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"Le pregiudiziali inaccettabili", di Claudio Sardo

Il Presidente della Repubblica resterà in carica sette anni. Più di una legislatura. Dovrà affrontare un tempo molto difficile: una crisi profonda del sistema politico, una crisi economica come non si ricorda dal dopoguerra, un passaggio epocale per l’Europa e il suo modello sociale. I cittadini italiani guardano al Parlamento con la speranza che, dopo questo lungo, insopportabile stallo sul governo, venga eletto un Capo dello Stato degno e autorevole all’estero.

Un Capo dello Stato fedele alla Costituzione, coerente nella difesa dell’unità nazionale e dell’equilibrio tra i poteri, capace di svolgere la più alta funzione di garanzia pur provenendo da un parte politica. Qualcuno insiste che, tra le credenziali del prossimo presidente, vi sia un’estraneità ai partiti, quasi che la militanza politica fosse una colpa da scontare. Certo, i partiti sono oggi al punto più basso di popolarità: perché i cittadini pagano i costi del collasso della seconda Repubblica e delle mancate riforme, perché la politica nel suo insieme si dimostra impotente nella soluzione di molti, troppi problemi concreti. Il turbo-liberismo di questi anni – che ha provocato la crisi e sottomesso prima la politica, poi la stessa economia reale, al dominio della finanza – ha tolto potere alle democrazie. Il resto del discredito, nel nostro Paese, è stato aggiunto dalla corruzione, dall’occupazione impropria di poteri pubblici, dalla rottura delle reti di solidarietà, dal mancato ricambio delle classi dirigenti, ma anche dalla cultura della contrapposizione tra politica e antipolitica, tra partiti e società civile. Tutto ciò ha alimentato il ribellismo e il populismo, ma non ha portato a soluzioni. Solo macerie su macerie. Non tutti però hanno le stesse colpe. La politica non è la notte scura dove tutte le vacche sono nere. Se non si distingue, non si ricostruisce. Non è vero che c’è una politica contro la società civile: questa è la teoria di chi non vuole cambiare. Sia chiaro, il rinnovamento politico e istituzionale è oggi una necessità. Come è indispensabile un governo di cambiamento. Nelle condizioni date tutto ciò sarà difficile, ma è doveroso cercare di aprire un nuovo passaggio. Di muovere il Paese. Di portarlo fuori da questo collasso. Ci auguriamo che la scelta – a partire dalla proposta che farà Pier Luigi Bersani – sia anzitutto all’altezza del ruolo e della dignità di un presidente della Repubblica, che speriamo gli italiani apprezzeranno nel tempo. Può essere un uomo delle istituzioni, fuori dai partiti. Può essere una personalità esterna al Parlamento. Ma sarebbe assurda una pregiudiziale «contro i partiti». Sarebbe figlia della cultura che ha contribuito, non poco, a portarci a fondo, in un luogo dove la crisi economica rischia drammaticamente di combinarsi con un nuovo cesarismo.

Il Parlamento deve fare in fretta a eleggere il presidente, e poi a dar vita al governo. Ma deve assumersi una responsabilità. Non si sceglie un presidente sulla base di un tele-voto. L’elezione di secondo grado è voluta dalla Costituzione proprio perché venga valutata e deliberata da un consesso rappresentativo di persone già inserite nelle istituzioni. Il presidente dovrà farsi stimare nel tempo, attraverso le scelte che compirà nel suo ruolo di garante. Può anche avere un basso consenso di base. Ma i grandi elettori devono sapere che l’eletto ha le potenzialità per farsi apprezzare, e soprattutto per dare stabilità a un Paese che oggi rischia moltissimo. L’elezione al primo scrutinio sarebbe una buona iniezione di autorevolezza e di legittimità. E sarebbe anche la giusta risposta a chi non smette di invocare il sistema presidenziale. Noi, amanti della Costituzione più bella del mondo, vogliamo continuare ad avere un presidente-garante. Non un presidente che dipende dai sondaggi, come sarebbe un Capo dello Stato eletto direttamente dal corpo elettorale.

L’Unità 17.04.13

"La scelta per il Colle non diventi un concorso di popolarità", di Luigi la Spina

La scelta per il nuovo Presidente della Repubblica non si fa per concorso, ma non si fa neanche con un sondaggio di popolarità. La mancanza di autorevolezza da parte della classe politica a cui spetta la nomina del Capo dello Stato è tale che si sta diffondendo un nuovo gioco di società, all’insegna del presidente preferito. Chi lo vuole donna, chi giovane, magari senza sapere che deve almeno aver compiuto 50 anni, chi lo vuole «nuovo», fuori dall’aborrita casta, chi lo vuole, invece, esperto, ma simpatico come Pertini, competente come Ciampi, saggio come Napolitano. Insomma, ogni italiano possiede l’identikit giusto, come quello dell’allenatore che saprebbe far vincere alla sua squadra la Coppa dei Campioni.

