà parte della legge di stabilità del prossimo autunno. E poi il congresso del Partito democratico.
Sui temi della spesa e del fisco
segnalo due importanti e chiarificatrici interviste di venerdì scorso: quella del ministro Giovannini su
Repubblica e quella di Fabrizio Saccomanni sul Corriere della Sera.
Una parola sul congresso del Pd. Che il dibattito, come sempre dovrebbe avvenire, abbia inizio nelle istanze di base locali, sezioni o circoli che siano, mi sembra ovvio. Qual è il tema per un partito che sembra aver smarrito la sua identità? Appunto quello, la visione della società come la concepiscono i militanti che dal basso la trasmettano alle istanze regionali e nazionali. Alfredo Reichlin ha ben interpretato questo percorso affidando un suo documento alla lettura online nel sito del partito. Altrettanto faranno Renzi, Cuperlo, Fassina, Civati, che siano candidati oppure no alla segreteria del partito.
Questo è il dibattito sull’identità, il quale culminerà poi con le primarie nazionali come è sempre avvenuto da quando esiste il Pd.
Altra cosa è l’elezione del candidato alla presidenza del Consiglio. Le elezioni politiche non sono imminenti e comunque non si elegge un candidato a guidare il governo nel momento in cui un governo c’è ed è guidato da un’eminente personalità del Pd. L’incongruenza sarebbe talmente evidente che non sembra neppure il caso di discuterne. Post Scriptum.
È di ieri la notizia che John Elkann, presidente
della Fiat, ha telefonato al Capo dello Stato per informarlo che la sua società è diventata l’azionista di maggioranza relativa del gruppo Rizzoli- Corriere della Sera.
È stato un atto di apprezzabile gentilezza, ma la notizia contiene una realtà alquanto preoccupante. Con una posizione di maggioranza relativa che diventerebbe quasi assoluta nel patto di sindacato azionario, la Fiat avrà la proprietà di tre quotidiani nazionali: il Corriere della Sera, La Stampa, La Gazzetta dello Sport, più una società di libri, molti periodici, molti siti sulla rete, una società unica di pubblicità. Aggiungo che tra gli altri azionisti di Rcs ci sarà anche la Banca Intesa che sottoscriverà gran parte delle azioni inoptate. Forse Elkann avrebbe fatto bene a sottoporre preventivamente l’operazione alla Commissione antitrust visto che sia avvia ad assumere nel mercato mediatico una posizione dominante.
La concorrenza su quel mercato c’è, è molto vivace e presumibilmente aumenterà. Non è dunque questo il dato preoccupante, ma lo è il fatto che un gruppo industriale come la Fiat abbia il controllo d’un gruppo mediatico di quelle dimensioni. Il peso dei suoi interessi sullo Stato e sulle regioni diventerebbe schiacciante, con conseguenze preoccupanti sulla politica economica e sociale del Paese.

La Repubblica 30.06.13

"Il paradosso delle nomine", di Massimo Mucchetti

In un Paese normale, consapevole di quello che vuole, non ci sarebbe bisogno di una mozione parlamentare che aiuti il ministero dell’Economia a emanare una direttiva sulle nomine degli amministratori delle società controllate di diritto o di fatto dal Tesoro Ma l’Italia non è un Paese normale. E non lo è perché non vuole sapere quello che le converrebbe volere.

Per vent’anni l’Italia ha rinunciato ad avere una politica industriale dichiarabile e dichiarata, preferendo lasciar fare a un mercato mitizzato più che praticato, dove la ricerca dello shareholder value si è accompagnata a sussidi pubblici diversamente giustificati e a rendite para-monopolistiche. Un compromesso all’amatriciana che ha portato al successo personale un certo numero di capi azienda variamente legati tra loro, e con eminenze grigie della politica, grazie anche alle pierre di faccendieri co- me Luigi Bisignani. È questa storia equivoca che, nell’Italia del 2013, genera il bisogno di una procedura straordinaria per riuscire a prendere decisioni ordinarie come nominare persone capaci, di buona reputazione, in ordine con la giustizia, ai vertici di Eni, Enel, Finmeccanica, Cassa depositi e prestiti, Ferrovie, Poste.

