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"L’eredità contradditoria del governo Monti sulla scuola" di Dario Missaglia

Il governo Monti è da poco uscito di scena ed appare già lontanissimo. Le leggi non scritte della politica sono implacabili: nel giro di pochi mesi è possibile essere l’uomo della Provvidenza e, subito dopo, un solitario testimone di un’esperienza finita. Al netto degli evidenti errori politici personali, la fine del governo Monti segna anche il punto di crisi di una politica europea del rigore a senso unico che ora mostra tutti i suoi pesanti limiti.

In questo contesto, non è forse inutile riflettere sulle ultime due questioni rilevanti che il governo uscente lascia sul terreno della scuola: il concorso a cattedre, in pieno svolgimento, e l’emanazione del Regolamento sul S.N.V.

Tra le due questioni c’è qualche relazione non sempre resa cosi esplicita.

Sul SNV e sulla ostinazione della amministrazione uscente ad emanare ad ogni costo il provvedimento, molto è stato scritto con le più diverse argomentazioni..

Io credo che il Miur avrebbe potuto risparmiarsi una forzatura e aprire di più a un dibattito serrato sulla materia. Certo, l’argomentazione di una pressione dell’Europa non è infondata: lo stesso accesso ai fondi europei, per i prossimi anni,chiederà a tutti scelte e pratiche vincolanti in tema di valutazione.

Dunque con quel tema bisogna fare i conti. Non credo che una ostilità intransigente contro le prove Invalsi rappresenti il modo migliore per misurarsi con le sfide della valutazione. Quella protesta, al di là delle intenzioni, accarezza inevitabilmente un’istanza conservatrice ed alimenta una cultura corporativa che nega la valutazione come tema decisivo, sia per il lavoro nella scuola che per il sistema. Paradossalmente quella istanza contribuisce a dare alle prove Invalsi quella centralità che non hanno e non possono avere. Le scuole che già hanno maturato una buona cultura sulla valutazione, non drammatizzano l’esperienza Invalsi perché ne hanno già compreso la parzialità ed in tal senso la governano.

Sono le scuole in cui l’obiettivo non è essere primi in classifica, ma riuscire a sviluppare tra i docenti pratiche di cooperazione professionale per la realizzazione di esperienze innovative centrate sulla solidarietà, sul lavoro di gruppo, sulla relazione di aiuto tra gli studenti.

Dopo i disastri di questa cultura di mercato, che cosa aspetta la scuola a contestare apertamente l’individualismo, la competizione ad ogni costo, l’incitazione all’ansia di prestazione? E’ vero, la scuola da sola non può cancellare o superare le diseguaglianze sociali ma può almeno evitare di esaltarle, acuirle, ed aprire spazi di inclusione diversamente impensabili. Altro che prove Invalsi, questo è il cuore della sfida che la scuola ha oggi, in questo contesto sociale ed economico.

Come non smascherare questo velo della supposta meritocrazia per mettere a nudo le diseguaglianze sociali che si vogliono nascondere? Nello stesso tempo, quelle stesse scuole rivendicano il giusto riconoscimento di una attività che determina un aggravio rilevante di lavoro per alcuni gruppi di docenti e per le segreterie delle scuole e formulano anche proposte precise di modifica di alcuni quesiti. Queste rivendicazioni sono sacrosante e fa bene la Flcgil ha sostenerle con determinazione , nel quadro di un approccio propositivo complessivo sul tema della valutazione sostenuto anche dalle associazioni professionali e dagli studenti..

Ciò che invece io credo sia ancora davanti a noi è la costruzione di una elaborazione autonoma che sottragga il tema della valutazione all’egemonia della cultura neoliberista per farne uno strumento davvero di possibile miglioramento da parte delle scuole e, auspicabilmente, di rilettura del lavoro e dell’organizzazione del lavoro nella scuola. E’ tempo che un qualche riflettore si accenda su questo tema, come ad esempio sta accadendo in Francia in cui inizia a serpeggiare qualche fermo dissenso su una politica europea che con l’insistente ricorso all’ideologia della meritocrazia, presidio “culturale” della attuale politica per la valutazione, tende in realtà a coprire la crescita delle diseguaglianze sociali e si prepara ad una fase ancora di contenimento degli investimenti in istruzione, di cui la distribuzione “per merito” coprirebbe la modestia.