Il problema è che il futuro presidente italiano avrà un compito ancor più difficile. Altro che Coppa dei Campioni : qui si tratta di non far scivolare il nostro Paese nella serie B delle nazioni nel mondo. Ecco perché il punto di partenza da cui far nascere questa scelta non dev’essere il balletto sul nome a noi più gradito, ma una seria riflessione sul ruolo che dovrà svolgere il nuovo inquilino del Quirinale e, quindi, sulla persona più adatta a ricoprirlo nelle attuali difficilissime circostanze.

Le istituzioni politiche, come gli organi del corpo umano, si modificano secondo le funzioni a cui sono chiamate. La presidenza della Repubblica è l’esempio più evidente di questo fenomeno. Nella prima fase dello Stato democratico, caratterizzata da partiti forti, ideologie forti e forte identificazione degli italiani con i loro rappresentanti in Parlamento, bastavano capi dello Stato notai o arbitri. Quando si sono manifestate, tra crisi economiche e tensioni sociali, le prime vistose crepe nei rapporti tra la classe politica e cittadini, durante gli Anni 70 e 80, il Presidente è diventato il parafulmine dello scontento popolare, inteso sia come megafono degli umori generali, sia come mediatore dei conflitti. Una funzione esemplarmente esercitata da Pertini e, in parte, anche dal «picconatore» Cossiga. Il trauma del passaggio tra la prima e la seconda Repubblica, richiedeva, invece, la garanzia di un vecchio «padre della patria», come il costituente Scalfaro o quella riscoperta dell’orgoglio nazionale, indispensabile cemento unitario contro la disgregazione della Repubblica, che, forse, solo un’azionista come Ciampi poteva compiere senza rischi nostalgici.

È toccata a Napolitano l’ultima, necessaria metamorfosi quirinalizia. In una drammatica spaccatura tra destra e sinistra, tra berlusconismo e antiberlusconismo, una sfida che ha sostanzialmente bloccato lo sviluppo italiano condannando il nostro Paese all’immobilismo e, quindi, al declino, l’attuale Capo dello Stato è stato costretto a guidare la politica, rappresentando, dentro e fuori i confini nazionali, l’unica istituzione autorevole, super partes, capace di suscitare fiducia nei cittadini. Una istituzione, quella della presidenza della Repubblica, che, ormai, è più importante della presidenza del governo e tale sarà destinata a restare.

La memoria del passato, oltre a essere utile per diradare un po’ le nebbie del futuro, può servire anche per smascherare alcuni pregiudizi e far emergere la banalità di alcune delle osservazioni che, in questi giorni, sono più ripetute. Napolitano, non solo fu eletto da una risicata maggioranza, ma, quando fu nominato, era un politico di lunghissimo corso, per di più erede di una militanza comunista mai rinnegata. Eppure, l’uomo di parte è diventato il Presidente di tutti, anche dell’anticomunista per eccellenza, Silvio Berlusconi. Ma, cosa ancor più straordinaria, gli italiani, non considerano Napolitano un rappresentante della cosiddetta «casta», anche se ha passato più di mezzo secolo nelle aule parlamentari. Proprio perché, come si è detto prima, la funzione che le circostanze storiche costringono a esercitare al Quirinale è capace di trasformare l’uomo che vi abita. Fa diventare un democristiano, colto e riservato come Cossiga, un fantasioso demolitore del «bon ton» istituzionale. Costringe un severo conservatore come Scalfaro a essere considerato un campione della più accesa sinistra. Prende un garbato governatore della Banca d’Italia, lo avvolge in una bandiera tricolore e lo mette a cantare, con tutti gli italiani, l’inno di Mameli.

Ecco perché non è importante che il prossimo presidente sia uomo o donna, giovane o vecchio, politico di antica data o di fresca esperienza e, magari, neanche conterà il numero dei suoi elettori o il loro colore politico, anche se è auspicabile, naturalmente, la più ampia condivisione della scelta. Dovrà essere una persona che per 7 anni, un periodo che non consente una nomina dettata da esigenze contingenti, garantisca che la politica italiana, in un momento di estrema conflittualità interna e discredito tra i cittadini, non corroda le basi della democrazia. Dovrà essere punto di riferimento internazionale, interlocutore affidabile e autorevole dei più importanti leader , immagine di un’Italia rispettata nel mondo. Dovrà aiutare, con scelte difficili e pure impopolari, a far superare quel conservatorismo sociale e quell’egoismo corporativo che blocca, da almeno due decenni, l’economia del nostro Paese e che non si battono con la demagogia.

Compiti molto ardui, che richiedono competenza istituzionale, capacità di guida politica, esperienza internazionale, ma anche coraggio morale per compiere scelte innovative e resistere alla pressioni delle convenienze e delle abitudini. Perché il prossimo Presidente della Repubblica sarà determinante per il futuro del nostro Paese. Non è il caso di sceglierlo con l’applausometro.

