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"Libere di vivere", di Michela Marzano

La Convenzione di Istanbul pone per la prima volta la questione delle violenze di genere come un problema strutturale: non si tratta solo di punire i colpevoli e proteggere le vittime, ma anche di prevenire ogni forma di discriminazione, affinché l’uguaglianza tra gli uomini e le donne diventi reale. L’unica vera uguaglianza che non è l’identità e consiste nell’uguale rispetto di ogni persona. Nonostante le molteplici differenze che ci caratterizzano.
Tutti e tutte uguali anche se di sesso diverso, anche se di diverso orientamento sessuale. Ma per capire la complementarietà tra uguaglianza e diversità, occorre educare fin da piccoli i nostri figli al rispetto dell’alterità, insegnando loro la gestione dei conflitti senza ricorrere alla violenza che, per definizione, cancella e distrugge.
La violenza non può essere del tutto eliminata. La pulsione dell’aggressività fa parte della condizione umana e sarebbe illusorio pensare di debellarla del tutto. Come ogni pulsione però, come ci insegna la psicanalisi, anche l’aggressività deve essere contenuta, e per farlo occorre costruire attraverso l’educazione quelle che Freud chiama le dighe psichiche: pudore, disgusto e compassione. Insegnare cioè che l’altro è un nostro simile, che sente e soffre come ognuno di noi, e che è una persona che, in quanto tale, deve essere rispettata. “Persone” e non “cose”, dunque, dotate di “dignità” e non semplicemente di un “prezzo”, come direbbe Kant. Persone che meritano di autodeterminarsi e affermare i propri desideri, i propri bisogni e la propria libertà, senza che qualcun altro decida al posto loro, cerchi di controllarle, e le distrugga quando non si sottomettono.
Il problema strutturale che pongono le violenze di genere è antropologico: per cultura e per tradizione, alcuni uomini pensano di incarnare la “norma” e di poter essere “padroni”; in parte destabilizzati dall’autonomia femminile, non sopportano che questi “oggetti di possesso” possano diventare autonomi; in parte insicuri e incapaci di sapere “chi sono”, accusano le donne di mettere in discussione la propria superiorità. Un problema identitario quindi, da non sottovalutare, che si traduce in un problema relazionale. Ecco perché dietro la questione della prevenzione, c’è soprattutto la necessità di riscrivere la grammatica delle relazioni non solo tra gli uomini e le donne, ma anche tra gli uomini e gli uomini, le donne e le donne.
Le donne, oggi, chiedono solo di essere trattate come gli uomini, non perché siano identiche a loro, ma perché sono ugualmente degne di rispetto e di considerazione. La ratifica della Convenzione di Istanbul è solo il primo passo. Gli altri dovranno seguire per costruire una società in cui nessuna debba più pentirsi di essere nata donna, ma sia al contrario fiera di essere uguale e diversa dagli uomini. Libera di essere se stessa. Libera di vivere.

La Repubblica 29.05.13

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“No al femminicidio, nel nome di Fabiana”

La Camera approva all’unanimità la Convenzione di Istanbul. Boldrini: “Segnale importante”
Cinquecentoquarantacinque sì contro la violenza sulle donne. Nel giorno dell’addio a Fabiana, massacrata e uccisa a 16 anni dal fidanzato, i deputati della Camera, ricordandola in tutte le dichiarazioni di voto, hanno ratificato all’unanimità la convenzione del Consiglio d’Europa siglata a Istanbul nel 2011 «per la prevenzione e la lotta alla violenza nei confronti sulle donne e la violenza domestica». «Una ratifica doverosa che non lenisce il senso di angoscia pensando alla vita spezzata di Fabiana e di tutte le donne vittime di femminicidio », ha sottolineato da Corigliano la ministra alle Pari Opportunita Josefa Idem. «Un segnale importante arrivato nel giorno dei funerali di Fabiana», ha detto Laura Boldrini, presidente della Camera.
La Convenzione è il primo strumento internazionale che crea un quadro giuridico completo per proteggere le donne contro ogni violenza. Un provvedimento che ora dovrà passare al vaglio del Senato e che per essere vincolante dovrà essere ratificato
da almeno dieci Stati: l’Italia è il quinto, dopo Montenegro, Albania, Turchia e Portogallo. Senza contare che, per diventare effettivo, dovrà essere finanziato dal governo altrimenti resteranno solo parole, come hanno ricordato diversi deputati bipartisan parlando dei centri antiviolenza chiusi per mancanza di fondi.
Composta di 81 articoli la Convenzione considera la violenza sulle donne — da quella psicologica a quella fisica ed economica: dallo stalking all’infibulazione — alla stregua di una violazione dei diritti umani. Tra gli obiettivi quello di predisporre «un quadro globale di politiche e misure di protezione e di assistenza delle vittime e di promuovere la cooperazione internazionale. I Paesi
che sottoscrivono la Convenzione dovranno promuovere e tutelare il diritto di tutti a essere liberi dalla violenza, nella vita pubblica e privata. Condannano ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne e adottano misure legislative per prevenirla. Prevedendo sanzioni, abrogando leggi e pratiche che discriminano le donne. Oltre a varare misure legislative destinate a «prevenire, indagare, punire i responsabili e risarcire le vittime di atti di violenza».