Io credo che anche lo scenario del nostro sistema di istruzione, riveli altrettanto limpidamente queste contraddizioni. Ad oggi infatti non solo l’amministrazione centrale non ha lavorato alla definizione di protocolli (Lep o altro che dir si voglia), strumento fondamentale per consentire alle scuole di avviare percorsi di autovalutazione e miglioramento, ma non ha neppure avviato un’autoanalisi della propria struttura, centrale e periferica, per individuare anche su quel versante i fattori di vischiosità e resistenza ai processi di miglioramento.

La gestione del concorso a cattedre in corso, è una conferma lampante di queste contraddizioni.

Tralasciamo anche qui questioni già dibattute, relative all’opportunità o meno di un concorso in assenza di una precisa e chiara strategia di rientro dal precariato esistente. E lasciamo per un attimo sullo sfondo la riflessione sul tipo di concorso prescelto, il carattere delle prove e le modalità di valutazione.

Quel che colpisce è la gestione in atto. Il Governo ha deciso di fare un concorso a costo quasi zero.

Ha previsto compensi irrisori a presidenti e membri di commissione, vietando anche esoneri dalle attività di servizio. Ma che segnale si manda alla scuola, a quelle persone che stanno per iniziare un nuovo lavoro, alla pubblica opinione, con queste scelte? L’esito è sotto gli occhi di tutti. Decine e decine di presidenti e membri di commissione, appena conosciuta la realtà, si sono dimessi dall’incarico, aprendo a una girandola di sostituzioni che sono andate avanti per mesi. Con il risultato che abbiamo persino presidenti di commissione con abilitazione diversa dalle classi di concorso assegnate. Insomma altra carne al fuoco per la prevedibile ondata di ricorsi. Ma il dato macroscopico è la scelta di una amministrazione che, mentre dovrebbe fare del concorso per selezionare i futuri docenti uno dei momenti più qualificanti e rigorosi del proprio agire , non investe nel processo e lo lascia in balia della buona volontà e della ostinazione di pochi volontari, una buona parte pensionati, con l’unico obiettivo di “risparmiare” risorse.

Incredibile se non fosse vero ed anche inammissibile, perchè non c’è ragione che tenga a voler difendere queste scelte. Il Bilancio dello Stato non sarebbe stato certamente messo a repentaglio da scelte più qualificate

Il fatto è che questo evento ci consegna l’immagine reale della amministrazione. Una grande struttura che al di là anche della volontà dei suoi dirigenti politici, vive nell’ottica della conservazione di sé. L’autotutela corporativa consiste nel produrre lavoro funzionale al mantenimento di quel posto e di quella funzione, non al raggiungimento di un obiettivo. Il raggiungimento dell’obiettivo è solo un corollario; ma proprio per questo, essendo secondario, è marginale rispetto alla sua qualità intrinseca e alla sua utilità sociale. Ecco la fotografia del concorso.

Questi sono i processi reali che andrebbero affrontati con determinazione e con una opzione culturale e politica chiara: non c’entrano nulla i fannulloni o la digitalizzazione degli uffici (ovviamente importante). Senza una riforma della amministrazione orientata e governata davvero nell’ottica della autonomia delle istituzioni scolastiche – e dunque servente rispetto alle scuole autonome – non si pongono neppure le basi per un sistema di valutazione finalizzato al miglioramento. E allora l’Invalsi, al di là del tentativo di offrire un servizio utile alle scuole, appare come un processo separato e irrilevante rispetto alla qualificazione del sistema (che si vorrebbe valutare). La chiusura corporativa, la indifferenza al risultato, l’ossessione dell’atto e non dei suoi esiti, la forsennata rincorsa a non esporsi mai di fronte ai problemi concreti, questi sono i veri nemici di una cultura e pratica della valutazione che costituiscono il cuore del modello amministrativo . E sono talmente forti da condizionare i comportamenti individuali.

Lo sanno bene i dirigenti scolastici. I messaggi che giungono loro sono chiarissimi: stai nelle procedure, stai sulle norme, non rischiare, non ti esporre, non intervenire se proprio non sei costretto a farlo.

