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"Torna lo streaming dell’incomunicabilità e Letta esorta i 5Stelle: “Scongelatevi”, di Filippo Ceccarelli

Al terzo o quarto streaming in meno di un mese, risalendo il primo incontro Bersani-Letta con i cinquestelle al 27 di marzo, il giornalista politico comincia a sentirsi un po’ telecronista balbettante e desolato, critico televisivo senza mezzi né preparazione, anima in pena dispersa nel cyberspazio istituzionale.
E seppure le fatiche dell’informazione non fanno notizia, la diretta web di ieri, l’incontro fra il presidente incaricato e una sempre più folta delegazione grillina, s’è comunque aperta all’insegna dell’incomunicabilità per poi chiudersi in un pacato botta e risposta a base di freezer e scongelamenti.
O meglio, per la verità l’ultima rimarchevole battuta, che quasi certamente Letta si era messo in canna prima ancora di sedersi con i parlamentari del M5S dietro l’ormai famigliare tavolone della Sala del Cavaliere, è quella sulla canzone «Dio è morto», peraltro composta da Guccini un anno prima (1966) che l’incaricato venisse al mondo.
Sulla presenza o meno della divinità in questo genere di vicende si può discutere, più o meno laicamente, ma in ogni caso l’esperienza politica – e un po’ anche politicante – torna utile e Letta è stato molto bravo a pronunciarla a sorpresa proprio nel mentre si alzava dichiarando chiusa la sessione on line. Di dover trasmettere a Grillo che Dio è morto, ma dopo tre giorni risorge, i grillini non se l’aspettavano proprio, e perciò hanno fatto il classico buon viso a cattivo gioco – che poi in fondo non era nemmeno troppo cattivo.
Comunque Grillo se lo sarà visto, forse, e non avrà bisogno di saperlo dall’assortito duo Crimi& Lombardi. Detto questo, e al netto del senso di alienazione che questo genere di confronti procura al gentile pubblico non pagante, Letta, che non per caso ha accettato con misurato entusiasmo di pagare la tassa-streaming, è venuto bene sullo schermo. Per niente imballato, abbastanza sicuro, moderatamente gesticolante ed empatico, a un certo punto ha rivendicato di voler mettere del «calore» nella discussione proprio in quanto la sua controparte gli pareva surgelata. Non era una cosa carina da dirsi, ma c’è riuscito senza procurare reazioni nei presenti.
Sotto il quadro con paesaggio di rupi e cascate, i grillini somigliavano piuttosto a delle statue di pietra. Anche quando il presidente incaricato, dopo aver esposto i suoi progetti, li ha ripetutamente invitati a «mescolarsi» – che invece nel loro ambiente deve essere una faccenda parecchio controversa. E infatti a tarda sera è intervenuto il Verbo in persona con un post: «Con questi non ci mescoleremo mai». Dopo aver definito Letta «Capitan Findus, lo stoccafisso del Ppdmenoelle», con meno efficacia Grillo ha reso nota la sua avversione anche lessicale alla mescolanza, «un termine da cucina per quanto raffinata, o per cocktails dal risultato non necessariamente gradevole al gusto».
Crimi l’ha quindi buttata sull’inazione imposta alle Camere. Lombardi ha consegnato a Letta una proposta di abrogazione del finanziamento per co-firmarla. Purtroppo non si è vista la faccia con cui Letta ha accolto l’auspicio.
La particolare condizione dello streaming pone i partecipanti – o attori che siano – in un’area grigia in cui convivono pubblico e privato, finzione e realtà. E tuttavia l’abbondanza di periodi ipotetici usati da Letta – «se riuscirò», «se scioglierò la riserva», «se questo governo si farà», «se arriverà in Parlamento» – hanno lasciato capire che la situazione va per le lunghe.
Anche la diretta è parsa a un certo punto volgere alla noia. Esaurita la metafora lettiana dei ministri esperti, che non devono fare «scuola guida», e consumatasi l’insistenza grillina sulle piccole e medie industrie, ci si è sorpresi a fissare le pareti di damasco giallo, i misteriosi dignitari seduti al fianco dell’incaricato (poi rivelatisi quali il dottor Luigi Ferrara, già vicecapo di Gabinetto di Letta a Palazzo Chigi e il dottor Roberto Cerreto, funzionario di Montecitorio) le toppe sui gomiti della giacca dell’onorevole Nuti, in primo piano.
Né francamente hanno suscitato brividi – ma non è affatto detto che fosse questo lo scopo – le divagazioni sull’ostilità del Pd su Rodotà, il cambio da Marini a Prodi, i movimenti del senatore Marino, eletto a Brescia e ora candidato sindaco di Roma, la mancata modifica del Porcellum sollevata dall’onorevole Giarrusso, come del resto il solito tormentone sulla Bicamerale, i richiami alla legalità, più un chiarimento sul fiscal compact. Per poi tornare al tipo di ministri che Letta, la cui cortese disponibilità era finalizzata ad alzare «la saracinesca» che i grillini pongono tra sé e il mondo, starebbe cercando di arruolare: se con alto profilo d’indipendenza o «navigati», là dove il termine apre orizzonti d’incommensurabile ambiguità.
Ma a quel punto la novità dello streaming si era già da un pezzo trasformata in una specie di talkshow di serie B, come quelli che si vedevano alla metà degli anni 80 in certe emittenti locali, inquadrature fisse, pallide luci, sonoro così così. E d’accordo che la situazione è grave, ma la prossima volta, forse, un po’ di musica non guasterebbe.

