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"Notizie buone e notizie cattive", di Paolo Soldini

Le metafore calcistiche usate da Letta per commentare gli esiti del Consiglio europeo hanno una loro suggestione, ma rischiano di semplificare un po’ troppo quel che è accaduto a Bruxelles e di lasciare più di una domanda su quello che accadrà nel prossimo futuro. L’Italia ha vinto la partita decisiva sull’occupazione giovanile? L’ha vinta certamente nel senso di essere riuscita a imporre il tema a un vertice che era stato programmato per occuparsi d’altro. Ma l’ha vinta anche per essere riuscita a modificare quanto sarebbe necessario la politica in fatto di occupazione dei governi e delle istituzioni di Bruxelles? Qui il giudizio dev’essere più sfumato. Il Consiglio ha accettato la richiesta di Roma di concentrare nei primi due anni i fondi a disposizione del programma Youth Guarantee (6 miliardi) e ha aggiunto dell’altro: poco più di due miliardi, reperiti grazie alla flessibilizzazione del bilancio comunitario sulla quale torneremo.

Con un calcolo del quale non ha spiegato i dettagli, Letta ha detto che, di quegli 8 miliardi, un miliardo e mezzo sarà a disposizione dell’Italia. È un po’ difficile capire come possa essere così alta la quota italiana, anche tenendo conto del fatto che il grosso della disponibilità andrà distribuito solo tra i 13 Paesi in cui la

disoccupazione giovanile supera il 25%. Il capo del governo di Roma ha fatto anche sapere che il piano nazionale con il quale si era presentato a Bruxelles ha avuto il plauso di altri governi e, in particolare, sarebbe piaciuto ad Angela Merkel. Un buon incoraggiamento considerato il fatto che, come si è visto, il decreto relativo non ha invece raccolto l’unanimità dei consensi in patria.

L’intesa su Youth Guarantee è stata resa possibile dal compromesso sul bilancio comunitario, che è stato insidiato fino all’ultimo minuto dalle pretese di David Cameron. Qui c’è l’altro elemento di novità uscito dal Consiglio. Il Parlamento europeo ha ottenuto che si adotti il principio della flessibilità che rende possibile trasferire da un capitolo all’altro e/o da un esercizio al successivo i fondi non spesi. Da quanto si è capito, questa possibilità sarebbe stata utilizzata subito per trovare i circa due miliardi aggiuntivi di cui s’è detto. Bene. Resta però l’assoluta insufficienza di un bilancio che è stato addirittura decurtato rispetto alle proposte della Commissione – 1030 miliardi tagliati a 960, cioè il minimo assoluto dell’Unione a 27 – e proprio sui capitoli essenziali per la ripresa della crescita: ricerca, innovazione, lotta alla povertà. Tanto più che il Consiglio non ha voluto «flessibilizzare» i 63 miliardi che erano avanzati dal bilancio precedente e che sono tornati per due terzi agli Stati nazionali. Un passo avanti e uno indietro, insomma, e al di là delle cifre è il principio che preoccupa. Non ci sono solo le intemperanze di Cameron: anche gli altri leader, e soprattutto Frau Merkel, sono incardinati sull’idea che per il bilancio dell’Unione debbano valere le regole della rigida austerità dei bilanci nazionali: meno soldi ci sono e meglio è. Per un pugno di euro si rischia così di rendere inutilizzabile uno dei pochi strumenti che l’Unione in quanto tale dispone per finanziare misure di crescita.

L’altro strumento è la Banca europea per gli investimenti. Sulla Bei, per tornare alla metafora, Letta sostiene che l’Italia avrebbe «pareggiato». Il calcio, si sa, non è una scienza esatta, ma il giudizio del presidente del Consiglio appare troppo ottimistico. Gli impegni che l’istituto di Lussemburgo si sta assumendo dopo la ricapitalizzazione di 10 miliardi effettuata recentemente sono decisamente insufficienti e, soprattutto, sono ispirati da una logica disastrosa: sotto la direzione del liberale tedesco Hoyer, la Bei considera suo compito prioritario mantenere il proprio rating sulla tripla A e quindi evita accuratamente di finanziare progetti nei Paesi a debito alto. Una logica «bancaria» e non «politica» che viene esplicitamente rivendicata dai Paesi «forti». Il governo italiano, insieme con quello francese, vuole ribaltare questa impostazione, ma per farlo dovrebbe adottare una posizione molto più decisa, anche a costo di aprire un contenzioso con Berlino. Ultima notazione. A dispetto di qualche voce della vigilia l’Italia non è riuscita ad ottenere nel vertice neppure un impegno pour parler sullo stralcio degli investimenti dal computo del debito. Pare opinione generale che fino alle elezioni tedesche del 22 settembre sia meglio neppure evocarla, la questione. E va bene. Ma con una situazione di bilancio nazionale che è quella che è, con un bilancio comunitario tagliato all’osso, con una Bei che continua a ragionare da banca, i piani generosi per dare lavoro ai giovani rischiano di restare nel cielo delle buone intenzioni. Di certo, dopo il 22 settembre bisognerà ridiscutere molte cose.

