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"Bicameralismo da rivedere", di Roberto D'Alimonte

Pare che Enrico Letta ce la farà a formare il Governo. Quanto durerà non è dato sapere. La speranza è che duri il tempo ncessario per fare alcune riforme inderogabili. Una di queste è quella di dare al paese un sistema di regole per poter tornare a votare, prima o poi, con la ragionevole aspettativa che dalle urne esca una maggioranza in grado di governare, possibilmente per una legislatura. Nelle condizioni in cui siamo questo è certamente un programma ambizioso. Sia quello di fare le riforme che quello di un governo stabile. La stabilità dei governi, e tanto più la loro efficacia, non dipendono solo dalle regole. La crisi che stiamo attraversando non è solo il frutto della lotteria del Senato. I veri fattori sono altri: la frammentazione della rappresentanza, la polarizzazione delle posizioni e con ciò la presenza di partiti difficilmente coalizionabili tra loro. A sua volta tutto ciò è il frutto della crisi economica, della domanda di moralizzazione della vita pubblica, della voglia di cambiamento cui i partiti tradizionali non hanno dato risposte credibili. Ciò premesso, resta il fatto che senza buone regole non si può costruire nulla di duraturo. E allora il futuro governo deve mettere in cantiere alcune riforme non solo istituzionali ma anche costituzionali. La prima è l’abolizione del Senato. Non ha alcun senso oggi avere due camere con gli stessi poteri, compreso quello di dare e togliere la fiducia al governo. Siamo rimasti l’unico Paese al mondo con una istituzione del genere. Quanto ci vorrà ancora prima di diventare anche da questo punto di vista una democrazia normale? Oggi l’opinione prevalente è quella fissata dai saggi nel loro rapporto. Lì si parla della trasformazione del Senato in una camera delle autonomie. È una soluzione certamente migliore dell’attuale, ma oggi vale la pena di chiedersi se non sia il caso di andare oltre e puntare piuttosto sul rafforzamento della conferenza Stato-Regioni invece che sul mantenimento di una seconda camera, pur depotenziata. In ogni caso è da qui che bisogna partire, dalla questione del Senato. Poi si può discutere di riforma elettorale. In altre parole, qualunque sia il sistema elettorale prescelto deve funzionare in una sola camera. Questa è una condizione necessaria di governabilità. Ma non basta perché non è affatto indifferente quale sarà il sistema elettorale prescelto. La soluzione più semplice sarebbe quella di introdurre doppio turno e voto di preferenza dentro l’impianto del l’attuale sistema. Il doppio turno risolverebbe il problema della disproporzionalità, cioè la distorsione voti ottenuti-seggi garantiti, quella che ha consentito alla coalizione di sinistra di avere il 54% dei seggi con il 29% dei voti. Con il ballottaggio chiunque vinca, e qualunque sia la sua base di consensi al primo turno, alla fine avrebbe in ogni caso la maggioranza assoluta dei voti espressi. Questo è l’unico sistema a produrre con matematica certezza un vincente con una maggioranza assoluta di voti e di seggi. Per essere ancora più chiari, è l’unico che consente la sera delle elezioni di sapere con certezza chi governerà il paese. Il voto di preferenza (con l’abolizione dello scandalo delle candidature plurime) restituirebbe agli elettori la scelta dei rappresentanti. Fatte queste modifiche, avremmo un sistema elettorale unico al mondo ma che funziona. Questa è una soluzione. Ma ce ne sono ovviamente altre. Tra queste spicca la richiesta di tornare alla legge Mattarella.