La Repubblica 26.04.13

“Beppe sbaglia, i valori della Resistenza sono vivi”, di Andrea Montanari

Antonio Pizzinato presidente onorario dell’Anpi Lombardia, Grillo dice che il 25 aprile è morto. È vero?
«Credo che la manifestazione di ieri anche a Milano stia ad indicare che il 25 aprile sia più vivo che mai nel far vivere i valori della Resistenza. Ieri mattina ero a Dongo sul lago di Como. Un luogo simbolo della nostra storia. Ho sottolineato alle nuove generazioni che devono far vivere questi valori e ho ricevuto consensi da tutti. Non è questo il problema, oggi».
Qual è?
«Il punto è che nell’ultimo ventennio
in parte non si sono fatti vivere i valori nati dalla Liberazione che sono implementati nella nostra Costituzione. Non possiamo dimenticare che il valore della Resistenza è stata alla base del decreto luogotenenziale che nel giugno del 1944 stabiliva che spettava solo al popolo sovrano decidere i passi successivi
».
Cioè?
«Uno dei punti che negli ultimi anni è stato messo in discussione è proprio quello che oggi non sono più gli italiani a scegliere, ma il Parlamento. Ecco perché serve una riforma elettorale subito. In secondo luogo la Costituzione dice chiaramente che è compito
della Repubblica rimuovere gli ostacoli di tipo economico e sociale che impediscono l’eguaglianza e la pari dignità. Se no si rimuovono questi ostacoli non c’è futuro».
Ha ragione Grillo dunque quando dice che oggi i partigiani si metterebbero a piangere?
«No, se tornassero i partigiani ci aiuterebbero a operare per rimuovere questi ostacoli. questo è quello che bisogna fare. I partigiani non si mettevano mai da parte come i grillini».
Per esempio?
«Nel mondo del lavoro bisogna assicurare a tutti la parità dei diritti. Credo che il modo in cui è stata celebrato quest’anno la festa
della Liberazione, con la presenza di tutte le istituzioni, senza contestazioni, con tutti i sindacati sia il segnale migliore per rispondere a Beppe Grillo».
I rappresentanti del Movimento Cinque Stelle, però, ieri a Milano sono scesi dal palco dopo le parole del presidente Boldini.
«Credo che Grillo debba riflettere su questo continuo rimettere in discussione tutto e non fare in modo che coloro che sono stati eletti in Parlamento con il suo movimento svolgano un’opera costruttiva per compiere questo passaggio. Bisogna riavviare una nuova stagione che faccia rivivere i valori della Resistenza».

La Repubblica 26.04.13

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“È pericoloso fare a pezzi la nostra storia fuori dalla Costituzione l’Italia è perduta” di Alessandra Longo

