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"La scommessa è guadagnare un po’ di tempo", di Stefano Lepri

I provvedimenti di ieri sui giovani e sul lavoro sono un esempio, modesto, di che cosa un governo può fare di buono nella situazione attuale. Il rinvio dell’aumento Iva, all’opposto, è un esempio assai significativo di come non si deve fare. Tanto più perché lo stesso errore che rischia di ripetersi nei prossimi mesi.
Se i soldi nelle casse dello Stato non ci sono, coprire un calo di tasse da una parte con un aumento di tasse dall’altra non è necessariamente dannoso.

Si possono sostituire tributi che frenano di più la crescita economica con altri che la frenano di meno. Ma non è questo il caso.

Ricordiamo come ci siamo arrivati. Si parte dalla richiesta che il governo attui la principale promessa elettorale del Pdl, abolire l’Imu sulla prima casa. Il governo rinvia i versamenti e prende tre mesi per decidere. Frattanto arriva a scadenza il già deciso aumento dell’aliquota principale Iva: il Pd ribatte sostenendo che sarebbe meglio evitare questo.

Circa quattro miliardi in ragione annua da una parte, quattro miliardi dall’altra. Il Pdl rilancia, chiedendo di fare tutte e due le cose insieme: raddoppia la posta nel piatto, otto miliardi. Poco conta che le istituzioni internazionali e l’Europa ci ripetano che le tasse sul patrimonio, come l’Imu, sono le meno dannose alla crescita, seguite da quelle sui consumi, come l’Iva.

Sulle coperture il governo ha promesso una parola definitiva oggi. Resta alto il rischio che il rinvio dell’Iva sia compensato da aggravi di altre imposte sui consumi, se non addirittura da un anticipo dell’acconto Irpef (imposta sul reddito, più dannosa per la crescita). Dopodiché in Parlamento si riaprirà una gara fra i partiti per trovare coperture sostitutive, escogitando misure di «finanza creativa» (già ne circolano) o tagli di spesa irreali.

Già, i tagli di spesa. In teoria sono la maniera migliore di evitare un aumento di tassazione. In realtà una politica debole sa bene che per attuare tagli veri occorre colpire interessi concentrati, più capaci di vendicarsi rispetto alla massa diffusa dei contribuenti. Negli anni pre-crisi, tra l’altro, le spese erano cresciute più sotto i governi di centro-destra che sotto quelli di centro-sinistra, al contrario di quanto ci si poteva aspettare.

Per ridurre le spese in misura significativa occorre rivedere a fondo il funzionamento della macchina dello Stato: lavoro non breve per il quale all’attuale maggioranza manca la voglia oltre che la prospettiva di tempo. Si gradirebbero proposte dall’opposizione, dove però manca la competenza per elaborarle.

Proprio a causa delle risorse sprecate per tener dietro alla demagogia tributaria, sono limitate le risorse per l’impiego dei giovani. Se non altro il provvedimento è mirato con attenzione, sulla base dei dati, verso la tipologia più sfavorita nel momento attuale.

La scommessa di Enrico Letta sembra di prendere tempo nel modo più decente possibile, in attesa che la situazione migliori. Ma, a parte un barlume di ripresa economica, che cosa può portarci l’autunno?

La Stampa 27.06.13

"Ustica: il diritto alla verità ancora negato", di Daria Bonfietti

27 giugno 198o – 27 giugno 2013: sono passati 33 anni da quella tragica notte, quando un aereo civile, che doveva collegare Bologna con Palermo, si inabissò nel mare di Ustica, portando con sé la vita di 81 innocenti cittadini.
Proprio in questo anniversario possiamo finalmente affermare di avere, con lo sforzo di tanti, parenti, avvocati, cittadini, magistrati, scritto quella pagina di verità che era stata fatta sprofondare insieme all’aereo. La sentenza-ordinanza del giudice Priore del 1999, le sentenze del Tribunale civile di Palermo e la più recente sentenza della Corte di Cassazione, ci dicono, in maniera definitiva, che il DC9 è stato abbattuto ed è stata responsabilità dei ministeri dei Trasporti e della Difesa non avere salvaguardato la vita dei cittadini, e poi avere ostacolato in ogni modo il raggiungimento della verità.