La Repubblica 29.05.13

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“Le lacrime e la rabbia di Corigliano telefonata tra mamme: perché l’ha uccisa?”, di
CONCHITA SANNINO

Migliaia al funerale. Il preside: “Quel ragazzo ha l’inferno dentro”. Tanti applaudono, lei no. Alza la voce. «Basta. Dobbiamo cominciare anche noi, dobbiamo denunciare. Non abbiate paura. Dobbiamo chiedere giustizia!». Un grido dal silenzio nella folla di Corigliano, mezz’ora prima dei funerali e dei tanti applausi che seguiranno. È la voce di un’anziana, una calabrese vestita di nero rompe la liturgia adolescenziale dell’addio, e forse restituisce l’unico possibile pegno a questa bara bianca che se ne va verso un cimitero della Piana di Sibari, quel che resta di Fabiana Luzzi, ragazzina di 15 anni picchiata, pugnalata, poi bruciata viva dallo studente-carnefice a cui si sentiva legata. È quel Davide, ex nuotatore, ex arbitro, ex ragazzo con 8 e 9 in pagella all’Istituto per Geometri, che ormai, dopo l’udienza di convalida dinanzi al gup, da ieri entra nel carcere minorile di Catanzaro con l’accusa di omicidio volontario aggravato.
«Io non sono riuscita a diventare madre, ma non ce la faccio a pensare che dobbiamo subire», spiega l’anziana donna senza nome, che spinge le altre a denunciare le violenze. Il suo appello scuote per un attimo la ministra per le Pari Opportunità Josefa Idem, che in quell’attimo scende dall’auto e, letteralmente in punta di piedi, entra in casa di Fabiana, stringe i genitori, si apparta con loro, portando il «cordoglio mio personale e di tutto il governo». Troverà due genitori, Rosa e Mario, «molto composti, sereni nonostante la grande prova», e tre sorelle giovani e belle, oggi sfigurate dallo shock, che riservano anche al ministro una rispettosa accoglienza. Solo poche ore prima, però, da questa casa parte la telefonata dettata dall’impotenza, e accende il clima già cupo nella casa di Davide l’assassino. Accade in pochi secondi, Rosa getta lo sguardo sull’ennesimo tg che ripropone il sangue della sua Fabiana nel luogo
dell’assassinio: si scaglia sul telefono, chiama quell’altra madre, ma solo per imprecare, piangendo. «Ma hai visto che ha fatto? Hai visto che cosa ha combinato? Perché ha deciso che mia figlia doveva stare in una bara?». Un volto che si ricompone di nuovo per i funerali. Il dolore di massa si scioglie al Palazzetto dello Sport, gremito di oltre 5mila persone. Con il corredo iconografico del lutto dell’innocente: palloncini bianchi, gigantografie di Fabiana, t-shirt con il suo sorriso o con la posa di danzatrice, colombe che volano. Ma basterà a evitare altre bare in fila?
Tra i volti gonfi di pianto, tanti ragazzi emigrati che protestano per la fine di Fabiana, ma anche per chi, dopo questa croce, vuole «ridurre l’allarme delle violenze sulle donne a un fatto calabrese». Tanti citano la lettera di una manager di una multinazionale nata da queste parti che, pur con solidale dolore, aveva raccontato il sentimento di chi fugge da Corigliano. «Noi invece moriamo dalla voglia di tornare — dice Paolo — qui c’è gente che si fa un cuore così e si costruisce un futuro degno, femmine e maschi». Ma c’è uno sguardo di padre che, tra la folla, scuote la testa sugli applausi. È il preside della scuola frequentata dall’assassino, è Michele Grande, un docente (e avvocato) dalle spalle robuste. Che non ha paura a dire cose scomode, mentre volano le colombe. «Quel Davide aveva l’inferno, dentro: questa è la verità, scrivetela. Sarà anche diventato un mostro, ma aveva una situazione familiare di sofferenza, un rapporto molto duro e conflittuale in quella casa, su cui non mi permetto di intervenire. Ma era solo con i suoi fantasmi. E anche lui, benché vivo, è sepolto. Eppure di segnali ne aveva dati e noi avevamo provato a comunicarlo ai genitori, in tutti i modi, anche sospendendolo ». E aggiunge una circostanza che mette i brividi: «Alcuni ragazzi della scuola hanno riferito che, venerdì, dopo la scomparsa, erano andati da Davide. Gli avrebbero sentito dire che aveva fatto alla sua ragazza cose che alcuni padri non sanno fare con le loro mogli ». Dolore, domande. Eppure ci sono altre morti che non vengono neppure viste. A Rossano, dieci chilometri dal cordoglio di massa di Corigliano, un altro corpo di donna è stato trucidato da un amante-carnefice. Lei si chiamava Florentina Boaru, aveva solo 18 anni, accoltellata da un giovane calabrese (sposato e con figli), anche lei dopo una lite: ma era romena, e viveva sulla strada. E per lei non c’è stata né commozione, né palloncini. Solo un’altra croce in fondo alla lista.

La Repubblica 29.05.13

"Cinque messaggi per l’Italia", di Pietro Spataro

Nelle urne è accaduto il contrario di quello previsto. Con un tratto di matita gli elettori hanno smentito le certezze degli analisti e i numeri dei sondaggisti: e infatti il Pd non è sparito, Berlusconi non ha in mano le chiavi del Paese e Grillo non è il deus ex machina del nuovo che avanza. Le cose, come sempre, sono più complesse e i segnali del voto ci dicono, in modo certo confuso, che il Paese non è un malato terminale: la spinta al cambiamento resiste e il bipolarismo destra-sinistra resta il cuore del sistema politico.