l’Unità 29.06.13

"La violenza globale contro le donne", di Gavino Maciocco

La violenza contro le donne è un fenomeno globale, una tragedia di enormi dimensioni: in tutto il mondo circa un terzo delle donne ha sperimentato sulla propria persona episodi di violenza, nella gran parte dei casi commessi dal partner. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) per la prima volta dedica un rapporto specifico a questo tema, descrivendone le dimensioni e le conseguenze sulla salute delle donne, indicando anche il ruolo essenziale che i servizi sanitari sono chiamati a svolgere.

Le dimensioni del fenomeno

“La violenza contro le donne non è un fenomeno nuovo, come non lo sono le sue conseguenze sulla salute fisica, mentale e riproduttiva delle donne. Ciò che c’è di nuovo è la crescente consapevolezza che gli atti di violenza contro le donne non sono eventi isolati, ma piuttosto un tipo di comportamento che viola di diritti delle donne e delle ragazze, che limita la loro partecipazione alla società e danneggia la loro salute e il loro benessere. Quando studiata sistematicamente, come è stato fatto in questo Rapporto, appare chiaro che la violenza contro le donne è un problema globale di salute pubblica di proporzioni epidemiche che interessa un terzo delle donne nel mondo”.

Con queste affermazioni si apre il Rapporto prodotto dall’OMS in collaborazione con la London School of Hygiene and Tropical Medicine e con il South African Medical Research Council (per scaricare il Rapporto).

Il Rapporto prende in considerazione due differenti tipi di violenza contro le donne: a) quella fisica o sessuale commessa dai partner e b) quella sessuale commessa da non-partner. Complessivamente il 35% delle donne nel mondo hanno subito una violenza di questo tipo.

La più frequente è quella commessa dai partner, con un dato globale del 30% delle donne vittime di violenza, con differenze regionali descritte nella figura. La maggiore prevalenza della violenza contro le donne si registra in Medio Oriente (37%) e in Africa (36,6%), la minore nei paesi ad alto reddito (23,2%).

La ricerca ha rilevato che l’esposizione alla violenza è già molto alta tra le giovani donne (età 15-19 anni) con una prevalenza del 29,4% e raggiunge il massimo picco nella fascia di età 40-44 anni con una prevalenza del 37,8%.

Inoltre il Rapporto rileva che il 38% degli assassini di donne sono commessi dal proprio compagno.

Il fenomeno della violenza sessuale commessa da altri soggetti (non-partner) è più ridotto e interessa globalmente il 7% delle donne.

Le conseguenze sulla salute e il ruolo degli operatori sanitari.

Le donne che subiscono violenza presentano rilevanti di problemi di salute, oltre a quelli direttamente provocati dalle aggressioni. Dal punto di vista della salute riproduttiva vivere in ambiente violento è associato a una maggiore probabilità di avere un aborto, di partorire prematuramente e di avere neonati con basso peso alla nascita. L’esposizione a eventi traumatici aumenta inoltre la probabilità di andare incontro a problemi di salute mentale, di diventare alcoliste, di tentare il suicidio e – in alcune realtà – di contrarre un’infezione HIV.

Il Rapporto rivela che in molti paesi è ancora bassa la consapevolezza che la violenza contro le donne sia un grave problema di salute (e non solo giudiziario o di ordine domestico), e in alcune realtà l’attitudine degli operatori sanitari verso le donne che denunciano una violenza è più negativa che di sostegno. Per questo motivo il Rapporto contiene delle raccomandazioni sui compiti e sui doveri degli operatori sanitari che si trovano a dover affrontare situazioni di violenza contro le donne, tra cui le principali sono:

· La visita deve avvenire in un ambiente che garantisca la massima riservatezza, fornendo alla donna il massimo supporto psicologico e raccogliendo fedelmente – validandole – tutte le informazioni che la donna riferisce.

· Gli interventi clinici devono includere l’offerta di contraccezione d’emergenza e di profilassi post-esposizione HIV.

La rivista Lancet ha dedicato un editoriale (leggi qui) al Rapporto OMS, facendo notare – a proposito di un altro aspetto della violenza contro le donne – che il governo britannico ha lanciato una campagna contro le mutilazioni genitali femminili (MGF) nel mondo (con un finanziamento di 35 milioni di sterline), ma ben poco è stato fatto all’interno del Regno Unito per aiutare le 22 mila ragazze a rischio di MGF e delle 66 mila donne che hanno subito una tale mutilazione. Purtroppo – osserva Lancet – nonostante una legge del 1985 consideri illegale tale pratica, mai nessuno è stato incriminato per questo.

