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«Odoardo è per tutti esempio da imitare», di Serena Arbizzi

«Vuole sapere come mi sento adesso, che il nonno sta per diventare Beato? Le rispondo con una sola parola: sono gioioso». È racchiuso in questa frase pronunciata da Luca Semellini, orafo carpigiano che si è occupato della reliquia ufficiale nonché nipote di Odoardo, il significato che la giornata di ieri ha avuto per una famiglia tanto numerosa, quanto simbolica per la città come i Focherini. E c’era tutto il variegato mondo che ruota intorno ai cinque figli e quindici nipoti di Odoardo a rendere onore alla figura del martire. «Essere qui e partecipare alla beatificazione rappresenta un’emozione indescrivibile – aggiunge la nipote Maria Peri, storica e figlia di Paola Focherini – La cosa più bella è guardarsi intorno e vedere così tanti amici. Ci sono i figli dei deportati nei campi di concentramento con le loro famiglie: i Lampronti, di cui sono presenti tre generazioni con Giorgio, il figlio Guido e la nipote Camilla, e i Campagnano. Ci sono gli agenti assicurativi della Cattolica, dove il nonno ha lavorato dieci anni: qui c’è parte del consiglio nazionale. Ci sono i Cavalieri dell’Odine di Malta e dal Santo Sepolcro. Ci sono persone, più in generale, che non hanno dimenticato quanto sia importante quello che ha fatto Odoardo e desiderano ricordarlo». Altrettanto emozionati i cinque figli di Focherini: Gianna, Paola, Carla, Rodolfo e Maddalena, che sedevano nelle prime file con le loro famiglie. «Sono molto contenta di come si sono svolte le celebrazioni – commenta Paola, 69 anni, la più giovane dei sette figli – È stata una cerimonia sobria ma che, contemporaneamente, ha reso giusto tributo al papà, sottolineando tutto quello che di straordinario ha fatto. E quello che non è stato speso nelle celebrazioni, mi è stato donato sotto forma di denaro, da alcune amiche: lo userò per aiutare persone bisognose, con amicizia e per fare veramente fruttare in modo utile quei contributi». Paola, il papà non l’ha mai conosciuto, ma ha potuto rivivere il ricordo di Odoardo tramite la mamma, Maria Marchesi. «Una donna eccezionale legata da un’intesa inossidabile con il babbo. Basti pensare che nei primi giorni del 1944, quando lo statista Alcide De Gasperi chiese a mio padre di entrare in politica, intuendo che di lì a poco il fascismo sarebbe crollato, il papà domandò cosa ne pensasse alla mamma e lei gli rispose di no, perché aveva sette figli e molti impegni. Quando, però, lui le chiese se poteva dare una mano ai suoi amici perseguitati dalle leggi razziali, mia madre gli rispose senza ombra di dubbio: “Certo” e lui agì di conseguenza». Anche i nipoti di Focherini, Odoardo Semellini e Francesco Manicardi avevano il volto velato di emozione. «All’indirizzo del sito dedicato al nonno arrivano mail da tutto il mondo: dall’Ungheria dove esiste un nutrito gruppo di ebrei che ha subito persecuzioni, dalla Germania, ma anche dai posti più lontani, come il Brasile. Oggi, tra l’altro, le comunità ebraiche di Modena e non solo hanno fatto una dichiarazione ufficiale sulla figura di Odoardo, Giusto tra le nazioni – racconta Francesco, 42 anni, dipendente della Cpl, figlio di Gianna, rimasta orfana di padre a soli 4 anni – Penso a mia nonna Maria e ai 45 anni di lutto che ha osservato, fino a quand’è morta, nel maggio 1989. La nonna si recava vestita di nero da via Rovighi, dove abitava con Odoardo, fino alla chiesa del Cristo Crocefisso, quasi a circoscrivere il mondo carpigiano di Focherini. Si ricordavano di lui gli ebrei che sono stati salvati, ma anche un partigiano comunista come Franco Varini che a soli 17 anni ha vissuto il lager con Odoardo che ne aveva 37». Per la Beatificazione è giunto a Carpi anche Georg Gierl, 36 anni, parroco di Flossemburg che ha omaggiato la famiglia di Odoardo di un dipinto che raffigura la speranza ritrovata dopo le atrocità dell’Olocausto. «Non potevo mancare – dice padre Georg, che ha affrontato sette ore di viaggio in auto – anche per noi Odoardo è un simbolo». E, preso da un continuo via vai tra le sedie e il palcoscenico per controllare che tutto filasse liscio, si è notato un altro parente di Odoardo: Gianni Prandi, presidente di Radio Bruno che per la Beatificazione si è occupata di diversi aspetti organizzativi riguardanti palco, luci schermo, audio e moquette. «Mia nonna era sorella del marito di Olga Focherini – spiega Prandi – quando ci è stato chiesto di provvedere all’organizzazione abbiamo risposto: con piacere».

