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"L’eterna paura della trasparenza", di Filippo Ceccarelli

Uffa. Si fa peccato a esprimere il più disadorno scetticismo nei riguardi di Beppe Grillo che tanto per cambiare ha invocato ieri la cacciata dei giornalisti
dal Parlamento? Non è il primo, infatti, e non sarà l’ultimo a esprimere la propria insofferenza proponendo di «disciplinare» l’informazione «in spazi appositi, esterni al Palazzo» (maiuscolo).
A tal fine il leader del M5S mobilita un brano del Vangelo di Giovanni (sui mercanti cacciati dal tempio), corregge un manifesto disegnato da Boccasile durante la guerra fascista («Tacete, i giornalisti vi ascoltano») e non proprio irresistibilmente conclude il suo post con la parodia di una canzone di Ornella Vanoni, «Sapessi com’è strano/ fare il deputato/ nel Parlamento romano», perché dovunque vai, ti trovi sempre qualche giornalista fra i piedi, per giunta «senza tesserino» di riconoscimento.
Sgradevole sensazione, quest’ultima, presente già nei romanzi parlamentari dell’ottocento (De Roberto, Serao). Vero che a quei tempi la reciproca avversione trovava sfogo in duelli più o meno sanguinosi (attorno a uno di essi nasce l’Associazione Stampa Parlamentare). Ma poi Giolitti, che detestava gli scontri all’arma bianca e sapeva il fatto suo, aggirò la questione corrompendo i cronisti attraverso uno speciale fondo significativamente denominato «dei rettili».
Adesso, scrive Grillo (o chi per lui) tradendo il consueto fantasma di purezza, gli operatori dei media «profanano» e «infestano» le assemblee di Montecitorio e Palazzo Madama; inoltre sono invasivi, rubano frasi e fanno gossip (aggiungeva la Serao: «Come serve al pozzo»). Anche Collodi, del resto, l’autore di Pinocchio, fu giornalista parlamentare tutt’altro che indulgente con i suoi colleghi, parecchi dei quali praticavano «quell’arte che consiste nel pensare in un modo, parlare in un altro, e scrivere diversamente».
Quelli di oggi Grillo li definisce, in neretto, «gossipari e pennivendoli ». Ma si deve a Craxi l’epiteto di «raccoglitori di cicche» e a Biondi quello di «ciuccia-birra e mangiatori di tramezzini» (di incerto conio, ma della medesima ispirazione «palpeggiatori di supplì»).
E tuttavia è il proposito di rinchiudere i giornalisti in «appositi spazi», «recinti» o «serragli» che siano, quella che gloriosamente fa virare la faccenda verso la vana e cialtronesca abitudinarietà dei conflitti all’italiana. L’auspicato divieto di circolazione nel Transatlantico e alla buvette, tipici spazi di contesa, è coevo al proposito di riforme istituzionali, nel senso che se ne parla dal 1980, dopo che un onorevole dc, Brocca, ebbe una lite con un anziano giornalista per diritto di precedenza in ascensore.
Da allora il partito trasversale dell’allontanamento si fa vivo con periodiche sortite. Dall’onorevole Usellini a Pannella, dal Comitato Aniasi a Bossi la rivendicazione territoriale genera clamore e null’altro. Per cui lo «struscio » dei Passi Perduti irritò la Pivetti e a Berlusconi parve irreale di poter essere inseguito di qua e di là, ma le loro idiosincrasie rimasero lettera morta. Nel 1995 la cosiddetta «disfida dei culi d’oro », divampata tra onorevoli e giornalisti nel ristorante a proposito di un tavolo, parve rompere di nuovo quell’equilibrio che Arbasino, forte della sua esperienza a Montecitorio, aveva tratteggiato secondo la parabola: «Dal pappa e ciccia ai pesci in faccia».
Ma la cosa più sorprendente, e tale da restituire un rassegnato buonumore all’intera vicenda, è che l’intemerata di Grillo ricalca perfettamente ciò che 18 anni orsono, sia pure con un linguaggio più sorvegliato, Massimo D’Alema regalò alla pubblica opinione suscitando il previsto scandalo a bassa intensità ed effimero prosieguo. «Sarebbe giusto, corretto, civile che in Transatlantico ci fossero solo deputati» decretò. Ma specialmente significativo è che nel designare l’incomoda presenza dei giornalisti sia lui che Grillo abbiano indicato il medesimo cruciale argomento: «Ti seguono fin nella toilette per strapparti qualche sciocchezza».
Filologia comparata segnala, nel post odierno, l’inconsueto termine «urinatoio». Ma forse è un errore di stampa, o di rete, o una licenza poetica. D’altra parte, se perfino Grillo si adatta alle lamentazioni dei suoi avversari, l’indignazione lascia un po’ il tempo che trova — così come ormai la Trasparenza, ultima dea, fugge i grillini (e involve tutte cose l’obblio nella sua notte).