. Per qualcuno sarebbe addirittura una cosa da fare per decreto. Il sistema con cui si è votato dal 1994 al 2001 era imperniato sui collegi uninominali a un turno. Il collegio uninominale sarebbe lo strumento giusto, molto più del voto di preferenza, per restituire agi elettori la scelta dei rappresentanti. Peccato però che sulla reintroduzione dei collegi ci sia un veto esplicito del Pdl, sia nella versione a un turno che in quella a due turni. La posizione inequivocabile del Pdl, espressa da Gaetano Quagliariello anche nel rapporto dei saggi, è che il collegio uninominale si possa introdurre solo se abbinato alla elezione diretta del presidente della repubblica. E questo implica il passaggio da una forma di governo parlamentare a una semi-presidenziale di stampo francese. Se questa fosse la strada scelta dal governo Letta, allora ci sarebbe da aprire un dibattito serio sulla vera alternativa al sistema francese e cioè l’elezione diretta del primo ministro e non del presidente della repubblica. Questo è il modello adottato per comuni, province e regioni. Esso prevede insieme alla elezione popolare del capo dell’esecutivo l’uso di sistemi elettorali con un premio che garantisce la maggioranza di seggi in consiglio a chi vince. Per completare il quadro non si può mettere in conto anche una altra possibilità, e cioè il ritorno a un proporzionale più o meno mascherato. È inutile nascondercelo. In condizioni, come le attuali, di grande fluidità elettorale la voglia di proporzionale è tanta. Il proporzionale minimizza i rischi. Rimanda le scelte a dopo il voto. Esattamente come è successo con queste elezioni. Mette i partiti al centro della partita al posto degli elettori. Proprio per questo c’è il rischio che gli attuali partiti trovino un accordo su un sistema del genere, magari risuscitando i vari “lodi” con i quali si è tentato di fare la riforma elettorale alla fine della passata legislatura. Ebbene, qualcuno si è chiesto cosa sarebbe successo in queste elezioni se uno qualunque di quei “lodi” fosse stato approvato?

Il Sole 24 Ore 27.04.13

OccupyPd arriva alla Bolognina “Niente scissione, resettiamo il partito”, di Michele Smargiassi