Oggi mi tornano alla mente le parole con cui proprio il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che va ringraziato per la sua continua attenzione a questa vicenda, si rivolgeva a tutti noi nel 2010: «Intrecci eversivi, forse anche intrighi internazionali, opacità di comportamenti da parte di corpi dello Stato e inefficienza di apparati hanno allontanato la verità sulla strage del Dc9».

È proprio questo lo scenario che dobbiamo definitivamente svelare, passando, come abbiamo anche scritto presentando le iniziative che si terranno a Bologna, dalla verità giudiziaria alla Storia. Questa è la nuova pagina che dobbiamo scrivere, consapevoli fino in fondo che questa è la Storia del nostro Paese, che la Storia non può essere scritta dai parenti delle vittime, e neppure dalla politica, o dai Parlamenti, ma che tutti abbiamo il dovere di ripercorrere la vicenda di Ustica, a cominciare dal contesto internazionale perché certamente un episodio di guerra aerea, come quello che ha travolto i nostri cari, è un episodio che coinvolge gli Stati e le loro politiche.

E allora il compito primo è sentire che quello di Ustica è un grande problema di dignità nazionale, che richiede un ulteriore impegno particolare della magistratura, che deve con rinnovata decisione continuare nelle indagini, ma nel contempo richiede un totale coinvolgimento della politica, del governo e della nostra diplomazia. Il governo deve mostrare grande determinazione nei confronti di Stati amici e alleati, deve avere un comportamento totalmente diverso da quello che ha portato – fino ad ora – alla mancata ratifica del Trattato di collaborazione giudiziaria del maggio 2000, per cui non è stata possibile la collaborazione delle istituzioni europee nella vicenda di Ustica.

C’è da ricostruire un panorama molto complicato, perché, contrariamente a quanto affermato ufficialmente, quella notte erano molto «frequentati» sia il mare che il cielo. Nel Mediterraneo – parlo appunto di mare e cielo – si muovevano mezzi militari di tanti Paesi, alleati e non, seguendo i più vari interessi, frutto di una situazione geopolitica molto complessa e ancora non completamente disvelata. C’è tutta una politica internazionale da scandagliare. E non voglio tacere che il governo e i ministeri sono stati condannati, e ragionevolmente arriveranno altre condanne: per questo possiamo e dobbiamo chiedere di conoscere i loro futuri atteggiamenti.

Pagheranno in silenzio con qualche stralcio di bilancio, mettendo dunque il tutto sulle spalle dei contribuenti ovviamente non responsabili, o chiederanno conto dei comportamenti, dei loro dipendenti? Non credo che questa sia una richiesta motivata da vendetta, ma è soltanto chiedere conto dei comportamenti degli uomini degli apparati dello Stato. O ancor meglio, esigere chiarezza e trasparenza nel rapporto tra istituzioni elettive e apparati dello Stato. In definitiva si tratta di capire cosa è effettivamente avvenuto all’interno degli apparati militari di difesa quella tragica notte creando una situazione per cui, lo dico senza retorica, non sono stati difesi «i sacri confini della Patria» e aerei militari hanno potuto «razzolare» indisturbati fino a colpire un volo civile.

Oggi possiamo salutare con soddisfazione le notizie di una avviata collaborazione francese. Dopo 33 anni c’è la possibilità di interrogare gli avieri di Solenzara: rendiamoci conto però che stiamo cercando di annodare i fili di una tela che è stata colpevolmente stracciata quando la magistratura tenne le indagini circoscritte al triangolo Ponza-Latina-Palerno e l’Aeronautica affermava che il DC9 era caduto per cedimento strutturale.