La Repubblica 26.06.13

"Il Cav non può ricattare", di Claudio Sardo

La sentenza di Milano ha provocato un terremoto nel governo. Non poteva essere altrimenti. La condanna di Silvio Berlusconi è pesantissima e le iperboliche accuse di golpe o di complotto – rilanciate dai vertici del Pdl – aggravano la posizione del Cavaliere. Le garanzie dell’ordinamento non sono in discussione.

Ed è ridicolo prendersela con il «falso» puritanesimo della sinistra: piuttosto chi è vicino al Cavaliere gli consigli di cambiare avvocati, perché questa sentenza è anche figlia dell’arroganza, della presunzione, dell’atteggiamento di sfida al buon senso che è stata tenuta per mesi in Parlamento, nelle aule di giustizia, nel Paese. Ma si è accorto Berlusconi che il bunga bunga è diventato il simbolo del discredito, non solo suo, ma di un Paese che tollerava un simile premier? Berlusconi decida che strategia seguire nei processi che lo riguardano. La scelta degli avvocati appartiene a lui. Decida pure se tenersi il partito come proprietà personale oppure se

favorire la nascita di un centrodestra democratico, aperto, scalabile. Ma una cosa non appartiene a Berlusconi: il governo e il destino della legislatura. Ora è chiaro che il corso della giustizia – comprese le questioni che riguardano il Cavaliere – è seperato dalle questione di governo. Non ci sono scambi, né salvacondotti, né sconti di pena. La legge è uguale per tutti. Berlusconi è deluso? Sono delusi anche coloro che hanno contestato Letta gridando che il Cavaliere ne avrebbe tratto benefici giudiziari? Pazienza. Per noi la seperazione è sempre stata la condizione minima, indispensabile di questo governo di necessità. L’Italia ha bisogno che l’azione dell’esecutivo si concentri sul lavoro e sulle riforme. L’Italia della crisi non può attendere. Berlusconi dica se vuole collaborare oppure no. E, se la risposta fosse no, non è detto che si torni alle elezioni.