Ed anche tutto ciò la chiamano meritocrazia

da ScuolaOggi 15.05.13

"Pensioni si cambia: uscita flessibile con assegno più basso", di Massimo Franchi

Con calma e gesso, per non «sbagliare il colpo». Ma le riforme Fornero verranno modificate. Uscita flessibile con penalizzazioni per le pensioni, interventi mirati per includere i giovani per il capitolo lavoro. Enrico Giovannini fa il suo esordio davanti alle commissioni parlamentari e predica metodo: «Abbiamo un colpo solo per far ripartire la crescita>, è il mantra del nuovo inquilino di via Veneto nell’audizione di ieri pomeriggio al Senato. Da bravo statistico, l’ex presidente dell’Istat vuole essere sicuro di cambiare per migliorare. Venerdì sarà affrontatal’emergenza Cig. Poi un’analisi approfondita dei dati prima di intervenire con il cacciavite sulle riforme del lavoro e delle pensioni. Non certamente prima di giugno. «Con tutti i limiti che abbiamo, di spesa o di riduzione delle imposte, abbiamo un solo colpo da sparare – ha spiegato – . Dobbiamo riuscire a centrare l’obiettivo e, avendo risorse limitate, dobbiamo costruire un pacchetto per riuscire a orientare le aspettative in maniera tale da favorire e anticipare la ripresa che gli analisti danno tra la fine anno e l’inizio del 2014. Abbiamo bisogno – ha continuato – di un attimo di tempo per decidere, magari con delle analisi, le soluzioni più adatte per avere l’impatto maggiore». Per creare lavoro il governo studia quindi «un pacchetto realistico »: «Non si può immaginare che la defiscalizzazione o la decontribuzione risolva il problema. Servirebbero – ha concluso – risorse incompatibili con i vincoli di bilancio». Nessuno stravolgimento, quindi. Anche perché gli ultimi dati sulla riforma del lavoro non sono disprezzabili. «Bisogna essere estremamente attenti a toccare una riforma che sta creando gli effetti voluti perché le imprese e gli investitori non amano l’instabilità delle norme». Portando i dati Isfol il ministro osserva che «sta succedendo quello che la riforma si stava prefigurando» ossia «una riduzione dei contratti di collaborazione e intermittente e uno spostamento verso il tempo determinato». Anche se, conclude, è «presto per dire che l’aggiustamento è completo».

PRIORITÀ: LAVORO Al GIOVANI La priorità è ribadita: l’inclusione dei giovani. «Ridurre le tasse per il lavoro stabile e per i neoassunti, alla defiscalizzazione dell’assunzione dei giovani, allo sviluppo dell’apprendistato, alle modifiche della riforma del lavoro per avere più flessibilità nel lavoro determinato, all’occupazione femminile e al superamento del precariato nella pubblica amministrazione ». Anche la draconiana riforma delle pensioni sarà modificata. Anche qui si punta ad una maggiore elasticità per consentire l’uscita dal lavoro «in cambio di penalizzazioni». Una «flessibilizzazione delle regole>, introducendo un sistema di «penalizzazioni» sull’assegno per le uscite anticipate. Le reazioni di forze politiche e sindacati sono tutte positive. «Concordo con il ministro Giovannini: le leggi senza crescita non creano posti di lavoro – commenta Rita Ghedini del Pd – . La logica opposta, in passato, ci ha travolti. L’Italia ha certamente bisogno di riforme, ma per creare occupazione è adesso assolutamente prioritario rilanciare lo sviluppo del Paese. Basta con l’ubriacatura da riforme e con l’allentamento delle regole ». «E un bene che si riapra la discussione sulla riforma delle pensioni», apprezza Carla Cantone, leader dello Spi Cgil. «Purchè però ci sia un confronto con le organizzazioni sindacali perché le scelte unilaterali hanno sempre prodotto disastri », fa presente Cantone. «Abbiamo sempre sostenuto la necessità di restituire ai lavoratori la possibilità di scegliere il momento in cui accedere al pensionamento », dichiara il segretario confederale della Cisl, Maurizio Petriccioli.