Queste è la prima grande responsabilità, la fonti di ogni inganno. Oggi è imprescindibile il bisogno di ripercorrere e scandagliare, in ogni anfratto, quanto avvenuto nei primi mesi dopo la tragedia, e quindi diventa obbligatorio un grande lavorio sulle fonti di documentazioni e sulle informazioni di cui disponeva il governo, a partire dale relazioni con i Paesi alleati. E in questo quadro è ineludibile la consultazione e la verifica degli archivi degli apparati, in primis di quelli dei servizi segreti.

Passare dalla verità giudiziaria alla necessità di definire la Storia di quel periodo credo sia il compito che ci attende oggi, per onorare la memoria dei nostri cari, vittime innocenti, ma anche per salvaguardare la dignità dell’intero Paese.

L’Unità 27.06.13

"Un passo è stato fatto", di Nicola Cacace

Per capire le soddisfazioni contenute insieme alle proteste di chi voleva di più dal pacchetto lavoro, dobbiamo guardare i dati dell’occupazione e le risorse limitate. Confrontando il tasso di occupazione italiano con quello medio europeo (il 56% contro il 64%) significa che in Italia ci sono tre milioni di occupati in meno rispetto all’Europa.̀ E’ evidente che rispetto a questi dati i provvedimenti Letta-Giovannini sono un pannicello caldo, forse l’unico oggi possibile, limitati a un miliardo di euro per sgravi fiscali per giovani sino a 29 anni, assunti in aggiunta agli occupati in essere, oltre ad una serie di provvedimenti «post-Fornero» come la riduzione degli intervalli per passare da un contratto a tempo determinato ad un altro, dai 2-3 mesi di oggi ai 10-20 giorni stabiliti dalle nuove normative.

Intanto va detto che le nuove norme non peggiorano l’esistente come spesso è successo in passato, ad esempio con la defiscalizzazione degli straordinari considerati in tutta Europa norma anti occupazione e tuttora valida solo in Italia. Se però vogliamo lavorare per un futuro meno nero dell’attuale quadro occupazionale italiano, allora dobbiamo alzare un po’ lo sguardo per imparare dalle buone pratiche straniere, che non sono poche, maturate in Paesi culturalmente più avanzati di noi. Faccio qui solo due esempi di comportamenti pro occupazione: la formazione continua e l’orario di lavoro.

Quasi negli stessi mesi in cui in Italia si firmava (con l’eccezione della Cgil) un importante accordo interconfederale sulla produttività, in Francia se ne firmava uno analogo ma distante anni luce dal nostro. Il confronto tra l’accordo italiano e l’Accordfrancese è impietoso. Mentre in entrambi è previsto l’intervento dello Stato per finanziare i bonus di produttività aziendali, nell’Accord sono individuati molti strumenti per la competitività, tra cui un Compte personnel de formation (da 20 a 120 ore annue di formazione obbligatoria per tutti i lavoratori) e la presenza di rappresentati del personale nei consigli d’amministrazione della grandi aziende, sul modello della cogestione tedesca. Nell’accordo italiano, dove si parla di produttività ma mai del come realizzarla, si menziona solo una serie di deroghe possibili ai contratti nazionali, in materie delicate come orari, salari, turni, mobilità professionale e geografica, senza alcuna garanzia di vantaggi certi conseguenti alla crescita di produttività. L’altro esempio è quello relativo alla Germania, che, sostituendo gli straordinari con una banca delle ore e utilizzando contratti di solidarietà a orario ridotto al posto dei licenziamenti, hanno conseguito un doppio miracolo, nel 2009 col Pil calato del 5,5% l’occupazione rimase stabile, oggi, dopo 10 an- ni di crescita del Pil inferiore all’1% medio, hanno un tasso di occupazione superiore al 70% ed una disoccupazione giovanile del 7,5%.