L’Unità 26.06.13

"Filosofia e pochi fatti, il progetto Ue stenta a decollare", di Paolo Soldini

Valutazione degli sforzi per favorire la competitività, l’occupazione e la crescita, con un accento particolare sulle iniziative per promuovere l’occupazione giovanile e il finanziamento dell’economia”. È quel che si legge al secondo punto dell’ordine del giorno che gli sherpa hanno preparato per il Consiglio europeo che si terrà domani e venerdì a Bruxelles. Il linguaggio dei comunicati brussellesi non è particolarmente esplicito, e così, almeno fino a ieri, non era dato sapere se, quanto e come i funzionari che preparano l’incontro tra i 27 leader (l’ultimo a 27 perché dal 1° luglio ci sarà anche la Croazia) avranno risposto alle forti pressioni del governo italiano perché il vertice che conclude il semestre della presidenza di turno irlandese passi se non alla storia almeno alle cronache come l’appuntamento che segna una svolta nell’impegno dell’Unione sul fronte della lotta alla disoccupazione giovanile: “15 milioni di ragazzi senza prospettiva”, come ha ricordato Enrico Letta, reclamando l’urgenza di far “ripartire l’Europa” proprio dalla consapevolezza della insostenibilità di questo dramma. Il capo del governo italiano ha messo le mani avanti, spiegando che non basteranno generiche dichiarazioni di intenti, ma il Consiglio dovrà prendere “misure che parlino ai nostri giovani e affrontino le loro esigenze e le loro aspirazioni”. Benissimo. Ma alla vigilia del vertice non è affatto chiaro quali potrebbero essere le misure da prendere a livello europeo e nei singoli paesi né con quali risorse dovrebbero essere sostenute per andare oltre le “dichiarazioni di intenti”. Ieri circolava qualche indiscrezione secondo la quale la prima bozza di conclusioni del Consiglio conterrebbe un generico impegno a “portare a termine i preparativi per rendere operativo entro gennaio il Fondo per l’occupazione giovanile dell’Unione”. Si tratterebbe di un anticipo al biennio 2014 – 2015 dei 6 miliardi del programma “Youth Guarantee” la cui erogazione era stata precedentemente spalmata su 7 anni. Ma, ammesso che le indiscrezioni siano attendibili, 6 miliardi da dividere su due anni e tra 27 (anzi, dal 1°luglio 28) paesi non sono davvero troppi. La quota dell’Italia si aggirerebbe sui 500 milioni, a fronte del programma da un miliardo di euro che è stato illustrato da Letta e che dovrebbe essere la parte italiana del “piano di azione comune” alla cui approvazione da parte del Consiglio punta Roma. Il programma illustrato dal capo del governo può rappresentare certo un contributo, ma va considerato il fatto che contiene misure a carattere prevalentemente nazionale, difficilmente estensibili alle condizioni di altri paesi: sgravi fiscali per chi assume giovani, aiuti per la creazione di nuove imprese, stage e tirocini, ritocchi alle regole sui contratti precari e così via. L’unica proposta di dimensione davvero europea è l’idea di creare un’agenzia per il lavoro a livello dell’Unione. L’”Erasmus del lavoro” dovrebbe allargare un programma che esiste già, “YourFirstEURESJob”, ma che è di dimensioni assai limitate, sull’ordine dei 5 mila posti di lavoro offerti a giovani disposti a spostarsi da un paese all’altro. A occhio e croce questa parte del progetto dovrebbe incontrare il favore dei paesi del centro e del nord Europa, che già ora stanno facendo una politica di incentivi per i giovani provenienti dai paesi dove il lavoro manca di più. Ma non può essere il pezzo forte di quel “piano di azione comune” di cui ha parlato il capo del governo italiano. Perché ci sia davvero una svolta, occorrono decisioni con una solida base di investimenti. Ben venga, se ci sarà, l’anticipo dei sei miliardi, ma per dare concretezza alle proprie ambizioni, il governo italiano dovrebbe proporre l’intervento massiccio della Banca europea degli investimenti e l’attivazione di tutte le risorse reperibili nel bilancio comunitario. Ma, soprattutto, dovrebbe porre sul tappeto la cosiddetta “golden rule” ovvero la possibilità di stralciare dal computo del debito le spese per investimenti, almeno quelli vòlti a combattere la disoccupazione. Tutti sanno che su questo fronte sarà impossibile sfondare almeno fino alle elezioni tedesche, perché da Berlino arriva un altolà che il governo Monti, a suo tempo, ebbe la colpa di sottovalutare o addirittura nascondere agli italiani. Ma la battaglia si può cominciare a combatterla da adesso. Su questo piano ci sono, per ora, gli impegni presi nel Consiglio europeo di febbraio.