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Il racconto e i ricordi degli scampati alla deportazione
Lampronti: «Ci avvisò dei tedeschi». Varini: «Gli devo tutto»

«Ci ha salvato la vita: è un riconoscimento che ha meritato». «Pesavo 32 chili, e avevo la testa rasata, sfinito, morto, irriconoscibile al momento della liberazione. E mi sono salvato per miracolo, grazie a Odoardo, a Fossoli», ricorda Franco Varini, 86 anni, sopravvissuto al lager di Flossenburg. Per chi è stato salvato da Odoardo, la beatificazione è stata un evento imperdibile per rendere omaggio a «quello che per me è un secondo papà», ha detto un commosso Giorgio Lampronti, che viene da Venezia ed è figlio di Giacomo, giornalista di origini israelite, nascosto a Carpi insieme alla sua famiglia con la quale stava per essere catturato e deportato in campo di sterminio. «Papà fu avvertito da Focherini – continua – e intraprendemmo una pericolosa fuga a piedi attraverso il confine con la Svizzera, portando con noi alcuni oggetti cari, dopo essere sfuggiti alle guardie di frontiera tedesche. Ho incontrato Odoardo a 8 anni e mi è rimasta impressa quella positività con cui ci spronava ad andare avanti. Mio padre ha scritto il libro “Mio fratello Odoardo” in cui ha recepito la grandezza, ma anche la semplicità di questo grande uomo, che ha compiuto gesta eroiche con dolcezza unica». Ieri mattina era presente con la moglie anche Maurizio Campagnano, nato nel 1945, residente a Modena e figlio di un altro salvato da Odoardo.

La Gazzetta di Modena 16.06.13

"Il raduno europeo", di Laura Matteucci

Si sono radunati in un capannone alla periferia sud est di Milano. È scandalo per il raduno neonazi, autorizzato dalla Prefettura, e organizzato dall’associazione Skinhouse. L’ira del sindaco Pisapia: «È inaccettabile». Il precedente del raduno per la nascita di Hitler. Decine di band neonaziste, internazionali e nostrane, gruppi musicali hardcore arrivati persino dagli Stati Uniti, come i Bully Boys, e dall’Inghilterra, i Brutal Attack, raffinato nome evocativo, e poi skinhead e formazioni di estrema destra di tutta Europa. Un raduno neonazi in piena regola, ieri sera in un capannone alla periferia sud est di Milano, concerto e festa grande organizzata dall’associazione Skinhouse cittadina: sarà anche come dice la Prefettura che l’ha autorizzato che non si sono riscontrati elementi di rischio per l’ordine pubblico, ma è di sicuro un fatto «inaccettabile», come dice il sindaco Giuliano Pisapia. «Milano scrive lui stesso non può accettare che si svolgano né ora né in futuro iniziative che attingano al repertorio dell’intolleranza razziale e politica in qualsiasi forma esse si presentino».
Loro però sono arrivati a centinaia, teste rasate, tatuaggi e svastiche, simbologie razziste e richiami a Hitler, gli afecionados e sette gruppi, nomi noti della scena «White Power» legata al circuito neonazista internazionale «Stormefront» e «Blood & Honour». Parlavano tedesco, inglese, francese, e pure ungherese. Nessuna telecamera ammessa dentro i capannoni di via Toffetti, alle porte della città, ma in rete si trova facilmente una nutrita documentazione di quel che succede in serate come questa.
L’obiettivo dichiarato era quello di raccogliere fondi per pagare le spese processuali a carico di alcuni membri di Azione Skinhead, gruppo nato nel 1990 dalla fusione tra gli skin milanesi e il nucleo più radicale degli ultrà Boys San dell’Inter, per fatti accaduti nel 1993. Ma la sfida muscolare è evidente, in un momento tra l’altro in cui si moltiplicano episodi di chiaro stampo fascista, razzista e xenofobo, di cui gli attacchi al ministro Cécile Kyenge sono solo un esempio. L’happening era atteso da tempo, ma le polemiche sono scoppiate nei giorni scorsi, forse anche perché in molti hanno sperato fino all’ultimo che l’autorizzazione non venisse concessa, che qualcuno intervenisse d’imperio, magari richiamando l’apologia del fascismo come reato, per evitare un raduno di centinaia di persone (erano attese in 2mila) che palesemente inneggiano a Hitler. C’è da chiedersi come mai, invece, non sia accaduto nulla di nulla. Il Comune in questi casi ha le mani legate, e la Prefettura sostiene di non aver potuto fare altrimenti, trattandosi di una manifestazione organizzata in uno spazio privato. Chiamata in causa, è intervenuta anche la Questura: non si parla di un corteo o di una manifestazione in luogo pubblico, dice, dunque non è previsto nessun servizio speciale di ordine pubblico (la serata è stata comunque «monitorata »). Così, la protesta di migliaia di cittadini indignati si è riversata in rete, tra blog e social network. E sono arrivati anche i commenti di politici e figure istituzionali: «Non consentire un’offesa alla città di Milano con il raduno nazista: uno strappo ai principi della legalit à democratica», dice Nichi Vendola. E l’assessore milanese alla Sicurezza, Marco Granelli, fa eco al sindaco: «Condanniamo ogni espressione che inneggi all’odio e fomenti la violenza. L’intolleranza razziale e politica non possono in nessun modo essere parte della vita della nostra città», scrive. Anche il consigliere liberale Manfredi Palmieri si dice indignato.
E non è certo il primo raduno di genere degli ultimi tempi. Questo lo ricorda Emanuele Fiano, parlamentare milanese, presidente del forum Sicurezza e Difesa del Pd, che ha chiesto al ministro dell’Interno e al Prefetto di Milano di intervenire per impedire il meeting previsto: «Si stanno moltiplicando gli eventi come questo dice Nell’occasione del raduno, nell’aprile scorso, vicino a Varese, centinaia di attivisti neo nazi festeggiarono il compleanno di Hitler. A Milano hanno partecipato numerosi gruppi musicali i cui testi propagandano il peggior razzismo e odio contro immigrati, gay ed ebrei». Fiano si riferisce a quanto accadde il 20 aprile scorso, giorno dell’anniversario della nascita di Adolf Hitler, quando a Malnate, vicino a Varese, 700 camerati fecero festa in un locale gestito dall’associazione culturale filoleghista «I nostar radis». E domani Fiano depositerà un’interrogazione urgente «per capire come mai vengano concessi i permessi per queste iniziative».

