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"Il potere del Quirinale", di Claudio Tito

Lo psicodramma del Pd vissuto in diretta streaming non è solo la crisi di un partito. Rappresenta certamente la débâcle di una classe dirigente e di un modello rappresentativo che non riesce più a intercettare alcuni settori dell’opinione pubblica. Ma soprattutto costituisce lo smarrimento di un intero sistema politico. Il risultato elettorale di due mesi fa ne è stata la plastica rappresentazione. Con tre forze politiche sostanzialmente alla pari e ciascuna largamente minoritaria. Persino la sorpresa grillina si sta rivelando incapace di offrire uno sviluppo concreto alle proposte avanzate in campagna elettorale e urlate da una base che voleva in primo luogo “rottamare” la classe politica che ha governato il Paese negli ultimi venti anni.
Dinanzi ad una debolezza tanto manifesta, il nostro sistema istituzionale sta rispondendo cercando di colmare quel vuoto. Come sempre accade in politica gli spazi lasciati liberi vengono sempre riempiti. Da altre forze politiche o, come in questo caso, da una figura “terza”. La crisi dell’intero sistema politico si sta affidando all’unico punto di riferimento democratico e autorevole che il Paese ha conservato: il presidente della Repubblica. Il quale – come ha detto con nettezza lo stesso Napolitano – sta cercando, suo malgrado, di colmare tutti quei vuoti. La fiacchezza dei partiti sta dunque trasformando il Quirinale. La forza del capo dello Stato sta crescendo in misura proporzionale alla gracilità di un sistema sempre più in difficoltà. Non è un caso che molti dei leader che si sono presentati sul Colle per le consultazioni si sono nella sostanza consegnati all’unico “garante” dell’unità nazionale. Una situazione che potenzialmente è in grado di trasformare in via di fatto i poteri che la Costituzione assegna al capo dello Stato. Come ha scritto Ilvo Diamanti sul nostro giornale, siamo di fronte ad una sorta di “presidenzialismo preterintenzionale”. Ad un assetto che si avvicina sempre più al prototipo francese. Non è un caso che ormai quasi tutti definiscono il prossimo governo un “esecutivo del presidente”. In cui il vero ombrello politico è stato aperto dal Quirinale prima ancora che da una maggioranza presente in Parlamento. E mai come questa volta sarà applicato alla lettera l’articolo 92 della Costituzione: “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri”.
Una circostanza che marca ancora di più l’esplosione che sta subendo il centrosinistra italiano. Una coalizione che si è presentata solo 58 giorni fa con un’alleanza – quella tra Pd e Sel – che si definiva di governo e che ora già non esiste più. Con il partito di Vendola all’opposizione e con il Partito Democratico alla ricerca di una identità. La direzione di ieri ha messo a nudo questa situazione. Senza guida, con una molteplicità di posizioni sulla natura del sostegno da dare al prossimo governo. Chi vuole un esecutivo tecnico, chi politico, chi tecnico-politico. In un primo momento il partito si è ricompattato intorno al nome di Matteo Renzi – che supera così una sorta di conventio ad excludendum e poi si è fatto bloccare dal veto del Pdl e di Silvio Berlusconi. Uno stato maggiore talmente paralizzato dagli errori commessi in questi due mesi da salire sul Colle per il colloquio con Napolitano senza formulare una candidatura per Palazzo Chigi. Neanche un nome, come se il Pd non fosse il primo partito in Italia, come se i suoi gruppi alla Camera e al Senato non fossero quelli più numerosi. Pronti ad accettare qualsiasi scelta. Persino una risorsa del centrosinistra come Giuliano Amato è stato lasciato nelle mani di Berlusconi. Anzi, in direzione sono stati espressi dubbi sul suo nome e sulla possibilità che l’ex premier possa infiammare ancora di più la base militante del Pd. Ma nessuno ha poi avuto la forza o la voglia di dichiarare di questi dubbi o di superarli davanti al presidente della Repubblica. Una condizione di stallo assoluto che produce un solo effetto: ampliare la disaffezione dei cittadini nei confronti della politica e regalare un altro assegno in bianco al Cavaliere.

