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"L’ipocrisia che giustifica la violenza", di Gianni Riotta

La sparatoria di Luigi Preiti che a Roma ha ferito gravemente – rischia la paralisi – il brigadiere dei Carabinieri Giuseppe Giangrande e colpito l’appuntato Francesco Negri e una passante incinta, non è la strage di via Fani del 1978 con la strage della scorta e il rapimento del presidente Aldo Moro. La Repubblica non è sotto scacco dei terroristi, il Paese è maturato. Ma il sollievo, dopo mesi di palude politica, seguito alla nomina di Enrico Letta e al giuramento del governo di larghe intese Pdl-Pd è stato subito cancellato e nuove ansie che si sono proiettate sull’opinione pubblica, provata da crisi economica e caos politico.

I ministri stavano ancora sorridendo nel solenne palazzo del Quirinale e davanti al vero regista del governo, il saggio presidente Giorgio Napolitano, quando le scene cui siamo purtroppo avvezzi, uomini in divisa a terra nel sangue, civili in fuga, cronisti con le telecamere Sky e Rai News e social media in diretta, ci hanno ricordato che il governo ha davanti tempi, e prove, terribili.

La Seconda Repubblica, nata dalla crisi dei partiti storici, ha avuto come pilastro centrale, sua vera Costituzione Materiale, l’impossibilità di ogni accordo tra Silvio Berlusconi e il centrosinistra. Ogni mossa in tal senso veniva denunciata, «tradimento!» o, con parola mal tradotta dal dialetto napoletano, «inciucio», dagli ultras di destra e sinistra e dai loro organi di informazione, ieri nei giornali, oggi sul web. Rendendo impossibile la normale dialettica parlamentare, le riforme indispensabili, in economia e nelle istituzioni, soprattutto da quando la crisi finanziaria più dura dal 1929 ha spazzato via il nostro modo tradizionale di produrre e lavorare.

Con il suo discorso al momento del secondo incarico, il presidente Napolitano ha incenerito quel pilastro di divisione e sciolto quel crampo ideologico e ha – davvero con frasi che passeranno nella storia italiana – richiamato alla realtà, oltre le idee e i giudizi diversi e sacrosanti delle parti. La realtà del risultato elettorale richiamava tutti, compreso Beppe Grillo e il suo M5S, a una collaborazione pur temporanea. Davanti al «no» di Grillo non restava che l’intesa Pd-Pdl. Enrico Letta, grazie alla disponibilità dei due partiti, ha creato un governo con molti uomini e donne eccellenti, che ha avuto plauso nel mondo.

Illudersi però che un discorso del Presidente, una lista di ministri, un premier giovane e una maggioranza di parlamentari che tornano a ragionare potessero, come d’incanto, dissolvere astio, rancore, risentimento, sfiducia che anni di corruzione, intolleranza, abusi e sfiducia hanno radicato sarebbe stato ingenuo. Chi sia Preiti, quali sentimenti e motivazioni personali o pubbliche abbiano armato la sua mano, lo sapremo dalle indagini. La reazione emotiva seguita al suo gesto e alla sua grottesca autodifesa «Volevo colpire i politici», invece, valgono quanto un’analisi dei Big Data sul web: confermano l’identikit di un’Italia divisa e amareggiata, che ha bisogno di un lavoro lungo, da parte del governo, degli intellettuali, dei media, dei partiti per ricostruire un tessuto condiviso di valori e interessi nazionali.

Ha fatto bene Beppe Grillo a dichiarare subito solidarietà ai Carabinieri, e meglio avrebbe fatto a non pubblicare, sul suo popolarissimo sito web, commenti farneticanti che rivendicano appoggio e comprensione al killer mancato Preiti «dovevi sparare ai politici!». Di certo, oggi, dovrebbe duramente rampognare i suoi militanti, tra cui un improvvido consigliere torinese, che fanno campagna sul «colpire nel mucchio» gli avversari. Otto milioni di elettori Cinque Stelle non meritano di vedersi coinvolti nella violenza.

La classe dirigente italiana tutta, politici, imprenditori, media, cultura, sindacato ha mancato in questi anni di governare il Paese, privandolo di fari morali, innovazione, sviluppo. Napolitano, memore degli anni seguiti alla guerra, quando insieme i nostri padri ricostruirono il paese, pur tenendo vivo un vivacissimo dibattito in Parlamento e nelle piazze, non ha chiesto di cancellare idee diverse e diverse agende, e neppure ha proposto ai giornalisti di fare da agenti stampa del governo. Ha detto quel che l’ammiraglio Nelson segnalò con l’alfabeto delle bandiere, ai marinai della sua flotta alla vigilia della battaglia di Trafalgar, 1805: «L’Inghilterra si aspetta che ciascuno di voi faccia il suo dovere». Niente di più, niente di meno, tocca ora a noi, fare il nostro dovere.

L’hanno fatto certo ieri i carabinieri feriti a Roma, con i loro colleghi, che invece di crivellare di colpi l’attentatore rimasto senza cartucce in canna, come sarebbe accaduto in moltissime altre capitali in un giorno ad alta tensione, lo hanno arrestato senza un graffio, consegnandolo incolume alla giustizia. Prova professionale ed umana da Paese civile – rara, lo ripeto, anche per tante democrazie – di cui ringraziarli ed essere fieri.

Le malefatte della «Casta» non giustificano in alcun modo la violenza. Nemmeno ci servono a comprenderla, o ne attenuano la colpa: gli anni del terrorismo insegnano che questa velenosa ipocrisia distrugge il garantismo e nasconde alla fine complicità. Neppure ci serve imputare alla «Casta» ogni impotenza del nostro presente, siamo in 60 milioni di liberi individui, non siamo servi della gleba russi, anime morte di Gogol. L’Italia ha bisogno di lavoro, sviluppo, benessere, unità. Di dare uno stipendio a ragazzi che non l’hanno mai avuto, di usare il loro talento e la loro cultura frustrate e svilite. Non sono le pistole, non sono gli slogan di odio, non è il predicare che una parte sola, la «nostra» abbia il monopolio di etica e democrazia, che ci faranno crescere dopo una generazione di stagno.

Desideravamo vivere una domenica tranquilla intorno a Enrico Letta e ai suoi ministri, speravamo in un varo tra i sorrisi, non nel sangue. La storia ha voluto diversamente: ma l’immagine del brigadiere Giangrande riverso sui sampietrini di piazza Montecitorio, davanti al Parlamento cui la Costituzione Repubblicana affida la democrazia nel nostro paese, ci richiama a un dovere rinnovato. I ministri e il premier, i parlamentari tutti ma anche noi cittadini semplici, davanti ai quei sassi bagnati dal sangue di un uomo che lavora per difendere la nostra libertà, abbiamo un dovere semplice e aspro: fare insieme, ogni giorno, come Giangrande, il nostro dovere.

