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"Femminicidio, adesso si muove il Parlamento" di Valeria Fedeli

Dal 2002, nel mondo, secondo dati OMS, la prima causa di uccisione di donne tra i 16 e i 44 anni è l’omicidio da parte di persone conosciute. E il 35% delle donne subisce nel corso della vita qualche forma di violenza.
Mentre gli omicidi di uomini sono di solito commessi da sconosciuti, durante atti di criminalità, quando ad essere uccisa è una donna è spesso per mano di persone vicine, in particolare partner o ex partner. È un dato consolidato nella storia, ma di recente consapevolezza.
Solo dagli anni ’90 si è iniziato a parlare di «femmicidio», per definire l’omicidio volontario di donne «perché donne», e poi di «femminicidio», per indicare ogni forma di discriminazione e violenza rivolta contro la donna, al di là dell’omicidio.
Come accade sempre con il linguaggio, nominare femmicidio e femminicidio ha permesso di renderli evidenti, riconosciuti, esistenti. Di svelare il rapporto tra violenza e stereotipi, tra violenza e mentalità maschiliste che hanno da sempre governato il mondo.
È nei modelli di famiglia, in concezioni del rapporto di coppia fondati sulla gerarchia, in un’idea dell’amore come possesso che si nascondono le ragioni culturali che portano alle violenze verso le donne, spesso proprio verso le donne «amate».
In Italia la maggior parte delle violenze non sono denunciate perché perpetrate in un contesto culturale maschilista, dove la violenza domestica non è sempre percepita come un crimine, dove le vittime sono economicamente dipendenti dai responsabili della violenza, dove persiste la percezione che le risposte fornite dallo Stato non sono adeguate.
Quando uno Stato fallisce nel perseguire femmicidio e violenze, l’impunità non solo umilia ancor più chi la vittima, ma manda un messaggio alla società, lascia intendere che la violenza nei confronti delle donne è accettabile, inevitabile.
La ratifica della Convenzione di Istanbul, appena completata, è un primo passo per invertire la rotta: riconosce la violenza sulle donne e domestica come violazione dei diritti umani, sancisce il principio secondo cui ogni persona ha il diritto di vivere libera dalla violenza e pone agli Stati il vincolo concreto del raggiungimento dell’uguaglianza tra i sessi de jure e de facto.
Occorre ora implementare il corpus normativo. Per questo con molte altre senatrici e molti senatori, di tutti i gruppi parlamentari, abbiamo proposto l’istituzione di una Commissione bicamerale sui fenomeni di femmicidio e femminicidio, che risponda al dovere istituzionale, oltre che morale, di domandarsi se è stato fatto tutto quello che si poteva fare o se occorre un cambiamento più strutturale nelle azioni di contrasto alla violenza verso le donne.
La Commissione lavorerà per rilevare le dimensioni del fenomeno, individuare le misure necessarie, monitorare l’efficacia dell’azione istituzionale. Serve poi modificare la cultura del Paese, superare la resistenza di un potere maschile e maschilista, prevenire discriminazioni e sessismi prima che degenerino in meccanismi patologici, intervenire con l’educazione.
La scuola e i libri di testo, spesso in modo inconsapevole, sono sessisti: trasmettono stereotipi e comportamenti che favoriscono le gabbie comportamentali di genere. Occorre invece incoraggiare, proprio a partire dalla scuola, la cultura del rispetto delle identità di genere e il superamento degli stereotipi sessisti. E adottare il codice «Polite» che prescrive per un linguaggio rispettoso delle differenze di genere per i libri di testo.
Serve insomma un’azione di sistema, che unisca misure immediate come il sostegno ai centri antiviolenza e un cambiamento culturale e normativo più profondo e lungo, per sradicare ogni forma di discriminazione e violenza di genere e garantire l’uguaglianza sostanziale delle donne come prevista dall’articolo 3 della Costituzione.
Abbiamo una responsabilità enorme, che guarda al presente, a chi oggi subisce o rischia di subire violenze, e guarda al futuro, alle bambine e ai bambini cui lasciare un Paese in cui crescere liberi dalla violenza.