L’Unità 16.06.13

Josefa Idem «Presto si farà la legge sulle unioni civili, il clima è positivo Matrimoni gay? Sono pragmatica, l’importante è raggiungere l’obiettivo», di Natalia Lombardo

Con pragmatismo teutonico e l’abitudine alla conquista del traguardo metro per metro, Josefa Idem, campionessa olimpionica ora al governo, nata a Groch, in Germania e da 23 anni in Italia, non è persona che parla a caso, tantomeno dopo il consiglio dei ministri fiume che si è svolto a Palazzo Chigi.
Lei, ministra delle Pari Opportunità con delega allo sport e alle politiche giovanili, sta mettendo in cantiere temi spinosi e importanti, che vanno dall’elaborare una proposta di legge sulle unioni civili all’avvio, martedì prossimo, della «task force» per affrontare il dramma del femminicidio. Quale sarà la formula per regolamentare le unioni civili, le coppie di fatto?
«Io ho detto che i diritti devono essere uguali per tutti e serve una legge, perché la chiedono tanti cittadini. Però non voglio anticipare formule o modelli..».
Tra l’altro sono tutti falliti, in questi anni, i Dico, i Pacs, non si è mai riusciti a trovare un’intesa. Pensa che sia possibile nel governo di larghe intese?
«Per ora il clima è buono, ma non voglio dire nulla, ripeto. Perché un progetto si deve costruire, studiare, conoscere il quadro nella sua totalità, e poi si procede».
Lei pensa anche ai matrimoni gay, magari in un secondo tempo?
«Io penso che serva una legge sulle unioni civili, senza distinzione di sesso, fra persone che si vogliono bene. Non parliamo di matrimoni come siamo abituati a pensarli, ho sempre detto che sono favorevole alle unioni e quindi cerco di raggiungere l’obiettivo. Sono pragmatica».
E sulle adozioni per coppie gay?
«Un passo alla volta».
Come le è sembrato partecipare al Gay Pride di Palermo nei panni di ministra? «Era bellissimo. Ma quello che mi ha stupita è stato l’uso di mezza frase che ho pronunciato. Appena ho detto “andrò al Gay Pride di Palermo” è sembrato un evento straordinario. Io vorrei che queste cose fossero affrontate con naturalezza, dovrebbe essere normale che non esistano discriminazioni, che siano tutelati i diritti Lgbt e di tutte le persone».
Martedì verrà avviata la task force contro la violenza sulle donne. Come funzionerà?
«Martedì avviamo i lavori. Ci sono tanti ministeri coinvolti: il nostro, Interno, Giustizia, Salute, Istruzione, Welfare e non solo. Prima di tutto dobbiamo studiare la situazione, ogni ministero dovrà illustrare ciò che è di sua competenza per avere un quadro unico».
Ma qualche proposta?
«Eh no quasi si arrabbia, la ministra si chiama “task force” proprio perché è tutto da definire insieme, se sapessi prima come muovermi non avrei proposto un lavoro di squadra. Invece dobbiamo metterci insieme, ogni dicastero deve “snocciolare” la questione e poi si vede come affrontarla».
E come Pari Opportunità?
«Noi abbiamo un Osservatorio, anche se dovrebbe essere ampliato, e dobbiamo capire chi causa la violenza, quali storie, perché, se è un problema culturale soprattutto o no. E da lì si possono vedere quali misure sono efficaci, come intervenire anche nella scuola, ma senza stereotipi. Faremo dei gruppi di studio, anche con specialisti, per com-
prendere questo fenomeno insopportabile. L’anno scorso in Italia sono state uccise 120 donne, è allarmante». Nella scorsa legislatura sono state ridotti parecchio i fondi per i centri anti-violenza. Interverrà per ripristinarli?
«I centri anti-violenza sono importantissimi e per farli funzionare servono risorse. In Italia, tra l’altro, sono attivi grazie al volontariato, mentre in altri Paesi sono in capo alle istituzioni, allo Stato».
Comunque chiederà nuovi fondi? Se spetta a lei?
«Certamente si dovranno cercare soldi, risorse da sottrarre ad altri capitoli di spesa per dirottarli sui centri anti violenza. È uno dei punti sul tavolo. Su tutti questi temi, però, si deve cambiare mentalità».
In che senso?
«Oggi possiamo varare una norma che lì per lì ci fa risparmiare soldi, ma poi si scopre che ha un riflesso negativo sull’occupazione, per dire. Invece si deve studiare una questione a 360 gradi per avere un risultato migliore. Per esempio, come mai da noi i centri anti violenza sono affidati al volontariato? Magari sono più efficaci, non so, bisogna paragonarli, e intanto accogliere i loro suggerimenti. C’è chi si chiede, infatti, se è giusto tenere una donna che ha subito violenza nascosta in un luogo segreto e lasciare il marito a casa, oppure se è meglio mandare fuori lui e non estrapolare la donna dal suo ambiente».
Come ha trovato il clima nel Consiglio dei ministri?
«Buono, un clima di collaborazione per trovare soluzioni che migliorino la qualità della vita delle persone. Sarà un lavoro a breve, medio, lungo termine, si vedrà. Certo, è tempo di vacche magre, magrissime, qui al mio ministero, senza portafogli per tutte e tre le deleghe, cerchiamo di cucinare piatti prelibati con due pomodori e una foglia di basilico… Però io sono motivatissima».
In Italia ci sono tante discriminazioni e tanti razzismi. La feriscono le aggressioni alla sua collega Kyenge?
«Il lavoro di Cécile è molto coraggioso. Ha tutta la mia stima, in lei vedo una persona preziosa, nata altrove e orgogliosa di essere italiana. Questo ci accomuna, anch’io sono nata altrove e sono orgogliosa di essere italiana».