La Bolognina 2.0 non sarà una mozione congressuale, è una mozione degli affetti. È il Piave dello sgomento organizzato dei militanti dopo l’atroce Caporetto del voto per il Quirinale. Ma è pur sempre una reazione. «Qui c’è più futuro che passato», si rincuorava Giorgio Prodi, figlio di Romano, assistendo in disparte all’assemblea autoconvocata nella sezione di partito che porta un nome che risuona ancora, nella storia della sinistra italiana, e che non riesce a tornare ad essere solo un’espressione geografica, tant’è che pure Matteo Renzi, nel tour delle primarie, pur di parlare alla Bolognina prenotò il locale cinema dei salesiani. In platea, centocinquanta ragazzi seduti per terra, sulle scale, che twittavano #resetPd, che parlavano leggendo dal tablet, che fotografavano con gli smartphone, ma erano lì a presidiare un luogo fisico della politica ancora non dato per perso «Sono la cosa più vicina al Pd che immaginava mio padre nel ‘96».
Sul palco, tre giovani assessori della giunta Merola, Matteo Lepore, Luca Rizzo Nervo, Andrea Colombo, e un consigliere comunale che fu braccio destro di Cofferati, Benedetto Zacchiroli: bersaniani i primi, renziano il quarto, accomunati quel pomeriggio dalla camicia bianca, che è ormai il dress-code di quella parte del Pd che bombarda il quartier generale. Ma con qualche distinzione. «Non rottamare, ma resettare», è la parola d’ordine. «I nostri dirigenti si sono rottamati da soli», insiste Lepore. «Ma se paga solo Bersani è sbagliato», aggiunge il presidente di quartiere Daniele Ara. Non sulle persone, ora bisogna intervenire sulla macchina. «Riparare l’errore di sistema, bloccare il virus», Colombo insiste sulla metafora del computer. Il virus è la fusione fredda «tra gli ex», ex-Pci ed ex-Dc. Non è un caso che, chiunque abbiano votato alle primarie, gli autoconvocati siano in gran parte “nativi” del Pd. Il problema dunque non si risolve «né con la pattumiera né con la scissione», insiste Colombo, «dobbiamo spegnere il Pd che non è mai partito, e riaccenderlo per riavviare il processo». Promettono nuove assemblee autoconvocate, prestissimo: «il fattore tempo è decisivo». E allora si capisce che “Bolognina” vale come richiamo mitico al coraggio delle scelte radicali, ma che il riferimento politico vero ha un altro nome, quello di Romano Prodi, il padre dell’Ulivo, tradito, pugnalato alle spalle. «No, non è stato un agguato a una persona», precisava quella sera il figlio Giorgio, «quel che è successo nel Pd in Parlamento, e mio padre non ha bisogno di fare i nomi, è stato un atto politico, molto chiaro e molto vecchio».
Bologna, in questo, è tutta una Bolognina. «Rivoglio il mio voto», ha trovato scritto su diversi post-it appesi alla porta del circolo Pd Galvani (quello dove fa la tessera Prodi) la segretaria Cecilia Alessandrini, e ha risposto, sconsolata: «Hanno ragione». E il Pd del Navile, il quartierone popolare oltre la ferrovia che comprende anche la Bolognina, prima dell’incarico a Letta si è riunito d’urgenza votando un documento che «manifesta e ribadisce la contrarietà a un governo col Pdl». «E non si dica che è una protesta marginale», ammonisce il consigliere regionale Antonio Mumolo, «in questo quartiere abbiamo più iscritti che in tutta la Basilicata».
I dirigenti fiutano l’aria e si allineano. C’è un gran vento di riposizionamento sotto le Due Torri. Il segretario della federazione forse più bersaniana d’Italia, Raffaele Donini, veleggia verso Renzi. Il sindaco Merola che capeggiava il comitato elettorale di Pierluigi ha già saltato la barricata. Muto nelle torri di Kenzo Tange, il governatore Vasco Errani, gran consigliere
di Bersani, non può certo farlo. Nessuno ancora gli spara addosso, ma per il successore ora si invocano le primarie.
Eppure alla fine dovranno tutti baciare il rospo, anzi il Caimano. «Meglio fare un governo a tempo col nemico che mandarlo subito al potere da solo», si rassegna alla realpolitik Marco Lubelli, segretario del circolo Passepartout che lui stesso, assieme a un gruppo di ragazzi, ha “occupato” sulla scia degli occupyPd. «Ma non biasimo chi trova indigeribile l’idea. Quindi nessuno parli di espulsioni per chi non ce la farà a votarlo. Semmai vanno espulsi i 101 che non hanno votato Prodi».
Del resto, anche i giovani suscitatori di #resetPd danno per scontato che oggi avranno un governissimo. «È nei fatti», ammette Zacchiroli, «giudicheremo sul programma, e speriamo non ci siano ministri impresentabili». «Pensiamo adesso a rifare un partito paralizzato dalle vecchie appartenenze », aggiunge Rizzo Nervo, «Ma vi rendete conto che il Pd non può fare un incontro con la Fiom, o con la Cisl, perché si alza subito qualcuno a gridare allo scandalo? Un partito che ha paura di un tweet?». Eppure questo partito l’avete sostenuto, voi tre assessori avevate scelto di «partire con Bersani per il mare aperto». «Be’, è successo che la barca si è rovesciata», ammette con sincerità. Sindrome da Costa Concordia: era meglio cambiare il comandante prima? I renziani della prim’ora come il professor Salvatore Vassallo sono ironici con i nuovi insorgenti: «Invece di sparare tweet di riposizionamento a raffica, dite cosa volete fare da grandi». «Se i renziani fanno i gelosi, allora vuol dire che il problema del Pd non è risolto», reagisce Rizzo Nervo. Nervosisimi fra rottamatori e resettatori, nel laboratorio bolognese. Nulla garantisce che, spegnendo e riaccendendo il Pd, il virus sia scomparso.

La Repubblica 27.04.13

"Assicurazioni Bce: PMI in affanno, in Italia le flessioni più ampie", da unita.it

Le piccole e medie imprese di tutta l’Eurozona hanno assistito, tra l’ottobre 2012 e marzo 2013, a ‘un aumento delle necessità di finanziamentò abbinato a ‘un peggioramento delle disponibilità di prestiti bancarì. È quanto emerge dall’ottavo rapporto della Bce ‘sull’accesso alla finanza da parte delle Pmì dell’area, secondo cui comunque l’irrigidimento dei crediti – il credit crunch – è in fase di attenuazione. Dai numeri emerge che nelle posizioni peggiori, per quanto riguarda la dinamica dei profitti e del giro d’affari registrata nei mesi tra ottobre dello scorso anno e marzo di quest’anno, si trovano le piccole e medie imprese dell’Italia e della Spagna. Per quanto riguarda il panorama dell’imprenditoria italiana, questo ha risentito anche del peggioramento delle prospettive della crescita dell’economia: elemento che ha reso più difficili – rispetto agli altri Paesi – il loro accesso al credito bancario.