l’Unità 28.06.13

"Presidenzialismo vicolo cieco", di Claudio Sardo

La proposta Pdl di estendere il lavoro di riforma costituzionale anche al titolo sulla magistratura si presenta anzitutto come un atto di ritorsione alle sentenze di condanna contro Berlusconi. Non è chiaro se la minaccia sia partita direttamente dal Capo o dalla mente fervida di qualche fedelissimo. L’esito tuttavia è lo stesso: l’apparente aggiunta costituisce in realtà uno «strappo» inaccettabile. Le riforme sono già così difficili: se il tavolo del confronto diventasse un terreno di scontro, o di esibizione muscolare, o di pressione istituzionale verso altri poteri, allora sarebbe meglio smettere subito e non sprecare fatica inutile. In ogni caso una discussione sull’ordinamento giurisdizionale e, più in generale, sui poteri neutri non può essere affrontata con la dovuta serietà, finché il leader del secondo gruppo parlamentare ha come priorità assoluta salvare se stesso dai processi in corso e costruirsi un percorso di giustizia ad personam. Non si può neppure dimenticare, mentre sta faticosamente iniziando questo ennesimo tentativo di riforma, che il lavoro della Bicamerale presieduta da D’Alema fu prima approvato da tutti e poi venne buttato al macero da Berlusconi perché considerò inaccettabile proprio la parte della riforma che riguardava la giustizia. Stavolta non può valere l’argomento, pur ragionevole, che il potere giudiziario richiede alcuni interventi di revisione costituzionale al pari dei poteri esecutivo e legislativo. Non stiamo in un’accademia. La revisione è plausibile solo laddove le convergenze sono mature, e nessuna modifica viene percepita come una manomissione della Carta del ’48. Qualcuno davvero può pensare che in presenza di un governo con una base parlamentare così fragile, di una crisi economia e sociale così grave, di orientamenti tanto diversi sull’evoluzione del sistema politico italiano, si possa organizzare un ring dove due pugili disputano un combattimento che ha come posta modifiche occasionali e/o strappi alla Costituzione?
Ma anche i firmatari degli emendamenti Pdl sanno bene queste cose: forse il loro solo scopo era esercitare una minaccia politica verso il governo, e magari verso i magistrati che si trovano a giudicare Berlusconi. Il problema del terreno di condivisione tuttavia riguarda l’intero lavoro di revisione. Alcune modifiche alla Costituzione sono necessarie. Il fatto che siano oggi improbabili (visto il conflitto politico) non toglie nulla alla loro assoluta urgenza. Anzi, le modifiche sono necessarie proprio perché dovremo presto tornare al voto e bisogno consentire agli italiani di prendere finalmente una decisione efficace, oltre che consentire al governo pro-tempore di operare con una giusta stabilità, senza prevaricare il Parlamento ma anche senza sottostare ad intollerabili ricatti.

È ora di finirla con questa seconda Repubblica. E anche con uno dei suoi più colossali imbrogli: la stabilità e la forza dei governi non dipendono (solo) dalle leggi elettorali. A diferenza di ciò che è stato predicato per vent’anni, non è la legge elettorale la chiave per avere un governo efficace e per dare maggior potere ai cittadini-elettori. Senza qualche correzione alla Carta, non basterà cancellare il Porcellum per avere ciò che tutti noi speriamo: un sistema trasparente, un Parlamento responsabile, un governo serio, efficiente ma al tempo stesso controllabile. Fare oggi un’opera di manutenzione della Costituzione è la condizione per salvarla, per confermare i suoi principi. Senza riforme invece rischiamo di chiudere la legislatura con rischi elevatissimi: la sfiducia dei cittadini, l’impotenza della politica e le conseguenze sociali della crisi stanno creando una miscela esplosiva, che può minare alle fondamenta l’intero edificio democratico.

Ma la sola riforma realistica – è ora di dirlo – sta dentro il quadro delineato dai Costituenti. Furono loro stessi a suggerire – con il famoso ordine del giorno Perassi – un sistema parlamentare rafforzato.