La Stampa 29.04.13

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“Tanti però pensano: magari avesse sparato a un ministro…”, di SARA STRIPPOLI

«Il vero problema non è che qualcuno vada davanti a Palazzo Chigi e spari durante il giuramento del governo. Il vero problema è che in questo momento, ne sono assolutamente certo, ci sono alcuni milioni di italiani che pensano ‘peccato che non abbia fatto secco almeno un ministro’ ». Vittorio Bertola, ex candidato alla carica di sindaco di Torino per il Movimento Cinque Stelle e ora consigliere comunale grillino in Sala Rossa, posta questo messaggio su Facebook nel tardo pomeriggio, come commento sulla sparatoria davanti a Palazzo Chigi. Nel giro di poche ore scatena una nuova, accesa polemica attorno al partito di Beppe Grillo. Vanno all’attacco soprattutto
dal Pd, l’ultimo in ordine di tempo è anche il più duro: Cesare Damiano ex ministro del Lavoro: «Le parole scritte su Facebook sonon deliranti e irresponsabili. Si dimetta ». Poco prima Alessandra Moretti, ex portavoce di Bersani durante le primarie e oggi deputata democratica, aveva usato toni altrettanto duri pur senza invocare le dimissioni: «Se corrispondono al vero, sono parole vergognose». Poi anche il centrodestra stigmatizza l’episodio per voce del deputato Luca D’Alessandro: «Grillo non capisce e i suoi seguaci comprendono ancor meno che mai come in questi tempi le parole sono pietre. E’ facile invocare l’assedio del Parlamento e la caccia ai politici e poi prendere le distanze dai gravissimi fatti di oggi. Tutto ciò puzza pericolosamente di excusatio non petita, come dimostrano le aberranti dichiarazioni del consigliere comunale di Torino Bertola. Grillo e i suoi sembrano aver assunto il ruolo dei famigerati ‘cattivi maestri’ che tanti danni hanno fatto alla storia italiana».
Bertola aveva forse subodorato il rischio che le sue parole potessero scatenare una polemica. Alcune ore dopo aver postato il messaggio su Facebook — che ha comunque registrato 376 mi piace — aveva precisato con una dichiarazione all’Ansa: «Ovviamente non auspico che questo accada ma sono assolutamente convinto che siano tanti quelli che lo pensano, perchè purtroppo, in questo momento, ci sono tante persone disperate e la politica non sta facendo nulla per aiutarle».
Una sortita che ha finito per rinfolocare le polemiche attorno al Movimento di Beppe Grillo dopo il comunicato successivo alla sparatoria vicino a Palazzo Chigi. Va all’attacco anche il leader di «Diritti e Libertà » Stefano Pedica: «Se le parole su twitter del consigliere 5 stelle Bertola sono vere bisogna prendere provvedimenti. Un fatto gravissimo che deve vedere da parte del movimento di Grillo l’immediata espulsione».
Tutto vero, comunque. Ancora a tarda sera la frase della polemica campeggiava per intero sul profilo del medico diventato consigliere comunale: «Il vero problema non è che qualcuno, magari uno squilibrato, vada davanti a Palazzo Chigi e spari durante il giuramento del governo. Il vero problema è che in questo momento, ne sono assolutamente certo, ci sono alcuni milioni di italiani che pensano “peccato che non abbia fatto secco almeno un ministro”». A questo commento seguono oltre quattrocento commenti. Non tutti di condanna.

La Repubblica 29.04.13

"Il ritorno unitario dopo 8 anni di divorzio", di Bruno Ugolini

Tanti fatti significativi fanno sperare che possa riprendere il difficile cammino unitario tra i tre principali sindacati italiani. Sembra che si possa porre fine a un’epoca fatta di accordi separati, non solo tra i metalmeccanici o nel commercio, ma anche tra le Confederazioni. Ha inciso con tutta probabilità in questa ripresa non solo basata su un dialogo costruttivo, ma anche su scelte concrete, la constatazione che le esperienze degli ultimi anni non hanno certo consegnato a Cgil, Cisl e Uil un ricco bottino fatto di risultati e successi. Un milione di licenziati, un esercito di precari, tanto per segnalare due dati, danno l’idea dell’indebolimento dell’azione sindacale. Non è riuscita a incidere né l’iniziativa di chi, come Cisl e Uil, pensava perlomeno di limitare i danni, aderendo all’invito alla complicità proposto dal ministro del lavoro del centrodestra Maurizio Sacconi, né l’iniziativa di chi come la Cgil ha cercato di promuovere una svolta mobilitando la propria gente e avanzando proposte complesse come un nuovo «Piano del lavoro ». È vero che la tumultuosa crisi economica, l’assenza di interlocutori governativi seri, ha pesato sul povero bilancio sindacale. Eppure sono molti quelli che pensano che se ci fosse stata una piattaforma e una mobilitazione sostenute da uno schieramento unitario, le cose avrebbero potute andare in modo diverso. Fatto sta che il movimento sindacale non è più considerato, da molto tempo a questa parte, un interlocutore essenziale, decisivo. Il termine «concertazione» è stato annullato, sbeffeggiato come appartenente a un epoca giurassica. Ed è venuto alla luce un altro aggettivo per definire il ruolo del sindacato: «anacronistico ». Ecco perché sarebbe importante inserire, nel bel mezzo di un inquietante panorama politico, un’inversione di marcia. Aiutata, in questo caso, anche da un atteggiamento diverso assunto dalla Confindustria di Giorgio Squinzi. Tra i primi fatti bene auguranti appare la revisione di un accordo sulla produttività, già oggetto di una versione separata, firmato ora anche dalla Cgil. Una partita questa che dovrebbe dare impulso al raggiungimento di accordi aziendali, facilitati da una detassazione, nelle purtroppo non molte (in questa fase di crisi acuta) imprese disponibili. Senza per questo, assicura la Cgil, ridimensionare il peso del contratto nazionale. Un altro evento positivo è rappresentato poi dall’accordo firmato con la Finmeccanica che riconosce all’organizzazione dei lavoratori la possibilità di mettere il naso nelle scelte strategiche della Holding attraverso un confronto preventivo. Un ritorno par di capire a quei «diritti d’informazione» rivendicati in anni lontani e che sembravano caduti nel dimenticatoio. Accompagnati da un rapporto diretto con tutti i lavoratori chiamati a esprimere il proprio parere anche attraverso la forma del referendum. Un contributo, sia pure parziale (se si ipotizza come sarebbe importante un ruolo di base propositivo e non solo limitato a un sì o un no), alla democrazia sindacale. Il tutto in una categoria come i metalmeccanici un tempo punta di diamante della riscossa unitaria, oggi sovente protagonisti di rapporti interni improntati alla sordità e contestazione reciproca. L’elemento decisivo di questa ripresa è dato però da un possibile progetto sulla rappresentanza, cioè sulla verifica esatta della forza dei propri iscritti e sulle regole nel costruire un rapporto con l’insieme dei lavoratori. Un modo per ri fondare e allargare una forza organizzata evitando il rischio di un progressivo ridimensionamento collegato ai fenomeni di frammentazione e precarizzazione dei lavori. Tematiche sulle quali potrebbe esprimere una parola decisiva l’annunciata prossima riunione congiunta dei gruppi dirigenti Cgil, Cisl e Uil convocati per la prima volta insieme dopo ben otto anni di «mini-divorzio». C’è chi ha messo in relazione questo tentativo di ricomposizione sindacale con quanto avviene in campo politico con l’esperimento del governo Letta. Sembra un’equazione ardita. E ad ogni modo per diradare qualsiasi sospetto sarebbe utile che da questo «vertice» unitario uscisse un’autonoma piattaforma magari essenziale, diretta proprio al nuovo governo Letta-Alfano, sui temi più urgenti, cominciando da quelli che affliggono i lavoratori in cassa integrazione che rischiano di rimanere anche senza quel povero sostegno. Per non parlare dell’esercito dei precari non certo aiutati dalle due riforme della ministra Fornero. Ha scritto a questo proposito l’ottimo Dario De Vico del «Corriere della sera» che aprendo questa nuova fase i sindacati supererebbero «lo stato di afasia subentrato dopo l’exploit elettorale di Beppe Grillo». Questo perché «in una prima fase post-urne anche all’interno delle confederazioni c’era stata la tendenza a «dimettersi » e a considerare il Movimento 5 Stelle come legittimo rappresentante del “disagio”». Invece ora la Camusso avrebbe deciso di non «spostare ulteriormente a sinistra la Cgil per inseguire i grillini, bensì di riprendere a guardare verso Bonanni e ricostruire un’ipotesi di percorso unitario». Una lettura dei fatti che non convince. Non è tanto Grillo, quanto il «disagio» crescente nella società (al quale accenna anche De Vico) che rischia di travolgere i sindacati. E solo attraverso un’unità non formale, bensì ricca di contenuti essi possono suscitare e ritrovare forza, consenso, risultati. Lo vedremo negli appuntamenti delle prossime ore, nel primo maggio unitario di Perugia, nelle manifestazioni indette in tutta Italia, nella piattaforma per il lavoro lanciata in Basilicata. Sarà, in certi casi, come a Treviso e a Bologna un primo maggio singolare, con la partecipazione degli imprenditori. Non tanto per stabilire ipotetici patti corporativi, bensì per imprimere un’inversione di tendenza nell’economia e per testimoniare come la valanga della crisi porti alla disperazione (vedi i tanti casi di suicidio anche nel mondo dei datori di lavoro) i diversi «produttori». Che, certo, non possono lasciare a Grillo la bandiera di una nuova speranza.