L’Unità 29.06.13

"L'azione parallela", di Massimo Giannini

Bisogna avere fiducia in Silvio Berlusconi. Bisogna seguire le sue ossessioni, credere alle sue tentazioni, scommettere sulle sue esagerazioni. È accaduto così, ormai da quasi vent’anni. Lo “statista” prova qua e là a farsi spazio, nei pochi interstizi psicologici e politici lasciati aperti dallo “sfascista”. Ma alla fine il peggio prevale sempre. È nell’indole del leader, che vive di semplificazioni populiste e di pulsioni cesariste. Una miscela esplosiva, e tecnicamente eversiva, che spinge naturalmente il Cavaliere a concepire le regole della democrazia come una camicia di forza, e dunque a volerne ostinatamente fuggire. Sta accadendo anche oggi. Esasperato dai processi ai quali si sottrae scientificamente dai tempi della sua discesa in campo, ma rassegnato a sostenere una maggioranza di Larghe Intese che gli consente di restare comunque seduto al tavolo del potere, Berlusconi si muove nello schema dell’Uomo senza qualità di Musil.
Porta avanti l’Azione Parallela: da una parte conferma la lealtà al governo. Ma dall’altra parte conferma la volontà di far saltare il tavolo della giustizia. Con una mano fa finta di sorreggere Enrico Letta, con l’altra mano punta la pistola alla tempia dei magistrati, e al tempo stesso spinge le sue falangi macedoni ad avvelenare i pozzi, a seminare di mine innescate il campo della battaglia parlamentare, a sfruttare il primo treno che passa per veicolarci sopra qualche nuovo salvacondotto, o qualche altra legge ad personam. Prima l’emendamento fantasma che corregge le norme sull’interdizione dai pubblici uffici (pena accessoria che gli è stata inflitta per cinque anni nel processo di primo e secondo grado sui diritti tv Mediaset e in perpetuo nel processo di primo grado su Ruby). Poi l’ipotesi di amnistia, da far correre sui binari del decreto svuota-carceri. Infine il blitz sul disegno di legge per le riforme costituzionali, che un codicillo del senatore Donato Bruno apre ora anche alla riscrittura del Titolo Quarto della Costituzione dedicato proprio alla magistratura e all’ordinamento giurisdizionale.
Di fronte a questa improvvisa e palese violazione del fragile patto costitutivo sul quale si fondano le Larghe Intese (questo «governo di servizio» non si occuperà per ovvi motivi di riforma della giustizia) qualcuno nel Pd aveva parlato di un «atto di pirateria ». Il Pdl ha replicato con sdegno, per bocca del suo ministro delle Riforme Quagliariello, respingendo l’accusa e denunciandone l’evidente “strumentalità”. Adesso, a smentire le colombe e a rafforzare i falchi, arriva il Cavaliere in persona. L’intervista al Tg1 sancisce ciò che era già
chiaro fin dall’inizio. Quarantott’ore dopo la condanna a sette anni per prostituzione minorile e concussione nella farsa sulla “nipote di Mubarak”, ventiquattr’ore dopo i posticci esercizi di moderazione svolti durante il colloquio con il presidente della Repubblica, e in pendenza della decisione della Cassazione sul maxi-risarcimento dovuto da Fininvest a Cir per la corruzione nel Lodo Mondadori, Berlusconi ribadisce che «se c’è un settore che ha bisogno di una riforma questo è proprio la giustizia». E dunque conferma le peggiori intenzioni che stanno dietro l’offensiva del suo gruppo parlamentare al Senato.
I magistrati, inquirenti e requirenti, devono sapere che quella che il Cavaliere chiama e fa chiamare dalle sue televisioni serventi la «guerra dei vent’anni», lui continuerà a combatterla con tutti i mezzi. E gli alleati riluttanti della strana maggioranza devono sapere che il suo personale plotone d’esecuzione è sempre lì, nelle aule parlamentari, pronto a sparare fuoco amico sul governo e fuoco nemico sulle toghe rosse. La minaccia è puramente virtuale sul piano dei processi: il nuovo corso della “pacificazione”, che secondo lo schema berlusconiano doveva propiziare la nascita e consolidare la crescita di una Grosse Koalition all’italiana, sembra già svanito. Ma la minaccia è reale sul piano politico: resta difficile immaginare un Cavaliere condannato in via definitiva che diligentemente “si consegna agli arresti domiciliari”, mentre la nave del governo di Larghe Intese continua serena la sua navigazione. E c’è un’aggravante: la solita, quando si tratta di ricostruire i nudi fatti che hanno portato l’imputato di Arcore a subire un processo o una condanna. La menzogna come arma di difesa e di attacco.