L’Unità 16.06.13

"La cultura non è una merce come il gelato", di Enrico Menduni

L’«eccezione culturale», ormai lo sappiamo bene, è l’impostazione che nega che la libertà di commercio un dogma dei nostri tempi possa estendersi all’infinito, comprendendo anche la cultura. Gli artefatti culturali (libri, audiovisivi, musica, opere d’arte) non sarebbero dunque da considerarsi una merce, o soltanto una merce, da scambiare e vendere senza frontiere al prezzo più basso per il consumatore, ma un elemento che identifica le culture nazionali ed è protetto dalla totale invasione dei prodotti dei mercati più forti perchè serve alla crescita (qualche volta alla sopravvivenza) di una comunità. Se invece si considerano tali prodotti soltanto generi dell’intrattenimento, come i gelati o le racchette da tennis, allora è applicabile il libero scambio, e presumibilmente le industrie più forti invaderanno i mercati minori, come avviene nel mercato
dei computer o delle automobili. Dal 1995 è stata costituita la Wto, acronimo anglosassone per la Organizzazione mondiale del commercio, che ha lo scopo di aprire grazie a complessi negoziati bilaterali tutti i mercati al libero scambio, abbattendo le barriere doganali, in nome del vantaggio del consumatore che troverebbe così la disponibilità di prodotti al prezzo più basso: anche se per andare al mercato dovrà fiancheggiare tante fabbriche vuote e chiuse perchè messe fuori mercato dai prodotti delle imprese di nazioni più forti. Una ideologia e un negoziato internazionale che si è ampiamente diffuso: l’Europa oggi cerca di resistere ma al suo interno il libero scambio è la regola.
Fin dall’inizio il Paese più acceso sostenitore del libero scambio sono stati gli Usa; i francesi da allora sono sostenitori e l’Italia li ha sostenuti della necessità di fare un’eccezione per la cultura. Grazie a questa eccezione, all’interno dell’Europa, ciascun Paese può finanziare il proprio servizio pubblico televisivo (la Rai, la televisione pubblica tedesca o polacca o, con minore successo, la Tv greca) in deroga alla liberalizzazione dei mercati e alla libera conoscenza. Finanziare il servizio pubblico con aiuti di Stato fa parte dell’eccezione culturale e non è una forma di concorrenza sleale come hanno sempre sostenuto i grandi network privati e i loro rappresentanti a Bruxelles. Ma l’Europa non è tutto il mondo e i mercati culturali più aggressivi sono oggi gli Stati Uniti e domani l’Asia.
Il problema arriva puntualmente adesso nel negoziato a Lussemburgo tra i ministri del Commercio estero dei Paesi europei e gli Stati Uniti, perchè si devono stabilire le aree oggetto dei negoziati di libero scambio. La Francia come sempre si oppone, altri Paesi sono più morbidi, l’Italia è tendenzialmente per l’eccezione culturale con alcune eccezioni: per esempio il ministro Emma Bonino. Gli Stati Uniti mettono sempre sul tavolo la quantità di posti di lavoro (si parla di 400 mila) che l’estensione del libero scambio porterebbe in Europa: argomenti molto concreti che assumono talvolta il tono del ricatto, ma oggi le esportazioni degli Usa per film e altri prodotti culturali verso l’Europa sono quasi 10 volte le esportazioni europee.
Il rischio è che l’Italia abbia una posizione debole, sfumata, dove la difesa dell’eccezione culturale è limitata agli operatori culturali o ad alcuni ministri, come il titolare dei Beni culturali Bray e altri (Antonio Catricalà) con il sostegno del presidente Napolitano. La Francia sarebbe lasciata sola per non pregiudicare le trattative commerciali con gli Usa, smentendo la posizione che fu del Governo Prodi nel 1996. Faremmo una brutta figura ma soprattutto sarebbe compromessa la sopravvivenza di un settore portante della nostra cultura, e della nostra industria, di fronte a quella americana. Un pessimo comportamento che siamo ancora in tempo ad evitare.

