attualità, politica italiana

"Non serve un re all'Italia che cambia", di Eugenio Scalfari

Ci sono almeno tre questioni che hanno assunto in questi giorni grande attualità. Quella che più interessa i cittadini e le imprese riguarda il rilancio dei consumi e degli investimenti. Per ottenere in un tempo breve — diciamo entro un anno — questi risultati sono necessari i seguenti interventi: un’iniezione di liquidità di almeno 50 miliardi, un aumento consistente del credito bancario alle imprese, incentivi fiscali alle aziende che assumono lavoratori, diminuzione di almeno 5 punti di cuneo fiscale, potenziamento del contratto di apprendistato, nessun aumento della pressione fiscale. Il tutto nel rispetto degli impegni assunti con l’Europa.
Per ottenere risorse a copertura dei suddetti interventi è necessaria una politica fiscale decisamente progressiva nei confronti delle rendite, dei consumi voluttuari, dei patrimoni esorbitanti, dell’evasione e del riciclaggio organizzato dalla criminalità mafiosa.
Ma ci vuole contemporaneamente un’autorevole politica europea che imprima uno slancio dell’Unione e dell’Eurozona verso la crescita e l’equità.
Il cittadino italiano, come quello di qualunque altro Paese, non ha né il tempo né il modo di seguire questo complesso di obiettivi che costituiscono un ingranaggio intricato e delicato che dev’essere affrontato nei modi e nei tempi appropriati. Pensare che un governo che si sia posto questi obiettivi possa realizzarli in pochi mesi significa non aver capito niente.
La spinta al cambiamento dev’essere intensa e tenace ma gli effetti non possono che prodursi gradualmente realizzando opportune alleanze con altri Stati e altre istituzioni dell’Unione europea, a cominciare dalla Bce.
Berlusconi e il Pdl hanno dichiarato nei giorni scorsi che il governo Letta (del quale sono tra i sostenitori) deve «piegare la Merkel oppure uscire dall’euro». Posta la questione in questi termini, essa significa una cosa sola: il Pdl vuole l’uscita dell’Italia dall’euro. Grillo dice da tempo e ripete sistematicamente la medesima cosa. I populismi, anche se collocati in parti diverse dello schieramento politico, nella sostanza coincidono: cercano di reclutare consensi attraverso la demagogia.
L’Italia fuori dall’euro non avrebbe altra possibilità che trasformare la moneta nazionale, il risparmio, il valore dei patrimoni, i tassi di interesse, i profitti, l’occupazione, e insomma l’intera nostra vita materiale in un pascolo della speculazione mondiale, in una terra di nessuno dove i più forti dettano la legge.
Basterebbero queste considerazioni per togliere ogni credito ai populismi e agli intellettuali che li sostengono. Se ciò non avviene lo si deve al fatto che la storia dell’Italia è stata per secoli una storia di predatori, spesso provenienti da oltre frontiera ma coadiuvati dall’interno, “Franza o Spagna purché se magna”: tra gli altri guai ci fu anche quello che non si mangiava affatto o assai poco; mangiavano semmai i furbi che davano una mano o a Franza o a Spagna. Andate a rileggerla la storia del nostro Paese: è fatta da grandi eccellenze e da un popolo che non ha coscienza di esserlo. Quando la ebbe fu un popolo eroico, ma accadde purtroppo assai di rado, ridotto com’era ad una moltitudine di poveracci che lavoravano la terra per dodici ore al giorno per una minestra di fagioli o una fetta di polenta. E nel frattempo
credeva a chi gli prometteva la luna. Vogliamo tornare a questo?
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Ho scritto all’inizio che questi sono i temi che più interessano o dovrebbero interessare i cittadini. Ma ce ne sono altri due, strettamente connessi tra loro, che hanno natura politico-istituzionale. I cittadini di solito li trascurano, presi come sono dalla vita di tutti i giorni e dalle innumerevoli difficoltà che essa comporta. Se ne occupano le minoranze impegnate nella vita politica; questo non toglie tuttavia che quelle questioni non provochino conseguenze anche sulla nostra vita quotidiana sebbene non sia facile rendersene conto.