L’Unità 15.05.13

"Il voto, poi lo scudo della Camera", di Claudio Tito

«Se la Cassazione conferma la condanna per il processo Mediaset, certo non sarà questo Parlamento a tutelarmi». Per lui ormai si tratta di una “guerra”. Un conflitto senza esclusione di colpi contro pm e giudici politicizzati. Ma per Silvio Berlusconi stavolta la prima battaglia potrebbe essere quella decisiva. Quella da cui non si torna più indietro. La Suprema corte infatti deciderà entro i prossimi mesi sul caso Mediaset (sicuramente prima di giugno 2014, quando scatterà la prescrizione).
DOVRÀ pronunciarsi sulla conferma o meno della pena a quattro anni di reclusione e sull’interdizione dai pubblici uffici. Con conseguente decadenza (potenziale) dal mandato parlamentare. Ossia, l’addio al Senato e alla politica attiva.
Un’ipotesi con cui il Cavaliere e l’intero stato maggiore del Pdl hanno già iniziato a fare i conti. Mettendo a punto le possibili contromosse. O meglio, la “possibile contromossa”. E già, perch é nel fortino di Arcore ormai non si parla d’altro. Mettendo nel conto le opzioni più radicali. Compresa la crisi di governo. Da provocare non ora, ma quando e soprattutto se i “messaggeri” dell’ex premier avranno maturato la convinzione che la Cassazione non offre «chances positive».
Il “Piano B” di Berlusconi è dunque pronto. Poggia su tre pilastri: il mantenimento dell’attuale legge elettorale – il Porcellum – il ricorso alle elezioni anticipate e il conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale. «È chiaro – va ripetendo il capo del centrodestra – che io non mi faccio incastrare dalle bugie di quei magistrati. Come ho detto a Brescia, “io ci sono e ci sarò”. Se fosse per me, il governo Letta potrebbe durare anche tutta la legislatura, ma se la Cassazione…».
L’ex presidente del consiglio lo considera un extrema ratio, eppure ha messo a punto il suo “disegno” in quasi tutti i suoi aspetti e passaggi. Il punto di riferimento è costituito dai regolamenti parlamentari in vigore a Palazzo Madama e alla Camera. Perché? Basta leggere l’articolo 66 della Costituzione: «Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità». Questo significa che se la Cassazione confermasse l’interdizione quinquennale dai pubblici uffici, toccherebbe comunque al ramo parlamentare di appartenenza stabilire se l’eletto va considerato “decaduto”. Nel caso del Cavaliere, sarebbe al momento il Senato. Spetterebbe dunque alla Giunta delle Elezioni e dell’Immunità avviare la «Procedura di contestazione dell’elezione», così viene chiamata. Una sorta di vero e proprio “processo” che nel caso dell’ex premier prevederebbe un relatore della Regione Molise, suo collegio elettorale. Il parere della Giunta poi dovrebbe ricevere il definitivo e vincolante via libera dall’aula. Ma gli attuali rapporti politici nella Giunta e nell’Assemblea non offrono alcuna garanzia al Pdl: il Pd con il M5S e Sel hanno la maggioranza per autorizzare la «decadenza».
Ed è questo dato numerico che sta inducendo l’ex premier ad imbracciare l’“arma finale”: quella di provocare appunto la crisi di governo a ridosso della sentenza della Cassazione per poi chiedere le elezioni anticipate candidandosi non più a Palazzo Madama ma a Montecitorio. Con questo sistema elettorale, infatti, se il centrodestra dovesse prevalere alla Camera anche solo di un voto, avrebbe – grazie al premio – la maggioranza assoluta in aula e nella Giunta. A quel punto sarebbe scontato il voto contrario all’autorizzazione ad applicare la pena dell’interdizione.
Del resto, non solo la Costituzione ma anche tutti i precedenti avvalorano la necessità di un passaggio in aula prima di dare efficacia all’interdizione. I due più espliciti sono quelli di Mario Ottieri, deputato monarchico che nel 1967 – in seguito ad una condanna per bancarotta fraudolenta – decadde dalla carica
dopo il voto formale dell’assemblea. E lo stesso accadde nel ’77 con Mario Tanassi (lo scossone arrivò per lo scandalo Lockheed). Più di recente Cesare Previti, Totò Cuffaro e per ultimo Giuseppe Drago nel 2010 si dimisero volontariamente prima che venisse formalizzato il giudizio dell’assemblea.
Ma, come hanno verificato gli “esperti legali” di Berlusconi, non esistono precedenti in cui è stata negata la decadenza dal mandato parlamentare. Se dovesse verificarsi questa ipotesi, lo scontro tra poteri dello Stato sarebbe clamoroso: il legislativo contro il giudiziario. Un conflitto che farebbe fibrillare le Istituzioni. Secondo gli studi più accreditati, infatti, e secondo le simulazioni che sono state consegnate sulla scrivania del presidente del Pdl, si darebbe luogo a un conflitto di attribuzione su cui dovrebbe pronunciarsi la Corte Costituzionale. Sarebbe il Giudice dell’esecuzione sostanzialmente i magistrati di Milano – a sollevare il conflitto contestando la distorta interpretazione dell’articolo 66 della Costituzione. Ma in quel caso la “disputa” tra poteri dello Stato provocherebbe un vero sconquasso. Anche perché il Cavaliere si avvarrebbe politicamente anche del risultato delle ultime elezioni. «Come potrebbe qualsiasi giudice – è il suo provocatorio interrogativo – dare ragione ai magistrati in un conflitto del genere e respingere il consenso popolare che i sondaggi già mi attribuiscono?».
Non solo. I “tecnici” del Pdl avrebbero fatto notare che la scelta di far precipitare il Paese al voto anticipato deve comunque avvenire prima che la Cassazione si esprima: in caso di condanna infatti, se anche Berlusconi non decadesse immediatamente, non potrebbe ricandidarsi perché tra i requisiti necessari resta il godimento dei diritti politici che mancherebbe in presenza dell’interdizione dai pubblici uffici. A meno che non sfrutti quel particolare “limbo” che separa la lettura della sentenza dalla sua pubblicazione, momento nel quale effettivamente è operativa la pena.
E del resto che Berlusconi sia particolarmente alla questione, lo dimostra l’insistenza con cui ha bloccato proprio a palazzo Madama gli accordi sulle cosiddette commissioni di garanzia, quelle presiedute da un esponente della minoranza. L’obiettivo – che sembra raggiunto era quello di assegnare la presidenza della Giunta per le Elezioni e l’Immunità ad un esponente della Lega, Raffaele Vulpi, e non ad un grillino o a un senatore di Sinistra e Libertà. Ma la “vera battaglia” ci sarà alla fine dell’anno.