La Repubblica 24.04.13

Bologna – Museo della Sanità – Inaugurazione mostra: "Terra Tremuit. Incisori per gli archivi"

Museo della Sanità, Via Clavature 8-10 Bologna – gentilmente concesso dalla Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna –
All’evento inaugurale interverrà l’Onorevole Manuela Ghizzoni già presidente della VII Commissione (Cultura, Scienza e Istruzione) della Camera dei Deputati. In occasione dell’inaugurazione, inoltre, l’attrice Marinella Manicardi darà lettura di alcuni brani che rievocheranno i drammatici eventi del maggio 2012, soprattutto nel loro impatto sul patrimonio culturale. Verrà inoltre proiettato un breve video curato dall’Associazione SOS Archivi e Biblioteche e volto a documentare le condizioni degli archivi all’indomani del terremoto.

"Il cambiamento? È salvare l’Italia", di Alfredo Reichlin

La cosa che più fa male – e sulla quale bisognerebbe concentrare l’attenzione – è che il Pd così com’è (e quindi la sinistra italiana reale così com’è) non si è mostrato in grado di guidare l’Italia in un passaggio davvero cruciale della sua vicenda nazionale. Un Paese che non ha futuro se non riesce a collocarsi tra i costruttori di una nuova potenza europea.

Qui sta la sconfitta del suo gruppo dirigente. Una sconfitta molto amara ma senza appello. E tuttavia tale – essendo quella la posta in gioco – che nessun altro, nel campo democratico, ha vinto. Cerco di capire cosa sta succedendo guardando alla realtà prima ancora che al partito. Lo confesso, io non riesco a spiegare tutto con gli errori di Bersani e con la debolezza e le contraddizioni irrisolte del Pd (ho tanto scritto, come nessun altro, su queste cose). Magari. Purtroppo c’è altro. C’è un grado estremo di logoramento del rapporto di fiducia tra i cittadini e i partiti. C’è un inquinamento morale della politica che è alimentato non solo dalla corruzione di troppe persone ma dall’estrema difficoltà del sistema politico così com’è di offrire una via d’uscita a un Paese già in decadenza per la somma dei suoi antichi mali e che, per di più, è coinvolto in una più vasta crisi mondiale la cui caratteristica è tale da travalicare i confini dell’economia. Accenno solo al fatto che questo strano «liberismo» provoca non solo ingiustizie estreme (arricchimenti inauditi e povertà al limite del servaggio) ma erode le basi del contratto sociale e dell’etica pubblica.

È questo la miscela esplosiva che sta investendo un Paese fragile come l’Italia. Ecco perché io temo che il collasso del Pd non è separabile da questo drammatico passaggio. Ricordiamoci che quando una crisi supera una certa soglia è allora che si arriva a un bivio. Da un lato si può aprire la strada a un grande cambiamento, il quale però sia capace di ricomporre su basi nuove e più giuste una comunità nazionale e non solo qualche spezzone della sinistra. Di questo si tratta, non di un «inciucio» con Berlusconi. Io non lo voglio, ma l’alternativa non è l’isolamento della sinistra. Stiamo attenti. È da tempo che va avanti un processo di logoramento delle istituzioni. La rielezione di Napolitano al Quirinale e la forza e la drammaticità del suo discorso sono da meditare.

Tutto ciò che sto dicendo non è affatto un alibi per il Pd, un modo di nascondere i suoi errori gridando a un presunto pericolo fascista. Le cose sono molto più complicate. Il fatto è che il mondo in cui siamo immersi è «grande e terribile». È pieno di grandi incognite, è percorso da poteri giganteschi anche privati che nessuno controlla (pensiamo al ruolo soverchiante dei «media»). Ma al tempo stesso è un mondo carico di bisogni nuovi, di domande di valori e di significati. È un mondo che chiede grandi cambiamenti. Questo è il punto. Chi dà risposte? Se non vengono date, si capisce allora perché una forza progressista va allo sbando: perché è priva di una base culturale forte. In un partito che non ha padroni solo le grandi idee fanno amalgama. Se ci sono solo politiche di breve periodo, alla fine prevalgono i giochi personali e i calcoli di potere. Chiedo scusa, ma a mio parere è questo il vero errore fatto dai leader del Pd, ed è per questo che non si è formato un gruppo dirigente capace, come dice Bersani, di «far girare la ruota». Smettiamola di gettarci il fango addosso. Per me resta il fatto che una forza come la nostra è in grado (se vuole) di pensare come difendere la Repubblica dai rischi che la minacciano e come affrontare le sfide dell’Europa e del mondo. E può – al tempo stesso – lavorare per una nuova democrazia di popolo e per un umanesimo moderno basato sulla libertà dell’uomo sociale e sulla creatività del lavoro.