Negli ultimi due anni Stefano Rodotà ha incontrato quindicimila studenti. Lo ha fatto per sponsorizzare la Costituzione figlia della Resistenza, per regalarne i segreti alle future generazioni: «Non è vero che i giovani sono indifferenti. Spesso non sanno nulla. Se gliela spieghi, la Carta, ci trovano dentro i valori in cui credono». E nel giorno in cui Grillo dichiara «morto» il 25 aprile, il professore avverte: «Di questa storia non va smontato
nessun pezzo». Il tono è severo, appassionato, anche se l’ex candidato alla presidenza della Repubblica non vuole scendere in polemica diretta con chi ha sostenuto il suo nome. Ma non si scherza con la storia se si vuole rinascere come Paese: «Dobbiamo essere consapevoli della radice profonda che hanno i diritti di libertà
nel nostro Paese».
Professore, ancora una volta il 25 aprile è stato consumato in maniera controversa,
più divisiva che unificante.
«Quello di quest’anno è stato un 25 aprile diverso dagli anni passati. Perché diversa è la situazione in cui viviamo, immersi in un disfacimento civile e politico».
Forse per questo non c’è stato il dovuto e corale omaggio.
«Ma è questa data e ciò che rappresenta che ci può aiutare in un momento di crisi. Mai come ora abbiamo bisogno di una politica costituzionale che abbia come presupposto la consapevolezza piena dei valori della Costituzione e delle loro radici».
E invece c’è chi pensa al 25 aprile come ad un rito polveroso.
«E’ esattamente il contrario. Non si tratta di mantenere viva una memoria storica ma di rendere omaggio alle basi su cui si può fondare la ricostruzione, non solo economica, del Paese. L’identità costituzionale ci può consentire di riedificare un sistema civile e politico
in un momento di crisi profonda».
Molti italiani hanno perso dimestichezza con la storia.
«E allora bisogna ricordarlo. Il 25 aprile è il punto conclusivo di una
vicenda che vede coinvolti in prima persona i cittadini a difesa della libertà. C’è un nesso profondo tra lotta armata, coscienza culturale e coscienza istituzionale e il
cemento di tutto è l’antifascismo».
Eppure si sente la stanchezza del ricordo, in molti denunciano la retorica resistenziale.
«E’ giusto che la storiografia si
interroghi, approfondisca. Altra cosa è convalidare forme di revisionismo che hanno come unico obiettivo, marginalizzando la Resistenza, di attaccare la Costituzione ».
Mi chiedo se questo Paese è ancora in grado di pensieri profondi, così alle prese con il quotidiano, con la sopravvivenza.
«Ma di questo stiamo parlando, delle radici, dell’identità, senza le quali non si va da nessuna parte. Se si decide di mettere mano alla Costituzione dobbiamo essere consapevoli che la Carta ha al suo interno valori forti che non possono essere messi in discussione senza abbandonare il quadro di riferimento cui si ispirarono i nostri Padri Costituenti. Ed è un quadro di riferimento vitale e dinamico».
Si riferisce ai diritti.
«Sì, penso alla difesa del lavoro, dell’istruzione, al diritto costituzionale ad un’esistenza libera e dignitosa. Tutti diritti violati dal fascismo e dal nazismo».
E per lei c’è una data che rappresenta tutto questo: il 25 aprile.
«Assolutamente sì, la mia è una risposta netta. Non si può cancellare con un colpo di penna il 25 aprile perché significa avviare un rischioso esercizio di abbandono progressivo del dato costituzionale ».
Lei pensa che siamo ancora in tempo per correggere la rotta?
«Io sono andato nelle scuole, ho incontrato 15 mila ragazzi. Ho assistito al risveglio di quello che Habermas definisce “il patriottismo costituzionale”. Non è vero che i giovani sono indifferenti. Dalla seconda metà del 2010 alla prima metà del 2011 la Costituzione è finita sulle magliette, è stata portata nelle piazze… «.
Le più recenti performance della classe dirigente di questo Paese certo non aiutano.
«Infatti. Questo ceto politico ha fatto poco o nulla per riprendere le fila anche se è proprio adesso che abbiamo le responsabilità maggiori. O ricostruiamo l’identità costituzionale o subiremo il declino non solo economico ma anche civile e culturale».
Concludendo…
«Concludendo non si può smontare nessun pezzo di questa storia che è la nostra storia più bella ».

La Repubblica 26.04.13

"Accordo unitario sul salario di produttività", di Massimo Franchi

Il secondo accordo unitario nel giro di una settimana. Dopo il patto sulla rappresentanza, Cgil, Cisl e Uil superano le divisioni di novembre e sottoscrivono con Confindustria un’intesa per dare attuazione al decreto sulla detassazione del salario di produttività. In sostanza la detassazione del salario di produttività (l’aliquota al 10 per cento sui dipendenti con reddito annuo sotto i 40 mila euro, con tetto di 2.500 euro annui) si estende a moltissime piccole aziende, quelle senza Rsu o Rsa, ma riguarderà solo accordi sull’orario di lavoro (la sua distribuzione, la gestione dei turni) e non il demansionamento e il controllo a distanza, argomenti che avevano portato la Cgil a non firmare a novembre. Tanto che da Corso Italia si sottolinea come «questa intesa superi l’accordo separato ».