Non vennero ascoltati e la nostra prima Repubblica acquisì nel tempo i difetti del parlamentarismo deteriore. Invece fu uno dei nostri costituenti, Egidio Tosato, a inventare l’istituto della «sfiducia costruttiva», che poi i tedeschi adottarono e che consentì loro il massimo di stabilità politica in Europa. Le sole riforme realistiche vanno in questa direzione. L’ipotesi semi-presidenziale, che pure raccoglie consensi trasversali, è in realtà impraticabile anzitutto per ragioni pratiche. La svolta presidenziale non richiederebbe qualche emendamento alla Costituzione, ma una riscrittura integrale dell’intera seconda parte. Richiederebbe anche una ridefinizione dei poteri neutri, magistratura compresa. Ma in tutta evidenza si aprirebbe un’infinita catena di scontri. Non c’è alcuna base condivisa sul semi-presidenzialismo (mentre invece sul sistema parlamentare abbiamo una Costituzione in piedi, seppure bisognosa di correttivi). Non è neppure matura una riflessione sulla crescita di tutti i poteri neutri – non solo la magistratura – e questo è un fenomeno che riguarda ogni sistema politico occidentale. Chi vuole imporre il semi-presidenzialismo, in realtà, non vuole le riforme. Facciamo oggi ciò che è possibile e giusto fare per dare all’Italia un governo e un Parlamento all’altezza della sfida europea e globale. Poi, in futuro, si vedrà dove e come riprendere il discorso.

L’Unità 28.06.13

"La rivincita del burocratese", di Francesco Merlo

Hanno abolito l’obbligo della chiarezza e dunque uno sfrattato non può più protestare quando lo chiamano «cittadino passivo di provvedimenti esecutivi di rilascio». Ma forse è l’ora di reagire. Darebbe certamente il via alla rivolta linguistica quel cameriere di bar che segnasse l’ordinazione dell’ex ministro Patroni Griffi usando il burocratese che gli piace tanto.
E CHE consiste nello scrivere caffè senza mai chiamarlo caffè, ma «altresì assumendo che il liquido in oggetto non sia da iniettare e tenendo conto che trattasi di connubio tra acqua e piccoli semi tropicali».
Conosco una signora che ha due codici fiscali. Le hanno chiesto «la cerzioriazione » per stabilire «la anteriorità al fallimento di formazione del documento di garanzia» e ovviamente con riferimento «al diritto ex adverso azionato». Ebbene, i funzionari che (non) le hanno spiegato come uscire dalla doppia identità da due giorni non violano più il codice di comportamento dei dipendenti pubblici. Dopo dodici anni infatti è stata cancellata la norma che li obbligava «ad adottare un linguaggio chiaro e comprensibile».
Non che mai siano stati chiari e comprensibili, ma c’è una grande differenza tra una norma disattesa e una norma cancellata che diventa – oggettivamente, si diceva una volta – un incoraggiamento all’oscurità e all’incomprensibilità, virtù spagnolesche e bizantine che in Italia ammorbano il Diritto. E non solo nei testi legislativi che costringono il cittadino a navigare nell’incertezza e nella confusione e ad affidarsi sempre di più ai tecnici del cavillo, ma anche nelle sentenze dei magistrati che, pure, in base all’articolo 546 del Codice di procedura penale, già dovrebbero essere sempre «concise».
È almeno da sperare che Patroni Griffi, che firmò da ministro il provvedimento ora promulgato, abbia abrogato la norma sulla chiarezza cedendo alla rassegnazione e non alla restaurazione. Di sicuro infatti era in burocratese lo stesso codice che conteneva la norma contro il burocratese. Ed è in burocratese il codice che la cancella, e non solo perché frastagliato di formule e di commi, riferimenti, eccezioni e rimandi.