Distorcendo ancora una volta le regole, l’ex premier parla al Tg1 mentre i giudici della Cassazione stanno ancora decidendo e scrivendo il dispositivo della sentenza sulla causa civile di risarcimento per il Lodo Mondadori. Si dichiara «vittima» di una decisione che, ai tempi della spartizione della casa editrice con il gruppo De Benedetti, lo vide invece nei panni del «carnefice ». Un ruolo che sta scritto nero su bianco su una sentenza di condanna penale già passata in giudicato, emessa dalla Corte d’appello di Milano il 23 febbraio 2007. In quella pronuncia si certifica che nel 1991 la Mondadori fu sottratta alla Cir dal gruppo Fininvest grazie a una sentenza «comprata » da Berlusconi ed emessa dal giudice Vittorio Metta, che per questo fu ricompensato con una tangente di 400 milioni di lire. Dalla condanna per corruzione, che sei anni fa ha colpito i suoi “sensali” Previti, Pacifico e Acampora, Berlusconi si è salvato solo grazie alla prescrizione. Ma di tutto questo, sulla rete ammiraglia della Rai, lo Statista non parla. Fa la parte del perseguitato (che non è) e non quella dell’imputato (che invece continua ad essere). La rituale contraffazione dei fatti, riscritti e raccontati secondo convenienza personale e impudenza politica.
Può sembrare un paradosso, ma questo ennesimo e disperato colpo di teatro del Cavaliere avviene proprio nello stesso giorno in cui, sul caso Ruby, si verifica un clamoroso episodio di disvelamento per il quale dobbiamo ringraziare niente meno che Lele Mora. È lui che, suo malgrado, si assume l’onere di dare un nome alle cose. Di squarciare il velo della propaganda conformista e manipolatoria, che nasconde una macchina costruita per produrre senso comune e trasformarlo in consenso politico. È sorprendente, e al tempo stesso anche inquietante, che a compiere un’operazione di verità così “scandalosa” rispetto ai canoni omertosi dell’ortodossia berlusconiana sia stato uno degli “ingranaggi” di quella stessa macchina. Ma anche questo, infine, è accaduto. Il fornitore seriale e «assaggiatore » ufficiale di olgettine nelle cene eleganti confessa, in un’aula di tribunale, che quelle serate ad Arcore sono state un caso di «abuso di potere, dismisura, degrado». Queste tre parole, testuali, le aveva scritte Giuseppe D’Avanzo su Repubblica (e le ha ricordate Ezio Mauro nel suo editoriale di martedì scorso), per spiegare in splendida solitudine quello che era chiaro e pacifico fin da allora. Che l’inchiesta sul Ruby-gate non era un odioso attacco alla privacy né un morboso tentativo di spiare l’allora presidente del Consiglio dal buco della serratura della sua camera da letto. Era invece un gigantesco scandalo politico, caricato di una colossale dimensione pubblica. E a nasconderlo, con una dose insopportabile di ipocrisia, poteva provare solo chi si ostinava (e si ostina tuttora) a presentarlo invece come la fatwa di una teocrazia che pretende di giudicare un peccato e di condannare non un reato, ma «uno stile di vita».
Ora, dalle parole di Mora, per una volta sincere nonostante le mezze ritrattazioni successive, abbiamo la conferma di quello che non abbiamo mai dubitato: e cioè che aveva ragione D’Avanzo. Abuso di potere, dismisura, degrado. Non c’è altro da dire, di fronte a una penosa storia di privatizzazione delle funzioni pubbliche, o di pubblicizzazione dei vizi privati, che ha esposto un capo di governo dell’Occidente al ricatto sistematico di un drappello di faccendieri e di un manipolo di escort. Ci vogliono la responsabilità politica e la tempra etica di un Lele Mora, a riconoscere almeno una volta, e a viso aperto, questa disarmante banalità del male?