INNOVAZIONE L’accordo «è in linea con le previsioni dei contratti nazionali e dell’accordo del 28 giugno 2011 – spiega in una nota la Cgil – L’intesa costituisce un passo in avanti importante nell’ambito delle relazioni industriali e, a nostro giudizio andrà estesa a tutte le altre associazioni d’impresa per allargare così i benefici al maggior numero di lavoratori e lavoratrici. L’accordo riafferma il ruolo del contratto nazionale come fonte primaria della contrattazione e favorisce la crescita della contrattazione di secondo livello valorizzando il ruolo delle Rsu. La Cgil – ribadisce la nota in conclusione – è favorevole alla detassazione del salario di produttività non firmò l’accordo sulla produttività tra governo e parti sociali del 21 novembre in quanto non ne condivideva alcuni punti». «Si tratta di un accordo nel segno dell’innovazione – commenta Raffaele Bonanni, segretario generale Cisl – rappresenta un’evoluzione dell’accordo del 28 giugno 2011 e persegue l’obiettivo di portare più salario netto ai lavoratori e di favorire anche nelle piccole imprese, prive di rappresentanza sindacale, la pratica della contrattazione e la possibilità di introdurre elementi di innovazione organizzativa attraverso un uso più mirato del sistema degli orari». «Un accordo – continua Bonanni- che cerca di dare un percorso comune agli interessi dei lavoratori e delle imprese nel segno di una maggiore competitività del nostro sistema industriale e di maggiori opportunità salariali. È importante sottolineare – conclude Bonanni – la firma unitaria di un accordo finalizzato a far crescere la contrattazione di secondo livello». «L’accordo – commenta Paolo Carcassi, segretario confederale Uil – contiene elementi positivi come la crescita della produttività e la detassazione dei salari dei lavoratori, col contributo forte delle parti sociali si possono costituire elementi importanti per la ripresa del paese e per il miglioramento delle condizioni dei lavoratori». «L’accordo – spiega Stefano Dolcetta, vicepresidente per le Relazioni industriali di Confindustria – conferma gli assetti della contrattazione collettiva delineati con l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, che individuano nell’ azienda la sede privilegiata per lo svolgimento della contrattazione di secondo livello. L’azienda resta, quindi, la sede principale per la definizione di premi di produttività, tuttavia – conclude Dolcetta – abbiamo voluto facilitare la definizione di intese, di livello territoriale, che consentano anche alle imprese prive di rappresentanza di applicare le agevolazioni fiscali a fronte di miglioramenti della produttività aziendale che conseguono ad una diversa gestione degli orari osservati in azienda». Come si ricorderà il 26 novembre a palazzo Chigi con Mario Monti Cisl, Uil, Confindustria e le altre parti datoriali sottoscrissero un accordo sulla produttività che prevedeva la possibilità di spostare una parte degli aumenti contrattuali nazionali e derogare in questo modo ai minimi. Ma il cammino dell’accordo è stato molto accidentato. Il 23 gennaio il decreto (Dpcm) che formalizzava l’accordo venne poi bloccato dalla Corte dei conti per mancanza di copertura. È toccato quindi ad una circolare del ministero del Lavoro del 3 aprile modificarlo in un senso che già cercava di recuperare l’unità sindacale prevedendo fra l’altro che le deroghe a controllo a distanza e demansionamento rispettassero comunque lo Statuto dei lavoratori. Per l’accordo sono stati stanziati dal governo 950 milioni.

L’Unità 26.04.13

I “suggerimenti” dei “saggi” sulla scuola. Perché parlarne, di Antonio Valentino

A guardarsi intorno, non ci si aspettava che nel documento dei cosiddetti “10 saggi” si parlasse anche di scuola. Perché – sappiamo – nell’agenda della politica nostrana, la questione scuola non occupa certamente un posto rilevante.

Comunque, il documento, fino a ieri, non era di quelli per cui valeva la pena di “spendersi” più di tanto, almeno nella considerazione di chi scrive.