La Repubblica 15.05.13

Ghizzoni “Grave la situazione dell’edilizia scolastica in Italia”

Dopo il crollo del soffitto di una scuola: “Serve un’indagine conoscitiva sulla situazione”. Il crollo dell’intonaco del soffitto di una scuola elementare di Agrigento ripropone il tema della sicurezza dell’edilizia scolastica in Italia. Dalla deputata modenese Pd Manuela Ghizzoni, vicepresidente della Commissione Cultura e Istruzione della Camera, insieme agli altri membri del Pd nella stessa Commissione, arriva la richiesta di un’indagine conoscitiva sulla situazione complessiva anche in considerazione del carattere sismico del territorio italiano.

Dopo il crollo dell’intonaco del soffitto di una scuola elementare di Agrigento, presenti alcuni alunni rimasti illesi, si ripropone il tema della messa in sicurezza dell’edilizia scolastica nel nostro Paese. Per avere un quadro complessivo di una situazione, che la vicepresidente della commissione Cultura e Istruzione della Camera Manuela Ghizzoni definisce “grave”, i deputati democratici della Commissione stessa hanno presentato la richiesta di una indagine conoscitiva. “L’obiettivo è quello di coinvolgere tutti i soggetti che hanno responsabilità politiche perché vengano trovate risorse e modalità di interventi per la sicurezza. – spiega Manuela Ghizzoni – Considerato il carattere sismico del nostro territorio, un intervento in materia è ancora più urgente. È fondamentale, in particolare, verificare lo stato di realizzazione di alcuni interventi già previsti come l’anagrafe dell’edilizia scolastica e il piano triennale approvato dal centrosinistra con la finanziaria 2007 che prevede 900 milioni di euro”.

"Il governo blocca i tagli a istruzione e ricerca", di Salvo Intravaia

Il governo blocca i tagli all’istruzione e alla ricerca che sarebbero dovuti scattare nel 2015. Una buona notizia per scuole, atenei e enti di ricerca che negli ultimi anni hanno dovuto subire la furia “riformatrice” della coppia Gelmini-Tremonti, prima, e del governo Monti dopo. La commissione Bilancio della Camera ha approvato un emendamento che blocca accantonamenti e riduzione per un totale 137 milioni, da effettuare a partire dal 2014, per consentire il pagamento alle imprese dei debiti contratti nei loro confronti dallo Stato e fare ripartire l’economia.

Il presidente del Consiglio Enrico Letta lo aveva promesso un paio di domeniche fa durante la trasmissione televisiva “Che tempo che fa” condotta da Fabio Fazio, impegnandosi a dimettersi se il governo avesse operato ulteriori tagli a scuola, università, ricerca e cultura. Anche la neoministra dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, si era impegnata a salvaguardare l’istruzione pubblica. E lo ha fatto postando su facebook un impegno a considerare “come centrali nell’azione di governo scuola, università e ricerca” E adesso arrivano i primi fatti.