Ieri sul “Piccolo” di Trieste il linguista Michele Cortelazzo ha scritto che «si tratta di un vergognoso passo indietro» e ha fatto il seguente esempio di burocratese che vela, e dunque svela, l’ignoranza: «In una situazione economica così difficile può accadere che l’azione di vigilanza venga reputata dal datore di lavoro “inopinata” e inutilmente punitiva. Ma legittime doglianze non possono divenire congetture o, ancor più, critiche “inopinate” al rigore sanzionatorio…» Commenta il professore: «…chi ha usato, due volte, l’aggettivo inopinato, sapeva cosa scriveva? Non credo, perché il testo non ha proprio senso. Probabilmente la dirigente (di Cremona ndr) intendeva dire infondata» ma inopinato significa un’altra cosa: «imprevisto, inatteso».
Il burocratese però non è roba da ignoranti. C’è una logica esatta, anche se diagonale e sfasata, nell’ uso di «regolamento recante norme», «ai sensi dell’articolo», «disposizioni concernenti». Ed è una logica che diventa comica e assurda solo quando viene applicata alla vita normale: è possibile ordinare un caffè senza pronunciare
la parola caffè?
La prima regola del burocratese è di non usare mai una sola parola quando al suo posto se ne possono usare almeno due, e meno chiare: non decisioni dunque ma «processi decisionali», i documenti sono «supporto documentale», le azioni «il compimento di attività», il biglietto è «il titolo di viaggio». La seconda regola è mai seguire una strada dritta e breve quando se ne possono seguire almeno quattro storte e lunghe: «La norma suesposta è preordinata al fine di evitare la eccessiva incidenza della pendenza dei procedimenti amministrativi sulla esplicabilità delle posizioni di vantaggio degli amministrati ».
E sarebbe troppo facile dire chiaramente che il dipendente non deve accettare regali in cambio del suo lavoro quando si può dire oscuramente che «non deve accettare regali o altre utilità da soggetti che possano trarre benefici da decisioni o attività inerenti all’ufficio, né da soggetti nei cui confronti è o sta per essere chiamato a svolgere o a esercitare attività o potestà proprie dell’ufficio ricoperto».
Giustamente la “norma Bassanini”, che prende il nome dal Don Chisciotte che contro tutte le evidenze la voleva, quando fu promulgata dal ministro Frattini (2001) fu salutata da una festa linguistica. Sul nostro giornale, il collega Giancarlo Mola scrisse: «La “reversale” ha i giorni contati, presto diventerà una semplice ricevuta. I “pieghi” torneranno ad essere normali buste da lettera. Il denaro non sarà più “ripetuto”, ma banalmente restituito. Quanto all’ “orario antimeridiano” sarà soppiantato dalla più sobria mattinata».
Cosi non è stato, malgrado fossero stati promessi una task force di esperti con un numero di telefono “sos lingua” e la predisposizione di modelli prestampati di chiarezza. Per la verità nessuno ci aveva creduto sino in fondo. Ma solo ora l’operazione “parlare chiaro” è davvero una bruciante sconfitta. Il burocratese ha vinto. Non ci resta che aspettare nell’oscurità quel cameriere che, «dopo avere comunicato nella sede competente il suo personale favore all’ accoglimento della richiesta e considerando acquisito il liquido sopraindicato », dica «ecco» posando un calamaio sul tavolo del ministro. E Patroni Griffi: «Ma io avevo chiesto un caffè». E quello, scappando via: «Appunto».