Ci poteva essere, da parte di chi si interessa di scuola, una sorta di curiosità su come la vedono personalità più attente ed esperte di questioni istituzionali ed economiche. Niente di più.

Con la rielezione di Napolitano a Presidente della Repubblica e con un governo le cui caratteristiche appaiono disegnate nel discorso di insediamento (e con i limiti temporali abbastanza facilmente presumibili – e augurabili -), il documento dei saggi può invece essere letto come possibile base programmatica – come si dice – anche per il governo della scuola per i prossimi due anni (o giù di lì, se le cose marceranno per il verso giusto o che al giusto si avvicinino di più).

Non è certo lecito chiedere al documento, per come è nato, quello che non può avere: cioè un respiro che permetta di affrontare i nodi strutturali del nostro sistema scolastico.

Le scelte del documento privilegiano piuttosto un profilo che tende a circoscrivere – e di molto – i campi di intervento, puntando su alcuni problemi socialmente rilevanti che caratterizzano negativamente il pianeta scuola.

Si citano in primo luogo, al riguardo, due fenomeni certamente allarmanti: l’abbandono precoce della scuola, “assai più diffuso che nel resto d’Europa”, e la riduzione drastica della mobilità sociale (si riportano, al riguardo, i dati sconvolgenti che conosciamo, ma che opportunamente vengono riproposti).

Un altro fenomeno su cui – stranamente, per chi vive soprattutto di pane e scuola – si appunta l’attenzione del documento è il “rischio di mortalità” in rapporto ai livelli di istruzione (“tra gli uomini meno istruiti il rischio è dell’80% più elevato rispetto ai più istruiti”, mentre, per le donne, tale rischio è quasi il doppio!). Problema, a ben guardare, indubbiamente rilevante sotto il profilo dei diritti e dell’eguaglianza sociale.

Un ultimo campo problematico considerato è quello delle nuove tecnologie: a proposito delle quali si rileva – non senza ragione – che l’infrastruttura di rete è, attualmente, più “dimensionata per la gestione amministrativa” e meno – si sottolinea – “per la costruzione degli ambienti di apprendimento”.

Un aspetto interessante del documento è che, su ciascuna delle questioni considerate, si propongono interventi non sempre nuovissimi, ma comunque sensati e concreti.

Sul fronte dell’abbandono scolastico si dice, ad esempio, che “le analisi disponibili indicano come il miglior strumento di contrasto sia il prolungamento della scuola al pomeriggio negli anni del primo ciclo, mentre oggi giorno il tempo pieno alle elementari è diffuso solo in alcune regioni (non a caso, quelle in cui la dispersione è minore) ed è di fatto inesistente nelle scuole medie”.

Opportunamente, al riguardo, si richiamano cose –anche qui – non nuove, ma che comunque si è fatto bene a ribadire: e cioè che le attività pomeridiane “non dovrebbero essere però una replica delle lezioni frontali della mattina” e che l’estensione del tempo scolastico consentirebbe interventi innovativi. Come ad esempio, la scomposizione dei gruppi classe e la sperimentazione di metodologie didattiche più efficaci anche per i ragazzi maggiormente a rischio (per i quali si parla esplicitamente di insegnamento individualizzato da finalizzare “in modo prioritario, al rafforzamento delle competenze di base”).

Sul versante della mobilità sociale, il “suggerimento”, per invertire “immediatamente” la tendenza negativa in atto, riguarda – e a ragione – “la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni e dei requisiti di eleggibilità per il diritto allo studio universitario….”.

Sul rapporto salute-istruzione, poi, non mancano suggerimenti, anche specifici, nell’ottica che “dedicare risorse all’insegnamento di stili di vita salutari è un investimento sul futuro, oltre che uno strumento per migliorare la qualità della vita”.

Vale la pena richiamare infine il passaggio del documento dove si parla della importanza della “scuola digitale” e di una “cultura attiva del dato” che permetta di superare le barriere disciplinari e aprire la strada ad approcci sistemici e quantitativi.

Che dire infine sul documento nel suo insieme?

In primo luogo che sembra emergere, pur nel numero ristretto dei campi considerati, un’idea di scuola attenta al sociale e che rispetto al sociale tende a darsi un ruolo più incisivo.