L’Unità 16.06.13

"Una colomba sfida l'estremismo", di Renzo Guolo

A sorpresa, grazie a una straordinaria affluenza, Rohani vince le presidenziali iraniane. Il candidato di moderati e riformisti vola sulla cresta dell’Onda, il movimento che nel 2009 vide la vittoria bruciata dal colpo di stato nelle urne dei duri e puri vicini alla Guida. La scelta dei riformisti di concentrare il voto sul “centrista” Rohani, ha pagato. È la rivincita dell’asse tra Khatami e Rafsanjani, gli ex-presidenti spinti nel 2009 al margine del “sistema” dall’alleanza tra conservatori religiosi e destra radicale, e messi nelle scorse settimane nuovamente all’angolo dal Consiglio dei Guardiani, che ha sbarrato la strada al discusso ma ancora influente Rafsanjani, accusato dai fedelissimi della Guida di complicità con la “sedizione” dell’Onda.
Il voto del 14 giugno mostra quale fosse la volontà della maggioranza degli iraniani già nel 2009. I candidati vicini alla Guida sono rimasti nettamente a distanza da Rohani, e se anche i seguaci di Khamenei avessero concentrato il voto su Qalibaf non avrebbero avuto la maggioranza. A dimostrazione che quando il voto è “libero”, sia pure nell’ambito di quella atipica oligarchia di fazioni rappresentata dalla Repubblica Islamica, i risultati non sono scontati.
Ora gli uomini vicini a Khamenei elogiano il carattere speciale della democrazia religiosa, esaltando la partecipazione al voto e sottolineando, implicitamente, la rilegittimazione di cui gode ora la Repubblica Islamica, scossa alle fondamenta dalla repressione della proteste popolari seguita ai
brogli del 2009.
Ma perché questa volta il cuore del “sistema” non è intervenuto, lasciando che il voto sancisse un esito non gradito alla Guida? Vi sono diverse ragioni. Innanzitutto, la crisi di legittimità seguita a quegli avvenimenti era troppo profonda per replicare, senza produrre ulteriori fratture, la “mossa del cavallo” che nelle scorse elezioni aveva permesso a Khamenei di rovesciare il gioco e tenere sotto scacco l’alleato competitivo Ahmadinejad. Il presidente uscente era portatore di un progetto di ricambio della classe dirigente a favore della componente non radicale, che non è più decollato sotto il peso di quel patto faustiano cui ha pagato dazio.
Un nuovo, pesante, intervento sul voto non avrebbe avuto, questa volta l’avallo della destra radicale, allora beneficiaria dei brogli oggi politicamente sconfitta ma non smobilitata e con un consenso nei ranghi intermedi e inferiori di Pasdaran e Basij, tra i mostazafin’, i diseredati, oltre che tra i molti reduci della generazione del fronte che ha combattuto nella guerra con l’Iraq. Non è da escludere che anche parte dei voti un tempo di Ahmadinejad siano finiti, in nome dell’avversione alla Guida e in un sorta di irridente nemesi del tradimento, a Rohani.
Negli ambienti vicini a Khamenei potrebbe poi essere prevalsa quella corrente realista che ritiene più pericolosa una nuova destabilizzazione interna. Potenzialmente più esplosiva dopo le primavere arabe, che l’elezione di un presidente non allineato con la Guida ma pur sempre di “sistema”. Nella consapevolezza che, comunque, il controllo degli apparati della forza e la partita del nucleare rimane nella mani di Khamenei: sia nel caso si decida di rimanere su posizioni di chiusura, sia nel caso in cui si incoraggi Rohani a riaprire il negoziato.
In ogni caso è una svolta per l’Iran, sul piano interno e internazionale. Sebbene Rohani sia un turbante, la repressione sul piano dei costumi dovrebbe attenuarsi, mentre aumenteranno gli spazi per le libertà individuali, associative e quella di espressione. Così come dovrebbe venire meno l’isolamento tipico dell’era Ahmadinejad. Una virata che potrebbe rendere più difficile per l’Occidente l’inasprimento della politica delle sanzioni e l’ipotesi di un attacco militare a Teheran, scelte che andrebbero a colpire un paese che in maggioranza mostra di voler cambiare rotta.
Anche se il nuovo corso politico dovrà fare i conti con le tensioni che si sprigionano ogni qualvolta divergono le posizioni dei vertici degli organi a legittimazione politica, come il presidente, e quelli a legittimazione religiosa, come la Guida, che danno forma alla natura duale della Repubblica Islamica.