Semplificando, sono cinque i messaggi in bottiglia spediti a Roma dalle città d’Italia. Il primo riguarda il Pd. Nonostante ce l’abbia messa tutta per farsi del male, dimostra non solo di esistere ma di avere una forza molto radicata. Anzi, soprattutto nella periferia del Paese il suo profilo è più chiaro e la sua natura riformista più solida. Non a caso riconquista Comuni che già governava come Pisa, Imola e Vicenza, è in vantaggio in tutti i ballottaggi, ottiene un grande successo a Roma con Marino, contende al Pdl la roccaforte di Brescia e alla Lega addirittura quella dello «sceriffo di Treviso» Gentilini. Insomma, il Pd resta un partito vivo e combattivo quando si assume la responsabilità, quando è vicino ai cittadini, quando trova le soluzioni invece che perdersi nel gioco di interdizione tra i leader. È ovvio che governare un partito grande e con sensibilità diverse è più difficile man mano che ci si avvicina al centro dove inevitabilmente si concentrano i nodi, ma è anche vero che il voto chiede al Pd proprio questo: di smettere i panni dell’«armata brancaleone» e di ritrovare nella sua comunità le ragioni di una missione politica, dello stare insieme e del cambiamento radicale del Paese. Sono segnali forti, che non sminuiscono la crisi del Pd, ma che offrono una possibile via per ricominciare.
Il secondo messaggio è per il Pdl e per Berlusconi che escono ammaccati dal voto. Chi ci ha spiegato che il Cavaliere, grazie all’«arrendevolezza del Pd», era tornato al centro della scena deve prendere atto che non è così. Un partito che nei sondaggi veleggia oltre il 30%, nelle urne reali è ridotto sotto il 20 e non riesce a tenere nelle zone di riferimento (basti citare Brescia e Imperia). vero che il «padronaggio» di Berlusconi in periferia funziona meno e gli elettori non si fidano dei berluschini, ma questo voto conferma la crisi di un sistema monocratico che domina il Pdl dalla sua nascita. Se per anni quel sistema è stato forza propulsiva oggi è solo debolezza frenante. È difficile per un partito marchiato dalla leadership di Berlusconi accettare questa diagnosi. Però nel Pdl ci sono persone le quali su ciò riflettono da tempo e sanno che o si riesce a costruire una nuova cultura politica e un partito che guarda all’Europa piuttosto che alle aule di Tribunale, oppure il Pdl è destinato a seguire la parabola (non più ascendente) del suo leader. Che non riguarda le sue vicende giudiziarie ma la sua incapacità di ritrovare un’idea di Paese, un disegno che leghi ogni pezzo d’Italia e i suoi blocchi sociali alternativo alla sinistra.
Il caso Grillo è forse il più sorprendente. Il nuovo uomo della provvidenza, l’eroe dello tsunami e del vaffa-day, quello che voleva prendere a calci i politici e rivoltare il Paese come un calzino, si è giocato in novanta giorni gran parte del consenso. Manca tutti i ballottaggi e subisce un tracollo micidiale: dal 24,6% delle politiche all’8,4 di oggi. Hai voglia ora a urlare contro l’«Italia peggiore» che non ha votato il M5S. Si tratta di fumogeni. Il problema è che Grillo ha portato le sue truppe al fallimento. Ha mancato tutti gli appuntamenti del cambiamento, a cominciare da quello sul governo. Non ha capito che quei nove milioni che lo hanno votato a febbraio non pensavano di affidarsi a un «giocoliere del no»: volevano cambiare. Ma lui li ha costretti a subire inutili dibattiti sulla diaria dei parlamentari o sulla facoltà di fare interviste. Ma loro, gli elettori, volevano altre risposte. Non le hanno avute e si sono girati dall’altra parte come è già successo con altri in Europa, dai Pirati tedeschi all’Alba Dorata greca. Il problema dei Cinque stelle, ora, è capire finalmente questo. Ma chi ci prova deve sapere che lungo questa strada il conflitto con il grande leader diventerà sempre più insanabile. Sull’astensione è stato detto molto. Michele Ciliberto ieri su questo giornale ha spiegato quali sono i pericoli per la democrazia se l’area del non voto resta così ampia. Quel 38% di elettori che è rimasto a casa è un’ipoteca sul funzionamento del sistema politico, è il segno drammatico di un’asfissia. Il Pd dovrebbe interrogarsi su quanto sia vasta la zona potenzialmente di sinistra di quella platea silente. L’impressione è che non sia piccola. Stanchi, arrabbiati o delusi, molti di quegli italiani potrebbero essere recuperati alla buona politica, solo se il Pd riuscisse a non chiudersi, ma si aprisse di più, fosse più accogliente, ascoltasse con attenzione anche la protesta e l’indignazione. Non è facile, ma passa anche da questo lavoro di riconquista degli scoraggiati la possibilità di ripresa del centrosinistra.
Il quinto messaggio del voto è anch’esso il contrario di quel che si è letto. Qualcuno ha spiegato che gli elettori hanno premiato la «grande coalizione» e il governo Pd-Pdl. È una lettura abbastanza stravagante perché gli elettori al contrario hanno capito, premiando ilPdmanonilPdl,chenoncisono né governissimi né grandi coalizioni in campo, ma solo una scelta di responsabilità nazionale dettata dall’emergenza. Se fosse vero il contrario il Pd sarebbe stato punito perché gli elettori di centrosinistra il governo con Berlusconi in quella versione «strategica» non lo accetterebbero mai. D’altra parte il voto amministrativo è stata la prova della vitalità del bipolarismo e della competizione destra-sinistra. Quindi semmai gli elettori hanno premiato il sano conflitto democratico. Non sappiamo se questo voto rafforzi o meno il governo. Sicuramente, visto il risultato del Pd, rende più forte Letta e gli offre una marcia in più per spingere la «stranissima maggioranza» a occuparsi in modo energico e nei tempi fissati dei due temi che stanno a cuore al Paese: il lavoro e la riforma della politica. Poi, sinistra e destra, come si usa in qualsiasi democrazia e come gli elettori nelle città hanno dimostrato di gradire, dovranno tornare a sfidarsi a duello.