La Repubblica 29.08.13

"Il volto umano dell'Europa", di Andrea Bonanni

Da un vertice europeo ingessato in attesa delle elezioni tedesche, Enrico Letta porta a casa più di quanto avrebbe potuto sperare. Il premier italiano ha ottenuto di concentrare l’attenzione dei Ventotto (da lunedì anche la Croazia entra nell’Unione) sul problema drammatico della disoccupazione giovanile. I capi di governo sono riusciti a rimpolpare i finanziamenti destinati al mercato del lavoro portandoli da sei a nove miliardi di euro. E la parte italiana di questa torta è uscita rimpinguata: dai quattro-cinquecento milioni inizialmente previsti, fino a un miliardo e mezzo, secondo le stime di Palazzo Chigi. Sono risultati che legittimano la soddisfazione del governo. E dimostrano come, quando si è credibili e coerenti in Europa, si può ottenere risultati senza dover “picchiare i pugni sul tavolo” come vorrebbe la destra italiana, che peraltro a Bruxelles i pugni non li ha mai mostrati e semmai ha preso una lunga e meritata serie di schiaffoni.
La battaglia di Letta per mettere la questione del lavoro al centro delle priorità europee nasce da una preoccupazione sacrosanta: “Consentire ai leader europei di parlare ai propri cittadini di problemi concreti e non di sigle che solo gli eurocrati sono in grado di decifrare”.
Purtroppo, però, non saranno le decisioni, pur favorevoli all’Italia, prese ieri dai capi di governo della Ue a risolvere gli enormi problemi strutturali che il nostro esecutivo si trova ad affrontare. I poteri di cui l’Europa dispone in materia sociale sono pochi. E i fondi che può mettere a bilancio sono ancora meno. Lo riconosce lo stesso comunicato finale dei leader: “gli stati membri devono avanzare con le riforme a livello nazionale, che è quello in cui si trova la maggior parte delle competenze relative al lavoro”.
La Direzione generale della Commissione europea che si occupa di lavoro ha 576 funzionari. Il ministero del lavoro tedesco ne ha novantamila. Questi sono i rapporti di forze. Fare della lotta alla disoccupazione una priorità europea può rendere più umano il volto di Bruxelles. Ma se non si danno all’Europa i mezzi per affrontare un compito di queste dimensioni, si rischia solo di trasformarla ancora una volta nel capro espiatorio di battaglie gi à perdute da altri.
E i mezzi, per ora, scarseggiano. I capi di governo hanno trascorso buona parte della prima giornata di lavoro a cercare di salvare dagli attacchi britannici un bilancio dell’Unione che è comunque ridicolmente inadeguato: meno dell’uno per cento del Pil europeo. Con simili fondi a disposizione, i nove miliardi stanziati per il lavoro rappresentano uno sforzo enorme per un risultato irrisorio.
Per questo, forse, i risultati più significativi di un vertice europeo che poteva decidere ben poco senza creare imbarazzi alla campagna elettorale di Angela Merkel, si possono leggere nella determinazione con cui Letta, Hollande e Rajoy sono riusciti a salvare il progetto dell’Unione bancaria dal fuoco di sbarramento tedesco. Dopo aver imposto a Berlino l’autorità di vigilanza unica affidata alla Bce, gli europei sono riusciti a superare le resistenze della Cancelliera e a mettere in piedi un meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie che prevede anche l’intervento diretto del fondo salva-stati e che dovrebbe evitare ai contribuenti di ripianare le perdite accumulate dai banchieri.
Tra il 2008 e il 2011, gli stati europei hanno speso quasi un terzo dei loro bilanci per salvare le banche travolte dalla crisi finanziaria, innescando una recessione che ha portato all’emergenza lavoro. Se le decisioni prese ieri, grazie anche al contributo italiano, riusciranno a frenare un simile salasso in futuro, si sarà fatto di più per favorire la crescita e l’occupazione di quanto potranno mai fare i nove miliardi faticosamente raschiati nelle pieghe di un bilancio inadeguato alle ambizioni europee.

La repubblica 29.06.13

"Carrozza: a settembre le scuole potranno chiamare tutti i supplenti che servono", di Alessandro Giuliani