Ieri pomeriggio, la V commissione della Camera ha approvato l’emendamento al disegno di legge che converte in legge il decreto sulle “Disposizioni urgenti per il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione” che esclude istruzione e ricerca dai tagli lineari in previsione dal governo. Il ministro Carrozza, “esprime soddisfazione” per il provvedimento. “E’ un’ottima notizia – afferma il ministro – che conferma l’attenzione di questa maggioranza nei confronti della scuola, della ricerca e dell’università. Si tratta di temi che, come abbiamo ribadito durante l’incontro di Sarteano, saranno centrali e prioritari nell’azione del governo”.

Il decreto prevedeva, tra accantonamenti e riduzioni, un taglio al bilancio dell’istruzione scolastica per un totale di 75 milioni di euro da operare in due anni: il 2014 e il 2015. L’istruzione universitaria avrebbe dovuto rinunciare a 47,5 milioni e la ricerca scientifica a 13,5 milioni, quasi tutti a scapito della ricerca di base. Un primo segnale che fa ben sperare alunni e insegnanti della scuola, studenti e docenti universitari, ricercatori e rettori dopo l’ondata di tagli che ha letteralmente falcidiato i Fondi per il finanziamento ordinario delle università, i bilanci degli enti di ricerca e il personale della scuola.

da repubblica.it

"Perché serve lo «sconto» Ue", di Alberto Quadrio Curzio

Il 29 maggio la Commissione europea valuterà la chiusura della procedura per deficit eccessivo decisa nei confronti dell’Italia nel dicembre del 2009 dall’Ecofin che forse ne tratterà (informalmente) anche oggi. Allora fu chiesto al nostro Paese di abbassare il rapporto del deficit sul Pil almeno al 3% entro il 2012 avvicinando il pareggio strutturale di bilancio e “assicurando” il rispetto di questi vincoli anche per gli anni successivi. È noto come queste prescrizioni abbiano spinto la nostra pressione fiscale al 45% del Pil e abbiano penalizzato investimenti, occupazione e crescita. Esiti in parte dovuti sia alla perdita di fiducia sofferta dall’Italia nel novembre 2011 sia alla nostra incapacità di adottare durevoli politiche economiche per l’efficienza e produttività del “sistema Italia”. Argomenti sui quali bisognerà ritornare esaminando le modifiche che il Governo Letta apporterà al “Programma di stabilità” e al “Programma nazionale di riforma” che il Governo Monti ha presentato alla Ue nel contesto del “semestre europeo” e sul quale la Commissione si esprimerà il 29 maggio. Il passaggio del governo della nostra economia tra questi due Esecutivi italiani non deve però preoccupare l’Europa malgrado l’inclinazione della Commissione a preferire le scelte tecnocratiche a quelle politiche. Perché è proprio di queste ultime che la Ue, la Uem e l’Italia hanno bisogno per uscire dalla crisi. L’Europa, la Ue e la Uem. La “sua” scelta nella grande crisi iniziata nel 2008 è stata una politica di austerità ormai subissata di critiche sia da operatori di grande esperienza (si veda per tutti Soros) sia da veri economisti (si veda per tutti Krugmann) sia, diplomaticamente, dall’Fmi. La “nobile” motivazione che bisognava educare al rigore i Paesi “spendaccioni” sia per garantire la stabilità delle loro finanze pubbliche nel tempo sia per generare una crescita sana, è stata smentita dai fatti. Gli stessi dicono che mentre gli Usa avranno nel 2013 un Pil superiore di 4,9 punti percentuali a quello del 2007 la Ue soffre di un calo di -0,7 punti e la Uem di -1,6 punti. Ne segue che gli Usa hanno un tasso di disoccupazione del 7,6% e la Uem del 12,1%. È vero che l’Europa ha finanze pubbliche migliori degli Usa e che vari Stati