La Repubblica 16.06.13

"Scuola, edilizia e ricerca. Cambia tutto", di Luciana Cimino

Le disuguaglianze sono un fardello». La ministro all’istruzione Maria Chiara Carrozza ha ben presente i dati che negli ultimi anni hanno evidenziato un calo degli iscritti all’università. È ricercatrice, è stata rettore, non ha bisogno sul tema di farsi una cultura. Negli ultimi due giorni in diversi impegni e convegni su scuola e diritto allo studio lo ha detto chiaramente: «Intendo affrontare il tema a tutto tondo con il ministero dell’economia e del lavoro, per dare un futuro alle giovani generazioni, dando piena concretezza all’articolo 34 della Costituzione ». Per cominciare parte dalle case dello studente, finora in numero nettamente inferiore agli aventi diritto. Dichiara che è il momento, dopo anni di tagli, di «affrontare in modo complessivo il tema del welfare universitario, considerando come priorità nel corso del mio mandato il tema delle residenze universitarie». E per la prima volta parla di «scandalo» in riferimento al fenomeno tutto italiano degli idonei non vincitori. E cioè coloro che pur avento diritto per reddito e per merito alla borsa di studio non la ricevono per la mancanza di fondi degli enti regionali preposti, «lo scandalo degli idonei senza borsa è testimonianza drammatica della distanza tra nord e sud». La ministra vorrebbe anche invertire la rotta che vede l’Italia ormai agli ultimi posti di ogni classifica europea su ricerca e brevetti. Nonostante la crisi economica i più importanti Paesi europei ha scelto di non tagliare sulla formazione, anzi di investire sulla ricerca per rilanciare l’economia. A titolo d’esempio la Svezia ha investito nell’Università 731 euro a cittadino, la Germania 304 euro, la Francia 303, l’Italia 109. Cifra peraltro in continua decrescita. Eppure la Crui, che come altre organizzazioni (tra cui quelle studentesche) chiede con forza il ripristino del fondo di 300 milioni, a più riprese ha evidenziato come questo serva in realtà giusto a far passare da 109 a 114 euro. «Stiamo parlando di 5 euro – dicono dalla Crui – Continueremmo a essere il fanalino di coda dell’Unione, ma almeno arresteremmo la frana». «L’Italia non può non avere un piano nazionale per la ricerca che definisca le strategie – risponde Carrozza – dobbiamo attivarlo subito». Intanto il tentativo è di riuscire a «investire sui ricercatori e capire se riusciamo aa uscire da quella logica del blocco del turn over che penalizza troppo università, ricerca e scuola». Lei vorrebbe subito una rivoluzione copernicana rispetto a quanto avvenuto nelle ultime legislature, «vogliamo riportare la scuola al centro delle strategie del governo». Prima di tutto lo stato in cui versano gli istituti. «La scuola fa parte di quel pacchetto di emergenze che devono essere affrontate in tempi brevi, a partire dall’edilizia scolastica». Sul tavolo del Governo la proposta di un fondo unico per l’edilizia scolastica. «Bisogna affrontare i problemi di manutenzione straordinaria e ordinaria delle scuole e della sicurezza dei nostri ragazzi. Le semplificazioni non sono uno slogan». Poi agganciare la scuola al mondo del lavoro in un progetto distante però dalle “Tre I” dei governi Berlusconi. «Vedo l’esame di maturità molto importante nell’ambito del percorso dei ragazzi, perché è una tappa fondamentale che ricorderanno per tutta la vita. È importante che gli studenti facciano l’esame di maturità pensando anche a cosa si vuol fare dopo. Ecco perchè è importante che il nostro Paese investa sull’orientamento».

L’Unità 16.06.13

"Lunga la strada, stretta la via ma la marcia è cominciata", di Eugenio Scalfari

Fabrizio Saccomanni non è semplicemente un banchiere che conosce a menadito le tecniche della politica monetaria. È anche dotato di fiuto politico, rafforzato da una lunga esperienza di contatti con uomini di governo e istituzioni internazionali come le altre Banche centrali, il Fondo monetario internazionale, la Banca dei regolamenti, la Banca europea degli investimenti, la Commissione di Bruxelles e soprattutto la Bce guidata da Mario Draghi, di cui la Banca d’Italia è una costola.
Chi lo conosce sa o è in grado di prevedere quali sono i suoi comportamenti di fronte alla crisi recessiva che attanaglia l’Europa e l’Italia. In questa fase ha due problemi da risolvere: come gestire la questione dell’Imu e dell’Iva nell’ambito degli impegni europei e come ottenere dall’Europa (e dalla Germania) la maggiore flessibilità compatibile per attuare una concreta crescita in Italia e nel continente e un aumento della base occupazionale e giovanile.
Ha un ottimo punto di riferimento nel suo presidente del Consiglio, Enrico Letta, che a sua volta, può contare sull’appoggio sistematico di Giorgio Napolitano.
La strada che il nostro governo – e Saccomanni in particolare – stanno percorrendo è la seguente: rinviare l’aumento dell’Iva per tre-sei mesi; rinviare di altrettanto le rate di pagamento dell’Imu. Questi due rinvii hanno un costo, ma non molto elevato, tre o quattro miliardi che possono esser coperti almeno in parte con operazioni di tesoreria.
Ad ottobre l’Imu sarà interamente abolita e sostituita con un’imposta immobiliare comprensiva dell’imposta sui rifiuti ed altre minori, su basi nettamente progressive. Altrettanto avverrà per l’Iva che non riguarda soltanto le aliquote ma soprattutto i settori merceologici ai quali si applica, movimentando le aliquote al rialzo e al ribasso, anche qui su basi progressive in modo da gravare di più su settori di più alto reddito (o rendite) e meno sui consumi e i servizi primari.
C’è un gioco politico per guadagnare questi mesi e il tandem Letta-Saccomanni lo sta conducendo con consumata abilità. L’importante per ora è di gravare il meno possibile sulle scarse risorse esistenti.