La Repubblica 28.06.13

“Berlusconi ha accettato il pareggio di bilancio ecco perché abbiamo vincoli così stretti”, di Roberto Mania

«Bisogna sempre ricordare che se abbiamo vincoli così stringenti sul terreno della politica fiscale è perché nel 2011 il governo Berlusconi, unico caso in Europa, si impegnò a raggiungere il pareggio di bilancio già nel 2013. È un punto fondamentale che invece dimenticano in troppi», dice Stefano Fassina, viceministro dell’Economia, già responsabile economico nel Pd di Bersani.
Questa è anche la ragione per cui anziché decidere continuate a spostare il momento della scelta, dall’’Imu all’Iva fino agli F35. Il governo del rinvio.
«Non è affatto vero che questo sia il governo del rinvio. Questo è un governo di compromesso che deve tenere insieme due parti che hanno visioni, programmi interessi diversi, spesso molto diversi e distanti. Siamo arrivati in una situazione difficilissima senza margini di manovra. Eppure vorrei sottolineare che nei primi tre mesi abbiamo preso una serie di decisioni anticicliche, per dare ossigeno all’economia reale: rientra tra queste il rinvio dell’-I-mu…».
Appunto, un rinvio.
«Sarà pure un rinvio ma è anche un provvedimento anticiclico. Come il miliardo per rifinanziare la cassa integrazione in deroga, come i bonus fiscali per le ristrutturazioni edili, come i quattro miliardi per gli investimenti infrastrutturali nei centri con meno di cinquemila abitanti, come — per finire — lo sblocco dei 40 miliardi di debiti della P.a. nei confronti delle imprese. Certo la drammaticità economica e sociale del Paese richiederebbe altri interventi. Ma i vincoli sono quelli che le ho detto ».
Eppure proprio il Pdl è come se stesse all’opposizione. Seguendo il suo ragionamento il centrodestra dovrebbe protestare contro Berlusconi e non contro Letta. È così?
«Le critiche dovrebbero rivolgerle a chi ha accettato il pareggio di bilancio a quelle condizioni. Detto ciò il Pdl non sta all’opposizione, esprime il vice presidente del Consiglio che è il segretario del partito al quale, a sua volta, appartiene il premier che ha assunto gli impegni che oggi noi siamo costretti a rispettare».
Sarà, ma intanto il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, ha detto al Financial Times che i conti del Tesoro sono “opachi” e segreti quanto la formula della Coca-Cola.
«Non sono d’accordo. Bisogna stare molto attenti a quel che si dice. I conti pubblici italiani sono chiari e rispettano tutti gli standard europei e internazionali. Credo che sia compito di tutti valorizzare i risultati che abbiamo ottenuto in questi anni con grandi sacrifici. Il punto vero è come riuscire a cambiare in Europa il segno delle politiche di austerità».
C’è il sospetto che l’Italia abbia abbellito i suoi conti per entrare nell’euro utilizzando i derivati. È così? Si può giocare d’azzardo con i soldi pubblici?
«Non è così e nessuno ha giocato con i soldi pubblici, come ha ben spiegato il nostro Dipartimento del Tesoro. I derivati sono serviti a proteggere una parte del debito dal rischio cambio e dei tassi di interesse. Attenzione a considerare tutto ciò che è finanza come il male assoluto».