L’Unità 29.04.13

"La colpa del male", di Adriano Sofri

Si Anela alla giustizia, poi non ci si crede più, e si ripiega sulla vendetta. Passato lo sbigottimento, quando avremo saputo tutto del signor Preiti, quando tutti i suoi parenti e conoscenti avranno dichiarato che «era un uomo normale, tranquillo», scopriremo che non c’era niente da sapere, che un uomo tranquillo ha preso il treno, ha pernottato in una stamberga, si è messo giacca e cravatta ed è andato a sparare davanti al palazzo del governo.
Diciamo la verità: qualcuno avrebbe immaginato una sparatoria a palazzo Chigi nel pieno del giuramento al Quirinale? E diciamo un’altra verità: quando la notizia si andava definendo, chi non ha sentito oscuramente che «c’era da aspettarselo»? Insinuare che l’azione di Preiti sia il frutto di una particolare retorica politica – del Movimento 5Stelle, precisamente – è una sciocchezza vergognosa. Lo sparatore tranquillo è interamente responsabile della sua azione premeditata. Però è anche un sintomo del malanno della nostra comunità. La differenza fra il “gesto di un pazzo” e quello di una persona “normale” è questa, in sostanza: che il primo appare come uno strappo inspiegabile alla trama ordinaria dell’esistenza comune, e il secondo rischia di apparire spiegabile, spiegabilissimo – se non giustificabile. (Le parole non impegnano oltre misura, ma è quello che segnalano i commenti del genere: «Che c’entrano i carabinieri, doveva mirare ai politici»).
La diagnosi sta in questa sensazione angosciata: c’era da aspettarselo. È lei a impedire di chiudere il caso evocando la pazzia (se non è pazzo uno che va a uccidere bravi carabinieri e passanti casuali…). Chissà quanto il signor Preiti abbia saputo prevedere dell’effetto del suo gesto, che voleva “eclatante”. Ascoltavo alla radio i ministri che giuravano: provavo a dedurre, dal modo in cui ciascuno recitava la formula, degli indizi sui meno conosciuti. E all’improvviso i flash di agenzia sulla sparatoria di piazza Colonna si sono insinuati
dentro la cerimonia, e le formule del giuramento si inframmezzavano alle notizie di fuori: di essere fedele alla Repubblica…, sparatoria a palazzo Chigi…, nell’interesse esclusivo della nazione…, agenti feriti…, di osservarne lealmente…, la piazza evacuata… L’Italia stava finalmente procurandosi un nuovo governo, ma al prezzo di una sparatoria cruenta. Era successo che un forsennato a Firenze aveva braccato i senegalesi per ucciderli e ferirli prima di morire lui, ma là il doppio scenario mancava. In cambio, “i politici” sono diventati i senegalesi di una gran parte degli italiani. Se la sono cercata, dicono i commenti. Infatti: qualcuno più, qualcuno meno, altri niente affatto. (I senegalesi poi niente affatto). Nell’incattivimento di una società, c’è almeno un concorso di colpa. Nella gara accanita all’irresponsabilità, siamo a questo punto: che ci si è rassegnati a non confidare più nella giustizia, e si ripiega sulla vendetta. “Un gesto eclatante”: non per trovare un lavoro migliore, o semplicemente un lavoro, non per far riconoscere le proprie ragioni, non per divincolarsi da debiti e umiliazioni. Per finirla col botto. Per vendicarsi. E chi agisce per vendicarsi, cerca negli altri almeno un posticino in cui farli sentire oscuramente vendicati. Arriva un giorno in cui la frase così affabilmente consueta a tante donne e uomini perbene, che a Montecitorio bisognerebbe metterci una bomba, ti fa mordere la lingua. “I politici” sono diventati la spiegazione della rovina e del malumore di un popolo e dei suoi membri solitari e perduti. La rovina succede, e può travolgere ogni riparo. Disgrazia si aggiunge a disgrazia, finché non si abbia più forze e speranze per provare a uscirne. Succede anche ai paesi interi, e loro fanno una gran fatica ad ammetterlo. Un piccolo imprenditore di se stesso si impicca, e buonanotte: poi si discetterà sulle statistiche dei suicidi, per vedere se la crisi c’entra o no. Un paese resiste di più, è fiero, pensa: “Voi non sapete chi sono io, la quinta potenza industriale…”. Poi può cedere. L’Italia è ricca di piazze in cui finirla. La rovina si compie prima di tutto nel linguaggio. La rete non lo suscita, lo rivela, e lo favoreggia.
Nella guerra spietata che i ricchi conducono contro i poveri, gli impoveriti scelgono il bersaglio dei “politici”, cioè degli arricchiti. Ridistribuire la ricchezza sarebbe un atto di giustizia. Far fuori “i politici” è una vendetta. Non riduce lo stridor di denti, ma lo premia. Poi, come succede, si spara a due carabinieri da 1.400 euro al mese.
Perciò dunque il gesto romano suona a suo modo prevedibile. Dopo di che, lo sparatore ha sparato “all’impazzata”, accontentandosi della piazza, pur vuota di politici. È a Montecitorio che oggi si va a commettere gesti insani, come su certi monumenti a buttarsi giù, e bisogna stenderci attorno reti di salvataggio. C’è anche un po’ di americanizzazione. Negli Stati Uniti, quella combinazione fra omicidio e suicidio che sembrò una mutazione peculiare del fanatismo islamista, si manifesta come il desiderio di ammazzarsi portandosene dietro un bel mucchio. Compagni di scuola, avventori del grande magazzino, passeggeri del proprio treno: un gesto “eclatante”, attraverso cui lasciare un segno del proprio misconosciuto passaggio. Succede ormai anche in Europa: non come nell’assassino di massa norvegese che simula di condurre la sua crociata, ma nella gratuita strage che faccia punteggio. “Uccide sedici scolari, poi si spara”. Si riscattano così giornate di lavoretti saltuari e nottate di videogiochi e lontananze da un bambino di undici anni. Poi, a volte, alla fine prevale la paura e la viltà, e non ci si uccide affatto, e nemmeno i carabinieri ti uccidono, benché tu, dicono le cronache, glielo stia chiedendo: “Ammazzatemi”.
“I politici”: sono i primi della lista, ormai. Prima dei padroni, dei giornalisti, dei magistrati, dei preti, dei medici e dei farmacisti. Appena dopo gli esattori delle imposte, di cui appaiono i mandanti. Sono la prima linea della società corrotta e arrogante. Che abbiano in tanti lasciato crescere e gonfiarsi così a lungo la tempesta in cui si trovano, ecco un’altra pazzia. E le distinzioni sono un argine pericolante o crollato: fra mezzo miliardo di euro rubati qua, e mille euro di francobolli per lettera rubati là. Tutti ladri.
La disperazione e la rabbia che corrono nella società non devono diventare un ricatto contro chi provi a cambiarla e renderla meno ingiusta. Però bisogna sapere su quale orlo di vulcano si danza. Prima che lo sparatore della piazza domenicale bruci la distanza che separa la sua solitudine dalla stessa piazza di un giorno feriale, piena di ribollenti spiriti. Se gridi ai “politici”: «Siete tutti morti. Sei un morto che cammina», non stai certo sobillando ad ammazzarli. Ma la volta che uno di loro sia morto e non cammini più, ci resterai male.