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Nel frattempo bisogna intervenire sulla crescita e sul lavoro. Il decreto del “fare” è stato approvato dal Consiglio dei ministri e prevede investimenti in infrastrutture locali (in gran parte già predisposti da Fabrizio Barca quando era ministro della Coesione territoriale nel precedente governo), incentivi alle piccole imprese per l’acquisto di macchinari produttivi, pagamenti della pubblica amministrazione ai Comuni e alle imprese, semplificazioni e liberalizzazioni che tagliano inutili lungaggini burocratiche.
Le risorse sono in parte già disponibili, in parte anticipate dalla Cassa depositi e prestiti, in parte fornite dal sistema bancario sotto forma di anticipazioni su fatture autocertificate e “mini bond” emessi dalle imprese. A occhio il complesso di questi interventi ammonta a 8-10 miliardi. Le coperture previste sono all’esame della Ragioneria e della Banca d’Italia. Un primo sollievo per il sistema che si avrà entro un paio di settimane.
Ma il secondo terreno di gioco – anch’esso già in corso – riguarda la politica economica europea. L’Italia non accetterà compromessi sul tema dell’unione bancaria. L’incontro a quattro di venerdì scorso è andato bene, il fronte comune dei quattro più importanti Stati dell’Eurozona (Germania, Francia, Italia, Spagna) sosterrà negli incontri imminenti europei il criterio della crescita e della flessibilità, fermo restando il mantenimento del “fiscal compact” e del controllo sul deficit. Perfino il ministro tedesco Schäuble è d’accordo su questa linea che, da parte italiana, prevede misure europee per l’occupazione giovanile. Non saranno immediate, ma l’importante è che siano approvate e messe in calendario per il 2014.
È tuttavia chiaro che tutto questo non basta. L’Italia chiederà di poter avviare investimenti pubblici e incentivare quelli privati anticipando l’uso dei fondi europei, attivando la Bei a mobilitare una leva di 60 miliardi per investimenti e ottenendo che le risorse italiane necessarie siano tenute fuori dal patto di stabilità.
Questi obiettivi non sono chimerici, esistono concrete probabilità che siano raggiunti. Ma esiste tuttavia un’incognita che già esercita una forte tensione sui mercati: l’incognita viene dal processo già in corso da mercoledì scorso della Corte costituzionale di Karlsruhe che dovrà sentenziare sulla politica economica tedesca rispetto al patto di stabilità di Maastricht e se la Bce da parte sua non sia andata al di là di quanto il suo statuto e le norme europee prevedono. Questo procedimento apre una fase nuova nei rapporti della Germania con le istituzioni europee. Maggiore crescita e maggiore flessibilità europea nonché il mantenimento della politica di liquidità della Banca centrale sono evidentemente condizionati da quanto sarà sentenziato a Karlsruhe nei prossimi mesi.
Una cosa è certa e la si ricava dall’articolo 3 del trattato di Lisbona: le direttive europee per quanto riguarda la politica economica e in particolare quella monetaria non possono essere condizionate o modificate da uno degli Stati membri o da istituzioni nazionali; soltanto gli statuti delle istituzioni europee configurano le norme di comportamento; la loro interpretazione in caso di dubbi di legalità spetta unicamente alla Corte di giustizia di Strasburgo. Le sentenze di Corti di giustizia nazionale, qualora intervenissero su queste materie, sarebbero invalide e addirittura censurabili.
Come si vede, il terreno di gioco è accidentato ma la posizione sostenuta dall’Italia, dalla Francia e dalla Spagna è incomparabilmente la più favorita nell’eventuale partita che dovesse aprirsi.
Sarebbe opportuno che i governi nazionali dell’Eurozona cominciassero fin d’ora a prender posizione sulla base del trattato di Lisbona e stimolassero la Corte di Strasburgo a pronunciarsi anche preventivamente rispetto al Karlsruhe. Quanto alla cancelliera Angela Merkel, sembrerebbe più solidale con la Bce che con la Corte del proprio paese. Forse -ce lo auguriamo – è più attratta dall’obiettivo di un’Europa federale che si muova col peso d’un continente nell’economia globale, piuttosto che da
una Germania isolata di fronte agli altri paesi europei e soprattutto di fronte ai paesi emergenti del pianeta.