L’Unità 26.06.13

"Su Iva e piano lavoro i conti non tornano", di Massimo Franchi

Iva e lavoro. Alla vigilia del vertice europeo Enrico Letta e il suo governo vareranno due importantissimi provvedimenti. Il Consiglio dei ministri è convocato di prima mattina, alle 8,30. L’ordine del giorno, non comunicato in un primo momento, prevede un decreto unico su Iva e Lavoro e anche il decreto sulle carceri (Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena). Per il congelamento di tre mesi dell’innalzamento dell’Iva dal 21 al 22 per cento che scatterebbe il primo luglio serve circa un miliardo. Il governo lo reperirà da anticipi d’imposta. Un meccanismo che consentirà poi di risolvere il problema a settembre, con la Legge di stabilità. Smentita dunque l’ipotesi di un aumento dell’Irpef. La norma è stata chiesta in primis dai commercianti e poi appoggiata dai sindacati e da tutti i partiti della maggioranza. Il Pdl puntava però a risolvere subito anche la questione Imu e ieri sera perfino il ministro Pdl Maurizio Lupi ribadiva: «Noi dobbiamo impedire l’aumento dell’Iva e eliminare l’Imu sulla prima casa, vediamo domani (ogg, ndr) le proposte che Letta ci farà dopo aver cenato con Berlusconi e Alfano». Come dire: vogliamo di più. In Consiglio dei ministri dunque si vedrà se il Pdl alzerà la posta dicendosi non soddisfatto del solo congelamento dell’Iva o se si piegher à ai più miti consigli del Premier che ha promesso di risolvere il problema Iva a settembre e quello dell’Imu entro agosto. Dopo molti tentennamenti e posizioni non convinte, come quel «Non lo prometto» pronunciato dal ministro Flavio Zanonato a Confcommercio che gli costò selve di fischi lo scorso 13 giugno, la certezza della volontà del governo di non aumentare l’Iva è arrivata in serata quando il premier Enrico Letta ha dato parere favorevole ad una risoluzione del leghista Roberto Calderoli, presentata al Senato al termine del dibattito in vista del Consiglio Europeo in cui si chiede al governo di «verificare in sede europea la compatibilità di un intervento di urgenza per la sospensione dell’aumento dell’Iva da adottarsi prima del 1 luglio 2013».

300 MILIONI IN PIÙ PER IL LAVORO Novit à dell’ultim’ora invece per quanto riguarda il pacchetto Lavoro. Ieri il ministro Enrico Giovannini ha lavorato insieme alle Ragioneria dello Stato, alle Regioni e al ministero dell’Economia per riuscire ad aumentare le risorse a disposizione. Il miliardo annunciato dovrebbe aumentare di 300 milioni. Anche in questo caso si tratta comunque di riallocazione di fondi esistenti, nello specifico il Fondo sociale europeo. Con questi 300 milioni si punta ad estendere gli sgravi sia alle regioni del centro-nord sia ad altre categorie, come i precari (verrebbero incentivate fiscalmente le stabilizzazioni) e i lavoratori over 55 (verrebbero ulteriormente aumentati gli sgravi fiscali per le imprese che li riassumono). Per il miliardo già annunciato lo schema invece non cambia. I soldi che verranno da una riprogrammazione dei programmi nazionali cofinanziati dai Fondi strutturali europei 2007-2013, gestiti in sinergia fra Stato e Regioni, saranno utilizzati per la metà (500 milioni) per decontribuzioni per le assunzioni dio giovani tra i 18 e 29 anni nelle regioni del Sud (Sicilia, Calabria, Campania e Puglia) con tetto al momento fissato a 650 euro per lavoratore. Probabile un allargamento della norma anche ai giovani di Abruzzo, Molise, Sardegna e Basilicata, regioni però non coperte totalmente dall’utilizzo dei fondi europei. Gli altri 500 milioni serviranno a finanziare varie norme sull’imprenditoria giovanile: tirocini e stage nelle imprese per giovani laureati e diplomati, rifinanziamento della legge sull’imprenditoria giovanile, finanziamento di start up e cooperative del terzo settore sempre rivolte ai giovani. Un’altra norma potrebbe prevedere il rifinanziamento della Social card. Si passa poi alle norme a costo zero che riguardano tutte le modifiche alla riforma del lavoro firmata Elsa Fornero. I ritocchi «col cacciavite» voluti dal ministro Enrico Giovannini prevedono pause più brevi tra un contratto e l’altro a tempo determinato e la revisione dei servizi per l’impiego. Sui tempi dei contratti attualmente è prevista una sospensione di 60 giorni per un contratto dalla durata inferiore ai sei mesi, mentre la pausa sale a 90 giorni per i contratti che hanno una durata superiore ai sei mesi. L’ipotesi più accreditata è quella di diminuire gli intervalli a 10 e 20 giorni. Usando come giustificazione (realmente un po’ forzata) quella dell’Expo 2015 a Milano, poi il governo a deciso di cancellare la «causale» sui contratti a tempo. Il primo contratto a tempo determinato potrà non prevederla anche se dura 18 mesi, mentre viene prevista anche una estensione della durata massima del rapporto che passa, in via sperimentale fino al 31 dicembre 2015, dagli attuali 36 a 48 mesi. La norma, che viene definita di «flessibilità in entrata», non piace ai sindacati che però non sembrano essere riusciti a modificarla. Cgil, Cisl e Uil puntano però ad usare questo «bonus» a luglio quando Enrico Letta ha promesso che partirà la trattativa sulla riduzione del cuneo fiscale, ribadita come «priorità del governo» anche ieri dal premier in Parlamento.