"Una ossessione trasversale", di Michele Ainis

In un memorabile saggio del 1927, Carl Schmitt individuò le categorie fondamentali della politica nella coppia amico-nemico. Come nell’estetica il bello si profila in opposizione al brutto, come nella morale il buono s’oppone al cattivo, così in politica ogni identità si forgia in contrasto all’identità dell’altro, dello straniero. E lo straniero è il tuo nemico, lo specchio che ti restituisce l’immagine rovesciata di te stesso. Da qui il cemento dei popoli in armi non meno che dei partiti in piazza, da qui la rissa permanente fra destra e sinistra, che ha scandito i vent’anni del bipolarismo all’italiana. Ma dov’è, qui e oggi, il nemico? Quali sembianze assume, mentre i vecchi antagonisti siedono l’uno accanto all’altro sui banchi del governo?
Fateci caso: negli ultimi mesi i partiti sono diventati afoni. L’assenza d’un nemico da combattere ne ha sfibrato il corpo, ne ha disseccato le energie, al pari dei guerrieri spartani reduci da mille battaglie, che poi tornati in patria morivano di malinconia. Vale per la maggioranza, vale — singolarmente — pure per l’opposizione. Dove il Movimento 5 Stelle è avvolto in una spirale autodistruttiva, che sommerge ogni progetto. La Lega Nord ha abbandonato Roma per rincantucciarsi nei propri territori, peraltro ormai scarsamente popolati dai suoi stessi elettori. E l’opposizione di Sel non è convinta, dunque non è nemmeno convincente. Del resto mettersi in trincea sarebbe un’impresa complicata, per un partito che si è presentato alle elezioni insieme alla principale forza di governo, e che esprime pur sempre la presidenza della Camera.
Nel silenzio dei partiti, un’unica voce risuona nei palazzi: quella del potere esecutivo. S’ascoltano dichiarazioni del premier, annunci dei ministri, promesse di decreti. È la rivincita delle istituzioni sulle segreterie politiche, che le avevano così a lungo sequestrate. Ma è anche il presagio d’uno Stato amministrativo, dove la gestione prevale sulla progettazione. E dove non c’è spazio per la politica, e non c’è nemmeno posto per i partiti politici. Loro lo sanno, o almeno ne avvertono confusamente il pericolo letale. Sicché reagiscono nell’unico modo che conoscono: cercandosi un nemico. E trovandolo, se non all’esterno, dentro le proprie fila. Ora la vitalità residua dei partiti si scarica su un nuovo bersaglio: il nemico interno.
Le prove? Scelta civica fa notizia solo per le baruffe quotidiane fra i suoi troppi colonnelli. Nella Lega il nemico è diventato Bossi, che ne era stato il fondatore. Il Movimento 5 Stelle ha già perso 6 parlamentari: un’espulsione al giorno toglie il medico di torno. Nel Pd Renzi è vissuto come una minaccia, non come una risorsa. Nel Pdl i falchi incrociano gli artigli con le colombe, ma la sentenza costituzionale sul processo Mediaset, e a seguire quella di Milano sul caso Ruby, hanno offerto all’unità del partito il suo antico nemico: il potere giudiziario. Tutto sommato Berlusconi dovrebbe ringraziare i magistrati.
C’è un che di claustrofobico in questo diffuso atteggiamento. C’è un disturbo paranoide nel concepire il tuo compagno come un sabotatore o un traditore. Ma non è forse il morbo di cui soffriamo tutti? L’anno scorso abbiamo contato 124 casi di femminicidio, per lo più fra le mura domestiche. Sono volatili gli affetti, i sodalizi culturali, i rapporti di lavoro. Perché abbiamo smarrito ogni fiducia, in noi stessi prima che negli altri. E disgraziatamente la politica non ci aiuta con l’esempio.