Se l’Italia vuole invertire la disastrosa rotta in atto, deve usare orizzonti più ampi di quelli che hanno guidato Letta e Giovannini, rompendo antichi tabù antistorici come quelli della formazione e dell’orario. Se i Paesi del nord Europa non avessero capito l’importanza della formazione continua per seguire i cambiamenti e se non avessero dimezzato in cent’anni, da 3000 a 1500 ore, gli orari annui di lavoro, oggi avrebbero tutti tassi di disoccupazione come quelli italiani.

l’Unità 27.06.13

"Il congresso e il partito che vorrei", di Alfredo Reichlin

Il problema che sta davanti al congresso è quello di un grande cambiamento. Si tratta del fatto che noi non possiamo continuare a restare così come siamo: un amalgama di culture riformiste ed esperienze di una fase precedente a quella attuale. Ivi compresa quella delle «terze vie» alla Tony Blair. Il problema principale del Pd sta esattamente in ciò: nel ridefinire il nuovo «campo storico» del suo pensare e del suo agire.

Ciò non significa affatto ignorare le emergenze e le strette della situazione. Ma per affrontarle dobbiamo collocarci in una prospettiva più ampia. La crisi italiana non è solo una crisi economica. È di identità. È crisi della rappresentanza politica democratica. È il distacco della società civile dallo Stato. Non dobbiamo stupirci se il disprezzo della politica è arrivato a questo punto. È finita una storia e anche la decadenza economica si spiega con ragioni geo-economiche e geo-politiche. L’Italia non sa più chi è. Non vede il suo futuro. In sostanza non ha una classe dirigente che sia in grado di pensare l’interesse generale e di dare al Paese una missione.

Di qui l’enorme responsabilità che pesa sul Pd. È quella (come dice anche Castagnetti) di capire che a fronte di una realtà come questa il problema del Pd è che esso può pensare se stesso solo se salverà la democrazia del nostro Paese. Che senso ha una discussione congressuale che parli del governo senza affrontare questo nodo?

La nostra immagine è incerta. Non si capisce dove vogliamo andare. Si parla di nuovi leader ma non si dice che prima di tutto bisognerebbe ridare un’anima a questo Paese e che per insediarsi nella sua nuova storia non si può cancellare il passato. Il compito della sinistra è affermarsi come il nuovo «partito nazionale». Cosa vana se non ripartiamo dagli ultimi e se non ritroviamo radici forti nel popolo.

Politica interna e politica estera non si possono più separare. Cominciamo quindi col dire che l’effettiva capacità del Pd di rappresentare una alternativa reale dipenderà sempre più dal ruolo che saremo in grado di svolgere nel vivo del travaglio di proporzioni storiche che scuote l’Europa. Qui, in realtà, si gioca la partita contro la potenza delle grandi oligarchie che dominano il mondo. Qui si gioca anche il nostro destino. Solo con l’Europa possiamo affrontare i pericoli estremi che l’Italia sta correndo. Solo in questo quadro possiamo pensare a come ricostruire il Paese.

DEBITO E DISEGUAGLIANZE

Tutto è molto difficile ma l’obiettivo di portare nel mondo globale la forza di 450 milioni di europei, il loro enorme patrimonio di idee e di creatività umana, il loro immenso retaggio culturale è esaltante. Ma è credibile solo se questo compito lo prendono in mano le forze politiche europee democratiche, e non le burocrazie tecnocratiche.

Bisogna capire meglio perché la crisi italiana è arrivata al rischio di esiti così catastrofici. Al fondo, ci sono tutte le storture del nostro sviluppo ineguale e ingiusto. Il debito pubblico italiano si è accumulato in queste dimensioni enormi per colpa degli italiani. Soprattutto delle loro disuguaglianze. Ma nessun nuovo rifo mismo sta in piedi se non tiene conto di ciò che è avvenuto nella storia del mondo con l’avvento della mondializzazione e delle forze che finora l’hanno guidata. Non ritorno su analisi note. Ma è evidente che questo sistema è arrivato al termine della corsa. Se ne è accorto anche il collegio cardinalizio.