L’Unità 26.06.13

"La macchina cieca dei mercati finanziari", di Luciano Gallino

Uscito di prigione dov’era finito per aver esagerato con i suoi traffici, il finanziere Gordon Gekko dice al pubblico stipato in sala che, guardando il mondo da dietro le sbarre, ha fatto delle profonde riflessioni. E le condensa in una domanda: «Stiamo diventando tutti pazzi?» La scena fa parte di un film su Wall Street, ma la stessa domanda uno poteva porsela giovedì 20 giugno mentre gli schermi tv e tutti i notiziari online sparavano ancora una volta notizie del tipo: “I mercati prendono male le dichiarazioni del governatore della Fed”; “crollo delle borse europee”; “bruciati centinaia di miliardi”; “preoccupati per il futuro, i mercati affondano le borse”. E, manco a dirlo, “risale lo spread”.
Esistono due ordini di motivi che giustificano il chiedersi se – cominciando dai media e dai politici – non stiamo sbagliando tutto preoccupandoci dinanzi a simili notizie di superficie in cambio di ciò che realmente significano. In primo luogo ci sono dei motivi, per così dire, tecnici. Nel mondo circolano oltre 700 trilioni di dollari (in valore nominale) di derivati, di cui soltanto il dieci per cento, e forse meno, passa attraverso le borse. Il resto è scambiato tra privati, come si dice “al banco”, per cui nessun indice può rilevarne il valore. Ma anche per i titoli quotati in borsa le cose non vanno meglio. Infatti si stima che le transazioni che vanno a comporre gli indici resi pubblici riguardino appena il 40 per cento dei titoli scambiati; gli altri si negoziano su piattaforme private (soprannominate dark pools, ossia “bacini opachi” o “stagni scuri”) cui hanno accesso soltanto grandi investitori. Di quel 40 per cento, almeno quattro quinti hanno finalità puramente speculative a breve termine – niente a che vedere con investimenti “pazienti” a lungo termine nell’economia reale. Non basta. Di tali transazioni a breve, circa il 35-40 per cento nell’eurozona, e il 75-80 per cento nel Regno Unito e in Usa, si svolgono mediante computer governati da algoritmi che esplorano su quale piazza del mondo il tale titolo (o divisa, o tasso di interesse o altro) vale meno e su quale vale di più, per avviare istantaneamente una transazione. L’ultimo primato noto di velocità dei computer finanziari è di 22.000 (ventiduemila) operazioni al secondo, ma è probabile sia già stato battuto. Ne segue che chi parla di “giudizio dei mercati” dovrebbe piuttosto parlare di “giudizio dei computer”. Con il relativo corredo di ingorghi informatici, processi imprevisti di retroazione, episodi d’imitazione coatta, idonei a produrre in pochi minuti aumenti o cadute eccessive dei titoli, del tutto disconnessi da fattori reali.