L’Unità 29.05.13

"Voglio la verità sulle stragi impunite", di Pietro Grasso

Caro direttore, nella storia della nostra democrazia è maggio il più crudele dei mesi. Il primo giorno, oltre che per la Festa del lavoro, è ricordato per la prima strage del secondo dopoguerra, quella di Portella della Ginestra, nel 1947. Il 3 maggio del 1982 a Reggio Calabria la ‘ndrangheta fa saltare in aria Gennaro Musella. Il 4 maggio del 1980 viene assassinato il capitano Emanuele Basile. Il giorno dopo, ma nel 1960, il giornalista Cosimo Cristina. Il 9 maggio 1978 vengono ritrovati, a centinaia di chilometri di distanza e uccisi per mano diversa, i corpi di Aldo Moro e di Peppino Impastato. Il 17 maggio 1972 viene ucciso Luigi Calabresi; il 20 maggio 1999 Massimo D’Antona. Tutti gli italiani nati prima del 1980 si ricordano i dettagli di dove erano, e con chi, e a far cosa, quando hanno avuto la notizia della Strage di Capaci del 23 maggio 1992. Il 27 maggio 1993 la mafia ha colpito Firenze, i suoi cittadini e i suoi tesori artistici; il 28 maggio 1974 una manifestazione in Piazza della Loggia a Brescia è stata sconvolta dallo scoppio di una bomba. Lo stesso giorno, nel 1980, viene assassinato Walter Tobagi. Un lungo elenco, probabilmente incompleto, sicuramente doloroso.
All’elenco dei morti e dei feriti andrebbero aggiunti anche tutti coloro che sono vittime morali degli omicidi e delle stragi mafiose e terroristiche. Mi riferisco ai familiari, alle mogli, ai figli, agli amici, privati violentemente dei loro affetti e del futuro che avevano immaginato e che non hanno potuto vivere. Vittime sono anche le città ferite, le comunità frustrate e spaventate che da decenni invocano una giustizia che spesso non è riuscita a fornire risposte certe e a dare condanne esemplari.
Il tempo passa, e noi abbiamo, tutti insieme, il dovere di far conoscere anche a coloro che a distanza di tanti anni sentono quello che è successo, e quello che è costato, troppo lontano, come una pagina di storia e non una realtà viva e ancora dolente; abbiamo il dovere di dire, di ripetere, di trasmettere la comprensione del dolore, la consapevolezza del morire dentro con l’obbligo di conservare forza per ricostruire. Non dobbiamo dimenticare. In questo sforzo attori instancabili sono proprio i familiari e le associazioni che li riuniscono, che con amore raccontano le storie di vita e di sacrificio proprie e dei loro cari perché si trasformino in memoria collettiva e lezione di vita, nonostante sia un compito difficile, penoso, duro. Il loro sforzo è fondamentale e diventa patrimonio comune.
Il ricordo collettivo ha infatti un valore importante. La memoria condivisa ricostruisce l’identità di ciascuno di noi. La comprensione del passato ci permette di capire chi siamo, che cosa vogliamo, ci consente di dare uno spessore diverso alla nostra esistenza. Ci consente di pesare il valore dei giorni di ieri, di valutarne gli intrecci con la nostra storia personale, nella consapevolezza che ciò che è andato perduto ci ha reso più forti. Più vigili. Più determinati. È necessario per i nostri giovani, perché siano forti in loro lo spirito di unità, il senso dello Stato e la consapevolezza che uniti si vince sempre.
Molto si è lavorato sulla genesi e sulla natura dei fenomeni di stragismo e terrorismo politico, su come siano nati, quali siano state le radici, le ideologie e le strategie di supporto. Ma bisogna andare avanti, illuminare tutti i punti oscuri, non smettere di cercare la verità: giudiziaria se ancora possibile, o storica. Dobbiamo avere il coraggio di guardare al nostro passato senza paura e senza omissioni, perché un Paese che nasconde e teme la propria storia è un Paese senza futuro. Solo la verità può permettere di fare luce sulle nostre pagine buie e di rendere, così, giustizia ai morti e ai sopravvissuti.
L’impegno per la ricerca della verità, che ha sempre animato la mia attività di magistrato, non è cambiato. Nella mia nuova veste di presidente del Senato provo un senso di responsabilità forse ancora maggiore nell’affrontare le sfide che la lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo pone quotidianamente. In questa nuova funzione ho più volte detto che sarebbe opportuno allargare i compiti della commissione d’inchiesta antimafia anche alle stragi e al terrorismo per comprendere esattamente le convergenze tra organizzazioni di stampo mafioso e eversivo. Se le forze del male si compattano lo Stato deve poter rispondere con altrettanta compattezza e forza per capire il passato recente e scongiurare ogni rischio di riproduzione di quei fenomeni che tanto sono costati agli italiani. Anzi, è necessario rafforzare la democrazia e promuovere la cultura della legalità in ogni ambito. Mai come oggi il nostro Paese ci chiede di agire. Bisogna intervenire al più presto, sul piano dello sviluppo, dell’economia legale, della lotta politica, dell’impegno quotidiano. La cultura della legalità deve essere il fulcro di un progetto di cambiamento della società. Deve diventare il motore di una politica di rinnovamento, con forze politiche che ridefiniscano la loro identità in questa direzione e una società civile capace di darsi un progetto e una reale autonomia.
In questi giorni di maggio ho partecipato con grande commozione alle cerimonie di commemorazione tenute a Portella della Ginestra, a Reggio Calabria, al Senato il 9 maggio scorso per la giornata in memoria delle vittime del terrorismo, così fortemente voluta dal presidente della Repubblica, sotto la casa di Massimo D’Antona, a Palermo con le navi della legalità e nell’Aula bunker del maxiprocesso, a Firenze e Brescia. Sono giorni che giro l’Italia parlando di questo, confrontandomi con le persone che erano presenti in quei momenti, con i sopravvissuti e con i familiari, ma soprattutto con i giovani studenti delle scuole di tutta Italia che, grazie al lavoro di centinaia di insegnanti appassionati, hanno dubbi, domande, voglia di capire.
Posso dire che parto ogni volta pensando di offrire io parole di coraggio e speranza mentre sono io a riceverne. Il dolore che il nostro Paese ha subito è stato trasformato in impegno civile e in una costante voglia di ricordare e di cercare verità e giustizia, in nome dei tanti martiri civili della nostra storia. È un’aspettativa che non dobbiamo deludere, è un impegno che le istituzioni debbono portare
avanti, a qualunque costo.