Dal sondaggio svolto dalla Bce emerge che le Pmi italiane hanno registrato, in termini netti, flessioni del fatturato tra le più ampie all’interno della zona euro, assieme a quelle di Spagna, Portogallo e Grecia, così come un calo degli utili (58% netto degli interpellati). Le aziende italiane hanno anche riportato un aumento della leva (12%) contrariamente al trend prevalente e hanno registrato un aumento delle spese per interessi. Il 21% delle Pmi ha inoltre menzionato i costi di produzione o del lavoro come il problema predominante contro la media del 14% a livello di aerea. Le aziende della Penisola, inoltre, sono quelle che «più hanno contribuito all’aumento netto delle necessità di prestiti e scoperti bancari». Mentre in media nell’Eurozona, il 5% delle Pmi ha riferito di un aumento della necessità di prestiti bancari, in Italia il dato sale al 12%, il che nell’analisi della Bce riflette la necessità di finanziare il capitale circolante in un contesto di utili e liquidità scarsi. Il 18% delle Pmi italiane in effetti segnala le necessità di finanziamento per l’insufficienza dei fondi interni, anche in questo caso uno dei dati più elevati della zona euro. L’accesso al credito per altro accenna a un relativo miglioramento, nel senso che a livello di Eurozona la percentuale netta delle Pmi che hanno constatato un peggioramento della disponibilità di prestiti bancari è scesa a -10% dal -22% della precedente inchiesta e in questo caso le Pmi italiane sono tra le aziende che hanno segnalato il cambiamento per il meglio più accentuato (da -27% a -7%). Un andamento che riflette – secondo la Bce – il miglioramento della fiducia nei mercati finanziari negli ultimi mesi e delle condizioni di provvista delle banche, a cui hanno contribuito le misure non standard della Bce, incluso l’annuncio delle Omt. Tra i fattori che pesano sull’accesso al credito, le Pmi della zona euro continuano a citare in primis il peggioramento delle prospettive economiche e le italiane riferiscono che sta assumendo un’incidenza maggiore. Quanto alla disponibilità delle banche a concedere prestiti, con la sola eccezione della Germania, tutte le Pmi dell’area riferiscono un peggioramento, che è stato particolarmente forte – ancora una volta – in Grecia, Spagna e Italia. E anche se aumentano – secondo il sondaggio – le risposte favorevole alle richieste di prestito, la percentuale netta delle Pmi italiane che riferiscono un aumento dei tassi di interesse praticati dalle banche è del 62%, seconda solo alla Spagna (66%) e il 44% inoltre segnala un aumento delle garanzie contro il 15% delle Pmi tedesche. Uno scenario che accomuna ancora una volta la periferia sud dell’Europa e indica «una forte avversione al rischio da parte delle banche in un contesto di debole attività economica e di difficoltà del sistema bancario».

www.unita.it

"E il M5S fa autogol con lo streaming", di Aldo Grassa

Una giornata nera per la Grillo & Casaleggio Associati. Enrico Letta, i grillini, se li è mangiati in un solo boccone. Sembrava il giovane cattedratico che interroga i fuori corso e usa l’esame per spiegare ancora una volta, con santa pazienza, il programma del corso. I ripetenti implorano il diciotto politico e il professore, per bontà, glielo concede, non prima di avergli chiarito per l’ennesima volta come funziona l’università: bisogna studiare.