europei necessitano di riforme strutturali per l’efficienza ma è altrettanto vero che se la crisi porta al dissesto socio-economico di qualche grande Paese, le riforme per la crescita non si potranno fare. L’Italia. Per capire la situazione a fronte dell’atteso giudizio del 29 maggio consideriamo tre dati. Il primo è la decisione dell’Ecofin del 2 dicembre 2009 che portò alle prescrizioni di ridurre il deficit sul Pil dello 0,5% all’anno per scendere sotto il 3% entro il 2012. La richiesta si basava su una previsione di calo del Pil del 4,7% nel 2009 e di crescita positiva nel 2010 e 2011. Purtroppo nel 2009 il calo è stato peggiore (-5,5%) mentre la crescita dei due anni successivi è stata modesta (1,7% e 0,4%) rispetto alle previsioni del Governo. Poi nel 2012 il Pil è crollato del 2,4% e nel 2013 è previsto un calo dell’1,3%. Vi è perciò un aggravamento delle circostanze attenuanti per dare all’Italia più flessibilità sul deficit. Questo è anche confermato dal confronto con altri due Paesi. La Francia ha di recente avuto una proroga per far scendere il deficit sul Pil al 3% al 2015 e la Spagna al 2016. Eppure questi Paesi sono sotto procedura di deficit eccessivo dal 27 aprile 2009 e cioè prima dell’Italia. Inoltre mentre l’Italia ha avuto nei sei anni dal 2008 al 2013 (in previsione) un calo del Pil di -8,30 punti percentuali, la Spagna l’ha avuto di -5,60 punti e la Francia ha avuto un aumento di 0,10 punti. Legittimo è chiedersi perché a questi Paesi siano state date proroghe a causa della loro recessione mentre l’Italia viene esaminata con il microscopio (come risulta dalla continue richieste del commissario agli Affari economici, Olli Rehn) anche sul rispetto per gli anni a venire dei saldi di bilancio. Siamo confidenti che il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, con la sua grande professionalità, saprà rispondere alle richieste europee senza assoggettarsi ai formalismi contabili e anche spiegare (e difendere) le prefigurate scelte italiane per la crescita che si stanno delineando nella sede politico-economica dell’Eurogruppo e dell’Ecofin a cominciare dalle riunioni che si tengono in questi giorni. In conclusione. Il Governo Letta, essendo nuovo, deve chiedere di più all’Europa anche nell’interesse europeo. A tal fine è bene ricordare alla Germania che nel novembre del 2003 l’Ecofin ha deliberato di non assoggettarla (con la Francia) alla procedura di infrazione malgrado superasse il 3% del deficit sul Pil e malgrado non avesse accolto precedenti raccomandazioni correttive della Commissione. Sarebbe bene riesaminare anche sia il successivo contenzioso, a proposito delle violazioni di bilancio tedesche, tra la Commissione e il Consiglio Ecofin presso la Corte di Giustizia della Ue sia la neutra sentenza di quest’ultima del 13 luglio del 2004. Perché sulla base di quella vicenda si dovrebbero porre dei quesiti e cioè: in che misura in un Paese che ha, come l’Italia, un crollo del Pil e che ha adempiuto entro il 2012 alle prescrizioni europee, è anche tenuto a dare garanzie vincolanti per il futuro? In che misura si possono adottare legittimamente in Europa decisioni che configurano disparità di trattamento tra Paesi (Italia da un lato Francia e Spagna dall’altro) della Uem? Non ci sembra basti infatti la risposta che il debito sul Pil dell’Italia sarà nel 2013 al 131,4% sia perché questo esito è causato anche dalla nostra dura recessione sia perché nei sei anni 2008-2013 la crescita del nostro debito pubblico è di 25,3 punti percentuali mentre quella della Spagna è di 51,1 punti. Cioè un incremento doppio di quello italiano!