La Stampa 17.04.13

"L'Italia ancora non riparte, disoccupati in aumento", di Bianca Di Giovanni

L’Italia va sempre più indietro. Secondo le stime di primavera dell’Fmi il Pil calerà anche quest’anno dell’1,5%, dopo una perdita del 2,5 dell’anno scorso. Anche il Tesoro nel Def (documento di economia e finanza) non ha escluso quel dato, limandolo però dello 0,2% (a -1,3%) considerando l’effetto espansivo dei pagamenti dei debiti della Pa. Sul decreto relativo ai pagamenti è intervenuto ieri in Parlamento il ministro Vittorio Grilli, ribadendo la possibilità di ulteriori stanziamenti l’anno prossimo e «aprendo» anche alla possibilità di inserire nel provvedimento le eventuali risorse per la Cig in deroga, «da non coprire però – ha dichiarato – con fondi per le spese in conto capitale». Quanto ai conti, il ministro ha insistito sulla necessità di non superare il 3% del deficit. Resta il fatto che l’economia rallenta ancora, creando un pesante allarme occupazione. Secondo gli analisti di Washington il tasso di disoccupazione salirà al 12%, un punto e mezzo in più rispetto al 2012. «Alla fine del 2013 in Italia sarà stato svolto gran parte del lavoro di aggiustamento fiscale – ha spiegato Org Decressin, vice direttore per la ricerca del Fondo, presentando l’outlook – se tutte le misure saranno implementate ». Questo permetterà di affrontare il 2014 con prospettive di crescita migliori. Che significa con un Pil positivo, ma di appena mezzo punto. Come dire: il Paese arranca. E a pesare sui fondamentali c’è anche l’incertezza politica. «Non c’è accordo su nuovo governo è ciò porta con sé dei rischi per il Paese», si legge nel rapporto. Blanchard ha aggiunto che, nonostante i passi avanti fatti sul piano fiscale, «crediamo che molto possa ancora essere fatto sul fronte della privatizzazione, sul fronte del sistema giudiziario eccetera ». Le nuove stime pesano sull’indebitamento, che sale al 2,6% del Pil, e sul debito, che sfonda i1130%. Ma il Fondo non prevede la necessità della manovra. «Non ci dovrebbe essere bisogno di stringere ulteriormente la politica fiscale – ha dichiarato Carlo Cottarelli, direttore del Dipartimento Affari fiscali dell’Fmi – E questo, nel contesto di una politica monetaria a livello europeo che dovrà continuare a essere espansiva, dovrebbe aiutare l’Italia a riprendersi in termini di attività economica. Noi prevediamo una ripresa a partire dall’ ultimo trimestre di quest’anno». Per Cottarelli il pareggio strutturale sarebbe raggiunto. Il deficit italiano, depurato dagli effetti del ciclo, sarebbe a -0,2%, sostanzialmente in equilibrio, anche considerando le nuove spese per i crediti delle aziende con la Pa, che incidono solo marginalmente sull’indebitamento.

CRESCITA Ora si tratta di tornare a crescere. E su questo fronte lo stato del credito non è affatto secondario. Il settore bancario appesantisce tutta l’Eurozona, con la sua scarsa redditività e la debole capitalizzazione. La disponibilità del credito è uno dei presupposti per la ripresa: ecco perché si spinge per interventi a sostegno dei gruppi finanziari. Ma le banche restano osservate speciali, soprattutto dopo il f accuse lanciato l’altroieri da Mario Draghi sui mancati ribassi nei tassi, nonostante il fatto che la Bce avesse garantito iniezioni di liquidità all’1%. Anche per Washington «gli interessi sui prestiti restano troppo alti, e c’è bisogno di ulteriori urgenti misure per rafforzare le banche». Intanto in Parlamento interviene Grilli sui debiti della Pa. «Possiamo fare altro, oltre ai 40 miliardi già previsti, nel 2014? Io ritengo di sì», spiega il ministro ai parlamentari. Trattandosi di debiti pregressi fino al 2012, non spesa corrente, non pesano sul cammino verso il pareggio strutturale e quindi, «se al 15 settembre si potrà sapere quant’è l’ammontare esatto si potranno programmare » ulteriori tranche del debito per pagare i crediti commerciali. Dei 40 miliardi messi a disposizione, 14 sono già in cassa. Ma il tema più urgente oggi è la cassa in deroga. Il ministro non esclude che il Parlamento possa intervenire in quel provvedimento (anche se a rigor di regolamento sarebbe inammissibile per estraneità di materia), ma le coperture non possono essere in deficit. «L’Europa considera la spesa per il welfare strutturali, e quindi non finanziatili con indebitamento», spiega. «Siamo pronti a superare la non ammissibilità se c’è l’unanimità – dichiara il relatore Giovanni Legnini (Pd) – ma trovare le risorse con nuovi tagli è difficile, abbiamo raschiato il barile».