Sono infatti numerosi i pareri di chi le giudica questioni superflue di fronte alla drammaticità dei sacrifici reali. In realtà la differenza non è nella sostanza ma nella percezione: i sacrifici bruciano sulla pelle, i mutamenti istituzionali cambiano il metabolismo, sono mutamenti silenziosi e non percepibili se non a media distanza; quando infine si manifestano è troppo tardi per intervenire, la nascita e la crescita del nostro enorme debito pubblico che cominciò trent’anni fa ne sono una delle più clamorose conferme.
I due temi di cui ho accennato prima sono: i mutamenti costituzionali e i modi con cui farli da un lato, la legge elettorale dall’altro. Vediamo il primo.
Il governo ha nominato 35 saggi. Hanno un breve arco di giorni per discutere tra loro i vari problemi e redigere un parere consultivo da trasmettere alla Commissione di 40 membri che comprende deputati e senatori delle Commissioni per gli Affari costituzionali delle due Camere i quali, valendosi o non valendosi del parere dei 35 consulenti, proporranno le loro conclusioni al dibattito dell’aula. Il Parlamento formulerà il testo definitivo delle leggi di modifica costituzionale seguendo la procedura prevista dall’articolo 138 della Costituzione.
Non starò a ripetere il dettato del predetto articolo. Ricordo soltanto che esso prevede modifiche costituzionali che siano molto dettagliate, indicando i singoli articoli da modificare e perfino i commi che debbono essere letteralmente trascritti affinché risulti ben chiaro quali siano le previste modifiche. In prima votazione occorre una maggioranza del 75 per cento degli aventi diritto in due successive letture. Se quella maggioranza non viene raggiunta sarà sufficiente una maggioranza del 50 per cento più uno che deve però essere confermata da referendum popolare. La novità è che un referendum popolare sarà previsto anche qualora le modifiche passino con la maggioranza del 75 per cento.
Ci sono state molte critiche a questa impostazione, si è parlato di stravolgimento della Costituzione esistente. Francamente non vedo in che cosa consista lo stravolgimento: il 138 resta invariato, la sua procedura non è minimamente scavalcata.
Le modifiche costituzionali riguardano la fine del bicameralismo perfetto, che non esiste in nessun paese europeo; il taglio del numero dei parlamentari e dei senatori, l’abolizione delle Province. Sono mutamenti indispensabili e addirittura tardivi rispetto agli inconvenienti che hanno finora arrecato al normale svolgimento della vita pubblica.
C’è poi la questione principale, la forma di governo e l’eventuale introduzione del presidenzialismo o semipresidenzialismo. Quest’ultimo però è un tema che va ben oltre i casi previsti dall’articolo 138; investe infatti la struttura stessa della Costituzione e richiederebbe la elezione d’una vera e propria Assemblea Costituente. Questo sì sarebbe uno stravolgimento che aprirebbe la strada ad una probabile crisi dello Stato di diritto e del rapporto tra i vari poteri istituzionali.
Il tema del presidenzialismo e del semi-presidenzialismo è una sorta di passaggio verso forme para-monarchiche che sono esplicitamente escluse dalla vigente Costituzione e francamente non si sente il bisogno ma se ne avvertono semmai i possibili e gravi rischi.
Diverso è il tema della forma di governo. Un rafforzamento dell’Esecutivo, per esempio un’ipotesi di Cancellierato alla tedesca, può essere ritenuto utile sempre che a quel rafforzamento ne faccia riscontro uno analogo che riguardi i poteri di controllo del Parlamento. E qui viene il tema della riforma elettorale che dovrà abolire la legge vigente sostituendola con altri modelli che possono prevedere collegi a doppio turno o l’adozione di criteri proporzionali mitigati da norme in favore della governabilità.