In sostanza, i mercati finanziari presentati al pubblico come fossero divinità scese in terra, alla cui volontà e giudizio bisogna obbedire se no arrivano i guai, sono in realtà macchine cieche e irresponsabili, in gran parte opachi agli stessi operatori e ancor più ai regolatori. E, per di più, pateticamente inefficienti. Soltanto dal 2007 in poi la loro inefficienza è costata a Usa e Ue tra i 15 e i 30 trilioni di dollari. Emergono qui i motivi politici per guardare ai mercati in modo diverso da quello che ci chiedono. Cominciando, ad esempio, a rivolgere ai governanti e alle istituzioni Ue una domanda (un po’ diversa da quella di Gekko, ma nello stesso spirito): se in effetti sono i mercati ad essere dissennatamente indisciplinati, perché mai continuate a raccontarci che se noi cittadini non ci assoggettiamo a una severa disciplina in tema di pensioni, condizioni di lavoro, sanità, istruzione, i mercati ci puniranno?
In verità una domanda del genere governi e istituzioni Ue se la sono posta da tempo, pur senza smettere di bacchettarci perché saremmo noi gli indisciplinati. Fin dal 2007 la Ue aveva introdotto una prima Direttiva sui mercati degli strumenti finanziari (acronimo internazionale Mifid). Non è servita praticamente a nulla, meno che mai a temperare la crisi. Ma governi e istituzioni Ue non si sono arresi. Prendendosi non più di cinque o sei anni di tempo, intanto che i mercati finanziari contribuivano a devastare l’esistenza di milioni di persone, si sono messi alacremente al lavoro per elaborare una Mifid II. E poche settimane fa l’hanno sfornata – in ben tre versioni differenti. Esiste infatti una versione del Consiglio dell’Unione, una del Parlamento europeo e una della Commissione europea. Gli esperti assicurano che nel volgere di un anno avremo finalmente una versione definitiva, che emergerà dal “trialogo” fra le tre istituzioni. Quando entrerà pienamente in vigore, nel volgere di un biennio o due dopo l’approvazione come si usa, anche i mercati finanziari saranno finalmente assoggettati a una robusta disciplina, non soltanto i cittadini che han dovuto sopportare, a colpi di austerità, il costo delle loro sregolatezze. Saranno trascorsi non più di otto o dieci anni dall’inizio della crisi.
È tuttavia probabile che di una vera e propria azione disciplinare i mercati finanziari non ne subiranno molta, e di certo non tanto presto. In effetti, il meno che si possa dire della tripla Mifid è che le divergenze fra le tre versioni sono altrettanto numerose e consistenti delle convergenze, mentre in tutte quante sono pure numerose e vaste le lacune. Da un lato ci sono notevoli distanze nei modi proposti per regolare le piattaforme di scambio private (i dark pools), le transazioni computerizzate ad alta frequenza, l’accesso degli operatori alle stanze di compensazione. Dall’altro lato, non si prevede alcun dispositivo per regolare i mercati ombra; vietare la creazione e la diffusione di derivati pericolosi perché fanno salire i prezzi degli alimenti di base; limitare l’entità delle operazioni meramente speculative. Ovviamente, tra divergenze e assenze le potenti lobbies dell’industria finanziaria ci guazzano. Sono già riuscite a ritardare l’introduzione di qualsiasi riforma di una decina d’anni dopo gli esordi della crisi, una riforma che sia una di qualche incisività a riguardo sia dei mercati sia del sistema bancario; se insistono, magari riescono pure a raddoppiare questi tempi. I governi e le istituzioni Ue hanno dunque larghi spazi e tempi lunghi davanti, per insistere nel disciplinare i cittadini invece dei mercati finanziari.