L’Unità 17.04.13

"Italia, Pil peggio del previsto", di Francesco Semprini

L’Italia arranca in maniera pronunciata sul fronte della crescita e questo rischia di penalizzare il risanamento dei conti pubblici, sebbene il Paese non abbia bisogno di nuove manovre finanziarie sul bilancio. E’ questo, in sintesi, il messaggio che arriva dal Fondo monetario internazionale secondo cui le difficoltà del Vecchio continente frenano la crescita globale, mentre la Germania potrebbe fare di più per trasmettere un impulso virtuoso alla «periferia» dell’Eurozona.

Il punto di partenza è il World Economic Outlook: Il rapporto di primavera taglia le stime del Prodotto interno lordo (Pil) italiano per il 2013 a -1,5% (era -1,1%), mentre per il 2014 conferma la crescita a +0,5% mentre la disoccupazione è destinata a salire al 12% nel 2013, dal 10,6% del 2012, e al 12,4% nel 2013.

Pesano le incertezze politiche considerate uno dei rischi sulla crescita: «Non abbiamo un numero esatto», sull’incidenza – avverte Carlo Cottarelli, responsabile del Fiscal Monitor (il rapporto sui conti pubblici del Fmi) ma, in via generale, abbiamo visto come abbiano effetti, ad esempio, sugli investimenti. Così come pesano sulla ripresa globale – dice Washington – assieme agli «sviluppi nell’area euro» il cui Pil è stato rivisto al ribasso a -0,3% per il 2013, e confermato +1,1% nel 2014.

Il tasso di disoccupazione sarà al 12,3% sia quest’anno sia il prossimo. Le stime negative riflettono non solo la debolezza nei paesi periferici ma anche quella nei paesi «core», come spiega il capo economista del Fmi, Olivier Blanchard, secondo cui a pesare sono anche gli alti tassi di interessi applicati ai prestiti.

Il Fmi spiega che «nell’area euro la debolezza della domanda privata suggerisce che i Paesi che posso permetterselo dovrebbero consentire agli stabilizzatori di agire automaticamente e quelli che hanno margini di manovra fiscale dovrebbero fare anche di più». Un modo per spingere la Germania ad adottare misure espansive anche per valutare, come sottolinea Blanchard, la capacità degli Stati «core» di aiutare i paesi periferici.

A tinte fosche anche l’orizzonte americano: il Weo fissa la crescita Usa nel 2013 all’1,9% e al 3,0% nel 2014, un ritmo considerato ancora troppo lento. In un contesto del genere si profila un Pianeta a tre velocità trainato dalle economie emergenti, e con una forbice sempre più ampia fra Usa ed Europa, con l’eccezione del Giappone (+1,6%), grazie alle manovre della Banca centrale. Per l’anno in corso, quindi, il Pil globale è stimato 3,3% nel 2013, mentre è prevista un’accelerazione al +4,0% nel 2014.

Dal Fiscal Monitor emerge invece un quadro dai toni chiaro-scuri: il deficit italiano si è attestato al 3% del Pil nel 2012, consentendo all’Italia di uscire dalla procedure per deficit eccessivo dell’Europa, il calo proseguirà al 2,6% nel 2013 e al 2,3% nel 2014. Pertanto in Italia «gli scenari suggeriscono che non sono richiesti ulteriori manovre, al limite piccole correzioni». Lo conferma il ministro dell’Economia, Vittorio Grilli: «Non serve una nuova manovra.

Se ci sono necessità di spesa per singoli obiettivi bisognerà trovare le coperture, a legislazione vigente il bilancio è in pareggio quindi la manovra non serve». La nota dolente è sul lato del debito previsto al 130,6% nel 2013 e al 130,8% nel 2014. Il debito sarà sopra al 120% almeno fino al 2018.

La Stampa 17.04.13

"Il primo esame universitario già al liceo così negli atenei è caccia alla matricola", di Salvo Intravaia

