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"Quando un esame di Stato uguale per tutti gli studenti?", di Andrea Gavosto*

Vale la pena ritornare sulla decisione del ministro Carrozza, che con un decreto ha pochi giorni fa modificato i test di ingresso ai corsi di laurea a numero chiuso o programmato: medicina, professioni sanitarie, veterinaria, architettura. La vicenda, infatti, al di là degli aspetti tecnici e delle conseguenze immediate per gli studenti, ha messo in luce un importante nodo critico che riguarda il futuro dell’istruzione secondaria e universitaria in Italia.

Due i punti controversi su cui è intervenuto il nuovo ministro: la data dei test, che da luglio slitta nuovamente a settembre, almeno per il prossimo anno accademico; il calcolo del cosiddetto bonus maturità, che nelle intenzioni del suo predecessore, Francesco Profumo, attribuiva fino a 10 punti sulla base del voto di maturità, ricalcolato però in relazione alla distribuzione dei voti nella medesima scuola nell’anno scolastico precedente.

Perché questo accorgimento? Non è un’inutile complicazione? No: sappiamo, infatti, da tempo che i voti dell’esame di Stato non sono confrontabili fra territori diversi e scuole diverse (o anche all’interno della stessa scuola), dipendendo da quanto la commissione è di manica larga o stretta. Nelle regioni meridionali la percentuale di 100 o 100 e lode è significativamente più elevata che al Nord, senza che questo corrisponda necessariamente a maggiori conoscenze e competenze. Per porre rimedio alle evidenti iniquità che si sarebbero determinate negli esiti dei test di ammissione universitaria, Profumo aveva deciso che il voto finale dell’esame non fosse preso al suo valore facciale, bensì rapportato agli esiti nella stessa scuola un anno prima. Così, se una scuola tradizionalmente registrava voti bassi, per la particolare severità delle commissioni o per una qualità media non elevata degli studenti, non era necessario arrivare al 100 per ottenere il bonus massimo, ma poteva essere sufficiente un 90.

Questo meccanismo, che tecnicamente si chiama «normalizzazione» del voto, ha sollevato moltissime critiche, a mio parere largamente ingiustificate. Vero è, però, che il meccanismo non era stato ben spiegato dal ministero, generando sconcerto e sospetti fra gli studenti, già preoccupati dalla prospettiva di fare il test due settimane dopo la fine della maturità.

Con lo slittamento a settembre dei test, ora sarà invece possibile – e questo è certamente un miglioramento – confrontare il voto di maturità individuale non con quelli della scuola nell’anno precedente, ma con quelli assegnati nello stesso anno dalla stessa commissione d’esame. La normalizzazione permetterà quindi di alzare i voti degli studenti finiti con esaminatori particolarmente «tosti» e, per converso, abbassare quelli che hanno avuto la fortuna di finire con commissioni di manica larga. Così si conserva lo spirito originario dell’intervento di Profumo, anche se neanche la correzione statistica permette di eliminare del tutto le differenze legate ai diversi criteri di giudizio di ciascuna commissione.

E veniamo alla questione realmente importante. Questo dibattito – solo in apparenza di lana caprina – sul voto di maturità e sui test di ammissione all’università ha, invece, messo in luce la contraddizione fra l’attuale esame di maturità (modificato sì nel corso dei decenni, ma in fondo improntato a vecchie concezioni) e la necessità delle università di poter confrontare le capacità di studenti che provengono da scuole e regioni diverse: un’irrinunciabile esigenza di equità nel caso di corsi ad accesso limitato. Man mano che altri corsi di laurea (ad esempio, quelli economici) richiederanno forme di selezione in ingresso – non necessariamente una scelta lungimirante in un Paese dove solo il 55% dei diplomati si iscrive all’università, ma resa necessaria dalla riduzione delle risorse – la contraddizione si farà più acuta.

In astratto, è difficile dire se sia preferibile un test di ingresso all’università o un esame di maturità comunque profondamente da riformare. Che fra le due prove vi sia, però, una certa ridondanza a me pare evidente. Poiché un esame finale alle superiori deve comunque esserci (non tutti i diplomati, infatti, si iscrivono all’università) e poiché fra due anni dovremo rivederne gli attuali meccanismi, a suo tempo introdotti sperimentalmente dal ministro Gelmini, non è forse giunto il momento di riflettere seriamente su come rendere i risultati dell’esame di Stato finalmente confrontabili su scala nazionale? Solo così elimineremo lo scarto fra l’epopea emotiva che la vecchia maturità ancora rappresenta e la sua – sempre più scarsa utilità come strumento di valutazione delle competenze dei diplomati.

*Direttore della Fondazione Giovanni Agnelli

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