Ecco il messaggio che dobbiamo dare soprattutto ai giovani. Non concedere nulla alla demagogia e alla violenza. Ma al tempo stesso, capire che anche nei voti per «cinque stelle», c’è una domanda enorme di cambiamento. È giunto quindi il momento di uscire dal generico e di non ridurre tutto a un problema di persone. È di una svolta che abbiamo bisogno. Sullo sfondo c’è il problema di riposizionare il riformismo rispetto alla crisi di un sistema economico e culturale che ha finito col produrre lacerazioni insostenibili sul terreno so- ciale e col creare più rendite che ricchezza reale.

Le vecchie dispute tra statalisti e liberisti, tra socialdemocratici e cattolici non hanno più molto senso. Non servono i vecchi schemi ideologici. Solo restando insieme possiamo mettere in moto movimenti reali, nuovi bisogni, e alimentare la volontà delle persone di riprendere il controllo della propria vita. Non serve lo scoraggiamento. Un partito serio è come il gigante Anteo che ritrova la sua forza toccando la terra. La nostra terra è la capacità della società italiana di riannodare i suoi fili (a cominciare da quello che ancora legano Nord e Sud) senza di che il Paese non esce da una crisi di questa natura. Attenzione, amici. Il cambiamento non può contrapporsi alla necessità di unire forze diverse, dalla società e non solo dalla politica. La ragione è molto semplice. Per uscire da una crisi di questa natura e quindi per governare l’Italia in senso progressista non bastano le ricette tecnico-economiche. Il problema è altamente politico. È quello di organizzare una nuova combinazione di interessi, un nuovo blocco sociale. È la capacità di indicare una prospettiva alla sinistra che sia organica a una nuova prospettiva per tutti gli italiani. È il nesso tra una più forte identità della sinistra e una nuova sovranità «italiana europea». Salvare l’Italia non è in contraddizione con il cambiamento. Anzi. È il più grande e il più radicale dei cambiamenti.

L’Unità 24.04.13

"Flop M5S: voti virtuali e batosta in Friuli", di Sara Ventroni

La solenne rampogna di Napolitano è stata accolta con sincera contrizione. La classe dirigente è in castigo. Al letto senza cena. Bando alle moine, ora si procede a consultazioni lampo. Gli unici a tenere il muso sono i ribelli Cinque Stelle. Durante il discorso del presidente ostentano indifferenza con il mento in alto, sempre rivolto a Beppe Grillo.

Mentre il Pd si sottopone a una perizia psichiatrica nazional popolare, contando le identità multiple sul lettino dell’analista (ex Ds, ex Margherita, ex bersaniani, neo-renziani, dalemiani, popolari, liberi battitori, falchi tiratori e Pippo Civati), mentre il Pdl sorride fingendo di avere la coscienza a posto, il Movimento pentastellato mette sotto processo il senatore ciociaro Marino Mastrangeli, reo di aver partecipato a trasmissioni televisive con la Costituzione in mano e i fari luminescenti di Barbara D’Urso a sbiancare il sorriso. Troppo facile, ora, citare Marx, e la tragedia che si ripete in farsa. E però mai, come stavolta, andando con la mente ad altri momenti funesti della Repubblica, ad altri processi in nome del popolo, gli apici spuntanti delle Cinque Stelle ci raccontano i nostri tempi, indegni perfino di un epilogo epico.