Lo ha detto il Ministro durante un’audizione al Senato: qualora sia necessario, appena iniziano le lezioni gli istituti potranno ricorrere ai precari. Le immissioni in ruolo 2013 così suddivise: 12mila docenti e 3mila Ata. Con loro anche i vincitori del concorso a cattedra: la grande maggioranza delle commissioni terminerà in tempo utile. Sul boom di stranieri: in arrivo formazione specifica per i prof e un progetto grazie a cui alunni di seconda generazione faranno da tutor a quelli di prima.
Ha parlato di avvio del nuovo anno, di organici, allievi stranieri, risorse e università il ministro dell’istruzione, Maria Chiara Carrozza, nel corso dell’audizione tenuta il 27 giugno davanti alle commissioni riunite Cultura al Senato.
Prima di tutto, il responsabile del Miur ha voluto rassicurare tutti sul “regolare avvio dell’anno scolastico 2013-2014”, anche grazie alle novità che riguardano l’informatizzazione e al fatto che le scuole potranno chiamare supplenti, se se ne evidenzi la necessità, “appena iniziano le lezioni”. Dietro la cattedra, ha aggiunto il Ministro, ci saranno anche quasi tutti i vincitori del concorso a cattedra, solo in alcune regioni giunto alle battute finali. “La stragrande maggioranza delle commissioni – ha detto Carrozza – terminerà le operazioni in tempo utile per l’immissione in ruolo già dall’anno scolastico 2013/2014. E’, inoltre, in corso, con il Dipartimento della funzione pubblica e con il Ministero dell’economia e delle finanze – ha proseguito il Ministro – la procedura autorizzatoria per le immissioni in ruolo tanto per i dirigenti scolastici che per il personale docente, educativo ed Ata. Più precisamente, la richiesta per le nuove nomine dei dirigenti scolastici riguarda la seconda tranche di assunzioni relative al concorso ordinario 2011”.
Carrozza ha reso pubblica anche la quota, seppure di massima, di suddivisione del prossimo contingente di assunzioni a tempo indeterminato: “il turn over accertato, per cui si è proceduto alla richiesta di immissione in ruolo ,è attestato intorno alle 15.000 unità, di cui circa 12.000 docenti e 3.000 personale Ata”, ha spiegato.
Il responsabile dello storico palazzo bianco di viale Trastevere ha poi detto che per contrastare ladispersione scolastica “invece di operare con misure straordinarie occorre porre l’alunno al centro del sistema. Oggi – ha ricordato Carrozza – sono quasi 200 mila gli alunni stranieri nelle scuole di secondo grado, con tassi troppo elevati di insuccesso”.
Sull’alto numero di stranieri sui banchi ha invece specificato che “siamo anche proficuamente passati, in un decennio dall’accogliere 50 mila all’includere 800 mila bambini e ragazzi di cittadinanza non italiana”. Sul totale degli alunni stranieri, il 45% sono nati in Italia e parlano la nostra lingua mentre il 5% sono arrivati da poco e non parlano l’italiano. Sempre a proposito di allievi stranieri, per il ministro Carrozza, “serve uno specifico investimento per la formazione dei docenti”.
Tra le novità di cui ha parlato il Ministro, un progetto per il quale “alunni e studenti di seconda generazione fanno da tutor a quelli di prima generazione”. “Serve – ha aggiunto – un lavoro di revisione delle Linee guida per gli studenti stranieri che risalgono al 2006. Cercheremo di distinguere tra i diversi bisogni, soprattutto di coloro che sono appena arrivati in Italia”.
Sul fronte dell’università e del blocco del turn over al 20%, il ministro ha ricordato che il decreto legge “del fare”, che ha innalzato per il 2014 al 50% questo vincolo, aumenta le capacità di assunzione da parte degli atenei, e questo dà “un segnale importante al mondo dell’università”. Il Ministro ha però sorvolato sulla notizia che per procedere a circa 3.000 assunzioni tra università ed enti di ricerca, elevando tra il 20 e il 50% il turn-over rispetto all’anno precedente, si procederà alla sottrazione di 75 milioni di euro del budget destinato annualmente ai servizi di pulizia delle scuole affidati, in genere, a cooperative. Per evitare che ciò accada, come del resto già indicato nella bozza del decreto legge del “fare”, già approvata dal CdM, anche l’Anief ha espresso tutti i suoi dubbi: “per questi lavoratori sarà inevitabile l’assegnazione di stipendi magrissimi o il licenziamento”, ha scrittoil sindacato guidato da Marcello Pacifico, lanciando anche un appello ai parlamentari perché bocciassero almeno questo passaggio del dl.