L’autore è presidente del Senato

La Repubblica 29.05.13

"Il riscatto dei partiti", di Ilvo Diamanti

L’esito di queste consultazioni, per quanto ancora provvisorio, è dettato da motivi prevalentemente locali. Dovrebbe, dunque, rammentare ai soggetti politici “nazionali” l’importanza del “territorio”. Che tende, invece, ad essere rimosso. In questa occasione, infatti, hanno vinto, anzitutto, i “partiti” che dispongono di candidati credibili. Di personale, volontari e militanti attivi. Ma anche di tradizioni e valori sedimentati. Sul territorio. Così si spiega, anzitutto, l’affermazione del Pd e del Centrosinistra. Che si sono affermati in 5 comuni capoluogo su 16. E andranno al ballottaggio in altri 10. In posizione di vantaggio anche in alcune città dov’era al governo il Centrodestra. Come Treviso, Imperia, Iglesias, Brescia, Viterbo. E, anzitutto, Roma. Il Centrosinistra si è presentato, in prevalenza, unito. Il Pd, cioè, si è alleato con i partiti di Sinistra. Talora, anche con quelli di Centro. Nel Centrodestra, parallelamente, il Pdl si è alleato con la Lega, nel Nord, e con altre formazioni di Destra. Mentre il M5S si è presentato da solo. Dovunque.
Il rapporto con il territorio, peraltro, ha ridimensionato le novità emerse alle elezioni politiche di febbraio. Ciò appare chiaro se facciamo riferimento alla “simulazione” pubblicata lunedì. Dove l’esito delle consultazioni amministrative era stato elaborato (dal Laboratorio elettorale LaPolis-Università di Urbino) “come se” si votasse allo stesso modo che alle politiche. La differenza rispetto ai risultati “reali” appare evidente. In particolare, si osserva un ritorno del bipolarismo, che ha caratterizzato la Seconda Repubblica, fino alle recenti elezioni politiche. Riflette il dominio, in queste consultazioni, dei due partiti maggiori e delle coalizioni raccolte intorno a loro. E il contemporaneo arretramento del M5S. Nelle sfide per i sindaci, infatti, il M5S è andato al ballottaggio solo in 3 comuni oltre 15mila abitanti. Mentre, se il voto avesse riprodotto quello dello scorso febbraio, oggi sarebbe in corsa in 53. Quasi dovunque, invece, la sfida si giocherà fra Pd e Pdl. Centrosinistra e Centrodestra. Che si affronteranno direttamente, con i loro candidati sindaci, in gran parte dei 66 comuni (maggiori). Nel complesso, nei Comuni maggiori, il Pd e il Centrosinistra hanno, dunque, ottenuto, sin qui, un esito positivo – e imprevisto. Hanno, infatti, eletto 15 sindaci. Il Pdl e il Centrodestra 5 (1 la Lega da sola). Il M5S nessuno. In termini percentuali, il Pd e gli alleati, rispetto alle politiche sono cresciuti di quasi 8 punti, il Pdl e il Centrodestra di circa 5. Il M5S, invece, ne ha perduti quasi 17. Cioè: i due terzi. (Peraltro, in valori assoluti, tutti i partiti hanno subito un arretramento più o meno sensibile – visto il calo della partecipazione elettorale.) Da ciò un “rischio interpretativo”:
trattare come equivalenti le elezioni politiche e quelle amministrative. Considerare, dunque, il voto locale come “conseguenza” di quel che è avvenuto e avviene a livello nazionale. Interpretare, quindi, il successo del Pd sul Pdl come il differente effetto delle “larghe alleanze” sugli orientamenti degli elettori. E leggere nel risultato amministrativo del M5S la sanzione alle strategie del (non) partito di Grillo in Parlamento. Al suo rifiuto di ogni alleanza. In particolare: con il Centrosinistra.
D’altronde, il dibattito dentro e intorno ai partiti – nazionali – segue questo schema. Così, nel Pd si festeggia, mentre nel Pdl emergono dubbi e perplessità. Nella Lega si tace. E nel M5S Beppe Grillo se la prende con gli elettori. Ingrati. Che “scegliendo Pd e Pdl hanno imboccato una via senza ritorno”.
Ma le scelte di voto alle ammini-strative
e alle elezioni politiche non hanno lo stesso segno. Non sono coerenti, né, tanto meno, conseguenti. Semmai, andrebbero lette in modo inverso. Dal basso verso l’alto. Per sottolineare l’importanza dell’organizzazione politica sul territorio.
Il buon risultato del Pd e del Centrosinistra, dunque, dipende dalla loro capacità di mobilitazione sociale, già verificata alle primarie – recenti e passate. Dipende, inoltre, dai candidati sindaci e consiglieri presentati in lista. E dal senso di identità degli elettori, sedimentato nel tempo, riprodotto dalle reti comunitarie e associative. Dipende, cioè, dalla presenza del partito. In ambito territoriale. Dove il Pd c’è ancora. Per quanto indebolito, resiste. Il Pdl molto meno. La sua identità “dipende” da Silvio Berlusconi. E quindi funziona alle elezioni nazionali. Molto meno in ambito locale. Come il M5S, che si riflette nella figura di Beppe Grillo. E, per la comunicazione, si affida alla Rete. Mentre in ambito locale non dispone ancora di persone, militanti, attivisti conosciuti e affidabili. Nel Centrodestra, invece, i soggetti più radicati e organizzati, sul territorio, si sono indeboliti. La Lega nel Nord: dis-integrata. An nel Sud: liquefatta nel Pdl. Così, le elezioni amministrative dimostrano e anzi confermano che i “partiti”, come canali di partecipazione e di formazione della classe dirigente, radicati a livello sociale e territoriale: servono.
E anche per questo il Centrosinistra governa in tutte le principali città italiane. Ad eccezione di Roma. Fino ad oggi, almeno.
Per questo, occorre cautela nel generalizzare il significato del voto amministrativo. Dare il M5S per “affondato”. Il Pdl in difficoltà. E il Pd rilanciato. Come ai tempi delle mitiche primarie. (Guai, soprattutto, se a crederci fosse il gruppo dirigente centrale.) Tuttavia, questa consultazione avrà, sicuramente, effetti politici nazionali. Contrastanti, però. Rassicurerà la maggioranza di governo. Per ora. Ma nelle prossime due settimane le cose potrebbero cambiare. Sensibilmente. Perché il M5S, presumibilmente, reagirà al clima di “sconfitta” che rischia di avvolgerlo. Perché ai ballottaggi si scontreranno Pd e Pdl. Quasi ovunque. E anzitutto a Roma. I principali alleati di governo. Uno contro l’altro. Alla conquista della capitale e di molte altre importanti città.
Così il significato del voto locale rischia di venire “nazionalizzato”. Ricacciando, definitivamente, il “territorio” alla periferia. Di Roma.