IN UN PAESE NORMALE

In un Paese normale, i consigli di queste grandi aziende e delle loro controllate restano in carica per la durata del mandato e poi possono essere cambiati, e magari anche revocati prima della scadenza, sulla base di una valutazione della performance in relazione agli obiettivi prefissati. Nelle gran- di società per azioni, l’azionista di riferimento ha il compito di sapere quando il gerente ha fatto il suo tempo. Non sempre ci riesce, ma quello è il suo dovere.

Ferdinand Piech è ai vertici della Volkswagen da tutta la vita e la casa di Wolfsburg non sembra ne abbia mai sofferto. Taluni chief executive officer della Fiat sono durati lo spazio di un mattino, ma il celere rinnovamento non era un punto di forza, segnalava semmai una debolezza. Si tratta, naturalmente, di caso estremi che, provando troppo, non provano nulla. E tuttavia bastano per dire che certe regole di corporate governance come i limiti di età o la fuoriuscita obbligatoria al secondo o terzo mandato hanno un loro preciso senso istituzionale laddove l’azionariato non esprime una leadership propria come nel caso delle public com- pany o laddove la leadership sia sequestrata da un socio forte, ma incapace o corrotto.

Con quella mozione parlamentare e con quella direttiva ministeriale, l’azionista pubblico italiano confessa i suoi problemi. I principali dei quali non sono né la professionalità, né l’assenza di conflitti d’interesse, né la buona reputazione dei suoi massimi manager, ancorché l’esperienza sia stata talvolta deludente sotto questi profili. No, il primo problema che tarpa ancora le ali allo Stato azionista è la mancanza di un disegno industriale. Che i manager possono sviluppare o proporre, ma che sta all’azionista scegliere. Non stiamo pensando a uno Stato impiccione, ma a uno Stato che o vende le sue partecipazioni e toglie di mezzo potenziali equivoci oppure se le tiene e se ne occupa.

Prendiamo il caso Finmeccanica. Non si scelgono gli amministratori per sistemare gli amici o chi abbia ben meritato in campi estranei al business. Non si scelgono nemmeno i candidati sulla base di piani troppo dettagliati, sui quali l’azionista, mancando un Iri, non ha più le competenze per giudicare. E però capire i conti del settore civile e del settore militare si può. Così come si può valutare se siano possibili e convenienti o meno travasi di risorse tra i due settori. Oppure prendiamo l’Eni. Come ha reagito il cane a sei zampe alla rivoluzione annunciata dello shale gas e che rapporto c’è stato in materia tra management e azionista per le evidenti conseguenze che quella rivoluzione ha sulla dotazione infrastrutturale del Paese? Che rapporti ci devono essere tra le holding e le società operative? È su queste basi che si danno mandati e poi si fanno le verifiche. E, per quanto utili, non saranno i cacciatori di teste a sollevare lo Stato azionista dalle sue responsabilità.

Ma oggi come ieri la politica industriale viene ridotta alla elargizione degli incentivi. Che spesso hanno il solo effetto di anticipare le decisioni di spesa della clientela, e questo può anche non essere male, ma non di rado hanno l’effetto perverso, com’è avvenuto con talune fonti energetiche rinnovabili, di rendere economico, anzi profittevoli per pochi, magari legati alla politica, ciò che economico non è. Con i denari elargiti al solo fotovoltaico avremmo avuto ben più di una Iri.

Dilaniarsi sulla quantità di incentivi ai settori industriali in difficoltà senza porsi il problema degli strumenti, anche finanziari, anche bancari, per rilanciare l’industria all’uscita dal tunnel, o dilaniarsi su quanti debbano essere i denari da mettere sull’occupazione giovanile senza accorgersi che, se non hanno clienti, le imprese non possono né produrre né assumere dà la misura del ritardo, prima di tutto culturale, che l’Italia ha accumulato negli ultimi vent’an- ni.