Come se ne esce? Un grande partito della sinistra europea non può non porsi questo interrogativo. Deve sapere che il fatto che ha più pesato non è di natura economica. È il disfacimento del grande compromesso storico (non economico soltanto) che è stato per quasi un secolo alla base della democrazia occidentale. Il compromesso tra il capitalismo industriale e la democrazia. Ma non si può più tornare indietro. Perciò – piaccia o no – lo sviluppo del Paese non ci sarà se esso non viene posto su una nuova base sociale, non tecnica.

Al posto del vecchio blocco italiano delle rendite e delle consorterie noi dobbiamo puntare sulla formazione di un nuovo blocco storico, cioè su una grande alleanza tra le forze che in vari modi rappresentano il lavoro, l’impegno produttivo e l’eno me deposito di cultura, di bellezza e di vita «buona» rappresentato dalla civiltà italiana.

La discussione sul nuovo leader non può oscurare la grande scelta che sta di fronte a noi. Quali spazi reali si aprono, a questo punto, a una forza riformista la quale si muove in una società che in questi anni è stata negata come tale, cioè come insieme di legami storici, culturali, anche ancestrali? Con l’idea, addirittura teorizzata, che il mondo è fatto solo di individui immersi in un eterno presente, i quali definiscono la loro identità in un modo solo, nel rapporto che hanno col consumo e quindi col denaro.

Chi dice che ciò che sto dicendo è «fuori tema» non capisce nulla. Non vede il rischio molto concreto che la sinistra e le forze democratiche si riducano a «flatus vocis», a poco più che combinazione elettorali. Non capisce che annunciare programmi è cosa vana se essi restano inapplicabili in quanto non riescono a ridare cittadinanza ai ceti popolari. Nessun progetto è credibile se invece di restituire alla democrazia gli strumenti per decidere persiste nell’idea che domina da anni secondo cui la società è poco più che la somma degli individui, per cui il solo modo per tenerla insieme è la demagogia del populismo oppure il «lasciar fare al mercato».

COS’È UN PARTITO

Purtroppo è da qui che è venuta anche l’idea di sostituire il partito dei militanti con il partito degli elettori. È vero che gli elettori contano perché votare significa decidere. Ma non bastano gli elettori per costruire associazioni, strumenti di partecipazione collettiva, insediamento, cultura, ideologia.

Il cuore dello scontro è qui. Lo scopo di queste note che riassumono un testo più ampio e che pubblico on line è mettere in campo un’idea meno oligarchica della democrazia. Io parto dal riconoscimento che il lavoro è il luogo della realizzazione di sé non solo come soggetto sociale ma anche come fondamento della cittadinanza.

È evidente, però, che la figura del lavoro è una figura larga, che include l’attività umana nelle sue diverse forme, e non si esaurisce nello schema tradizionale del conflitto di classe. Il lavoro è insieme il luogo della relazione e il luogo dell’autonomia, della possibilità cioè di dominare la complessità sociale e l’incertezza che le è connaturata.

Il passaggio da costruire è il superamento di ogni forma di lavoro servile, di precarizzazione, per realizzare una condizione di autonomia, senza di che – senza cioè creare una condizione umana segnata da una più forte conoscenza, responsabilità e partecipazione alle decisioni – diventa impossibile governare l’economia di un mondo globalizzato. Questo è il punto.

Io vedo qui il nuovo campo di iniziativa politica ed economica per il partito riformista moderno. Un compito vasto proprio perché non si rivolge solo a una parte, ma all’intera società. E non a parole ma perché mette concretamente in relazione le ragioni della libertà individuale e quelle della comunità, costruisce la comunità contro le spinte dissolutive e difende l’autonomia e la dignità della persona contro i meccanismi di alienazione. Questo è il riformismo. Perciò la presenza cattolica è parte costitutiva del Partito democratico.

Dopotutto il tanto invocato «nuovo» significa in Italia tenere insieme laicità, umanesimo cristiano e la lotta per l’emancipazione dell’uomo che fu propria del socialismo. Sottolineo «lotta». Sarà diversa dal passato ma sempre lotta deve essere e non la chiacchiera sulle persone o su valori astratti.