Il Sole 24 ore 14.05.13

"Occupazione giovanile: risorse fuori dal deficit", di Bianca Di Giovanni

Europa Fabrizio Saccomanni non ha bisogno di credenziali, visto che è stato uno degli architetti dell’euro. Ma ieri sera e oggi, prima all’Eurogruppo poi all’Ecofin, avrà bisogno di tutta la sua autorevolezza per rassicurare i partner sulla tenuta dei conti italiani. Il fatto è che il governo Letta punta su politiche di crescita. Il primo decreto sull’Imu e sulla Cig è solo un primo passo. L’asse portante sarà l’occupazione giovanile, aiuti alle imprese che assumono, formule nuove per i contratti d’ingresso. Su questo Enrico Giovannini sta preparando un «pacchetto» di interventi che confidano anche in un contributo essenziale dei fondi europei. Secondo indiscrezioni stampa l’esecutivo punterebbe ad ottenere una sorta di «golden rule» per le spese sull’occupazione. Ovvero la possibilità di escludere quelle risorse dal computo del deficit. Stessa cosa che si chiede per gli investimenti. Ma prima di ottenere flessibilità di bilancio, l’Italia dovrà ottenere il disco verde per uscire dalla procedura d’infrazione. La decisione è attesa per fine giugno e sembra a portata di mano. Per il governo molte cose potrebbero cambiare dopo l’estate, anche il dato sulla crescita. Ecco perché si punta al rinvio su molte materie. Molto dipenderà dalla fiducia dei mercati. Con un debito così pesante, basta uno stormir di fronde sulle Borse per scatenare una grandinata sul bilancio del Paese. Il rischio che l’onere del debito aumenti o resti ai livelli d’emergenza degli ultimi mesi è troppo alto. Ieri l’asta dei Btp del valore di 8 miliardi ha registrato tassi in calo, ma a scendere è stata anche la domanda. Ma quello che preoccupa è lo spread (cioè il differenziale tra il Btp e il suo omologo tedesco a 10 anni) che ha rialzato la testa chiudendo a 262 punti rispetto ai 251 di venerdì. Secondo la Banca d’Italia la quota giusta dello spreadtra le due economie dovrebbe fermarsi vicino ai 100 punti. Tutto il resto è dovuto a credibilità, fiducia, paura di nuove crisi finanziarie. Ecco perché il nome di Saccomanni pesa. Il ministro ha lasciato il conclave dell’abbazia di Spineto ieri mattina presto, in anticipo su tutti. Sotto il braccio il Def redatto da Mario Monti e Vittorio Grilli, appena approvato dal Parlamento, e le ipotesi di modifica che l’Economia sta ancora studiando. Per venerdì è convocato il consiglio dei ministri che dovrebbe varare il decreto Imu e Cig in deroga. Ad annunciarlo è stato lo stesso Enrico Letta nella conferenza stampa conclusiva del «ritiro» toscano. Il nodo restano ancora le coperture, lo stesso che aveva provocato lo slittamento del provvedimento la settimana scorsa. Per l’Imu sull’abitazione principale si proporrà la sospensione della rata fino a settembre, in attesa di una riforma complessiva della tassazione sulla casa che comprenda anche tassa sui rifiuti e tassa di registro. A questo bisognerà aggiungere la partita capannoni industriali e beni strumentali, su cui Confindustria esercita un pressing senza precedenti. Il fatto è che il prelievo su questa voce potrebbe aumentare anche del 200% (fonte Sole24ore). Ancora poco chiaro se il governo opterà per la sospensione della prima rata o solo dell’aumento. I Comuni comunque non nascondono la loro preoccupazione, e chiedono un incontro immediato, prima che il decreto sia varato. Per i sindaci è essenziale avere l’anticipo di cassa della rata sulla casa (quella sui capannoni va allo Stato), pena lo squilibrio dei loro bilanci. In questo senso potrebbe intervenire la Cassa depositi e prestiti. Più complesso sembra reperire il miliardo atteso per la Cig in deroga. In questo caso servono coperture di competenza che siano credibili. Secondo alcune fonti le risorse potrebbero arrivare da poste in bilancio del ministero del lavoro. Per altre sarebbe improponibile tagliare il fondo per la competitività o utilizzare lo 0,30% destinato alla formazione. La Ragioneria avrebbe indicato proprio queste voci: formazione, fondo per la detassazione del salario di produttività e fondi a disposizione delle aree depresse del Sud. Ma su questi punti si getterebbe benzina sul fuoco dei rapporti sindacali. Ecco perché le ipotesi sembrano impraticabili. Tanto che c’è la possibilità che venga stanziata una quota di quel miliardo, specificando che ci sarà un nuovo intervento in autunno.

NO DELLA CGIL Susanna Camusso prende le distanze dagli interventi. «L’Imu si può benissimo rimodulare dichiara Il problema è che questo dibattito è un po’ surreale. Se si dicesse di togliere l’Imu alle persone più in difficoltà in base al calo dei consumi e all’impoverimento complessivo si agirebbe sulla prima casa per un certo valore e questo potrebbe essere un ragionamento. Invece, qui il ragionamento si fa in generale, come se tutto fosse uguale. Come se un possessore di ville o un possessore di trenta metri quadrati siano la stessa cosa e abbiano lo stesso effetto sui consumi». In ogni caso per la Cgil la priorità non è certo l’imposta sugli immobili, ma è il lavoro. Scontato il no del sindacato al taglio dei fondi per la formazione e per la produttività. «Bisogna costruire le forme di finanziamento della cassa integrazione, della mobilità in deroga, e dei contratti di solidarietà, trovando formule che ridistribuiscano verso il lavoro le risorse del Paese ha detto il segretario Le possibili fonti possono essere: la riduzione delle spese militari e la distribuzione fiscale che non sia sul lavoro, ma sulla finanza, sui patrimoni e così via».

L’Unità 14.05.13