Il Corriere della Sera 27.06.13

"Rilanciare il made in Italy con la cultura", di Laura Genga

Bread and roses è il titolo di una poesia di James Oppenheim ripreso come slogan durante lo sciopero dei lavoratori tessili di Lawrence, Massachusetts, che nel 1912 incrociarono le braccia per 63 giorni chiedendo salari più equi e condizioni di lavoro più dignitose. Il pane e le rose, l’indispensabile, il minimo vitale insieme alla cultura e alla bellezza. Rovesciando questo slogan oggi dovremmo chiedere rose e pane, perché dalla bellezza e dalla cultura si produce ricchezza. Per convincersene basta scorrere i dati del Rapporto 2013 “Io sono cultura – l’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi” elaborato da Fondazione Symbola e Unioncamere con la collaborazione dell’assessorato alla Cultura della Regione Marche, presentato a Roma martedì scorso.
Mentre nel 2012 il tessuto produttivo del Paese rimaneva immobile, le imprese del sistema produttivo culturale sono cresciute del 3,3% sull’anno precedente, arrivando quasi a quota 460 mila, il 7,5% del totale delle attività economiche nazionali. E nell’insieme le imprese del sistema cultura creano 75,5 miliardi di euro di valore aggiunto, equivalente al 5,4% del totale dell’economia, dando lavoro a quasi 1,4 milioni di persone, pari al 5,7% degli occupati del Paese. Estendendo il calcolo dal sistema produttivo culturale privato anche a quella di PA e no-profit, il valore aggiunto della cultura arriva a 80,8 miliardi, pari al 5,8% dell’economia nazionale. Nel 2011 la quota era pari a 5,7%. Nonostante le difficoltà, quindi, le imprese culturali confermano una certa capacità di reazione anticiclica.
Le imprese della cultura – industrie culturali (film, video, mass media, videogiochi, software, musica, libri e stampa), industrie creative (architettura, comunicazione e branding, artigianato, design, made in Italy), patrimonio storico-artistico architettonico, performing art e arti visive – attivano inoltre nel resto dell’economia altri 133 miliardi di euro. In tutto fa 214 miliardi: un valore aggiungo pari al 15,3% circa del totale dell’economia nazionale. In altri termini il sistema produttivo culturale vanta un moltiplicatore pari a 1,7: per ogni euro di valore aggiunto prodotto da una delle attività di questo segmento, se ne attivano altri 1,7 sul resto dell’economia, ad esempio nel turismo legato alle città d’arte. Quindi gli 80,8 miliardi di euro prodotti nel 2012 dall’intero sistema produttivo culturale riescono ad attivarne quasi altri 133, arrivando così a costituire una filiera culturale intesa in senso lato di, appunto, 214 miliardi di euro. Dimostrando che le industrie culturali sono un fattore trainante per il sistema Paese.
“Il rapporto – spiega Domenico Sturabotti, direttore della Fondazione Symbola – evidenzia da tre anni come la cultura rappresenti un fattore competitivo strategico per tanti comparti della nostra economia. Le produzioni culturali e creative oltre ad alimentare l’immagine del nostro paese nel mondo, rappresentano materia prima per dare significato e valore alle cose: dal territorio alla manifattura, passando per la moda, il design, l’architettura e anche per il cibo. La cultura ha e dovrá avere sempre piú un ruolo centrale nella nostra economia, perché è il fattore che rende unici e riconoscibili i nostri prodotti e il nostro modo di vivere e pensare. Tanto più oggi nell’era della comunicazione”
Sacrificata spesso sull’altare dell’austerità, la cultura dimostra una capacità di reazione anticiclica migliore rispetto a quella del totale della nostra economia: confrontando la performance in termini di valore aggiunto ottenuta dal settore cultura nel 2012 con quella del 2011, infatti, la flessione è contenuta al -0,3% rispetto al -0,8% del resto dell’economia. Tenuta e reattività superiore alla media sono ancora più evidenti per l’occupazione dovuta alle imprese culturali: rispetto 2011 la cultura da lavoro a uno 0,5% in più di italiani a fronte del -0,3% complessivo degli occupati del Paese. Al prodotto e all’occupazione contribuiscono soprattutto le industrie creative (47,1% di valore aggiunto, 53,3% di occupazione) e le industrie culturali (rispettivamente 46,4% e 39%), e solo in piccola parte performing arts e arti visive (5,1% e 6,0%) e patrimonio storico-artistico (1,4% e 1,6%).
Anche sul fronte export la cultura vola, tanto che la bilancia commerciale del comparto nel 2012 ha registrato un attivo per 22,7 miliardi di euro. Lo scorso anno infatti le esportazioni hanno sfondato i 39,4 miliardi di euro, equivalenti al 10,1% dell’export complessivo nazionale, mentre l’import si è attestato sui 16,7 miliardi di euro, il 4,4% del totale. La quasi totalità delle esportazioni culturali provengono dalle industrie creative, che veicolano la ricchezza dei nostri contenuti culturali attraverso l’artigianato e il made in Italy. Buona anche la dinamica dell’export culturale: +11,5% medio annuo nel triennio 2009-2011 e +3,4% nel 2012, in controtendenza le importazioni.
Interessante inoltre la capacità attrattiva della cultura sul turismo: se nel 2012 la spesa turistica ha toccato i 72,2 miliardi di euro, ben 26,4 di essi sono stati attivati dalle industrie culturali.
“La collaborazione della Regione Marche con Symbola e Unioncamere alla realizzazione di questo rapporto – commenta l’assessore alla Cultura della Regione Marche Pietro Marcolini – fa parte di una strategia di sviluppo a base culturale. Il Rapporto è uno strumento conoscitivo estremamente utile per capire le innovazioni e le tendenze della nostra economia e come si posizionano le Marche rispetto ai trend emergenti. Anche quest’anno la nostra si conferma una delle regioni con la migliore performance culturale: dalle industrie di questo comparto arriva, infatti, oltre il 6% del valore aggiunto della nostra economia, incidenza per la quale siamo secondi soltanto al Lazio. Si tratta di un dato che corrobora l’investimento dell’istituzione regionale che punta a fare della cultura un vettore trasversale alle diverse politiche settoriali. Emblematico in questo senso è il progetto del Distretto culturale evoluto delle Marche, il cui primo avviso pubblico, chiusosi recentemente, ha registrato la presentazione di ben 20 progetti d’interesse regionale”.
Quanto alle macroaree geografiche, è il Centro a fare la parte del leone con il 6,1% del valore aggiunto. Seguono da vicino e Nord-Ovest, che dall’industria culturale crea il 5,9% della propria ricchezza, e il Nord-Est, che sempre dal settore delle produzioni culturali vede arrivare il 5,5% del valore aggiunto. Si ferma al 3,9% il Mezzogiorno. Una dinamica che si riflette anche per l’incidenza dell’occupazione creata dalla cultura. In testa alla classifica regionale per incidenza del valore aggiunto della cultura sul totale dell’economia, ci sono quattro realtà in cui il valore del comparto supera il 6%: Lazio, Marche, Lombardia e Veneto.