L’altra cosa che si può dire è che le proposte fatte richiedono investimenti non da poco. Soprattutto l’estensione del tempo scolastico. Che sarebbe scelta importante se si accompagnasse, come d’altra parte si legge nel documento, ad una diversa organizzazione didattica e a pratiche educative innovative.

L’aver scelto questa logica va comunque salutato come un fatto positivo, dopo un decennio di tagli spesso indescriminati e insensati e di investimenti tendenti a zero.

Concludo con un’ultima considerazione che continuo a vedere centrale. E cioè che le varie misure proposte potranno risultare efficaci – e, più in generale, che l’attuale crisi del sistema scuola potrà arrestarsi – ad una preliminare condizione: affrontare la questione docenti. Questione, assente nel documento, che in questa fase è la più delicata e importante e che richiede di sciogliere soprattutto tre nodi: 1. risolvere definitivamente il gravissimo problema del precariato, evitando però sanatorie rischiose e aprendo anche la scuola ai giovani; 2. motivare gli insegnanti; 3. qualificarli.

Se non si sciolgono questi tre nodi, tutti gli altri cambiamenti, anche quelli importanti, rischiano di non “reggere”.

Va anche chiarito che sciogliere il nodo della motivazione significa avere in mente soprattutto una diversa considerazione sociale del ruolo sociale dell’insegnante e una sua valorizzazione (che riconosca l’impegno e la competenza, anche ai fini di carriera); e che la qualificazione sarà tale se eviterà ogni forma di estemporaneità e facoltatività nella formazione e nello sviluppo delle competenze professionali.

Discorso certamente a lungo termine, ma che andrebbe almeno impostato da subito con equilibrio e lungimiranza. Anche da parte delle organizzazioni e associazioni interessate.

Un’altra “assenza” varrebbe infine la pena di considerare per la prossima agenda governativa: riguarda le misure di accompagnamento all’operazione di Riordino – in atto attraverso le Indicazioni Nazionale per primo ciclo e licei e le Linee Guida per l’istruzione tecnica e professionale – . Di essa, purtroppo, si stenta a cogliere, da più parti e soprattutto nelle scuole, le indubbie potenzialità nel disegno di una scuola rinnovata.

ScuolaOggi 26.04.13

Messaggio di Laura Boldrini per il 68mo anniversario della liberazione di Fossoli di Carpi

La celebrazione dell’anniversario della Liberazione non è mai una formalità. Questa ricorrenza ci chiama tutti al ricordo e alla riflessione.
Al ricordo, innanzitutto, delle tante persone che hanno combattuto e hanno dato la vita per la democrazia e la libertà.
Celebriamo la liberazione dell’Alta Italia dall’occupazione tedesca e dalla Repubblica di Salò.
Ma celebriamo anche i valori della Costituzione, il rifiuto della guerra, l’uguaglianza e la giustizia sociale.
Il 25 aprile segna la conclusione di una vicenda drammatica e il punto di partenza della ricostruzione della democrazia italiana.
Durante l’occupazione tedesca dell’Italia e nel corso della ritirata, la popolazione civile fu vittima di fatti di sterminio programmato e sistematico.
Decine di migliaia di italiani finirono nelle mani dell’apparato delle S.S. e della polizia tedesca, principale responsabile della deportazione di circa 24.000 oppositori politici italiani nei campi di concentramento tedeschi, e di circa 7.000 ebrei italiani nei campi di sterminio.
L’aspetto più agghiacciante di questa spirale di violenze è costituito da stragi, uccisioni indiscriminate di popolazione civile che vennero definite genericamente ‘rappresaglie’. Si trattava in realtà di operazioni di rastrellamento del territorio, volte a terrorizzare la popolazione per impedire qualsiasi sostegno alla Resistenza.
Il campo di concentramento di Fossoli di Carpi fu uno dei luoghi in cui quelle atrocità si manifestarono con particolare virulenza. Vi fu recluso Primo Levi insieme a migliaia di altri cittadini italiani, la maggior parte dei quali non tornò mai più. E vi fu la strage degli internati del 12 luglio 1944.
Fossoli è dunque un chiaro esempio di quei luoghi della memoria che sono di vitale importanza per la nostra democrazia.
Sapremo onorare questo impegno di ricordo, di conoscenza e di lotta per un futuro migliore. Lo faremo con l’esperienza degli anziani e con la passione dei giovani, proprio come fu dal 1943 al 1945. Lo faremo con l’etica della convinzione e con lo spirito aperto che guarda al futuro, con speranza e con determinazione.