La Tecnica della Scuola 28.06.13

"Quel bonus-lavoro ai non diplomati (previsto dall'UE)", di Lorenzo Salvia

Ma alla fine superare la maturità o prendersi un diploma di un istituto tecnico potrebbe diventare un handicap per trovare un lavoro nell’Italia al tempo della crisi? Sembra un paradosso, c’è stata anche qualche strumentalizzazione. Ma un fondo di verità nel paradosso c’è. Il bonus, sotto forma di taglio dei contributi, per le aziende che assumono giovani fra i 18 e i 29 anni fissa tre condizioni. Il giovane assunto deve essere disoccupato da almeno sei mesi, oppure vivere con almeno un familiare a carico, oppure non avere un diploma di scuola superiore. Oppure: basta una di queste tre condizioni per avere diritto al bonus. Il che vuole dire che il meccanismo scatta anche per un ragazzo che ha preso la Maturità, la laurea e magari anche un master, ma è disoccupato oppure ha dei familiari a carico. Preso da solo, per ò, il diploma di scuola superiore può essere uno svantaggio. Qual è il motivo di questa scelta.
C’è una ragione politica, perché il governo ha preferito concentrare sgli sforzi sulle persone che hanno più difficoltà a trovare lavoro. E chi ha un titolo di studio in meno ha ancora pi ù problemi degli altri. Ma il vero motivo è che non c’era altra scelta. La gran parte dei soldi che il governo ha messo nel pacchetto lavoro approvato mercoledì viene in realtà dai fondi europei. Ed è proprio Bruxelles a fissare gli obiettivi per i quali possono essere usati. Quei tre requisiti — vale la pena di ripeterlo, ne basta uno solo — sono previsti proprio dall’Unione europea per i programmi di coesione e inclusione sociale che finanzia. Anzi, quei soldi erano già impegnati in altri progetti e solo dopo una lunga e faticosa trattativa l’Italia è riuscita a riprogrammarli, cioè a dirottarli verso gli incentivi contro la disoccupazione giovanile. Per lo stesso motivo il bonus è rivolto soprattutto al Mezzogiorno. I fondi europei che il governo italiano ha preso per il pacchetto erano vincolati a quattro Regioni: Sicilia, Calabria, Campania e Puglia. E solo dopo un’altra trattativa, pure questa lunga anche se un po’ meno faticosa, è riuscita a spalmarli su altre quattro Regioni del Sud: Basilicata, Sardegna, Abruzzo e Molise. Restringendo così il campo sul quale spalmare le poche risorse nazionali che è riuscito a trovare.
Oltre al titolo di studio, c’è poi un’altra apparente asimmetria nel pacchetto del governo. Perché concentrarsi sui giovani, anzi su quelli fino a 29 anni, quando anche nella fascia sopra i 30 la disoccupazione è un problema per non parlare di chi il lavoro lo perde dopo i 50 e rischia seriamente di non trovarlo più? Anche qui c’è una scelta politica che spiega direttamente il ministro del Lavoro Enrico Giovannini: «Avere un giovane fuori dal mercato del lavoro per cinque anni crea un danno per la collettività maggiore rispetto a quello generato da un cinquantenne nella stessa condizione». Ma pure stavolta la spiegazione vera sta nella provenienza dei soldi, fondi europei e quindi da utilizzare per i giovani o da non utilizzare affatto. Per bilanciare il pacchetto, però, il governo ha inserito nel decreto un altro incentivo. Le aziende che assumono un disoccupato incasseranno la metà del sussidio di disoccupazione residuo. Per capire: se al momento dell’assunzione il disoccupato ha diritto ancora a dieci mesi di sussidio l’azienda che lo assume ne incasserà cinque. Stavolta i fondi europei non c’entrano. Anzi, non è stato necessario stanziare nemmeno soldi «italiani» perché ci si limita a cambiare destinatario (dal disoccupato all’impresa che lo assume) di soldi che già ci sono perché il fondo è alimentato dai contributi di tutti i lavoratori. Per questo il secondo bonus è per tutti: anziani o giovani, residenti al Sud o al Nord. E anche laureati, studenti freschi di maturità o solo con la terza media.

Corriere della sera 28.06.13

"Poveri agricoltori", di Carlo Petrini

«La recente conclusione a Bruxelles dei negoziati sulla nuova PAC, delude chi ha a cuore l’ambiente e l’agricoltura sostenibile di piccola scala. L’Europa sembra rimanere ancorata ai vecchi schemi del liberismo e delle lobbies multinazionali ». Siamo uniti nella diversità o diversi nell’unità? La recente conclusione a Bruxelles dei negoziati sulla nuova Politica Agricola Comune, la Pac, pur con qualche interessante novità delude chi ha a cuore l’ambiente e l’agricoltura sostenibile di piccola scala, ma più di tutto ci pone domande sull’Europa. Ci interroga sulle prospettive future, su che cosa è comune e su che cosa non lo è.

La riforma che dovrebbe orientare la qualità del nostro cibo, un possibile e auspicabile ritorno alla terra delle nuove generazioni, la cura dell’ambiente e dei territori, ha perso un’occasione storica. È stata dibattuta come non mai, partecipata dalla società civile e dalle associazioni che hanno fatto sentire forti e chiare le loro istanze, ha coinvolto per la prima volta il Parlamento europeo per dar voce ai cittadini. Ma gli obiettivi di una politica agricola più verde, equa e in grado di destinare fondi pubblici (il 40% del budget europeo) in favore di beni pubblici come il paesaggio, la qualità dei suoli e la salute, sono stati in gran parte non raggiunti oppure demandati a decisioni degli Stati membri.

Ecco, al di là delle considerazioni su che cosa è stato deciso, è importante vedere che cosa invece non è stato deciso, lasciando libertà di scelta ai singoli Stati: la questione sul supporto ai piccoli agricoltori; la riduzione dei pagamenti più corposi (il 20% delle aziende prendeva l’80% dei sussidi) o del tetto massimo percepibile in un anno; la facoltà di dedicare buona parte delle risorse destinate allo sviluppo rurale – cioè a pratiche ecologiche, sociali e produttive all’avanguardia – in favore delle rendite fondiarie (i pagamenti diretti in funzione di quanta terra si possiede) o per forme assicurative private che possono diventare deleterie.