La Repubblica 29.05.13

Ratificata Convenzione Istanbul. Dichiarazione di voto di Federica Mogherini del Pd alla Camera dei Deputati

Signor Presidente, oggi per il gruppo del PD non si tratta soltanto di dare un voto favorevole e molto convinto alla legge di ratifica della Convenzione di Istanbul, per prevenire e contrastare la violenza domestica sulle donne: si tratta di vedere realizzato un obiettivo, direi quasi un sogno, se non suonasse stonato rispetto agli episodi di cronaca che abbiamo di fronte agli occhi. Un obiettivo a cui abbiamo lavorato tanto in questi anni e in questi ultimi mesi, con tenacia: certe volte con la tenacia della goccia d’acqua che scava la pietra, e con enorme convinzione. L’abbiamo fatto in Aula, l’abbiamo fatto al Consiglio d’Europa, come ricordava la collega Bergamini; l’abbiamo fatto nelle nostre città, nel Paese, insieme a tantissime associazioni, ai movimenti, ai centri antiviolenza.
  Abbiamo lavorato la scorsa legislatura perché il Governo firmasse la ratifica, innanzi tutto. Poi abbiamo presentato il disegno di legge di ratifica, che oggi votiamo il primo giorno di insediamento di questa Camera, come atto simbolico e come volontà politica. Abbiamo fortemente voluto insieme a lei che questa fosse la prima legge che questo Parlamento approva, e credo che questo lo dobbiamo oggi rivendicare con un grande orgoglio ed una grandissima forza in quest’Aula (Applausi). Abbiamo messo tutto il nostro impegno, quello meno visibile ma più faticoso, tutto il nostro lavoro nelle Commissioni per approvare questo risultato in tempi rapidissimi: è passata solo una settimana da quando abbiamo incardinato il provvedimento, e con un voto che credo e spero potrà essere in Aula, così come è stato nelle Commissioni, unanime.
  Lo dobbiamo a Fabiana, 16 anni, bruciata viva a Corigliano Calabro dal suo ragazzo. Ma lo dobbiamo anche ad Angelica, 35 anni, uccisa a coltellate in provincia di Lodi dal suo ex; lo dobbiamo a Silvana, 49 anni, dipendente del comune di Padova, uccisa a colpi di pistola dal marito, agente di polizia. Lo dobbiamo a Micaela, 35 anni, uccisa a colpi di accetta dall’ex marito insieme a Enrica a Palermo; a Chiara, 28 anni, uccisa a Roma dal marito, che poi si è suicidato. Sono sei vittime, e sono solo nell’ultimo mese, tutte morte nel mese di maggio. Sono vittime di età diverse, sono vittime di diversissime condizioni economiche e sociali, alcune anche di diversa nazionalità; sono vittime nel nord e nel sud del Paese, nelle grandi città e nei piccoli centri.
Non è un’emergenza – come titolano i giornali – non è come il caldo, il mal tempo o l’esodo di agosto. No: è un dramma che investe il nostro Paese tutto intero, dalla Val d’Aosta alla Sicilia, e lo fa in modo sistematico, strutturale e profondo ed è per questo che richiede misure strutturali, coordinate e profonde per essere fermato. Ce lo dice il fatto che le donne uccise – tante e troppe, e se anche fosse solo una, sarebbe già troppo – queste donne sono solo la punta affilata e dolorosa di un iceberg immenso, immenso, che noi non vediamo neanche, a volte. Per ogni Fabiana bruciata viva, ci sono decine di Fabiana, di Elena, di Maria, di Laura, di Giulia, che vivono e che denunciano percosse, violenze fisiche, stupri, molestie sessuali e persecuzioni. E per ognuna di loro ci sono centinaia di donne che vivono la violenza senza denunciarla perché non trovano la forza, non trovano la fiducia in se stesse e nelle istituzioni, che consenta loro di svelare un dramma, di svelare il dolore, di svelare la perdita di senso della propria vita e delle proprie relazioni affettive e umane, quelle più private. Ecco, noi oggi, con questo voto, stiamo dicendo a quelle donne: «Trovate la fiducia. Noi siamo degni di riconquistare la vostra fiducia. Le istituzioni vi proteggeranno, vi accompagneranno, non vi lasceranno più sole». Ci prendiamo la nostra parte di responsabilità, che è questa responsabilità: fare in modo che non ci siano più condizioni in cui qualcuno possa dire – come è successo oggi, giustamente, forse – al funerale di Fabiana: «Né lo Stato, né i servizi sociali hanno funzionato». Questa è una frase che non dobbiamo mai più sentire. Questa è la nostra responsabilità (Applausi).
  Ma è un lavoro che abbiamo fatto – e che continueremo a fare – anche per tutte quelle donne che non conoscono fortunatamente, nell’arco della loro vita, né violenza fisica, né violenza sessuale e che però sanno benissimo – credo che ognuna di noi lo sappia – che la nostra vita è costellata di piccole e grandi violazioni psicologiche, ricatti e rinunce forzate. Ogni volta che una donna rinuncia a un lavoro per un figlio, o rinuncia a un figlio per il lavoro, quello che non c’è o l’unico che ha per mantenerlo, ogni volta che una donna percepisce uno stipendio più basso di un collega uomo, ecco, ogni donna che vive una situazione del genere, vive sulla propria pelle una forma di violenza, che forse non uccide, ma toglie la dignità e la felicità.
  E dobbiamo anche questo lavoro ai loro figli, ai nostri figli, che, troppo spesso, ci dimentichiamo quando parliamo di violenza domestica o di violenza sulle donne, che sono bambini costretti senza alternative ad assistere ad una violenza ed ad introiettare modelli relazionali malati, che li espongono ad essere, con più probabilità degli altri, vittime o carnefici di quella stessa violenza nella loro vita adulta.