La differenza con il precedente incontro in streaming con Pier Luigi Bersani è stata impressionante: Bersani sembrava intimorito e i portavoce del M5S se ne sono approfittati per umiliarlo. Letta, per quanto stanco e scoraggiato di incontrare un muro di gomma, ha mostrato subito di essere di un’altra pasta, di conoscere bene l’arte della mediazione, di essere assertivo quando occorre: «In questi sessanta giorni la forza che voi rappresentate, sia numerica che reale nel Paese, è entrata in Parlamento e non ha voluto partecipare alle decisioni assunte. Sarebbe frustrante se questa indisponibilità a mescolare idee e voti si protraesse». I portavoce del M5S (questa volta in formazione quattro più quattro, tipo Nora Orlandi) erano in seria difficoltà, non sapevano cosa rispondere, si rifugiavano nel politichese, s’impantanavano in formule astratte.

Certo che i grillini sembrano non avere alcuna strategia, alcun fiuto politico, tanto da consegnarsi alle stoccate del professore, come quando hanno tirato fuori la questione dell’elezione a presidente della Repubblica di Rodotà e prontamente Letta ha fatto loro notare che se avessero votato Prodi avrebbero cambiato lo scenario della politica italiana. Si fa presto a parlare di streaming, di Web, di comunicazione globale, ma a un certo punto è saltata fuori la parola «incomunicabilità», che non si sentiva più dai tempi dei film di Michelangelo Antonioni. Letta ha accusato i grillini di incomunicabilità, temeva di vivere in diretta il dramma della frustrazione espressiva (la scena sembrava tratta da «Le sedie» di Ionesco, 1952), di essere di fronte a una sorta di nevrosi espressiva che corrode il linguaggio e le speranze, di vedere in Vito Crimi e in Roberta Lombardi il sigillo dell’incapacità di comunicare.

E invece, prese le misure, li ha sovrastati, ha mostrato la pochezza dei quattro più quattro (gli altri che hanno parlato facevano quasi tenerezza per impreparazione e incapacità di esprimersi). Tra l’altro, in termini puramente retorici, il peso delle metafore questa volta ha schiacciato i grillini e Letta è stato ben attento a pascolare nel concreto. Per i grillini senza streaming non c’è democrazia, tutto deve avvenire in diretta davanti a una telecamera. Lo streaming è l’unica garanzia contro i sotterfugi.

Diversamente dal passato, questa volta però lo streaming non ha funzionato come caricatura della democrazia e della comunicazione: limitarsi ad avvolgere ogni rapporto sociale, a mantenere vivo il contatto fra le parti, ad accorciare le distanze, senza preoccuparsi troppo dei messaggi. Questa volta lo streaming è servito per conoscere meglio il programma di Letta, senza le fantasie dei retroscenisti e senza complessi di inferiorità nei confronti della presunzione. La politica ha vinto sul velleitarismo.

Giovedì sera due case sono state assalite da dubbi e inquietudini. Nella casa della Grillo & Casaleggio Associati si sarà discusso a lungo sulla performance di Crimi e Lombardi (da abbiocco collettivo, «scongelatevi» ripeteva loro Letta) e la voglia di cambiare i portavoce sarà stata grande. Nella casa del Partito democratico le lodi a Letta saranno forse risuonate anche come rimprovero a Bersani. Par di capire che il 25 Aprile non è morto, come vuole Beppe Grillo.