La Repubblica 29.04.13

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“Il mistero della pistola”, di CARLO BONINI

Un viaggio con alcuni punti fermi e qualche vuoto. Come la storia della Beretta 7.65 che ne è il sigillo.
Come in ogni storia capace di farsi biografia di una Nazione o, quantomeno, epifania della disperazione incubata dalla sua crisi, si scopre ora e troppo tardi che, come ogni viaggio solitario e senza ritorno, quello di Luigi Preiti, classe 1964, calabrese di Rosarno, era cominciato molto tempo fa. In silenzio e nella distratta indifferenza dei più.
Perché troppo simile e dunque indistinto, nelle parole e nei gesti quotidiani, da quello dei migliaia che in questi ultimi anni hanno perso tutto. E tutto insieme. La famiglia, il lavoro, la dignità, la speranza di uno straccio di futuro. Non c’è follia nella storia di Luigi, assicura oggi chi lo ha conosciuto e continua a volergli bene. Il fratello Arcangelo, che chiede solennemente «scusa agli italiani», l’ex moglie e madre di suo figlio Ivana, i suoi cugini, i suoi anziani genitori, il padre Michelangelo, la madre Polsina. Come pure chi lo ha interrogato in queste ore. Non c’è odio — giura lui ai pubblici ministeri cui consegna la sua confessione. C’è piuttosto il fallimento precoce e invisibile di un’esistenza che se ne va a fondo insieme al sogno collettivo del Paese di un benessere diffuso, acquisito e apparentemente non negoziabile. Quello che, nei primi anni ’90, spinge Luigi a mettersi su un treno che dalla Calabria è diretto al Nord (come aveva fatto il padre Michelangelo, rimasto in Germania per 30 anni) per cercare fortuna nel basso Piemonte, nella provincia di Alessandria, in quel di Predosa, dove quelli come lui, che è un eccellente piastrellista, li chiamano “tapulanti”. Gli edili che lavorano a giornata o a settimana nei piccoli cantieri di provincia.
Luigi è un uomo taciturno e solido. Non ha né modi, né manifestazioni violente. Scansa la politica. Non fugge la sua terra per ragioni diverse o inconfessabili che non siano la ricerca di un lavoro che lo liberi dall’alternativa tra il bisogno e la sudditanza alle cosche. Perché se è vero — come si è ascoltato nelle più recenti intercettazioni nelle indagini sulla criminalità organizzata — che a Rosarno su 2.500 anime la ’ndrangheta ha “500 uomini a disposizione”, è altrettanto vero che la famiglia Preiti, quanto meno il suo nucleo originario, è pulita. A Predosa, Luigi mette in piedi una ditta individuale e le cose, almeno all’inizio, sembrano girare per il verso giusto. Tanto che lo raggiunge anche il fratello Arcangelo, che, come lui, lì resterà a vivere. Si sposa una prima volta con Tiziana, ma non dura a lungo. Poi, incontra Ivana, che, come Luigi, si fatica l’esistenza con le mani, che affonda nelle terre coltivate di una grande azienda della zona. Undici anni fa, mettono al mondo un figlio. Vanno a vivere in una casa popolare. E forse pensano persino di avercelanfatta, perché nella mobilità della nuova Italia, Ivana lascia la campagna e trova lavoro in un call center.
In realtà, la tempesta perfetta che sta per inghiottire i mercati e le economie dell’Occidente lo reclama tra le sue prime vittime. La ditta individuale di Luigi comincia ad accumulare debiti che si sommano a crediti non riscossi. E — per quanto Ivana racconta — lui allora non infila lo sportello di una banca che comunque bnon sarebbe stata disposta a fargli credito, ma la scorciatoia che ti perde una seconda volta e per sempre. Quella delle scommesse. Sul biliardo. Quella che lo spinge ancora più sott’acqua e gli fa perdere le uniche cose che gli sono rimaste. Suo figlio e la donna con cui lo ha messo al mondo.
Nel 2011, quando lascia la famiglia e rimette le sue cose in valigia per percorrere a ritroso e da sconfitto il
tragitto che ha fatto 20 anni prima, Luigi non ha altro dove andare che la casa dei genitori a Rosarno, il paese dove sono rimaste a vivere le due sorelle, Girolama e Marina. Non ha più né un lavoro, né una famiglia. Ma gira con una pistola in tasca, pur non avendo un porto d’armi. È una Beretta 7.65 con la matricola abrasa. Quella che scaricherà di fronte al Parlamento contro due innocenti colpevoli di vestire l’uniforme dello Stato. Dirà ieri ai pm di averla acquistata nell’angiporto di Genova nel 2009. Anche se non gli crede nessuno. Perché — sostengono i carabinieri — quella pistola ha le stimmate dell’arma che arriva dritta dritta dal supermarket Calabria, dove è merce comune.
Del resto, che se ne faccia di quell’arnese, Luigi non è in grado di spiegarlo. Mentre è un fatto che sa usarla. Anche se — giurano i cugini che lo riaccolgono a Rosarno — l’uomo che torna a casa dopo vent’anni non sembra avere affatto il tratto sociopatico e ossessivo del “lone wolf”, del lupo solitario che cova vendetta e in cui deciderà di trasformarsi in piazza Montecitorio. Al contrario, — raccontano il padre Michelangelo e la madre Polsina — Luigi continua a sbattersi tra la Calabria e il Piemonte, dove va a trovare il figlio quando riesce, per mettere insieme qualche lavoretto che gli consenta di continuare a onorare l’assegno alimentare che, ogni mese, fa avere ad Ivana per il figlio. Anche perché nel frattempo ha debiti con Equitalia per 5mila euro.
È un fatto che nessuno intercetti la sua deriva. L’attimo in cui il suo fallimento trova finalmente un solo colpevole. Il Palazzo. La Politica. Né che qualcuno colga le pulsioni suicide che — dirà lui nel corso della sua confessione — avrebbero dovuto sigillare il suo gesto. E a cui — come per la pistola — i carabinieri tendono a non credere, anche perché nessuno avrebbe visto davvero Luigi puntarsi alla testa un’arma peraltro ormai scarica. I prossimi giorni diranno dunque se a questo canovaccio manca o meno ancora qualche pezzo in grado di modificarne il segno e il senso. Se insomma nella solitudine dell’uomo arrivato da Rosarno non abbiano fatto capolino interferenze. A oggi, si può dire che la storia di Luigi racconta ciò che mostra. E ce n’è già abbastanza per non tirare alcun sospiro di sollievo.