  PRESIDENTE. Lasciatela parlare, per favore. Un po’ di silenzio !

  FEDERICA MOGHERINI. Ed infine, è un lavoro che abbiamo fatto e che continueremo a fare anche per gli uomini perché, ogni volta che un uomo compie violenza su una donna, è la sua dignità, è la sua umanità a morire ed è bene che gli uomini inizino a rendersene conto. È arrivato il momento di aiutare i nostri uomini: i nostri mariti, i nostri figli, i nostri fratelli e i nostri padri, aiutarli a riprendersi la propria dignità e a ricostruirla. Ci vuole coraggio, non è un passaggio banale: ci vuole il coraggio di noi donne di pretendere uomini così, ci vuole il coraggio di noi mamme e di noi papà di educare i nostri figli così e ci vuole anche il coraggio degli uomini di essere loro per primi a dire: «io non sono così, io non voglio essere così, io non sono tuo complice».
  Oggi, questo voto non è un passaggio formale e rituale, non è una vuota celebrazione – altri lo hanno detto – credo che dobbiamo mettere molta enfasi sul passaggio che stiamo facendo oggi. È un’assunzione di responsabilità, è l’assunzione di un impegno consapevole e concreto. Primo: con il voto di oggi, questa Convenzione non diventa legge per l’Italia, dobbiamo compiere il percorso legislativo e dobbiamo fare in modo che il processo al Senato sia tanto rapido e tanto positivo, come quello che c’è stato alla Camera. Secondo: dobbiamo prendere dopo misure concrete, quelle che ci indica la Convenzione di Istanbul: punire e reprimere efficacemente i colpevoli, proteggere ed assistere le vittime – le donne e i bambini – e questo significherà, soprattutto, un rafforzamento, un’estensione e un finanziamento della rete dei centri antiviolenza, che in Italia è ancora troppo debole e che fa un lavoro egregio sul territorio. E qui mi lasci dire una parola sul ruolo che i sindaci e i consigli comunali potranno svolgere su tutto il territorio italiano: i sindaci già in carica, quelli che sono stati eletti ieri e a cui diamo il nostro augurio di buon lavoro e a cui chiediamo un impegno concreto, e quelli che saranno eletti tra dieci giorni nei ballottaggi. A loro spetterà, soprattutto, rendere operative le decisioni che questa Camera e il Senato prenderanno nei prossimi giorni.
  E poi prevenire, prevenire, prevenire, perché qualsiasi altra misura arriva sempre quando è troppo tardi.
  La Convenzione di Istanbul ci dà poi due indicazioni importanti di metodo, che credo siano fondamentali anche per altri settori del nostro lavoro. In primo luogo, a problemi strutturali e complessi bisogna dare risposte, come ha detto la Ministra Idem ieri, organiche e sistematiche, non occasionali, non d’immagine, non degli spot. Non abbiamo bisogno di questo, abbiamo bisogno di continuare sulla continuità, sul lungo periodo, perché la catena di interventi che lo Stato mette in campo possa non avere nessun anello mancante, nessun salto logico, nessuna crepa in cui si possa insinuare una qualsiasi negazione del diritto delle donne di vivere in sicurezza e dignità. Soltanto garantendo che quella catena di interventi dello Stato, dalla scuola all’assistenza sociale, alle forze dell’ordine, alla magistratura, agli enti locali, al Parlamento, ai finanziamenti che daremo, soltanto garantendo che quella catena non si interrompa noi possiamo chiedere ai cittadini e alle cittadine del nostro Paese di avere davvero fiducia nelle istituzioni. Infine, monitoraggio, per valutare l’applicazione, l’efficacia, la coerenza delle decisioni che prenderemo.
  Noi sappiamo che oggi compiamo un primo importantissimo passo, un passo per fare entrare in vigore la Convenzione. È stato detto la ratifica da parte dell’Italia è cosa importantissima, importantissima. Siamo il primo grande Paese – non me ne vogliano gli altri –, il primo grandissimo Paese europeo che ratifica questa Convenzione e sarà un segnale per tutti gli altri. Infine, per dotarci di strumenti efficaci successivamente.