In diretta streaming singhiozzante, siamo testimoni involontari del processo contro uno sprovveduto presenzialista che, con la stessa confusione linguistica di un Aldo Biscardi e la sua «moviola in campo», reclama libertà di parola in libero talk show. Il verdetto è senza scampo: Mastrangeli è un traditore. Che si proceda all’espulsione. Ma il senatore non ci sta. E tira fuori (lui, sì, li ha) i numeri: sono il miglior eletto nel Lazio, si difende. E si appella al popolo della rete per un riconteggio, prima della scomunica. Intanto – meglio tardi che mai – escono i dati tanto attesi delle Quirinarie. I numeri segreti che per ore e giorni hanno tenuto l’Italia in apnea, con il collo fermo sotto la ghigliottina del furore popolare, nel plateatico di Montecitorio. Più che di popolo – oggi possiamo dirlo – si trattava di un capannello. Ma quello che conta è dare l’idea. Amplificare il frastuono con il megafono della rete. Gonfiare i sentimenti, sturare la pancia biliosa della gente, come un Berlusconi da antologia. Si confida nel passaparola.

L’architettura numerica dei Cinque Stelle, per chi sa intenderla, è organizzata messianicamente, come le strutture multilevel che devono piazzare i venditori, prima ancora che gli aspirapolvere. Una piramide rovesciata. Otto milioni sono i voti per il Movimento 5 Stelle alle politiche. Quarantottomila, circa, sono gli aventi diritto a votare sul sito di Beppe Grillo. Di questi, solo 28 mila si sono espressi per le Quirinarie (procedura, s’è già detto, costituzionalmente arbitraria, anche secondo i giuristi non ortodossi). Di tutti questi, solo uno ha diritto di veto: il Capo comico.

Stefano Rodotà, persona per bene e grande giurista, dovrebbe chiedere i danni per millantato credito. Per spergiuro di cognome. Con le sue quattromila e settecento preferenze scarse, il giurista avrebbe preso meno del terz’ultimo candidato alle primarie del centrosinistra per il Campidoglio, Gemma Azuni. Il sospetto di doping virtuale punge anche Giorgio Napolitano: c’è del marcio nella propaganda del web. Mentre Grillo grida al golpe infiammando la piazza, Rodotà corre a smentire: l’elezione di Napolitano è a norma di Costituzione. Allora arriva la rettifica, ma non la smentita: visti i numeri in ballo del Cinque Stelle, meglio parlare di un golpettino.

Si sa, la rete pesca a strascico. Delfini e squali. Alghe e rottami. C’è di tutto. Ma in rete ogni gesto diventa magico. Iniziatico. Non sono previsti garanti, o rappresentanti di seggio a reclamare la verifica delle schede. Intanto, di là da ogni previsione, Debora Serracchiani, nuova generazione del Pd, per un pugno di voti espugna il Friuli, malgrado il Pd. Il partito non ringrazia, anche se questo risultato vale a salvare la faccia. Il Cinque Stelle cola a picco, sotto il 20 per cento. In questi casi, il non-statuto suggerisce di ignorare la sconfitta, con un bel silenzio stampa.

L’Unità 24.03.13

"Alla politica non basta solo il Web", di Gianni Riotta

Se oggi manderete una mail, o vi collegherete con un sito web, è probabile che la vostra posta, o la vostra ricerca, passino da Porthcurno, in Cornovaglia, dove tra cemento, vetro, cavi, centraline e giganteschi impianti di raffreddamento, funziona uno dei crocevia europei più trafficati del web. Andrew Blum, giornalista del periodico Wired, ne parla nel volume «Tubes, viaggio al centro di internet», reportage nella struttura fisica della rete. La letteratura tecnologica fa di internet un universo di «Nuvole», «Realtà virtuali», «Anima Digitale», ma invece è concretissima, come un mattone, un bullone, una chiave inglese.

La politica italiana scopre in queste ore, con qualche stupore, qualche goffa comicità e una tardiva alfabetizzazione collettiva, che la Rete siamo noi, il Virtuale è Reale.

Non ci sono Eden digitali, solo fatica, lavoro, mobilitazione di masse e individui, dalle piazze di Peppone e Don Camillo a twitter, i siti, i blog. Scoperta dolorosa, la Fatina Web non esiste, perché il Pinocchio dei Partiti diventi Bambino online tocca studiare e soffrire.