Il Corriere della Sera 26.04.13

"La storia non si calpesta", di Adriano Prosperi

Ci sarebbe stato da meravigliarsi se la torrenziale creatività del leader del M5S non avesse colto la ricorrenza per portare avanti la sua strategia di delegittimazione di ogni altra forza politica. Non possiamo dimenticare che grazie alla sua scelta della contrapposizione totale a tutte le altre forze politiche presenti in Parlamento è fallita sul nascere la prospettiva di un governo di cambiamento. Ora, è pur vero che ci sono molte ragioni per non essere contenti del modo di andare delle cose nel nostro paese. Le battaglie del rinnovo del Parlamento e quelle per la elezione del presidente della Repubblica alle quali affidavamo tante speranze hanno avuto esiti imprevisti e inimmaginabili. Quella che sembrava l’occasione per mettere finalmente tra parentesi la stagione dell’amministrazione controllata del paese e per un nuovo avvio della normale dialettica politica, fondata sulla regola democratica del voto popolare, si è risolta in uno scontro lacerante: è stata una partita avvelenata dove veti incrociati, giochi sotterranei e inettitudini varie hanno avuto l’esito di far vincere chi partiva perdente e aveva tutto da guadagnare dal fallimento delle speranze di cambiamento.
Tutto questo ha lasciato tracce profonde e ha aperto una fase di rese dei conti soprattutto ma non solo in casa del vincitore atteso e mancato della gara elettorale, il centrosinistra. Ne siamo usciti con una dose abbondante di quel sentimento di vergogna che è sempre il termometro del senso di appartenenza al proprio paese. Ci sono ira, frustrazione e disgusto davanti a quella che resterà come una delle più brutte e inconcludenti pagine della cronaca politica degli ultimi anni. Anche perché la malattia mortale dei partiti lascia scoperti e indifesi coloro che più hanno bisogno di vedere affermati e tutelati i principi della Costituzione. Laura Boldrini lo ha ricordato ancora ieri a Milano. quando ha detto che «nessuno deve essere lasciato solo perché anche così si difende la democrazia».
Bastano parole come queste a dimostrare che le celebrazioni del 25 aprile non sono — come dice Grillo — «un rito ruffiano». Il ricordo delle lotte e delle sofferenze che sono state necessarie per conquistare il diritto di celebrare liberamente sulle piazze il 25 Aprile come data fondativa della Repubblica serve a ricondurre ai suoi fondamenti la convivenza civile. Questo non è mai stato e non deve diventare un rito vuoto e distratto: né la festa può far dimenticare il senso di frustrazione davanti alle delusioni del presente. Ma proprio di qui si può ripartire, come ogni volta che si deve tornare al fondamento ultimo del nostro essere una nazione.
Di questi sentimenti di frustrazione e di diffusa perplessità Grillo fa un uso strumentale talmente scoperto che non meriterebbe soffermarcisi se non fosse che il disorientamento del paese è grande e tanti rischiano di cadere nella trappola di chi come lui gioca all’eversione controllata. Sarà utile dunque ricordare che se c’è stato il 25 aprile e se è stata necessaria una lunga e durissima stagione di lotte e di sofferenze è perché un demagogo tonitruante sulle piazze aveva sfruttato la delusione per le bassezze dei giochi parlamentari liberal-democratici e la gravità delle ingiustizie sociali per mettere l’arbitrio di pochi al posto della libertà di tutti.
Tragedie antiche che — diciamolo con chiarezza — non si possono accostare oggi alla farsa recitata da un attore abile e consumato, del quale non vorremmo sopravvalutare le minacce eversive, come quella, subito rientrata, di una possibile «marcia su Roma».
Sappiamo bene, però, che il pericolo di messa tra parentesi del sistema democratico assume oggi forme nuove e più insidiose che nel passato e ha le sue radici proprio nella crisi profonda del sistema dei partiti che dalla Liberazione in poi hanno costituito la struttura fondamentale per il funzionamento della Costituzione e l’esercizio dei diritti di cittadinanza. La celebrazione del 25 Aprile trova un suo profondo significato proprio nell’imporre a tutti di fare i conti con la lezione del passato. Un passato da non dimenticare, una storia collettiva che non si può calpestare. Da lì si ricavano alcuni principi elementari. Per esempio, quello per cui nessuno deve porsi al di fuori o al di sopra dei meccanismi costituzionali della competizione politica. E questo significa intanto che nessuno può pretendere di essere riconosciuto come l’unico capace di onorare e far rivivere la sacralità del 25 Aprile e il suo deposito di valori, denunziando tutti gli altri come infami traditori. A Reggio Emilia una senatrice del movimento grillino avrebbe dichiarato: «I nuovi partigiani siamo noi». Che pena non conoscere la storia: è una frase che nell’Italia del post-terrorismo fa amaramente sorridere se si pensa quale prezzo abbiamo pagato già una volta con un accostamento così tragico.

La Repubblica 26.04.13