L’Unità 27.06.13

"Il primato della civilità", di Alexander Stille

La decisionedella Corte suprema americana di annullare la legge federale in “difesa del matrimonio” – che vietava il matrimonio gay – rispecchia un cambiamento profondo nella
vita americana. Quella legge era stata firmata meno di vent’anni fa da Bill Clinton, un presidente democratico con l’appoggio bipartisan. La legge fu approvata 342 contro 67 alla Camera e 85 contro 14 al Senato, rispecchiando la realtà politica dominante del momento. Era il 1996, c’erano elezioni in vista e molti democratici, pur non amando quella legge, avevano sentito l’esigenza di votarla per paura di essere massacrati alle urne.
In teoria, la Corte suprema non dovrebbe badare né ai sondaggi né alle urne, ma non è casuale che questa decisione arrivi quando, per la prima volta, la maggioranza degli americani approva il diritto agli omosessuali
di sposarsi. In soli cinque anni, da quando il presidente Barack Obama è stato eletto per la prima volta nel 2008, la percentuale di americani che appoggia il matrimonio gay è andata da una netta minoranza, 44 per cento, ad una netta maggioranza, il 55 per cento oggi.
Se si va indietro nel tempo, il cambiamento è ancora più radicale. Nel 1965, il 70 per cento degli americani considerava l’omosessualità un fatto nocivo ed era all’ordine del giorno vedere persone, scoperte nella loro omosessualità, cacciate dal posto di lavoro (prassi che rimane legale in molti Stati degli Usa). Nel 2004, i repubblicani promossero referendum contro il matrimonio gay insieme con le presidenziali in vari Stati chiave per stimolare il voto conservatore, una mossa che secondo alcuni politologi garantì la vittoria minima di Bush in due o tre Stati proprio grazie al forte voto antigay. Solo otto anni dopo, nel 2012, Obama (leggendo attentamente i sondaggi) decide di appoggiare apertamente il matrimonio gay e riesce ad usarlo come punto di forza nella sua rielezione.
Che cos’è cambiato, dunque, nella società statunitense? Il movimento per i diritti gay ha “normalizzato” l’omosessualità e ha saputo usare sapientemente il linguaggio dei diritti civili per la sua battaglia. Spostando il dibattito da un piano morale- religioso ad un piano giuridico i gay hanno fatto appello a sentimenti di giustizia molto sentiti. Il movimento di diritti gay ha incoraggiato milioni di omosessuali ad uscire allo scoperto. Celebrità molto amate hanno rivelato di essere gay e personaggi apertamente omosessuali sono diventati sempre più presenti nella cultura popolare. Così, l’America ha scoperto che (grande sorpresa) gli omosessuali sono presenti in tutti gli Stati (blu e rossi), in tutte le classi economiche e (quasi) in tutte le famiglie. Quindi anche politici ultraconservatori come il vice presidente Dick Cheney e Newt Gingrich hanno visto la figlia (nel caso di Cheney) e la sorella (nel caso di Gingrich) uscire dall’ombra ponendo un problema politico. Anche un politico “superduro” come Cheney ha dovuto dimostrarsi un po’ più morbido sui diritti degli omosessuali per non perdere sua figlia. L’ex capo della campagna elettorale di George Bush e Dick Cheney nel 2004, Ken Mehlman, si è dichiarato gay nel 2010 — segno dei tempi — e ha appoggiato la
causa del matrimonio gay.
Anche nel mondo dello sport professionistico — per lungo tempo baluardo dell’omofobia — molti hanno cominciato a professare tolleranza verso i gay. Quando un tifoso del grande giocatore di basket, Kobe Bryant, ha twittato il termine “frocio” la stella dei Lakers ha risposto rapidamente “not cool”.
Non è un caso, quindi, che l’appoggio ai diritti gay aumenti in tutti e due i principali partiti mentre la politica razziale diventi una questione sempre più polarizzata. In alcuni Stati del profondo Sud il 90% dei bianchi ha votato contro Obama sia nel 2008 sia nel 2012. Mentre iniziative per il matrimonio gay hanno avuto successo in Stati piuttosto moderati come Iowa e Maryland. Forse perché molte famiglie conservatrici hanno scoperto di avere figli e cugini gay, ma non succede tanto spesso con il colore della pelle. Questo aiuta a spiegare come mai la Corte suprema abbia smantellato uno dei pilastri dei diritti civili per i neri (il Voting Rights Act) nella stessa settimana in cui ha annullato la legge in difesa del matrimonio tradizionale. Nel 1901, il noto scrittore satirico Finley Peter Dunne scrisse che «la Corte Suprema segue le urne». È ancora vero.

