attualità, politica italiana

"La primavera dello scontento", di Massimo Giannini

In queste amministrative c’è la primavera del nostro scontento. Quando un elettore su due resta a casa e rinuncia al rito civile del voto, la crisi della democrazia rappresentativa è compiuta. Il dato che colpisce di più, in un test elettorale che interessava 7 milioni di italiani, è il trionfo del partito astensionista. Se alle politiche di febbraio lo tsunami grillino aveva spazzato via i «vecchi» partiti, stavolta la vera onda anomala è quella del non voto, che non è più protesta «creativa», cioè ricerca del candidato o della lista che rompono tutti gli schemi. È invece rinuncia preventiva, cioè scelta di chi non vuole più scegliere.
Perché lo considera inutile, e perché sente che la democrazia è ormai solo procedura di palazzo, e non più «cura» della polis. Se la democrazia rappresentativa non mi rappresenta perché non risolve i problemi della mia vita quotidiana, il mio voto non serve. Bisogna guardare innanzitutto dentro questo drammatico abisso che divide politica e società, per non caricare il voto di significati troppo «paradigmatici ». Ma al fondo dell’abisso, un bilancio parziale è comunque possibile. La clamorosa risacca che prosciuga ovunque il Movimento 5 Stelle lascia sul terreno l’esito più imprevedibile: un Pd che non molla e un Pdl che tracolla.

A dispetto dei sondaggi che a livello nazionale fotografano una ritirata del Partito democratico e un’avanzata del Popolo della Libertà, il voto delle città riflette l’esatto contrario. Il centrosinistra a Roma ipoteca il Campidoglio. Su 16 comuni capoluogo ne conquista 5 al primo turno, confermandosi in testa in altri 10. È un sorpasso in retromarcia, perché avviene nel clima di sfiducia e disincanto di cui abbiamo detto. Ma resta un risultato piuttosto sorprendente: dimostra che forse non tutto è perduto, e che il partito, con le sue strutture logore e con i suoi leader ammaccati, un barlume di radicamento sul territorio ancora ce l’ha. La soddisfazione di Epifani è dunque comprensibile. Tuttavia, anche qui conviene non farsi troppe illusioni.
Il vantaggio di Marino nella Capitale è ampio e difficile da colmare. Ma il ballottaggio è sempre un’altra partita, come può testimoniare Rutelli che la perse rovinosamente cinque anni fa. E l’ex chirurgo si afferma per ora grazie a una strana alchimia, difficilmente ripetibile su scala nazionale. Un misto di «oltrismo» e di «nuovismo»: non a caso il suo slogan era «Non è politica, è Roma». Una miscela di radicalità e di alterità rispetto allo stesso Pd: non a caso lui stesso non ha votato per il governo Letta e a questo primo turno lo ha sospinto soprattutto il voto di Sel. La formula Marino non è facilmente esportabile, in un partito che invece guarda ormai a Matteo Renzi, fautore e simbolo dello «sfondamento al centro», come il candidato premier predestinato. Dunque serve cautela. Per i prossimi quindici giorni e anche per i prossimi quindici mesi, quando si dovrà celebrare un congresso che si vuole, giustamente, fondativo di un nuovo centrosinistra, capace di ibridare in un’identità finalmente risolta quell’«amalgama mal riuscito» che è stato il Pd in questi anni.
Il centrodestra subisce una batosta pesante, e altrettanto inaspettata. A Roma paga l’impresentabilità di Alemanno, il peggior sindaco degli ultimi 50 anni, travolto dal nulla che ha rappresentato, sul piano amministrativo e su quello culturale. Non sono bastate le assunzioni clientelari di famigli ed ex picchiatori fascisti all’Atac e all’Ama. Hanno pesato le bugie propagandistiche sul calo delle tasse (tra Imu e addizionale Irpef Roma è la città dove se ne pagano di più) e gli scandali del suo sottobosco (in testa il suo braccio destro Mancini). Risultato: se il Pdl perde anche Roma, non amministra più nessuna grande città. Un trauma per la destra capitolina, ma anche per la leadership berlusconiana. Il Cavaliere si illude di tenere ancora assieme, sotto la sua sovranità carismatica, le ultime schegge impazzite dell’ex Msi e i residui avamposti prealpini della Lega. Questo voto amministrativo non lo premia, da nessun punto di vista. Il Popolo delle Libertà perde quasi ovunque al Nord, da Sondrio a Vicenza, da Treviso a Imperia. E il Carroccio scompare in Veneto, cioè nel cuore della prima epifania padana di trent’anni fa.
Resta da spiegare l’eclissi totale delle Cinque Stelle. Un non-partito che solo tre mesi fa ha sfondato le porte del Palazzo d’Inverno, sull’onda di una forza d’urto che giustamente non abbiamo solo definito «anti-politica», ma anche «altra-politica ». Ebbene, com’è accaduto in Grecia alla destra neo-fascista di Alba Dorata e alla sinistra estremista di Syriza, anche il Movimento di Grillo e Casaleggio ha subito l’enorme riflusso di chi l’aveva scelto per «dare un segnale», e ora è rimasto deluso. M5S non va al ballottaggio in nessun comune capoluogo, e nel complesso del voto amministrativo perde tra la metà e i due terzi dei consensi che aveva ottenuto nel voto politico. Piaccia o no al conducator genovese e al suo guru, è il segno che in questi tre mesi è mancata proprio quell’«altra politica» che gli elettori si aspettavano dal movimento. E invece è stato il vuoto, riempito solo dagli sfondoni di forma e di sostanza dei capigruppo e da un dibattito surreale e autoreferenziale sulle diarie e gli scontrini degli «onorevoli- cittadini».
Per una crudele legge del contrappasso, anche le 5 Stelle, appena entrate nel Palazzo e dunque cooptate dal Sistema, agli occhi dell’opinione pubblica sono diventate una banalissima e irrilevante «parte degli arredi». E’ la conferma di quello che l’ex comico non vuole accettare: non solo la sana dialettica interna, ma soprattutto il buon uso di un tesoretto elettorale che non serve a nulla se non viene speso e investito sul mercato politico. Se oltre centocinquanta deputati e senatori non producono politica, cioè proposte e leggi utili alla collettività, la «missione» palingenetica del grillismo perde totalmente di significato. Cade l’assioma sul quale si regge il futuro regno di Gaia: «uno vale uno». Non è più vero. Se il Movimento non cambia, e se non ricostruisce sul disastro in Friuli, in Val d’Aosta e ora nei comuni capoluogo, «uno vale zero». E dunque non vale neanche la
pena votarlo.
La domanda cruciale che tutti si fanno, adesso, è come questo risultato incida sul governo Letta. Se il voto di Roma, soprattutto, rafforzi o meno la Grande Coalizione. L’impressione – com’è già accaduto per l’Imu e per lo ius soli, per la riforma elettorale e per quella sul finanziamento pubblico, per la sentenza Mediaset e per il processo Ruby – è che anche questa contesa elettorale contribuirà a far fibrillare la stranissima maggioranza. La sensazione – come dimostra la percentuale stratosferica dell’astensionismo – è che in generale le Larghe Intese, per quanto necessarie o necessitate, non riscaldino i cuori della gente. Lo conferma un’evidenza, in questo momento davvero paradossale: mentre governano insieme a livello nazionale, saranno proprio il centrosinistra e il centrodestra a sfidarsi nei ballottaggi a livello locale. L’uno contro l’altro, e irriducibilmente diversi. Com’è giusto che sia, in una sana democrazia dell’alternanza.

La Repubblica 28.05.13