La Repubblica 26.06.13

“Troppo preparati per fare gli operai” la selezione beffa che esclude i laureati, di Jenner Meletti

Si lavora all’aperto, anche se c’è bufera. Si entra nella stiva delle navi. Si deve essere bravi «nell’imbraco e nello sbraco delle merci». Si presentano in 105 per conquistare — anzi, per sperare di conquistare — un posto di lavoro. Qualifica: «addetto al carico e allo scarico delle merci in ambito portuale». In breve, un posto da portuale, non fisso, ma interinale. I venti «posti» in palio non danno diritto a un’assunzione. Si tratta invece di pass di accesso per un corso di formazione, partecipazione gratuita ma nessun rimborso, nemmeno le spese. Ma la crisi è pesante, anche in
questa riva adriatica. E così gli addetti alla selezione forse non si meravigliano troppo, quando fra i candidati trovano due laureati in ingegneria e due in giurisprudenza. Bocciati. Ci sono anche sei ragazze.
Respinte.
L’iniziativa è stata presa dalla Rete portuale, associazione delle dieci imprese private che lavorano nel porto e che finalmente hanno deciso di cercare un futuro assieme invece di farsi soltanto concorrenza. «La selezione — mette le mani avanti Barbara Napoliello, presidente dell’associazione — non l’abbiamo fatta noi direttamente. Ci siamo affidati a un’agenzia. I laureati esclusi? Quello del portuale è un lavoro manuale. Confrontando i curriculum, sono state scelte persone fortemente motivate a fare questo lavoro e a farlo per sempre. Per chi invece ha titoli alti, non credo che il porto possa essere una scelta di vita». Anche tutte le donne non entreranno nel corso di formazione. «L’esclusione non è stata fatta in via pregiudiziale. Ci mancherebbe altro. Anche qui l’unico criterio adottato è la comparazione dei curriculum».
Per entrare nei vigili del fuoco, le donne debbono superare le stesse prove (anche di forza fisica) dei colleghi maschi, e tante superano l’esame. Il porto di Ortona è invece ancora un tabù. «Forse — dice Barbara Napoliello — i selezionatori hanno fatto questo ragionamento: se diamo la precedenza ai laureati, che lavoro potranno mai cercare quelli che hanno soltanto il diploma o la terza media?». Il corso è iniziato ieri, duecento ore di lezione. «Vogliamo che il porto cresca — dice Achille Bottega, che rappresenta una delle dieci aziende private — e allora abbiamo bisogno di gente preparata. Ai selezionatori abbiamo detto che i candidati debbono sapere cosa sono una nave e un porto. Debbono essere disposti a lavorare con le mani e a farlo anche quando c’è il maltempo. E sono obbligati a conoscere l’inglese tecnico, quello che si parla nei porti, non a Oxford». Fra un mese e mezzo, a fine corso, i promossi saranno «affidati» a un’agenzia interinale. Questa, in collegamento con la Compagnia portuale (che oggi conta soltanto due addetti) li distribuirà poi alle dieci aziende della Rete portuale. Un dipendente diretto di queste aziende ha un salario di circa 1.200 euro al mese. «Un interinale che lavori 20 giorni al mese — dice Achille Bottega — guadagnerà gli stessi soldi». Se invece lavorerà dieci giorni, si dovrà accontentare di 600 euro. Anche meno, se non ci sono navi in arrivo o in partenza.
Nel porto abruzzese nel 2012 sono arrivare 337 navi e ne sono partite 342. In tutto sono state movimentate 1.721.910 tonnellate di merci. «Ma abbiamo grossi problemi di pescaggio — dice il sindaco, Enzo D’Ottavio — perché da due anni il prelievo di sabbia è bloccato, dopo una denuncia del Wwf secondo il quale la sabbia era
inquinata. Si è accertato che non è vero, ma il blocco resiste ancora. E così ad esempio il pastificio De Cecco deve caricare a Napoli le navi che portano la pasta in tutto il mondo». Il porto croato di Ploce, terminale del Corridoio paneuropeo n° 5, è proprio davanti a Ortona, dall’altra parte dell’Adriatico. «Il mare — dice il sindaco — è il nostro futuro. Abbiamo una buona agricoltura, con il Montepulciano d’Abruzzo e altri ottimi vini, ma basta una grandinata come quella arrivata ieri per rovinare tutto. Il porto, con tanti scambi internazionali, deve diventare la nostra ricchezza». Difficile però parlare di modernità e futuro quando i candidati a un precario posto da portuale, se ingegneri, avvocati o semplicemente donne, vengono bocciati. «Le novità, anche da noi — dice il sindaco — debbono essere digerite. Ci sono ancora steccati mentali e culturali che vanno superati. Ma bisognerà davvero superare questo gap, se vogliamo creare un feeling fra la città e il porto, come esisteva un tempo».
Inutile cercare i candidati donne o laureati. «I nomi li ha soltanto l’azienda che ha fatto la selezione — dice Barbara Napoliello — e poi c’è la privacy». Sarebbe interessante conoscere cosa li ha spinti verso un mestiere pericoloso e difficile che era stato quasi abbandonato: fino a 15 anni fa nella Compagnia lavoravano almeno venti portuali. Le indicazioni delle aziende sono state comunque rispettate. Diciassette degli ammessi sono di Ortona, gli altri tre sono dei paesi della costa. Le navi e il porto — almeno dalla splendida passeggiata di Ortona — li hanno visti.

La Repubblica 26.06.13