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Il nostro governo, che è più esatto chiamare di necessità anche se si autodefinisce di “larghe intese” per evidenti ragioni di opportunità, si sta muovendo nel modo migliore tra questi scogli della crisi economica e delle incertezze europee. Immaginare che la necessità venga meno tra pochi mesi è del tutto illusorio. Altrettanto illusorio, anzi assai pericoloso, è supporre che una nuova maggioranza di cui il Pd sia il perno e la dissidenza dei 5Stelle il nuovo alleato, significa sognare ad occhi aperti. Pd più dissidenza grillina possono essere un governo adatto quando la crisi economica sarà superata, non prima. La sola eventualità che questo avvenga potrebbe sconvolgere i mercati, quello italiano e di riflesso quelli europei.
Vendola non si rende conto di questa realtà? Renzi capisce quello che ho fin qui scritto con informata coscienza? Preparare il campo di gioco per una futura competizione e rinnovare nel frattempo la sinistra italiana è un compito degno d’esser portato avanti, ma pensare che quel futuro sia dietro l’angolo oppure operare addirittura per affrettarlo con le proprie querimonie sarebbe un caso grave di irresponsabilità.
Il Movimento 5Stelle sta vivendo una fase di ricerca di libertà. Non sappiamo quanto sia estesa tra i cittadini entrati in Parlamento. È comunque giusto dire che Grillo e il suo iniziale successo sono stati utili al risveglio della democrazia italiana così come è utile oggi che gli eletti delle 5Stelle rivendichino la loro dignità di teste pensanti e scoprano la politica.
La politica – lo dice la parola stessa — è una visione del bene comune, la visione di una società al cui
servizio la politica si pone. Attenzione: il “demos” cioè il popolo, esprime una società, cioè un insieme di comportamenti che spesso non collimano con la visione del bene comune di una parte politica. Questa distinzione non va dimenticata da quanti riflettono su ciò che avviene intorno a loro.
Tra il “demos” e le diverse parti politiche che competono c’è sempre un rapporto interrelazionale: il “demos” modifica le parti politiche e queste a loro volta modificano il “demos”, ciascuna a proprio modo. Questa è l’etica della politica: quella di Aristotele, non quella di Platone. Il resto è futile chiacchiera o esperta demagogia.
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Un campo molto agitato si è aperto anche nel centrodestra. Lì non c’è alcuna visione del bene comune. Ci sono interessi coalizzati attorno ad un proprietario che è l’asso dei venditori e c’è un “demos” emotivo e dominato dall’imbonitore. Impaurito dai comunisti (pensa un po’!), impaurito dal fisco (qualche ragione ce l’ha), impaurito dagli immigrati, impaurito dai gay, impaurito dallo Stato, ostile all’euro, ostile all’Europa.
Alle elezioni amministrative il Pdl è letteralmente crollato. Scomparso. Come i grillini. Molti elettori si sono astenuti, alcuni per indifferenza, altri come atto politico, per incidere sui partiti e scuoterli dal loro abbattimento. L’astensione in Italia in queste dimensioni è un fatto nuovo ma non chiudiamo gli occhi di fronte alla realtà: nella Russia di Putin vota circa il 90 per cento degli elettori, ma in Usa e nelle democrazie di Francia, Gran Bretagna e Germania votano dal 40 al 55 per cento degli aventi diritto.
Comunque, da noi è un fatto nuovo e auguriamoci che il Pd operi su se stesso come si conviene. Quanto a Berlusconi, sta pensando a una nuova Forza Italia, guidata ovviamente da lui, con Alfano
segretario e imprenditori famosi e facoltosi come quadri regionali. Gli piacerebbero Montezemolo, Marchini, Malagò, Marcegaglia e perfino Totti; insomma personalità di spicco dallo sport all’industria alle finanze. Purtroppo per lui, gli hanno tutti chiuso la porta in faccia.
Comunque finirà quella partita, un’altra ce n’è che preoccupa un po’ tutti: che cosa farà il Cavaliere quando, tra pochissimi giorni, si aprirà il Festiva delle sentenze a cominciare da quella attesa per il prossimo 19 della Corte costituzionale sul legittimo impedimento? Manderà per aria il governo? Chiederà le elezioni anticipate? Con le conseguenze che è facile immaginare?
Personalmente penso che non accadrà nulla di tutto questo. Ci sarà naturalmente un gran fracasso e il circuito mediatico — come è inevitabile — lo amplificherà. Santanchè sarà in primo piano ma, con maggior “aplomb” anche Alfano e Schifani. Ma altro non accadrà.
Elezioni adesso con un partito a pezzi? Impensabile. Scioglimento delle Camere? Dovrebbe scioglierle Napolitano. Pensate che lo faccia? Con un “Porcellum” ancora in piedi? E allora, che cos’altro può accadere?
Non accadrà nulla. Sentenze definitive ancora non ci sono e la più vicina è tra un anno, prescrizione permettendo. Pensiamo dunque a cose più serie: lavoro, investimenti, Europa, riforma del Senato, lotta all’evasione, riforma elettorale, magari provvisoria.
Buona domenica e buona fortuna.
Post scriputm.
Ho visto e ascoltato a “Otto e mezzo” Dario Fo che parlava di Grillo. Con tutto il rispetto: ma è mai possibile? Un attore con una degna storia di teatro alle spalle e anche di pensiero. È mai possibile? Ah, Narciso! Quanti guai combini nella vita delle persone.

La Repubblica 16.06.13