"25 aprile, una piazza per unire il Paese", di Andrea Liparoto

Il Paese vive in uno stato di abbandono sociale senza precedenti e l’interesse individuale, l'”attesismo”, le divisioni, sono le uniche, incredibili risposte. Non è più possibile esitare. È l’ora di una piazza nazionale, infinita, responsabile, una piazza delle radici, autentiche: una piazza della Costituzione.
Una piazza della memoria, di donne e uomini che ricordano o gli è stato raccontato dai protagonisti che cosa è stato il Paese senza la Costituzione, senza la libertà. Un Paese intollerabile.
Una piazza per chi non sa, è distratto, appartato, perché «tanto non cambia niente». Una piazza per unire.
Una piazza di vene partigiane. Senza fronzoli, di voci come mani sulla coscienza e sul cuore. «Guai a far naufragare la Resistenza nelle parole encomiastiche. Ritrovo con commozione i compagni persi nelle boscaglie, nei greti dei fiumi… Se potessero parlare direbbero: non vogliamo essere celebrati, ma amati», scrive il comandante Nello Quartieri, 91 anni (dal libro «Io sono l’ultimo» pubblicato da Einaudi)
Una piazza che se non ci stiamo tutti, riscendiamo domani. Che non c’è giorno di troppo per liberarsi. Una piazza come il bacio di un’idea. Che torna forte e ambiziosa.
Come tremare, al solo immaginarla.
Una piazza che entra nelle case e si siede a tavola: devo raccontarvi una storia. Una piazza…pulita. Una piazza che… oggi siamo più belli. Che… domani o antifascismo o non cantatecele col cambiamento. Che…
non c’è più tempo da perdere
Una piazza affinché… Arrigo Boldrini «Bulow», Piero Calamandrei, i sette fratelli Cervi, Laura Polizzi «Mirca», Teresa Mattei, non smettano di battere nel cuore del futuro. Che Rodolfo Graziani, e i criminali come lui, non possono vivere due volte. Una piazza illuminata a giorno di ragazze e ragazzi che a non ascoltarli si muore prima. Una piazza per il dopo. Per tornare a camminare insieme, a riconoscerci uguali nei diritti e nei doveri. L’unica Patria possibile è questo popolo, questa coscienza. La Patria del 25 aprile, di quella straordinaria primavera di unità e entusiasmo collettivo. Di semi di democrazia. Appuntamento qui. E poi non perdiamoci, più.

Responsabile comunicazione dell’Anpi

L’Unità 25.04.13

"Qualcosa tipo una liberazione", di Massimo Gramellini

Nell’esporre la sua netta contrarietà all’esecuzione di «Fischia il vento e infuria la bufera» durante le celebrazioni del 25 aprile, il commissario prefettizio di Alassio ha spiegato agli ultimi, stupefatti partigiani che la festa della Liberazione è apolitica. Non me ne voglia Sua Eccellenza, ma fatico a trovare una festa più politica dell’abbattimento di una dittatura. Politica in senso nobile e bello, al netto degli orrori reciproci che purtroppo fanno parte di ogni guerra civile.

Oggi il modo più diffuso per commemorare la Liberazione consiste nel rimuoverla, annegandola in un mare di ignoranza. Un signore ha scritto scandalizzato dopo avere udito all’uscita da una scuola la seguente conversazione tra ragazzi: «La prof dice che giovedì non c’è lezione». «Vero, c’è qualcosa tipo… una liberazione». Ma anche i pochi che sanno ancora di che cosa si tratta preferiscono non diffondere troppo la voce «per non offendere i reduci di Salò», come si è premurato di precisare il commissario di Alassio. Una sensibilità meritoria, se non fosse che a furia di attutire il senso del 25 aprile si è finito per ribaltarlo, riducendo la Resistenza alla componente filosovietica e trasformando le ferocie partigiane che pure ci sono state nella prova che fra chi combatteva a fianco degli Alleati e chi stava con i nazisti non esisteva alcuna differenza. La differenza invece c’era, ed era appunto politica. Se avessero vinto i reduci di Salò saremmo diventati una colonia di Hitler. Avendo vinto i partigiani, siamo una democrazia. Nonostante tutto, a 68 anni di distanza, il secondo scenario mi sembra ancora preferibile. Grazie, partigiani.

La Stampa 25.04.13