Esami universitari già al liceo. È l’ultima trovata degli atenei italiani per soffiare matricole alla concorrenza e avvicinare i ragazzi delle superiori all’università. Qualche giorno fa, il Senato accademico dell’università Ca’ Foscari di Venezia ha approvato Esame in anticipo, una originale attività di orientamento come quelle svolte ogni anno dagli atenei per fornire informazioni ai futuri iscritti e consigliarne le scelte in base alle loro inclinazioni. Dal prossimo anno, la Ca’ Foscari terrà corsi di alcune materie di base presenti in diversi percorsi di laurea — biologia, chimica, ecologia, ingegneria ambientale, analisi statistica dei dati, ma anche altre discipline — indirizzati agli studenti degli ultimi tre anni delle scuole superiori venete. E coloro che si iscriveranno e seguiranno il corso pomeridiano potranno aggiudicarsi i primi sei crediti della loro carriera universitaria. Basterà superare l’esame collocato alla fine delle lezioni e, dopo il diploma, iscriversi nell’ateneo della Laguna.
L’iniziativa segue una prima sperimentazione avviata dalla Ca’ Foscari in due licei veneti, uno a Treviso e l’altro a Mestre, che ha riscosso parecchio successo. «È andata bene — spiega Giuseppe Gurnari, docente di Scienze presso il liceo scientifico Giordano Bruno di Mestre — Abbiamo una quarantina di alunni che hanno quasi concluso il percorso e si apprestano a sostenere gli esami. Pensiamo di ripetere l’esperienza ». Adesso, l’ateneo vuole estendere questa prassi a quante più scuole possibile della regione. «L’idea — spiega il rettore, Carlo Carraro — nasce dal fatto che quello veneto è storicamente un territorio a bassa scolarizzazione.
Noi abbiamo pensato di portare più studenti all’università. Anziché aspettare gli studenti presso le nostre sedi — continua — siamo stati noi a raggiungerli e l’iniziativa ha avuto successo».
Le scuole venete, per avviare i corsi, dovranno stipulare una convenzione con l’università e mettere a disposizione i locali dove i docenti della Ca’ Foscari svolgeranno i corsi pomeridiani: in genere, tre moduli di sedici ore per un totale di quarantotto ore in un anno, che corrispondono ai sei crediti che potranno guadagnarsi in anticipo i ragazzi. Dal 2000, infatti, il vecchio percorso unico universitario ha lasciato il posto al 3 più 2 — una prima laurea triennale e una seconda laurea biennale specialistica — e sono stati introdotti i crediti formativi universitari (Cfu), diversi per ogni materia. Per ottenere la laurea triennale occorre racimolare 180 crediti e 300 per una laurea a ciclo unico quinquennale. Gli studenti veneti che avranno guadagnato i primi sei crediti potranno accorciare il percorso universitario.
Il progetto della Ca’ Foscari è l’ultimo di tantissime iniziative lanciate in questi ultimi anni dagli atenei per accaparrarsi il maggior numero di iscritti. C’è di tutto: pagine facebook e open day, giornate di orientamento e visite presso le scuole, e poi forum, stand e colloqui individuali per i più indecisi. Lo scopo è sempre lo stesso: cercare di convincere quanti più maturandi possibile a scegliere il proprio ateneo. Gli atenei di Firenze e della Basilicata hanno all’attivo una apposita pagina facebook sull’orientamento.
Quello di Ferrara, nei giorni scorsi, ha dato vita a un Forum ad hoc. Fitta di impegni — incontri in facoltà, open day, lezioni universitarie — l’agenda della Statale di Milano. Mentre, dal 31 maggio al primo giugno, l’università di Genova darà vita all’Open week. Dal 6 al 10 maggio l’ateneo di Torino ha organizzato le Giornate di orientamento. L’ateneo di Roma Tre, tra febbraio e marzo, ha già svolto un fittissimo calendario di Giornate di vita universitaria. Mentre a Palermo si è già svolto il Welcome week: quattro giorni di attività di in ateneo con una simulazione delle prove di accesso alle facoltà a numero chiuso.

La Repubblica 17.04.13

"Nazisti, ultra-cristiani, suprematisti ecco l’integralismo Made in Usa", di Vittorio Zucconi