I 35 consulenti hanno il compito di approfondire lo studio di questi complessi problemi; la Commissione parlamentare dei 40 servirà a dar forma a un disegno di legge con le varie modifiche previste; le Aule discuteranno e approveranno il testo definitivo. I tempi sono stati stabiliti da Enrico Letta in 18 mesi per queste riforme, senza le quali il governo si dimetterà. Se invece saranno realizzate continuerà fin quando la maggioranza che lo sostiene lo riterrà necessario per il risanamento dell’economia. Poi la stessa maggioranza si scioglierà e la sinistra democratica tornerà ad opporsi ad una destra democratica che ancora non c’è perché al suo posto c’è soltanto populismo contro il quale non si combatte certo una guerra civile ma un’opposizione dura e tenace.
Per quanto riguarda la sinistra democratica non si può certo dire che essa sia pronta ad adempiere ai compiti che gli spettano per definizione. Deve ancora risollevarsi dallo stato di confusione e di prostrazione in cui versa da tempo; deve risolvere la questione morale liberando le istituzioni dalle interferenze dei partiti; deve mettersi al servizio della società civile sempre che la società civile a sua volta dimostri di non essere succube della demagogia, del populismo e delle velleità utopiche. Classe dirigente e società civile non debbono mai dimenticare che l’Italia è una costola dell’Europa e
l’Europa è una costola del mondo globale.
Siamo in una fase di passaggio d’epoca, non stancatevi di ricordarlo. I passaggi d’epoca sono fasi emozionanti, avventurose, drammatiche ed entusiasmanti, una sorta di parto collettivo che non dimentica i progenitori ma costruisce il futuro.
I valori che presiedono a questa meravigliosa avventura sono la giustizia e la libertà ma non ci può essere l’una senza l’altra e tutte e due senza la fraternità. La bandiera dei tre colori rappresenta l’immagine valoriale di questo passaggio d’epoca. Nascono nuovi diritti, ciascuno dei quali porta con sé nuovi doveri. Spetta ai giovani realizzarli. I padri possono soltanto testimoniare; ai giovani spetta di agire con responsabilità e purezza di cuore.
Post scriptum.
Domani la Corte costituzionale tedesca darà inizio con pubbliche udienze ad un processo che ha come oggetto il trattato di Maastricht che secondo alcuni ricorsi presentati da vari soggetti e associazioni tra i quali spunta la Bundesbank, sarebbe stato violato da una politica “spendacciona” adottata da alcuni governi di paesi membri e perfino da alcune istituzioni europee tra cui la Banca centrale. Si tratta di un’iniziativa di cui, dal punto di vista europeo, è assai dubbia la costituzionalità e che può determinare – talora quei ricorsi fossero accolti – un drammatico conflitto di competenze tra la Corte tedesca e la Corte di giustizia europea di Strasburgo. Sarà quindi opportuno che la pubblica opinione e tutte le istituzioni europee seguano con estrema attenzione quanto accadrà nelle prossime settimane a Karlsruhe e preparino le eventuali contromosse da prendere. Ieri, parlando a Firenze alla festa della “Repubblica delle Idee” il presidente del Consiglio, Enrico Letta, si è soffermato su questa questione ipotizzando che cosa accadrebbe se la Costituzione degli Stati Uniti prevedesse ancora approvazioni riservate ai parlamenti degli Stati federati e alle rispettive Corti costituzionali. Per superare questo stato di cose ci volle a metà dell’Ottocento nientemeno che la guerra di secessione. In Europa di guerre per fortuna non si parla più perché ne abbiamo avute per almeno un millennio, ma la situazione è ancora quella di governi nazionali, Parlamenti nazionali e Corti di giustizia nazionali, senza un reale potere unificato. Questo è un tema di fondo sul quale Enrico Letta ha richiamato l’attenzione di tutti e che merita una scelta dei cittadini e delle forze politiche che li rappresentano.

La Repubblica 09.06.13