La Repubblica 29.04.13

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“Ci pensavo da due settimane a cinquant’anni io non ho niente mentre loro si mangiano tutto”. Preiti ai pm: dovevo suicidarmi ma ho finito i colpi, di MARIA ELENA VINCENZI

«Io ho cinquant’anni e sono ancora costretto a vivere con i miei genitori. I politici invece no, loro pensano solo a se stessi, guadagnano un sacco di soldi e mangiano alla faccia nostra e noi, intanto, siamo nei guai». Luigi Preiti spiega così a pm e carabinieri il perché del suo gesto, che ieri lo ha portato a sparare sette colpi contro due carabinieri in servizio davanti a Palazzo Chigi. Gli inquirenti lo sentono all’ospedale San Giovanni dove è stato portato per le medicazioni, nella colluttazione per bloccarlo, è stato lievemente ferito. Preiti, 49 anni ex muratore calabrese, è lucido, vigile, coerente. Non piange, risponde in modo chiaro alle domande. Sembra perfettamente cosciente, non è sotto shock. È seduto su una sedia, apparentemente tranquillo, i gomiti appoggiati sulle ginocchia, le mani strette. Non ha un attimo di esitazione. Non lascia trasparire alcun sintomo di una qualche patologia. Che, infatti, non ha: nessuna cura psicologica, nessun disagio segnalato. Soltanto ieri, i medici romani gli hanno diagnosticato una forma di depressione.
«Avevo pianificato tutto — racconta — Ci riflettevo da circa due settimane. Tutto era iniziato pensando che avrei dovuto dare un segnale forte per cercare di fare sentire la mia voce, la mia disperazione. La mia situazione, la separazione da mia moglie e mio figlio e il mio ritorno dai miei, in Calabria, la disoccupazione dalla quale non riesco a uscire mi hanno frustrato molto. Volevo che qualcuno si accorgesse di me, ho fatto tutto da solo. L’arma ce l’avevo, l’ho presa 4 o 5 anni fa al mercato nero di Genova». È nato così, nei giorni scorsi, nella monotonia delle giornate passate al bar a giocare al videopoker, il folle progetto di Preiti, muratore emigrante costretto a tornare a casa dai genitori. A 49 anni. «Volevo fare un gesto eclatante, lo progettavo da giorni. E ho pensato che oggi fosse il giorno giusto per manifestare la mia rabbia contro le istituzioni: il governo stava giurando. Volevo sparare a un politico e poi togliermi la vita, ma sono rimasto senza colpi». Cosa non vera perché in tasca aveva ancora diversi proiettili. Forse non ha avuto il tempo, forse il coraggio, forse la disperazione. La stessa che, però, lo ha convinto a pianificare tutto.
Sabato mattina è deciso a farlo. Si sveglia presto. «Sono andato in macchina alla stazione e ho preso il treno delle 8.55 per Roma. Arrivato nella capitale ho trovato un albergo vicino alla stazione dove ho passato la notte. Stamattina (ieri, ndr) intorno alle 9, ho liberato la stanza, fatto la valigia e sono uscito per andare a Palazzo Chigi ».
Voleva uccidere un politico, uno a
caso. «Non ne avevo uno in mente, andava bene chiunque. Non era importante la persona, lo era il gesto. Io non odio nessuno. Volevo solo dare un segnale». Lo dice come se fosse una cosa normale. Ma è domenica mattina: politici su piazza Colonna non se ne vedono. «Quando mi sono accorto che non c’era nessun deputato, nessun ministro, nessun senatore, ho puntato verso i carabinieri e ho fatto fuoco». Ma su quegli attimi, quelli della sparatoria, i ricordi si fanno più opachi. «Non ricordo bene cosa è successo in quegli istanti, ricordo solo di aver premuto il grilletto».
Il procuratore aggiunto Pierfilippo Laviani e il pm Antonella Nespola gli dicono che uno dei due carabinieri è ricoverato in gravi condizioni. «Mi dispiace, mi dispiace davvero — dice con la voce strozzata dalla commozione — Chiedo scusa. Non ce l’avevo con loro, ma loro stavano lì, davanti al palazzo e io dovevo fare qualcosa». Gli inquirenti, di fronte a quella lucidità, si stupiscono, gli chiedono se si rende conto di ciò che ha fatto. «Sì. Ne pagherò le conseguenze, tanto non ho più nulla da perdere». L’interrogatorio è quasi finito. Preiti chiede ai pm e ai carabinieri del nucleo investigativo se è il caso di avvisare la famiglia, ma l’istante dopo si pente: «No, come non detto, tanto a nessuno importa di me».

La Repubblica 29.04.13

"Martin Mystère contro Grillo. Andate oggi a (ri)vedervi il video di Casaleggio La democrazia si distrugge con la democrazia" di Alfredo Castelli

L’ideologo del MoVimento Cinque Stelle, Gianroberto Casaleggio, ha realizzato nel 2008 Gaia, il nuovo ordine mondiale, un film sulla sua personale visione del prossimo futuro. Lo si può vedere nel sito della Casaleggio Associati in inglese (www.casaleggio.it/media/video/gaia-il-futuro-della-politica-1.php) o con didascalie in italiano (www.youtube.com/watch?v=f6_Kcbmd6Z8&hd=1). Il film è stato abbondantemente citato, Crozza ne ha tratto una divertente parodia, ma purtroppo non è ancora abbastanza noto. Di recente l’ho mostrato a due grillini che non l’avevano mai visto: non si capacitavano che fosse opera dell’ideologo del loro movimento e non si trattasse delle farneticazioni di un ospite di Voyager, e all’inizio hanno sospettato il complotto. Dopo una lunga sequenza molto confusa, in cui non risulta chiaro se la comunicazione non-Internet costituisca un bene o un male, se Gengis Khan, Girolamo Savonarola e Leni Riefenstahl abbiano punti in comune, se la rivoluzione francese sia equiparabile a quella fascista (forse quella «buona» cui fa cenno la Lombardi), il filmato traccia una sintetica storia mondiale della comunicazione politica per mezzo di Internet, il cui punto più alto risulta essere il Vaffa Day (2007), svoltosi nella simbolica data dell’8 settembre.
Per quanto riguarda il futuro, Casaleggio prevede la terza guerra mondiale, che avrà inizio tra sette anni e finirà dopo due decenni, nel 2040. Le manifestazioni dell’alleanza pluto-cristiano-massonica, tra cui San Pietro e Nôtre Dame, saranno distrutte e si salverà solo un miliardo di persone, meno di un settimo dell’attuale popolazione mondiale. Il mondo ne risulterà purificato; il 14 agosto 2054, centenario della nascita del «Guru» (controllare per credere), i superstiti organizzeranno tramite Internet un nuovo ordine mondiale che nel XII secolo Gioacchino da Fiore chiamava «età dello Spirito Santo» o «millennio sabbatico», e Casaleggio chiama, in termini esoterici, «Gaia». Qui, finalmente, regneranno purezza, democrazia, felicità e Internet.
Anche Grillo, del resto, ha parlato di un periodo complicato (in questo caso di appena cinque anni) in attesa del momento in cui finalmente saremo tutti «un po’ più poveri ma più felici», in un futuro-dopo-la-catastrofe vagamente agreste, tipico dei movimenti millenaristici.
Lascio ai cassintegrati i commenti sulla prima parte dell’esternazione, e faccio rilevare che nella denominazione «MoVimento Cinque Stelle», la V evidenziata sta per Vaffa Day ma anche per «Vendetta» (riproduce il logo di V for Vendetta, il famoso fumetto di Alan Moore) e che «Tsunami», il nome del tour di Grillo, è molto azzeccato in quanto rende l’immagine di un’inarrestabile fiumana, ma è comunque sinonimo di lutti, distruzioni e morte.
In effetti nel lessico di Beppe Grillo compaiono espliciti riferimenti a una distruzione fine a se stessa (a meno di non voler considerare come un programma di ricostruzione le dichiarazioni: «Poi staremo tutti meglio, non pagheremo più il gas e la luce, faremo tutto con Internet, sarà bello!»): il non-più-comico, ma uomo politico Grillo ha più volte ribadito che le frasi «Li sbatteremo tutti fuori» o «Apriremo il Parlamento come una scatola di sardine» non sono né devono essere intese come iperboli pre-elettorali, ma vanno prese letteralmente; ha anche specificato che chi, come me, ha creduto che frasi del tipo «Li sbatteremo tutti fuori» si riferisse solo ai corrotti e ai disonesti, non ha capito nulla e ha sbagliato a votare M5S, in quanto tutti significa proprio tutti coloro che hanno toccato la politica, e sono dunque per sempre contaminati. Tra parentesi, se le frasi vanno interpretate in termini letterali, mi chiedo se sia accettabile che un «club» (il Parlamento) accolga come socio chi dichiara che vuole distruggerlo.
Da un partito che ha scelto come simboli o parole d’ordine la vendetta, la morte, la distruzione non mi aspetto molto in termini costruttivi. Il 99 per cento delle proteste dei grillini sono più che sacrosante, e per questo in tanti li hanno votati; altrettanto sacrosante sono alcune idee di cambiamento. Ancor più che sacrosanta la constatazione dell’insipienza di alcuni partiti: da persona che ha sempre votato Pd, o comunque a sinistra, non riesco a capacitarmi di un simile comportamento autodistruttivo.
Giusta protesta e giuste rivendicazioni non sono però automaticamente garanzia di buona politica da parte di chi le porta avanti. Non lo sono neppure una straordinaria capacità oratoria (in più Grillo gioca anche sulla definizione «comico»: se esagera, si trattava di una battuta), un’ottima gestione della comunicazione e una spregiudicata strategia (Berlusconi insegna) che, per ragioni che sarebbe bene analizzare, è concentrata soprattutto contro il Pd, già cromosomicamente portato all’autodistruzione, e di conseguenza in favore del Pdl. Vuoi per l’errata identificazione tra protesta e capacità di governare, vuoi per malinteso equivoco sui valori («Eccezionale comunicatore = ottimo politico»), vuoi per la tendenza a una suddivisione manichea tra bene e male (se il Pd si comporta male, il M5S, suo avversario, si comporta automaticamente bene, e quindi si comporta bene anche il Pdl), vuoi per sensi di colpa («Si dichiarano senza macchia, io non me la sento di dire altrettanto di me stesso»), vuoi per qualche forma di imbarazzo cultural-pop (come contraddire Dario Fo e Celentano? Come dare ragione a Ferrara?), vuoi per qualche «non si sa mai, è meglio tenerseli buoni», sta di fatto che quando si comincia un discorso critico sui grillini l’esordio d’obbligo è un timido: «Io non ho nulla contro i grillini, ma…».
Io qualcosa contro i grillini ce l’ho. Non con chi li ha votati, magari sperando divenissero un fattivo contraddittorio quale furono a loro tempo i radicali. Ce l’ho con il gruppo dirigente che il MoVimento tende pericolosamente a identificare come «il popolo italiano» e che, «per coerenza» («La coerenza è l’ultimo rifugio delle persone prive di immaginazione», Oscar Wilde), ha rifiutato di compiere alcune scelte grazie alle quali oggi saremmo in una situazione molto diversa da quella attuale.
Credo che occorra segnalare con chiarezza che, al di là dell’abuso del termine «democrazia» da parte di Grillo e dei suoi, il movimento dimostra forti caratteri totalitari (anni fa avremmo detto «profondamente fascisti») che non possono essere liquidati come semplice folklore. Tra i molti esempi rilevati e riportati dai mezzi di comunicazione e che quindi qui non starò a ripetere, si nota come venga accettata, se non favorita, una forma di disprezzo da parte della base nei confronti del professionismo, della cultura e dell’esperienza in favore dell’ignoranza e dell’arroganza: un atteggiamento tipico di tutte le dittature, Khmer Rossi compresi. Sicuramente Casaleggio non è l’esoterista Jörg Lanz von Liebenfall e Grillo non è il suo discepolo Adolf, ma a me disturberebbero anche un Ron Hubbard e Scientology. Il MoVimento deve poter esistere, ma la sua potenziale pericolosità non solo non va sottovalutata, ma dev’essere accuratamente monitorata, adesso che i 5S non detengono ancora «il 100% al Parlamento» come mira a ottenere Grillo (il quale, ricordo, sostiene di non usare mai iperboli). C’è il rischio che tenti di utilizzare la democrazia per distruggere la democrazia.