Il Sole 24 Ore 27.06.13

"La ricchezza della diversità", di Nadia Urbinati

La nostra democrazia sta attraversando una fase di tensioni e schizofrenie che non cessano di stupire. Il fondatore del blog antipartito Beppe Grillo transita il suo movimento dalla società al Parlamento, salvo poi lamentare il fatto che gli eletti del Movimento 5Stelle obbediscono al popolo italiano invece che a lui o al suo blog. Parlamentarista dichiarato quando in Parlamento i suoi non c’era ancora, sfodera ora una vocazione autoritaria e dispotica che col Parlamento va poco d’accordo. Il carattere deliberativo delle istituzioni democratiche impone un’attenzione alle differenze di vedute e una pratica della tolleranza che mal si adatta con i capipopolo. Non vi è dubbio che la strada del leader plebiscitario possa sembrare quella più semplice e naturale in tempi di crisi; quella che meglio pare adattarsi al maggioritarismo e che riesce a unire una massa larga nel nome di un capo rappresentativo. In questa impazienza con la democrazia deliberativa e parlamentare il leader del M5S si trova in sintonia con il leader del Pdl, il quale ha in questi anni portato parte dell’opinione di centrodestra (e non solo) a condividere vocazioni presidenzialiste.
Accanto a questi movimenti tendenti verso un apex verticale di leadership centralistica è in corso un fenomeno che va nella direzione opposta. In questi giorni la senatrice del Pd Laura Puppato e altri deputati e senatori del suo partito, di Sel e di Scelta Civica hanno messo in essere un concreto tentativo volto a contenere la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni democratiche e nello stesso tempo a sfuggire al semplificazionismo plebiscitario. Hanno lanciato una piattaforma dal nome significativo “Tu Parlamento” e anticipato così gli attivisti del M5S che ne hanno parlato tanto senza però riuscire a concretizzare, silenziati dalla voce del loro leader extra-parlamentare. “Tu Parlamento” è il nome di un piano partecipativo promosso da rappresentanti di diverse formazioni politiche. Lo scopo è di permettere ai cittadini di avanzare proposte al Parlamento per affrontare con più efficacia le emergenze politiche, economiche e sociali del Paese. Le proposte vengono rivolte direttamente ai rappresentanti delle forze politiche presenti in Parlamento che si sentono impegnati a valorizzare l’ascolto democratico come fattore di rinnovamento del Paese e della politica.
La partecipazione alla deliberazione è in sintonia con il piano di coinvolgimento democratico offerto dalle nuove tecnologie e previsto dall’Action Plan 2011-2015 dell’Agenda Digitale Europea. Infine, “Tu Parlamento” porta al cuore dello Stato un’attività deliberativa maturata nel nostro Paese già da alcuni anni e in corso in diverse regioni, dalla Lombardia al Lazio, dall’Emilia-Romagna alla Toscana. Sbarca a Roma con un importante messaggio: stabilire un canale di comunicazione tra il dentro e il fuori del Parlamento contribuendo a realizzare non tanto la democrazia partecipativa, ma quella rappresentativa vera e propria. E infatti uno degli aspetti di quest’ultima è la circolazione di informazioni e di idee tra eletti ed elettori per realizzare al meglio il controllo e l’autogoverno democratico, bloccando la trasformazione oligarchica che le elezioni possono facilitare.
Bisogna dare atto al gruppo di parlamentari che hanno istituito “Tu Parlamento” di aver avuto l’intelligenza di mettere in cantiere un modello di democrazia alternativo a quello plebiscitario. Un modello che riconosce l’esigenza di aprire al pluralismo e alla collegialità invece che affidarsi all’agglomerato di masse di cittadini identificati passivamente con un leader carismatico. La piattaforma partecipativa, ma meglio sarebbe dire comunicativa, propone una forma di azione democratica che è attenta alle opinione dei singoli e delle comunità locali, alla raccolta di informazioni da tutti i punti del Paese, all’apporto delle più diverse competenze; che infine impegna i parlamentari a porgere attenzione, ad ascoltare e soprattutto apprendere e decidere con più competenza. Invertendo l’abitudine a essere autoreferenziali e lontani dalla vita ordinaria delle persone.
Il dar vita a un’attività congiunta parlamento-cittadini fa pensare all’azione politica come a un agire collettivo che sia in grado di cogliere e capire la complessità, che non l’azzeri per coltivare il sogno di facili semplificazioni. La democrazia non è fatta di una massa di eguali che prende forma e voce grazie a un leader. È al contrario cooperazione anche conflittuale di diversi, perché liberi e uguali nei diritti; diversi che si accordano per cercare insieme la soluzione ai problemi che essi stessi sollevano e vogliono risolvere. Le società complesse hanno bisogno di democrazia perché devono poter fare affidamento sulla diversità delle opinioni e delle competenze, sullo scambio orizzontale invece che sul comando monocratico. Si tratta di uno stile di azione pubblica che diffida naturalmente dell’ideologia semplificatrice, un vangelo che dalle scienze economiche si vuole trasportare come su carta carbone alla politica. A dire il vero con poca saggezza, poiché anche chi un po’ mastica di teoria della scelta razionale sa che la diversità e la cooperazione sono un bene e un arricchimento, non un disturbo o un intoppo da superare. La democrazia è deliberazione tra diversi non semplice decisionismo per una massa di identici.

La Repubblica 27.06.13