Il PD, il gruppo del PD alla Camera continuerà il suo impegno per l’attuazione delle norme che ci vorranno, per trovare i fondi che potranno rendere operative le misure, per chiedere agli altri Paesi, all’Unione europea, alla comunità internazionale, di fare altrettanto e di seguire questa stessa strada. Mi faccia dire un’ottima notizia, che soltanto poche ore fa a Bruxelles il Viceministro degli Affari esteri Pistelli è riuscito a fare inserire, tra gli impegni che l’Unione europea porterà in sede Nazioni Uniti per gli obiettivi di sviluppo del post 2015, la violenza sulle donne come una delle priorità della politica che le Nazioni unite dovranno seguire dal 2015 in poi (Applausi), impegno concreto che porta a risultati concreti.
  Qui, oggi noi ci assumiamo l’impegno di continuare il lavoro semplicemente con la stessa tenacia – concludo – che ci ha portato fin qui, con lo sguardo volto solo e unicamente a dare risposte concrete al Paese, senza polemiche, senza protagonismi, senza strumentalizzazioni, fare bene per noi e per gli italiani senza clamori ma soltanto con tanta serietà. È un cammino che dobbiamo e vogliamo fare insieme alle tante associazioni che ci hanno accompagnato in questi mesi e in questi anni ma, soprattutto, insieme ai tanti italiani, uomini e donne, che vogliono reagire, che vogliono ricordare a se stessi e insegnare ai loro figli il rispetto per sé e per chi ci sta intorno e anche restituire valore alla cosa più preziosa che abbiamo, che è la nostra vita, che non è un videogame, non è un film di Tarantino, è la cosa più preziosa che abbiamo, la nostra, quelle delle persone che amiamo, quella delle persone che ci vivono intorno e abbiamo il dovere di difenderla con tutti gli strumenti che abbiamo (Applausi).

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Ghizzoni, “Bene la presenza di Bray nelle zone del sisma”

“Il censimento dei beni danneggiati è fatto: ora occorre passare alla proposta politica”. La parlamentare modenese del Pd Manuela Ghizzoni, vicepresidente della commissione Cultura della Camera dei deputati, oggi a Roma per la ratifica della Convenzione di Istambul contro la violenza sulle donne, non ha potuto partecipare al convegno organizzato a Carpi sui beni culturali danneggiati a un anno dal sisma. “Spero che da questo incontro – ha dichiarato Manuela Ghizzoni – possano uscire indicazioni e strategie sul recupero che, noi politici, così come stiamo facendo in questo momento per le materie fiscali, potremo trasformare in emendamenti, in proposta politica insomma”. Ecco la dichiarazione di Manuela Ghizzoni:
«Il ministro per i Beni e le attività culturali Bray è a Carpi per partecipare al convegno organizzato per fare il punto sull’attività di recupero dei beni culturali danneggiati a un anno dal sisma. E’ importante che il ministro abbia programmato questa come una delle prime visite dall’avvio dell’attività del Governo Letta: così come la visita del premier di giovedì prossimo, anche questa tappa carpigiana di Bray testimonia a favore dell’attenzione che questo Esecutivo intende portare avanti rispetto alle zone colpite dal terremoto. I danni economici subiti dal nostro patrimonio artistico-monumentale sono stati calcolati in un miliardo e 300mila euro. Questi mesi sono serviti, soprattutto, per fare un censimento accurato dei beni danneggiati, stiamo parlando di circa 1.600 opere. Ora è il momento di mettere a punto un programma di medio-lungo periodo su come e quando si dovrà intervenire in concreto per riportare il nostro patrimonio storico-artistico-culturale a com’era prima del 20 maggio, anzi meglio di come era allora, se non altro, dal punto di vista delle norme di protezione e prevenzione del rischio sismico e delle calamità naturali. Noi politici, in questo momento, stiamo affrontando il tema della fiscalità legata al terremoto, in sede di conversione in legge del decreto 43. Dal convegno, ci auguriamo, escano indicazioni sulle strategie che devono essere adottate in tema di beni culturali: come intervenire, con quali risorse, con che tipo di programmazione. Il ministro Bray, già in Commissione, ha ribadito la necessità operare un’inversione di tendenza rispetto agli anni passati e tornare, quindi, ad investire nella manutenzione e nel restauro del patrimonio. Ha ragione, è indispensabile. Come parlamentari del Pd siamo pronti a confrontarci con tutti i soggetti coinvolti per arrivare a una proposta politica che sintetizzi le elaborazioni che arrivano dal territorio e le indicazioni dei tecnici. E mentre lavoriamo al recupero del patrimonio danneggiato dal sisma, ricordiamoci pure delle storture che abbiamo ereditato da anni di disinteresse verso i nostri beni storico-artistici. Il ministro Bray forse non lo crederà, ma, ad esempio, il campo di transito di Fossoli, con la sua storia e il suo alto valore simbolico, non è mai stato dichiarato “monumento di interesse nazionale”».