Il Corriere della Sera 28.04.13

"Le prime risorse destinate a Imu e cassa integrazione", di Marco Rogari

Un’operazione in due tappe, da completare entro giugno, da 8-10 miliardi. Che possono salire a 12-13 con il ricorso a misure “pronto uso” per detassare le assunzioni di giovani e cominciare ad alleggerire il cuneo fiscale. Con un primo step immediato per rifinanziare per 1 miliardo la Cig in deroga, garantire la proroga ai precari della pubblica amministrazione, far scattare l’alleggerimento dell’Imu già dalla rata di giugno. E dare l’ok alla proposta che arriva in Parlamento di far salire da 40 a 47,5 miliardi la prima tranche di pagamenti arretrati della Pa da sbloccare in due anni. È quella che si accinge a far scattare, già entro il 10-15 maggio, il nuovo Governo a guida Enrico Letta. Con l’obiettivo, da centrare entro il prossimo mese, di prorogare la Tares, rinviare al 2014 l’aumento dell’Iva in calendario a luglio e, ma con tempi più lunghi, dare una soluzione definitiva al caso esodati.
Alcune indicazioni su strumenti e tabella di marcia arriveranno già domani dall’intervento che il nuovo presidente del Consiglio farà alla Camera per chiedere la fiducia. Letta avrebbe già abbozzato un primo dossier economico allo stato grezzo. Che dovrà essere ora perfezionato con le indicazioni dei nuovi ministri, a partire da quello dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, e tenendo conto delle priorità segnalate dai partiti della maggioranza in versione larghe intese.
Quella a cui starebbe pensando Letta è una prima operazione in due tranche “a presa rapida” da innestare nella cornice di una sorta di Pnr bis (Programma nazionale delle riforme) destinato a Bruxelles, molto più ampio e articolato della versione del governo Monti, e di un Def integrato, probabilmente il prossimo mese, da una nota di variazione che dovrà tenere conto della manovra per far fronte alle cosiddette spese indifferibili (in primis Cig, precari e missioni internazionali di pace).
Proprio la valutazione del Def targato Monti insieme acon la gestione del decreto sui debiti Pa saranno, già la prossima settimana, i primi impegni in Parlamento del Governo Letta. Che, come ha lasciato intendere il nuovo premier, punta molto sul tentativo di ammorbidire la linea europea dell’austerity da mettere in moto subito. Letta in particolare tenterà di ottenere l’ok allo scomputo dal deficit di bilancio delle spese per investimenti in capitale umano, ricerca e sviluppo.
Nel frattempo il Governo dovrà dare risposte immediate ad almeno quattro questioni. Anzitutto quella dei pagamenti arretrati della Pa, per la quale si pensa a un significativo rafforzamento dell’attuale piano facendo leva sul contributo della Cassa depositi e prestiti. Le altre tre sono: il rifinanziamento della Cig e la proroga dei precari Pa; la manovrina per coprire le spese indifferibili; la riconfigurazione dell’Imu e il rischio di ingorgo fiscale di giugno-luglio con Tares e Iva. Di qui l’idea di ricorrere a un’operazione in due tappe. Con l’ok, già in uno dei primi Consigli dei ministri, alle misure su Cig e precari Pa e la decisione sull’irrobustimento della tranche di pagamenti arretrati da sbloccare per le imprese. A giugno poi arriverebbe un decreto per la gestione delle altre spese indifferibili e dell’Iva. Resta da decidere se collocare l’intervento sull’Imu, la proroga della Tares e le eventuali misure sul bonus fiscale per le assunzioni di giovani già nel primo pacchetto.
Nel complesso le spese indifferibili ammontano a 3,5-4 miliardi: 1 miliardo per la Cig in deroga; quasi 1 miliardo per le missioni internazionali di pace; 7-800 milioni per la proroga dei precari Pa e per la proroga degli sfratti. In scadenza tra l’estate e il prossimo autunno ci sono anche il bonus energia e il bonus per le ristrutturazioni edilizie per i quali dovrebbero servire oltre 500 milioni. Più contenute le risorse necessarie per i contratti di servizio (Poste, Fs e via dicendo). Dai 4,5 ai 6 miliardi saranno necessari per la partita fiscale: meno 1 per il rinvio della Tares; meno di 2 per il congelamento fino al 2014 dell’Iva. Almeno altri due miliardi servirebbero per l’alleggerimento dell’Imu. Che salirebbero a 4 nel caso di una restituzione della metà dell’imposta pagata sulla prima casa nel 2012 e addirittura a 6 con la restituzione totale. Un’ipotesi quest’ultima che, nonostante il pressing del Pdl, sembra già accantonata.
A queste risorse vanno poi aggiunti i 2-3 miliardi necessari per dare una spinta all’occupazione e gli altri 2 per evitare eventualmente l’aumento dei ticket sanitari previsto dal 2014. Ma quest’ultimo nodo dovrebbe essere sciolto in autunno con la legge di stabilità. Così come quello sugli esodati per il quale al momento di fatto non esiste dote aggiuntiva.
Lo scoglio più arduo da superare per il nuovo governo è quello delle coperture da trovare. Dal nuovo ciclo di spending review (12-15 miliardi nei prossimi tre anni) nel 2013 potrebbero arrivare non più di 3-4 miliardi. Al massimo un altro paio di miliardi potrebbero essere ricavati dal fronte dei giochi e dei tabacchi. Altre risorse preziose arriveranno dal ripescaggio della delega fiscale alla quale nei mesi scorsi aveva lavorato Vieri Ceriani (che potrebbe trovare posto anche nel nuovo Governo). Due gli altri canali che restano percorribili: la lotta all’evasione, con in più l’accordo con la Svizzera suggerito anche dai saggi nominati dal Capo dello Stato, e un atteggiamento più flessibile da parte di Bruxelles.
LE PRIORITÀ