«Il popolo del web», questa metafora dolce e illusoria che volta a volta «Insorge», «Si ribella», «Si oppone» o «Dice di NO!» non esiste, oleografica barricata dove i Buoni con un iPad in pugno danno scacco ai Cattivi col telecomando tv. La rete trasforma la tv in dibattito continuo, rilancia i contenuti dei giornali lontano dalle edicole. «Popolo del web» siamo noi, berlusconiani e grillini, democratici e montiani, illusi, delusi, pugnaci. Come la rete «virtuale» è in realtà composta da tubi, monitor e mattoni che uno scoiattolo ferma rosicchiando un cavo o una bomba paralizza per settimane, così la politica online non è Caffè Illuminista dove la posizione più brillante e intelligente prevale sulla più goffa e conformista, come sperano lo studioso Shirky e The Economist. Il web è il luogo «fisico» della nostra modernità, specchio del nostro tempo, con le sue speranze, sconfitte, sogni e incubi.

Quando Silvio Berlusconi, andando a pareggiare le elezioni, dichiarò di voler cancellare l’Imu, la curva delle citazioni su Twitter lo vide prevalere per giorni, pesando sui dati Tycho-Imt pubblicati dalla Stampa. Chi pensava che il re della politica televisiva stentasse online, assediato dal «popolo del web», doveva ricredersi. Il silenzio assoluto del Sud sul Partito democratico online, prima del voto, era presagio nitido della sconfitta in quelle zone. In pochi mesi il vantaggio digitale che premiava a Milano il sindaco Pisapia su Letizia Moratti è sfumato.

Il web non rende forti i deboli, né indebolisce i potenti. Il web non ha scatenato la Primavera Araba, nata da anni di disagio e diffusa dalla tv Al Jazeera. Il web non ha creato Grillo, che per anni ha spaccato computer in scena, è diventato famoso in tv e solo dopo, con bravura e fiuto, ha investito sulla rete il «klout», la popolarità digitale.

Qualcuno si stupisce ora per i magri consensi che «il popolo del web» avrebbe tributato alle primarie online ai candidati presidenti di Grillo, poche migliaia alla Milena Gabanelli, nota in tv a milioni di persone, poche al giurista Stefano Rodotà, ex presidente dei Pds, parlamentare, columnist e autore di grido. Tutto qui? si son chiesti in tanti, persuasi che i lillipuziani grillini avessero ormai preso ostaggio l’intero Gulliver politico italiano.

Sciocchezze. I dati disponibili non danno alcun vantaggio di presenza digitale agli elettori di Grillo su quelli di Monti o Berlusconi. Certo, il blog dell’ex attore è radicato e diffuso, grazie all’esperienza di Gianroberto Casaleggio, ma le primarie Pd o le manifestazioni «di plastica» del Pdl hanno raccolto consensi «di massa» maggiori. La rete, come insegna il saggio Melvin Kranzberg, «non è né cattiva, né buona e neppure neutrale». Non è grillina, Pd o Pdl, come non sarà a lungo «Democratica» o «Antirepubblicana» negli Usa. Non è l’arma degli oppressi, ma il campo di battaglia, la scena su cui noi viviamo la nostra vita.

Su twitter, che sta diventando il maggior canale di informazione, trovate imam fondamentalisti e dissidenti democratici, l’esercito di Israele e le Brigate islamiche di Gaza si sfottono durante i bombardamenti dando fondo alla sentina dell’odio. Quando sulla tv del blog di Grillo, il giovane – e simpatico – conduttore Matteo «intervista il leader», non smette un attimo di annuire durante il monologo, con effetto struggente: prova di quanta passione ci sia tra i militanti Cinque Stelle, quanta fede e quanta però mancanza di dibattito critico: Grillo parla, Matteo acconsente ad ogni frase.

Le foto Facebook del capogruppo al Senato Crimi, a torso nudo a friggere qualcosa in padella, il referendum indotto via twitter dalla sua collega capogruppo alla Camera Lombardi lamentando le ricevute di rimborsi perdute, sono lame a doppio taglio, per i grillini duri prova di trasparenza, fuori dal movimento ingenuità grossolane.