Anche se dal settembre del 2001 la parola “terrorismo” proietta immediatamente immagini di fanatici con il turbante e l’AK47 imbracciato. La prudenza con la quale tutte le autorità americane, da Obama allo Fbi che conduce le indagini con 700 agenti dedicati, si riservano di indicare in quale direzione puntino, è la prova che essi conoscono bene l’esistenza e la velenosità del «serpente nell’erba». 36 ore dopo l’esplosione che ha ucciso e mutilato bambini e spettatori adulti lungo il rettilineo d’arrivo della Maratona sfregiandoli con sferette di acciaio, chiodi, schegge, esplosi da un ordigno dentro una pentola a pressione, la scelta dell’etichetta sembra dipendere più dai pregiudizi ideologici di chi l’appiccica che dai fatti. Come prova il bisticcio a distanza fra la Fox News
di Murdoch, l’ammiraglia della destra, già schierata per la caccia al jihadista fanatico e la più moderata Cnn, che ricorda l’esistenza e la pericolosità della violenza doc americana. Anche la pentola a pressione, usata per stragi in Pakistan, in Afghanistan ma anche da fascisti croati, prova molto poco.
Le cifre, e i fatti, registrati negli ultimi decenni confermano che se nessun gruppo ha mai raggiunto l’apoteosi d’orrore delle Due Torri, non è stato certamente per mancanza di tentativi. Dei 95 attacchi classificati come «terroristici» dall’Agenzia per Sicurezza Nazionale, sei sono sicuramente attribuibili ad al Qaeda, ad Aqap, la filiale saudita della cupole terroristica e a Tehrik-i-Taliban, la cellula pakistana. Gli altri 89 sono opera di organizzazioni come il “Dipartimento della Giustizia” che non è il ministero, ma un gruppo che chiede giustizia contro l’oppressione del governo di Washington, del KKK, e di varie espressioni dell’animalismo e dell’ecologismo violento, l’Elf, il Fronte per la Liberazione della Terra, e l’Alf, Fronte per la liberazione degli animali.
Tanto il terrorismo di matrice straniera, quanto quello autogenerato hanno in comune il bersaglio: quel governo americano che è ai loro occhi la radice di ogni iniquità. Ma le milizie e i gruppetti violenti che hanno sparso bombe, ucciso, ferito, intimidito dall’interno si sparpagliano su un arco di ideologie che coprono tutto il ventaglio dell’odio. Gli assassini dei medici e delle infermiere che praticavano aborti legittimi nel nome della difesa della vita non hanno ovviamente nulla in comune con l’uomo che colpì il parco Olimpico di Atlanta nel 1994 con una bomba a chiodi e sferette, lo stesso tipo di ordigno usata a Boston per falciare alle gambe 133 persone, uccidere un bambini e due adulti e costringere i chirurghi ad amputazioni.
Ciascuno di queste dozzine di gruppi, di cellule, di milizie organizzate secondo criteri paramilitari e localizzate soprattutto nel Mid West e nel Lontano West, dall’Illinois al Montana, ha un totem da abbattere, e il proprio da innalzare. Gli isolati, come l’Unabomber che spediva pacchi esplosivi dal proprio nascondiglio, voleva colpire il complesso accademico- industrial-finanziario e furono
necessari 20 anni per catturarlo. I super cristianisti del Sud aborrono l’empietà di una Washington che vuole imporre al popolo di Dio, quale loro credono di essere, atrocità come il diritto di scelta, i matrimoni gay. Se un punto di convergenza li unisce è la lotta armata contro lo strumento più odioso ed evidente utilizzato da ogni governo per negare la libertà ai “patrioti”, come spesso si autobattezzano: le tasse. Quelle imposte che proprio il giorno 15 aprile di ogni anno sono dovute al moloch statale.
Una ricerca condotta dall’accademia militare di West Point lo scorso anno aveva notato l’aumento massiccio, eppure quasi inosservato, del terrorismo interno. Tra il 1990 e il 2011, gli attacchi, riusciti o falliti, di gruppi o individui di estrema destra negli Usa sono passati da 35 a 350 all’anno, decuplicati. Il picco, anche più alto, si nota sempre negli anni delle elezioni presidenziali, quando la campagna elettorale scatena quella follia e quell’odio che vedemmo infuriare attorno al debutto di Barack Obama sulla scena. La virulenza del terrorismo nazionale raggiunge il record storica nel 2008 con 550 attentati, scrive lo studio dell’accademia militare.
In questi mesi, molti fattori convergono per creare una possibile massa critica che gli investigatori, colti completamente di sorpresa, oggi studiano, insieme con la strada maestra del terrorismo islamista. La battaglia di Obama per limitare il commercio di armi da fuoco, il talismano dei “veri patrioti”, che vedono nel proprio fucile l’erede diretto del moschetto impugnato dai ribelli anti britannici del ‘700. Le proposte di legge per un’amnistia agli immigrati senza documenti, altro tasto dolorosissimo per la destra violenta. L’aumento delle tasse, chiesto da Obama per sostenere lo stato sociale. L’avanzata inarrestabile della legalizzazione delle nozze omosessuali. Il puro, intossicante odio per quel «negro», e «alieno» alla Casa Bianca. Un potenziale witches’brew,
un intruglio da streghe, capace di stuzzicare il serpente e spingerlo a uscire dall’erba, per mordere quell’America che essi amano al punto di odiare gli americani.

La Repubblica 17.04.13

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“LE FERITE D’AMERICA CHE INCRINANO LA NOSTRA SICUREZZA”, di JASON BURKE