"Turisti cacciati e minacce dell’Unesco ecco l’ultima maledizione di Pompei", di Dario Del Porto

L’ultimo schiaffo ha il volto stupito di quei cinquecento turisti arrivati da tutto il mondo e rimasti per due ore in fila sotto il sole, davanti ai cancelli degli Scavi archeologici rimasti chiusi fino alle 11 per un’assemblea sindacale. «Abbiamo messo Pompei tra i patrimoni dell’umanità e l’umanità deve poterne fruire», scuote il capo Giovanni Puglisi, presidente della commissione nazionale italiana dell’Unesco. Dunque la lenta agonia di Pompei, iniziata una sera di novembre di tre anni fa, con il crollo della Schola Armaturarum, sembra destinata a non finire mai. Un paradosso, per un’area capace di attirare quasi dieci milioni di visitatori in tre anni ma si ritrova, adesso, nel mirino dell’Unesco, preoccupata per lo stato di conservazione del sito vesuviano che rischia l’inserimento nella lista dei “beni in pericolo”. E suonano come una beffa anche le parole dell’imprenditore Pietro Salini, amministratore delegato di Impregilo che, due giorni or sono, ha dichiarato: «Pompei sta crollando, voglio donare 20 milioni in un progetto di rilancio ma non riesco a fare l’operazione». Salini pensa a un investimento culturale sulla falsariga di quello tentato a suo tempo da Della Valle per il Colosseo, impiegando le somme provenienti dai risarcimenti dovuti a Impregilo per gli impianti di rifiuti in Campania. «Soldi veri, non promesse che lasciano il tempo che trovano», sottolinea l’imprenditore. Teresa Cinquantaquattro, da due anni e mezzo soprintendente a Napoli e Pompei però frena: «A noi non risulta alcuna richiesta ufficiale». Anche il sindaco della città, Claudio D’Alessio dice di aver appreso la notizia dai giornali ma aggiunge: «In qualsiasi altro Paese in difficoltà, queste iniziative vengono accolte, non certamente disattese ».
È amareggiata, la soprintendente Cinquantaquattro, perché, sottolinea, «si concentra l’attenzione sui problemi, mai sulle cose positive che, con grande impegno, stiamo portando avanti». In ballo ci sono i 105 milioni di fondi stanziati per il Grande Progetto Pompei. Ma il finanziamento, ricorda Cinquantaquattro, «ha ottenuto l’approvazione solo nel marzo 2012. Da allora abbiamo pubblicato sei bandi, in questi giorni ne partiranno altri sette, in particolare sulla messa in sicurezza di quasi metà dell’area archeologica». Ieri sono partiti i restauri della Casa di Sirico. Dopo i crolli degli anni scorsi, evidenzia la soprintendente, «sono stati effettuati lavori di manutenzione per oltre un milione di euro, intervenendo in oltre 100 punti della città antica. Non è sufficiente, ma è comunque un’opera consistente». Nonostante tutto, Cinquantaquattro è ottimista: «Ci sono tutte le condizioni per voltare pagina», assicura. E l’allarme dell’Unesco, che potrebbe togliere a Pompei lo status di Patrimonio dell’Umanità? «Ha fatto la fotografia di una situazione ampiamente nota. Ma hanno visto anche gli sforzi compiuti».
I sindacati intanto restano in stato di agitazione e da qui all’8 luglio annunciano altre manifestazioni. Attualmente in organico ci sono 138 custodi, distribuiti su 25 turni per i 66 ettari del sito, 44 dei quali aperti al pubblico, e 14 addetti alla telesorveglianza. Al centro della protesta, la richiesta di potenziamento degli organici, il pagamento di circa un milione e mezzo di arretrati e la razionalizzazione degli incassi. «Mi dispiace che si cerchi di far alzare la voce ai turisti per coprire le ragioni del nostro disagio — spiega Antonio Pepe, segretario della Cisl Pompei — ma è proprio grazie ai sacrifici del personale se gli Scavi sono aperti tutto l’anno per 4 mila ore, con 52 giornate di visita in più rispetto a tutti gli altri siti italiani e apertura alle 8.30. Siamo i primi ad aver raccolto la sfida della produttività e ad essere interessati al rilancio dell’area ». Ma la chiusura del sito, obietta il presidente del Consiglio regionale Paolo Romano, «non è la strada giusta».

La Repubblica 29.06.13