La rete, come una foto Instagram, una raccolta di immagini Pinterest, la rete di contatti Linkedin, un cruscotto di messaggi Hootsuite, ci offre un caleidoscopio di verità e dati senza interpretazioni monolitiche, «Si ribella il popolo del web». Su Twitter Papa Ratzinger risultava «freddo», Papa Francesco entusiasma. Le divisioni del Pd online sono state devastanti, le contestazioni a Franceschini e Fassina su YouTube dannose, ma quanto crediate ci vorrà prima che un’altra tribù del «popolo del web» si filmi mentre contesta Grillo? Una sola battuta sulle donne in Parlamento ha trasformato il bravo e malinconico cantante Battiato da eroe grillino e assessore siciliano online a misogino da insultare sui siti. Rete volubile? No, il consenso di Battiato era fragile e improvvisato, mancava di Centro di gravità permanente, era artificiale ed è venuto giù al primo errore.

Invano la politica chiederà al web redenzione per la propria parte e dannazione per gli avversari. La campana della rete chiama tutti a trasparenza, idee, impegno, mobilitazione e fatica. Ma, credetemi, non basteranno i cookies più sofisticati, i web master più guru, gli intervistatori più annuenti, le timeline di twitter più sexy, l’analisi semantica dei Big Data più perfetta a guadagnare un solo voto. Quelli li si conquista con idee per creare lavoro, diffondere benessere, contrastare la corruzione, innovare la classe dirigente, votare un governo stabile. Diventi premier il saggio Amato, il raziocinante Letta, l’energico Renzi, solo chi ha questi valori solidi in testa avrà nella rete un alleato. Altrimenti, fidatevi, il «popolo del web», cioè l’Italia tutta 2013, continuerà a sobbollire.