1

Imu più «leggera»
da giugno

Il nuovo governo ha sul tavolo l’alleggerimento dell’Imu sulla prima casa già dalla rata di giugno. Servirebbero due miliardi che salirebbero a 4 nel caso di una restituzione della metà dell’imposta pagata sulla prima casa nel 2012 e addirittura a 6 con la restituzione totale. Un’ipotesi quest’ultima che sembra già accantonata.
2

Sblocco
dei debiti Pa

Già entro il prossimo 10-15 maggio, con il primo o il secondo Consiglio dei ministri, il governo Letta potrebbe dare l’ok alla proposta che arriva in Parlamento di far salire da 40 a 47,5 miliardi la prima tranche di pagamenti arretrati della Pa nei confronti delle imprese, da sbloccare in due anni
3

Cassa in deroga
e proroga precari

Urgenti anche le spese indifferibili per 3,5-4 miliardi: 1 miliardo per la Cig in deroga; quasi 1 miliardo per le missioni internazionali di pace; 7-800 milioni per la proroga dei precari Pa e degli sfratti. In scadenza anche il bonus energia e quello per le ristrutturazioni edilizie (500 milioni). Più contenute le risorse per i contratti di servizio (Poste, Fs , ecc.)
4

Rinvio di Tares
e aumento dell’Iva

Serve meno di 1 miliardo per il rinvio della Tares e meno di 2 per il congelamento fino al 2014 dell’Iva. Allo stato attuale, dal 1° luglio l’attuale aliquota Iva ordinaria salirà dal 21 al 22%. La Tares è la nuova tariffa che dal 2013 andrà a coprire la raccolta rifiuti e altri servizi locali, con rincari rispetto al vecchio regime.

Il sole 24 ore 28.04.13

"Un medico per l'Italia malata", di Eugenio Scalfari

Il governo Letta è nato ieri pomeriggio. Presterà giuramento questa mattina e si presenterà al Parlamento domani. Nelle circostanze date è un buon governo. Enrico Letta aveva promesso competenza, freschezza, nomi non divisivi. Il risultato corrisponde pienamente all’impegno preso, con un’aggiunta in più: una presenza femminile quale prima d’ora non si era mai verificata. Emma Bonino agli Esteri è tra le altre una sorpresa molto positiva; sono positive anche quelle della Cancellieri alla Giustizia e di Saccomanni all’Economia.
L’intervento di Napolitano nella sala stampa del Quirinale dopo la lettura della lista e le parole di ulteriore chiarimento da lui pronunciate confermano la solidità del risultato. Persino il Movimento 5 Stelle dovrebbe prendere atto che un passo avanti verso un cambiamento sostanziale è stato compiuto. Ma ora facciamo un passo indietro per capire meglio qual è la prospettiva che ci si presenta e le cause che l’hanno determinata. * * * «L’Italia l’è malada», così cantavano i contadini delle Leghe del Popolo nella Bassa Padana e nelle Romagne, aggiungendo «e il dottor l’è Prampolin»: Camillo Prampolini, che fu uno dei fondatori del partito socialista nel 1892. Questo stesso titolo lo usai alcuni anni fa sul nostro giornale commentando un altro periodo di crisi tra i tanti che si sono succeduti nella nostra storia.
Questa volta però la crisi è ancora più grave perché non è soltanto il nostro paese ad esser malato, è malata l’Europa, è malato il Giappone, sono malati gli Stati Uniti d’America, è malata l’Africa e il Vicino Oriente. Insomma è malato il mondo. È un dettaglio? Non direi. Ma spesso ce lo dimentichiamo ed è un errore perché ci toglie la prospettiva, ci fa scambiare gli effetti per cause e prescrive le terapie che sono soltanto “placebo” e non medicine efficaci.
La malattia cominciò nel 2008 con la crisi del mercato immobiliare americano che culminò col fallimento della Lehman Brothers. Poi, nei mesi e negli anni successivi, si allargò all’Europa, coinvolse in varia misura il resto del mondo e infine diventò, in Europa, recessione e crisi sociale. Durerà fino all’anno prossimo e questo è lo stato dei fatti.
La politica ha ceduto al passo all’economia e deve riprendere la sua supremazia e puntare sull’espansione? Lo sostengono in molti e Krugman lo teorizza, ma gli sfugge un elemento fondamentale: nel mondo globale la ricchezza tende a ridistribuirsi tra i paesi che emergono dalla povertà e gli altri che riposano passivamente su un’antica opulenza.
Questo movimento ha una forza e una ineluttabilità che non possono essere arginate; possono essere tutt’al più contenute entro limiti sopportabili attraverso un confronto tra le potenze continentali.
Se ci fosse uno Stato europeo, esso sarebbe in grado di sostenere quel confronto, ma fino a quando non ci sarà i governi nazionali resteranno irrilevanti. Che l’errore lo faccia Grillo invocando la palingenesi è comprensibile, ma che lo facciano anche intelletti consapevoli è assai meno scusabile.
Probabilmente la causa dell’errore sta nel fatto che l’analisi della situazione e la terapia capace di guarirne la malattia sono soverchiate dagli interessi, dalle ambizioni, dalle vanità delle lobbies e degli individui. L’egoismo di gruppo ha la meglio, l’emotività imbriglia la ragione, la vista corta di chi vuole tutto e subito impedisce la costruzione di un futuro migliore. La palingenesi non è la costruzione del futuro, ma un’utopia che porta con sé la sconfitta.
* * *
Il governo si chiama istituzionale perché è stato formato seguendo rigorosamente la procedura indicata dalla Costituzione e lo spirito che ispira il nostro ordinamento democratico. Lo stesso avvenne con il governo Monti nel novembre 2011, in comune i due governi hanno la situazione di emergenza. Quella di due anni fa era un’emergenza della finanza pubblica che rischiava di precipitare in un fallimento del debito sovrano e dello Stato; quella di oggi è un’emergenza economica e sociale che rischia di determinare una decomposizione della società.
Le emergenze limitano la libertà di scelta e impongono soluzioni di necessità. In questi casi il rigoroso rispetto della meccanica istituzionale diventa la sola via praticabile e il primo che ha dovuto cedere a questa scelta obbligata è stato Giorgio Napolitano. Aveva deciso e più volte ripetuto di non voler essere riconfermato al
Quirinale e ne aveva spiegato pubblicamente e privatamente le motivazioni. L’emergenza nel suo caso non è stata soltanto la crisi sociale ma la crisi politica che non ha reso possibile la nomina del suo successore. Perciò, suo malgrado, Napolitano ha dovuto restare al Quirinale.
Suo malgrado, ma per fortuna del paese. Napolitano conosce benissimo i limiti e i doveri che la Costituzione gli prescrive; proprio per questo, nell’ambito di quel quadro, può agire con la massima energia. Se le forze politiche non reggeranno ad una “mescolanza” che contiene – non c’è dubbio – anche elementi repulsivi, se ne assumeranno l’intera responsabilità.
Ci sono molti precedenti in proposito e lo stesso Napolitano ne ha richiamato uno: l’incontro politico tra Moro e Berlinguer a metà degli anni Settanta. La mescolanza ci fu, o meglio mosse i suoi primi passi per iniziativa di quei due interlocutori; ma è stata facile l’obiezione di alcuni critici che hanno ricordato non soltanto la diversità delle situazioni storiche ma anche la diversa qualità degli interlocutori. È vero, ma ci sono altri esempi, forse più probanti.
Nel 1944, quando la guerra era ancora in corso e le armate contrapposte si fronteggiavano sulla cosiddetta “linea gotica” a ridosso del Po, Palmiro Togliatti riuscì ad arrivare da Mosca a Napoli. Il Pci era stato ricostituito nel Sud dai dirigenti clandestini finalmente alla luce del sole; a Napoli il segretario locale del partito era Cacciapuoti, comunista a 24 carati. Sbarcato a Napoli, Togliatti arrivò inaspettato a casa di Cacciapuoti.
Commozione, abbracci, convocazione immediata di tutti i dirigenti del partito, cena improvvisata, entusiasmo. Dopo cena si fece silenzio. Togliatti disse che voleva per l’indomani l’assemblea di tutti gli iscritti, dove avrebbe annunciato le decisioni da mettere in atto. «Ci puoi anticipare quali sono le decisioni?» disse Cacciapuoti e Togliatti rispose «riconosceremo il governo Badoglio e l’appoggeremo». Lo sbalordimento fu generale, ma Togliatti spiegò che non c’era altra via almeno fino a quando l’armata americana non fosse entrata a Roma. Pochi giorni dopo incontrò Benedetto Croce che era arrivato da tempo alle medesime conclusioni e faceva parte del governo Badoglio.
C’è ancora un altro esempio che riguarda Berlinguer. Quando il Pci dall’astensione passò al vero e proprio ingresso nella maggioranza, il presidente del Consiglio designato da Moro era Andreotti, sicché il passaggio dalla “non sfiducia” al voto in favore del governo ebbe Andreotti come interlocutore. Moro fu rapito lo stesso giorno del voto che però era stato deciso già prima da Berlinguer.
Badoglio nel ’44, Andreotti nel ’78, il Pci di Togliatti e poi quello di Berlinguer. Napolitano era a Napoli nel ’44 e a Roma nel ’78. Adesso ha responsabilità assai maggiori di quelle che allora ebbero i due leader comunisti. Lui è il primo ex comunista andato al Quirinale 58 anni dopo la firma della Costituzione. Ma un presidente al di sopra delle parti come lui, salvo Ciampi, non è mai esistito. Garantisce tutti, ma garantisce soprattutto il paese e per questa ragione nell’interesse del paese agisce con tutta l’energia necessaria.
Ora vedremo il governo Letta al lavoro. Se i fatti corrisponderanno alle parole molte sofferenze saranno lenite e molte speranze riaccese.