CHI potrebbe essere il responsabile dell’attentato di Boston? Naturalmente, per il momento, nessuno lo sa con certezza. I sospetti più ovvi inizialmente sono ricaduti sui militanti islamici collegati ad Al Qaeda, oppure a uno dei gruppi ideologicamente simili, affiliati o meno a essa. Ma potrebbe davvero trattarsi del “nucleo irriducibile” di Al Qaeda?
L’intenzione di Al Qaeda di colpire il suolo americano c’è ancora — come dimostrano le lettere dell’ormai defunto Osama Bin Laden ritrovate nel maggio 2011 dalle forze speciali degli Stati Uniti ad Abbottabad, in Pakistan — anche se le sue capacità di farlo sono state drasticamente ridotte dai bombardamenti attuati con i droni e da altre misure antiterrorismo prese nel corso degli anni. L’attentato di Boston è stato un’azione coordinata con una serie di bombe distinte, finalizzata a provocare vittime di massa: di conseguenza è caratterizzato da uno degli elementi cruciali degli attentati “classici” di Al Qaeda, per così dire, come quelli di Madrid nel 2004 e di Londra nel 2005. Tuttavia Ayman Al Zawahiri — il militante egiziano subentrato a Bin Laden nella guida dell’organizzazione — ha modificato la strategia del gruppo per concentrarla maggiormente sullo sfruttamento delle occasioni che si presentano nel caos lasciato dalla Primavera araba, più che cimentarsi in attentati spettacolari negli Stati Uniti.
Ci sono ovviamente tutte le organizzazioni affiliate ad Al Qaeda, molte delle quali hanno giurato di colpire gli Usa nel loro territorio per rappresaglia contro quelle che considerano ingiustizie commesse da Washington a danno della ummah, la nazione islamica. Nondimeno, poche di queste organizzazioni hanno l’effettiva capacità di colpire negli Usa. Due di quelle che hanno dimostrato di averne sono Al Qaeda nella Penisola araba — che nel 2009 mandò
un musulmano nigeriano negli Stati Uniti facendolo transitare dall’Europa, e per poco non riuscì a far precipitare un aereo di linea sopra Detroit — e i Taliban pachistani, che nel 2010 hanno tentato di far esplodere un ordigno in Times Square, a New York. Questo secondo gruppo, che non ha collegamenti con l’organizzazione di Al Qaeda fuorché qualche legame informale, in un certo senso e alquanto stranamente ha rilasciato una smentita di responsabilità non sollecitata. Il primo gruppo è noto per l’accuratezza dei suoi ordigni, mentre le bombe esplose a Boston appaiono rudimentali nella fattura e nella tecnologia.
Che si tratti invece di terroristi nati e cresciuti negli Stati Uniti, come starebbe emergendo dalle indagini nelle ultime ore? Forse di qualche estremista americano di destra?
Gli Usa hanno una folta e fiorente comunità di estremisti di destra, nonché un passato di attentati di questo tipo. Nel 1995 Timothy McVeigh uccise 168 persone facendo esplodere un’autobomba davanti agli uffici governativi di Oklahoma City. Negli ultimi anni inoltre abbiamo assistito a un’escalation degli episodi violenti imputabili all’estrema destra negli Stati Uniti. Tra le decine di complotti sventati ci sono piani per entrare in possesso di armi chimiche e biologiche, e tentativi di colpire cortei e parate. Secondo una ricerca effettuata dalla New America Foundation, un think tank con sede a Washington, tra il settembre 2001 e il settembre 2011 negli Stati Uniti ci sono stati dieci attentati letali perpetrati da “estremisti non jihadisti” contro gli appena quattro perpetrati da “jihadisti”.
Certo, la natura del bersaglio lascerebbe intendere in questo caso che il colpevole è di destra. Gli attentati terroristici sono propaganda attuata con azioni finalizzate a convogliare un messaggio per mezzo della violenza. I militanti islamisti prendono di mira bersagli che abbiano una certa risonanza nel mondo musulmano. L’opinione pubblica più importante sulla quale intendono far colpo, nel tentativo di radicalizzarla e mobilitarla è formata da miliardi di musulmani, e non dall’Occidente. La Maratona di Boston, per quanto molto famosa tra tutti gli americani, gode di scarsa notorietà altrove.
Anche se in genere gli estremisti di destra prendono di mira bersagli che rappresentano direttamente il governo, questo attentato è stato perpetrato nel “Patriots’ Day”, il giorno dei patrioti americani nel quale si commemorano le prime battaglie della Rivoluzione americana in una città che dal punto di vista storico è celebre per la sua resistenza a una potenza arbitraria e tirannica, la Gran Bretagna. Le esplosioni oltretutto si sono verificate nel giorno in cui gli americani devono presentare la dichiarazione dei redditi, operazione quanto mai impopolare tanto negli Usa quanto in Italia.
Niente di quanto detto finora è definitivo. All’indomani di un qualsiasi attentato terroristico è umano voler conoscere ciò che non si conosce: chi è il responsabile. E questo lo si chiarirà col tempo. In attesa che ciò accada, tuttavia, più che alla minaccia, si dovrebbe pensare alla risposta.
Se si dovesse scoprire che i colpevoli sono militanti americani di destra, allora l’attentato potrebbe dare il via negli Usa a un periodo di analisi interna e a un dibattito che, a rischio di polarizzare ancor più una nazione profondamente divisa, potrebbe anche stimolare una vera riflessione sulle conseguenze della polarizzazione già esistente. Gli estremisti non potrebbero esistere se non credessero che almeno alcuni elementi della comunità alla quale appartengono condividono e approvano le loro azioni. Ecco spiegato il motivo per il quale, ogni volta che si fa viva la violenza del terrorismo, sono quanto mai importanti le voci dei moderati e di chi usa la ragione, di coloro che sono in grado di contrastare l’irresponsabile escalation retorica di politici populisti privi di scrupoli.
Se l’attentato sarà riconducibile a cittadini statunitensi convertiti e reclutati dalla violenza estremista, allora si innescherà un’altra serie di risposte e il rischio sarà quello di una reazione violenta contro la minoranza musulmana del paese che non farebbe altro che esacerbare il problema.
Se invece ad aver perpetrato l’attentato fosse effettivamente un’organizzazione militante islamista di oltreoceano, le pressioni sulla Casa Bianca per intervenire in modo aggressivo sarebbero forti. Anche se si può ragionevolmente confidare nel fatto che la reazione del presidente Obama sarà più misurata di come sarebbe stata quella del suo predecessore, l’ultima cosa di cui hanno bisogno adesso il Medio Oriente o la regione afgano-pachistana è un massiccio intervento statunitense ispirato e motivato da obblighi di politica interna americana.
A prescindere da chi sarà riconosciuto colpevole, le bombe di Boston ci rammentano che il terrorismo è tuttora una minaccia, un fenomeno quanto mai complesso. Più di ogni altra cosa, ci dicono anche che a distanza di undici anni e mezzo dagli attentati dell’11 settembre un’aggressione contro una città americana ha ancora implicazioni molto gravi per tutti noi.
(Traduzione di Anna Bissanti)