Ora ai cittadini toccherà fare pressione sui loro Governi, il lavoro non è finito. Ma a cosa serve una Politica Agricola così importante in termini di budget e di argomenti, che dovrebbe sin dal nome essere Comune, se comune non lo è? Se non è in grado di proporre idee forti, che paghino con i nostri soldi qualcosa per cui tutti potremo avvantaggiarci? Qualcosa che ha a che fare con i beni comuni? C’è chi ha fatto notare che s’intravede nella mancanza di certe decisioni una sorta di “de-europeizzazione”.

È questione non da poco, perché ci sono diversi “fronti” che la Pac dovrebbe avvicinare, su cui dovrebbe mediare o essere dirimente in favore dei cittadini. Il primo lo potremmo chiamare “agroindustria contro piccola agricoltura”. Ci si può accapigliare all’infinito se era meglio o no obbligare tutte le aziende a destinare una piccola percentuale dei loro terreni al mantenimento di aree con funzione ecologica (3, 5 o 7%? Per la cronaca ha “vinto” il 5), ma di cosa stiamo parlando di fronte al fatto che da un lato abbiamo aziende che percepiscono 300.000 euro all’anno di sussidi mentre per i piccoli agricoltori gli Stati possono scegliere di dare un contributo annuo fino a 1.250 euro? Cosa cambiano queste cifre nell’economia di un’azienda? Lecentinaia di migliaia di euro mantengono in piedi un sistema monoculturale e non sostenibile; il migliaio sembra invece un “regalino” che certo non cambia il lavoro e la vita di una piccola azienda. È vero, ai piccoli agricoltori sono stati tolti molti obblighi burocratici, ma un aiuto concreto è un’altra cosa. In proporzione il contributo che loro restituiscono in cibo sano e buono, in cura del territorio e in beni di tutti è infinitamente più prezioso di mille euro all’anno. Da questo punto di vista la riforma Pac sembra abbia “cambiato affinché nulla cambiasse”: il grosso della torta continua ad andare ai grossi.

Un altro fronte sono le agricolture degli Stati membri di lungo corso contro quelle degli ultimi arrivati, i Paesi dell’Est. Queste ultime sono agricolture fragili, meno moderne e per questo ancora ricche di diversità naturale e produttiva: hanno diritto di crescere, ma anche di essere in qualche modo tutelate. Si parlava di “convergenza interna” per equiparare i sussidi, ma anche in questo caso alla fine decideranno i singoli Stati.

Poi c’è la questione “Europa contro Paesi in via di sviluppo”. In questo caso, se si guarda fuori dai confini continentali, ecco che magicamente torna l’unione: non è stato previsto nessun meccanismo di monitoraggio sugli effetti delle politiche commerciali della Pac – come i sussidi alle esportazioni o prezzi artificiosamente bassi – nei confronti dei piccoli agricoltori in Asia e in Africa.

Sono rimasti tutti uniti anche per annacquare le misure di “inverdimento” o “greening” delle pratiche agricole. È importante che il concetto sia stato introdotto, ma sono state anche previste così tante eccezioni nei regolamenti attuativi che il 60% delle terre coltivate europee alla fine potrebbe esserne esentato. Un buon indirizzo, ma un obbligo soltanto sulla carta.

Anche se si registrano alcuni aspetti positivi, come il già citato snellimento burocratico o l’aumento di risorse per i giovani agricoltori, questa è una Pac che lascia l’amaro in bocca. L’Europa sembra rimanere ancorata ai vecchi schemi del liberismo e delle lobbies multinazionali, senza il coraggio di proporre veri cambiamenti legati a prospettive nuove, mondiali, moderne. Quest’Europa ha generato una Politica Agricola Comune che ha poco di comune, che sembra nascondersi dietro le frammentazioni invece di imporre a tutti un indirizzo alto e nobile, severo e nell’interesse pubblico.

In tema di cibo e agricoltura, questa stessa Europa ci spinge a ripartire dalle nostre diversità per raggiungere un’unità che evidentemente è ancora tutta da definire. Mentre i piccoli agricoltori lottano da soli, i giovani hanno difficoltà a tornare alla terra, l’agroindustria continua a dominare e lo sviluppo di nuovi paradigmi sociali, economici, culturali, agricoli e alimentari, è lasciato tutto in mano a quei cittadini e contadini europei (loro sì!) dotati di tanta buona volontà e di copiose fresche idee. A ben pensarci, forse, sono proprio loro gli unici che ci fanno intravedere come sarà la vera «unione europea » del futuro.

La Repubblica 28.06.13