La Repubblica 28.04.13

"Il Pd ritrovi la sua funzione", di Guglielmo Epifani

Il primo atto del governo si è compiuto, dopo un braccio di ferro duro e una difficilissima mediazione finale. Sapevamo che non sarebbe stato il governo di cambiamento del quale l’Italia avrebbe bisogno. Sappiamo che la strada, per quanto inevitabile, sarà irta di ostacoli. Ma ha fatto premio l’esigenza di dare un governo al Paese, per affrontare quei nodi resi ineludibili da una crisi pesantissima e senza fine.

E in questo modo riuscire a restituire un po’ di fiducia a un Paese scosso ed in difficoltà. Il profilo del governo ha tante facce. Novità importanti – tra tutte la presenza della prima donna nera – presidi importanti e non scontati all’Economia e alla Giustizia, equilibrio in altri campi tra espressioni politiche alternative. Con la stessa franchezza, manca nel governo una più significativa presenza di quella cultura politica che viene dalla tradizione del lavoro e si sente parte del socialismo europeo, e ha tante radici e rappresentanze nel Paese. Questo limite andava evitato.

Adesso, in Parlamento, il presidente del consiglio ha il compito di esporre punti e priorità del programma, partendo dal tema del lavoro e della occupazione, degli investimenti, della tutela di chi perde il lavoro. Deve chiarire come ottenere dall’Europa una politica che non sia solo di rigore e che consenta di trovare risorse per sostenere la domanda interna e far ripartire i consumi. Nello stesso tempo, Enrico Letta dovrà chiarire le forme della discussione di natura istituzionale, che avrà certo il suo fulcro in Parlamento ma che ha bisogno di un «accompagnamento» da parte dell’esecutivo. Il governo di servizio dovrà anche darsi l’impegno di dirimere le difficoltà con obiettivi concreti e in grado, da subito, di segnare un rapporto po- sitivo con le tante attese che si sono sedimentate.

Il Pd sosterrà con serietà l’azione di governo, pur sapendo i tanti dubbi e le difficoltà che sta vivendo una parte non piccola del proprio popolo. Spenderà in questa direzione la propria forza parlamentare. Il suo impegno dovrà essere anche quello di far vivere una voce e una presenza forte nel Paese per rappresentare quei ceti e settori che la crisi ha lasciato indietro. C’è una grande domanda di cambiamento, di equità e di solidarietà a cui il Pd non può non dare risposta, pena l’offuscamento del suo ruolo e della sua funzione. Per questo i democratici devono stare, nello stesso tempo, dalla parte degli ultimi e dalla parte di chi ostinatamente produce, paga le tasse e non si rassegna al declino dell’Italia.

Il Pd dovrà presidiare il fronte sociale e lavo- rare da stimolo all’azione del governo. Anche perché dopo dovrà tornare una dialettica tra forze alternative, rese più mature da questa esperienza nel nuovo esecutivo, il cui risultato segnerà anche il giudizio sul Pd. La discussione che ci aspetta è impegnativa e fondamentale. C’è un filo che tiene assieme questa dimensione e quella del governo. L’una influenzerà l’altra e viceversa. Proprio per questo il Pd deve rapidamente trovare la strada giusta – e le tappe, compreso il congresso – per uscire dalle straordinarie difficoltà in cui è finito. È necessaria una grande opera di rinnovamento e di riforma del partito: per avere un profilo più netto e riconoscibile. Dobbiamo costruire un partito che agisce e decide e che per questo sa dove e come discutere, e lo fa principalmente allargando le forme della partecipazione e della democrazia.

Le scelte che si dovranno fare andranno fatte con le persone, a partire dai tanti che oggi si mostrano critici e delusi. Anche perché solo questo può evitare una discussione tutta piegata all’interno, burocratica, fatta solo di manutenzione. Il futuro de Pd passa da qui, dalla scelta e dalla capacità di cambiare, dalla franchezza di un confronto politico che non nasconda nulla e si proponga, senza ritorni all’indietro, di ripartire con un progetto e una speranza che non va fatta cadere.

L’Unità 28.04.13