La Stampa 24.03.13

"La priorità è un sussidio al lavoro", di Tito Boeri

È probabile che un governo di coalizione fra Pd, Pdl e Scelta Civica ottenga il voto di fiducia superando lo scoglio dei franchi tiratori. Ma non sarà certo facile per il nuovo governo del Presidente darsi un programma secondo “le priorità e la prospettiva temporale che riterrà opportune”.
Il documento dei saggi, che dovrebbe offrire la base di questo programma, non definisce priorità. La sua parte economica formula ben 32 proposte, la cui attuazione richiederebbe almeno due, forse tre legislature. Soprattutto non distingue fra interventi d’emergenza per il rilancio dell’economia, misure congiunturali volte a bloccare la spirale recessiva e interventi strutturali, che vogliono migliorare la competitività del nostro Paese di qui a 4-5, fino a 10 anni.
Non manca il buon senso e molte proposte sono condivisibili, ma non c’è una diagnosi che potrebbe guidare una gerarchia di misure e soprattutto dettare la loro scansione temporale. La parte istituzionale non si esprime sulla riforma più importante, il cambiamento di una legge elettorale antidemocratica, per via del premio di maggioranza indipendente dal numero di voti effettivamente percepiti, e al tempo stesso incapace di fornire stabili maggioranze. Provando a fare un’intersezione fra i programmi elettorali (e i punti post-elettorali) dei tre partiti che, con ogni probabi-lità, sosterranno il nuovo governo ci si ritrova con un insieme vuoto.
Sia Pd che Pdl hanno maggiori punti in comune con il Movimento 5 Stelle che tra di loro. Il Pd condivide con Grillo la riduzione dei compensi dei parlamentari, la scelta di almeno ridurre (M5S vorrebbe abolirlo del tutto) il finanziamento pubblico ai partiti, l’abolizione o riordino delle Province, l’adozione di leggi anti-corruzione e contro il conbo.
flitto di interessi, il rafforzamento degli ammortizzatori sociali e la richiesta di invertire la tendenza a ridurre gli investimenti in istruzione dando più fondi alla scuola. Pdl e Grillo si ritrovano fianco a fianco nel chiedere l’abolizione dell’Imu sulla prima casa, il ridimensionamento se non lo smantellamento di Equitalia e l’adozione di politiche migratorie più restrittive. Quando si mettono insieme Pd e Pdl è molto più difficile trovare intersezioni tra insiemi di proposte: rimangono solo la richiesta di saldare i debiti della pubblica amministrazione verso le imprese (operazione già avviata dal governo dimissionario) e un generico potenziamento della formazione tecnica superiore. Per questo è un gran bene che il nuovo governo del Presidente nasca come un governo politico: la politica è proprio l’arte di trovare intese e compromessi, come ci ha giustamente ricordato Napolitano. Avranno parecchio da lavorare. Mentre i tecnici possono favorire la ricerca di accordi su di una qualche visione condivisa delle cose più urgenti da fare.
Il nostro paese è avviato nel 2013 a vivere il sesto anno di una crisi pesantissima, che ha messo in ginocchio molte famiglie. I primi tre mesi di quest’anno sembrano avere riportato indietro le lancette dell’orologio a un primo trimestre del 2009 da incubo.
Dobbiamo assolutamente scongiurare una nuova spirale recessiva. Questa è la priorità numero uno. C’è un’emergenza sociale che va affrontata assieme a quella economica, testimoniata dall’impennata dei dati sulla povertà, comunque questa venga misurata, di cui si è già dato conto su queste colonne. Al tempo stesso il processo di consolidamento fiscale non ci concede risorse per misure universali di contenimento della povertà. In questo contesto, l’unico modo di fronteggiare l’emergenza sociale consiste nel puntare tutto sul lavoro e, soprattutto, sulle opportunità di impiego che si possono offrire a chi è ai margini tra lavoro e non lavoro. Questo spinge a concentrare gli interventi su chi oggi è ai minimi retributivi. Un incentivo condizionato all’impiego, sotto forma di sussidio all’occupazione (anziché alla disoccupazione) o credito di imposta per chi non è incapiente, avrebbe proprio questa funzione. Ridurrebbe il costo del lavoro e incentiverebbe l’emersione, condizione indispensabile per ricevere il contributo pubblico. Dovrebbe essere accompagnato dall’introduzione di un salario minimo per evitare che l’intero trasferimento finisca nelle tasche del datore di lavoro. Oltre che contribuire a ridurre in modo fiscalmente sostenibile la povertà (è una misura di emersione), questo intervento rilancerebbe i consumi fronteggiando l’emergenza economica: la propensione al consumo tra le famiglie povere è quasi il doppio di quella fra le famiglie con redditi medio-alti. I costi di questo intervento
sarebbero relativamente limitati e potrebbero essere coperti attingendo al bacino, mal speso, di fondi per le politiche attive del lavoro.
Bisogna anche agire più direttamente sulla domanda di lavoro delle imprese, oggi bloccata da difficoltà nell’accesso al credito. Il documento dei saggi è stranamente bancocentrico su questo aspetto: ritiene che le imprese debbano continuare a trovare liquidità per finanziare i propri investimenti attraverso il sistema bancario o la Cassa depositi e prestiti. Questa è una visione che non tiene conto dell’emergenza: a breve banche piene di sofferenze, che devono ricapitalizzarsi e che non fanno più utili difficilmente potranno dare alle imprese la liquidità di cui hanno bisogno. Occorre allora trovare subito canali di finanziamento alternativi per le imprese, ad esempio permettendo ai fondi pensione di cambiare il profilo di investimento corrente investendo di più in obbligazioni societarie e azioni, oltre che permettere la nascita di fondi chiusi che investano in consorzi di piccole imprese. Importante anche che le imprese si sentano d’ora in poi tutelate riguardo alla puntualità dei pagamenti della pubblica amministrazione, un aspetto che le misure recentemente adottate dal governo Monti non sembrano prendere in considerazione, prese come sono a risolvere il pregresso piuttosto che guardare avanti. Una delle maggiori fonti dei ritardi nel saldare i debiti commerciali nella Pa risiede nel fatto che le amministrazioni stilano bilanci di competenza (in cui possono prendere impegni anche quando non ci sono risorse immediatamente disponibili) anziché di cassa. Passando ad una contabilità di cassa, le amministrazioni locali sarebbero in grado di prendere con privati solo impegni che possono mantenere fin da subito, riducendo di molto l’incertezza delle imprese. Questa innovazione servirebbe anche a rendere più efficaci, a lungo andare, i controlli sulla spesa degli enti locali. Una parte non piccola nei ritardi dei pagamenti è legata a tagli fatti solo sulla carta in tutti questi anni.
Un lavoro che valga di più per chi oggi ha basse retribuzioni, linfa vitale alle imprese anche al di fuori del sistema bancario e maggiori certezze sui pagamenti futuri della Pa: questa potrebbe essere la filosofia delle misure immediate per interrompere la spirale recessiva. Una cosa assolutamente da evitare è pensare che l’emergenza possa essere affrontata con le misure tampone. Non è rifinanziando in qualche modo la cassa integrazione in deroga, affrontando l’irrisolto nodo esodati o trovando i fondi per i contrattisti in scadenza della Pa che si uscirà dall’emergenza. Inevitabile intervenire su questi aspetti, ma non è certo con le pezze (che sono spesso peggio del buson) che si può scongiurare il protrarsi di questa interminabile recessione.