La Repubblica 27.06.13

Parlamentari Pd “Ecco la detassazione degli indennizzi assicurativi”

Le disposizioni varate oggi dal Consiglio dei ministri in materia di Lavoro e Iva contengono anche l’interpretazione autentica del principio della detassazione degli indennizzi assicurativi per gli immobili danneggiati dal sisma del maggio 2012. “Era un impegno che il Governo Letta si era preso accogliendo un nostro specifico ordine del giorno – dicono i parlamentari modenesi del Pd Davide Baruffi, Carlo Galli, Manuela Ghizzoni, Edoardo Patriarca, Giuditta Pini, Matteo Richetti e Stefano Vaccari – ora questo stesso impegno si è tradotto nell’interpretazione per via amministrativa di una norma che di fatto era già nel nostro ordinamento grazie al precedente dl 74 del 2012”. Ecco la dichiarazione comune dei parlamentari modenesi del Pd:

«Ancora un risultato importante, atteso da chi vive e lavora nell’area del cratere sismico, portato a casa grazie al lavoro caparbio costruito dal Pd in stretto raccordo tra Enti locali, Regione e parlamentari. La detassazione degli indennizzi assicurativi, così come quella dei contributi pubblici, è un fatto ormai acquisito. Il Governo Letta con uno specifico provvedimento ha, infatti, innovato l’articolo 6-novies del dl 43 convertito in legge alla fine della scorsa settimana. La novità introdotta è contenuta già nel titolo del nuovo articolo 6-novies che recita “Detassazione di contributi, indennizzi, risarcimenti per gli eventi sismici del 20 e 29 maggio 2012”. Il testo precisa che “i contributi, gli indennizzi e i risarcimenti, connessi agli eventi sismici, di qualsiasi natura e indipendentemente dalle modalità di fruizione e contabilizzazione non concorrono alla formazione del reddito imponibile ai fini delle imposte sul reddito e dell’imposta regionale sulle attività produttive”. Quello che avevamo perseguito, quindi, prima con uno specifico emendamento presentato in Senato e poi con un ordine del giorno ad hoc approvato alla Camera e accolto dal Governo, è stato, finalmente, conseguito. Ribadiamo che è con l’impegno costante e con la pervicacia di un lavoro puntuale e attento alle procedure che i tanti problemi della ricostruzione possono trovare una soluzione praticabile, non certo con gli annunci mirabolanti, le contestazioni fatte solo di parole o la polemica fine a se stessa. Le popolazioni della Bassa non sono state e non saranno mai lasciate sole dal Partito democratico”

Modena – Carovana della libera Circolazione

Modena sede municipale piazza Grande

Il tema dello ius migrandi include molte questioni: la cittadinanza, l’asilo, i permessi di soggiorno, i diritti politici, il lavoro e lo studio dei cittadini stranieri, i luoghi di detenzione per migranti, le politiche di controllo delle frontiere, il ruolo dei media, il razzismo e le diverse forme di sfruttamento come la tratta e il caporalato. Tutte queste tematiche verranno affrontate dalla Carovana e verranno rielaborate nella forma di proposta alle istituzioni nel corso dei lavori dei workshop che si svolgeranno nelle giornate del Festival a Matera. Durante il Festival vi saranno anche conferenze, mostre, presentazioni, tornei e concerti anche a cura delle associazioni del territorio lucano.