La Repubblica 24.03.13

"Scuola, vecchie aule addio: nuove regole per costruirle", di Anna Maria De Luca

Per la prima volta dal 1975 si mette mano all’architettura interna delle scuole: nuove regole per costruire spazi d’apprendimento coerenti con le innovazioni determinate dalle tecnologie digitali e dalle evoluzioni della didattica. Ambienti capaci di rompere la vecchia modalità trasmissiva cattedra – banco e la centralità della lezione frontale. Cosi le scuole diventano “tessuto ambientale per l’apprendimento”, dall’atrio ai servizi igienici agli spogliatoi, alle pareti mobili. Una scuola pensata “in modo da lasciare sempre una possibilità di variazione dello spazio a seconda della attività desiderata”.

Stop alle vecchie aule. “Per molto tempo – si legge nelle Linee Guida varate su proposta del ministro Profumo dopo il parere della Conferenza Unificata – l’aula è stata il luogo unico dell’istruzione scolastica. Tutti gli spazi della scuola erano strumentali o accessori: i corridoi utilizzati solo per il transito degli studenti, o il laboratorio per poter usufruire di attrezzature speciali”. Oggi non può essere più cosi: la realizzazione degli edifici scolastici dovrà rispondere a parametri e criteri architettonici e dell’organizzazione dello spazio del tutto nuovi.
Le scuole “non luoghi”. Stop alle scuole anestetizzanti, tutte uguali, abbastanza tristi, con colori spenti o casuali, stop alle scuole “non luoghi”. “Oggi – si legge nelle Linee Guida a cui dovranno attenersi, in tutto il Paese, i progetti per le scuole – emerge la necessità di vedere. La scuola diventa il risultato del sovrapporsi di diversi tessuti ambientali: quello delle informazioni, delle relazioni, degli spazi e dei componenti architettonici, dei materiali, che a volte interagiscono generando stati emergenti significativi”. Ed ecco quindi che spuntano atelier e laboratori, spazi connettivi che diventano relazionali e offrono diverse modalità di attività informali individuali, in piccoli gruppi. Il docente non ha più un posto fisso ma si muove tra i vari tavoli offrendo il supporto all’apprendimento che all’interno di ogni gruppo prende forma.

Progettazione integrata e nuove tecnologie. Alla base delle Linee Guida c’è una nuova progettazione integrata “di microambienti finalizzati ad attività diversificate per offrire funzionalità, confort e benessere” insieme ad un’attenzione per il risparmio energetico ed alle fonti rinnovabili. “Ambienti che potremmo definire, mutuando un’espressione dal mondo degli ambienti on line, “interoperabili”, in cui si pratica una didattica coinvolgente che non ha paura di “pareti trasparenti” che consentono la condivisione oltre l’aula”. Dallo spazio inteso come “lo “spazio del fare” – e di qui l’uso del termine “atelier” per la creazione di contesti di esperienza – allo spazio informale e di relax con risorse a disposizione (libri, video, ecc), aree per giochi di gruppo e piccoli lavori manuali.

Scuole civic center. L’eliminazione degli spazi di mero passaggio e l’adattabilità degli spazi cambia anche all’esterno: “offrendosi alla comunità locale e al territorio la scuola si configura come civic center in grado di fungere da motore del territorio in grado di valorizzare istanze sociali, formative e culturali”.