La Repubblica 17.04.13

"La lezione di Ruffilli", di Pier Luigi Bersani

Ricordare Roberto Ruffilli, non solo il suo sacrificio ma il suo servizio come intellettuale e come politico, significa rendere omaggio a uno di quei cattolici che nei decenni della Repubblica hanno custodito la Costituzione e le istituzioni dello Stato. Una lunga fedeltà alle idee dei padri che non diventava mai, però, conservazione. Fu lucidissimo a vedere per primo la crisi e l’affanno della prima Repubblica. Propose e provò ad attuare una via d’uscita.

E quella strada – rendere il «cittadino arbitro» delle decisioni che riguardavano il governo – doveva servire nelle sue intenzioni a ricucire il rapporto che iniziava a logorarsi tra partiti e società. Ma la via d’uscita che indicava era ed è precisamente l’opposto delle scorciatoie antipolitiche e antipartitiche. Ruffilli credeva nella democrazia rappresentativa, e credeva nel ruolo dei partiti. Per questo lanciò per primo un’altra battaglia che abbiamo a cuore, purtroppo ancora oggi tutta da combattere: quella per dare all’Italia una legge sul funzionamento democratico dei partiti, in attuazione dell’articolo 49 dellaCostituzione. I partiti come istituzioni della democrazia, la riforma dei partiti come premessa per istituzioni più efficienti e moderne. In coerenza con la sua idea della società e con la sua visione dell’uomo, il «cittadino arbitro» per lui era tale in quanto cittadino in relazione, persona che vive in una comunità: quanto di più lontano dall’immagine dell’individuo solo, oggi magari davanti alle tante nuove opportunità offerte da un computer, ma sempre esposto al rischio di illudersi di determinare in modo diretto le decisioni semplificando questioni complesse, riducendo a numeri le opinioni, rinunciando o limitando una partecipazione orizzontale, interattiva, tra protagonisti. Per Ruffilli la politica non era difesa o rivendicazione di diritti individuali, ma costruzione della comunità. Sono passati venticinque anni da quando la sua riflessione fu interrotta da un nemico che immaginavamo già sconfitto e che tornava, come in un incubo, a individuare lucidamente il cuore delle possibilità di cambiamento del nostro paese. Anche per questo abbiamo perso tanto tempo, e abbiamo visto aggravarsi tanti problemi. È un cammino che in qualche modo resta affidato a noi, e che va ripreso: una transizione pluridecennale da portare finalmente a termine, possibilmente con l’impegno e il coinvolgimento di tutte le forze democratiche. E forse oggineabbiamol’opportunità.

L’Unità 16.04.13

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“L’intellettuale che precorse la strada verso il Pd”, di Fulvio De Giorgi

Venticinque anni fa le Brigate Rosse assassinavano nella sua stessa casa il prof. Roberto Ruffilli. Non si trattava di un politico di lungo corso e non rappresentava, certamente, i Poteri forti del nostro paese. Era un intellettuale, un professore di storia. Ma era da sempre impegnato nel dibattito civile e proprio tale impegno lo aveva infine portato, in quegli anni, alla responsabilità di parlamentare della Repubblica. Egli si era inoltre speso generosamente nelle discussioni sulle riforme istituzionali, che – nel contesto delle difficoltà e del declino della cosiddetta prima Repubblica – si andavano allora sviluppando.

Quando tra noi più giovani amici si diffuse la notizia che le Br lo avevano ucciso, il dolore acutissimo, per la perdita di una persona cara, si unì allo sgomento perché mai avremmo pensato che questo nostro fratello maggiore, così buono, così mite, così dolce, potesse avere nemici. Per quanto la follia ideologico-omicida delle Br avesse già colpito persone di grande equilibrio e serenità, come Moro e come Bachelet, non avremmo mai immaginato che un uomo inerme, senza scorta, che non aveva avuto e non aveva importanti incarichi né istituzionali né di partito, potesse essere colpito per la sola e nuda forza, disarmata ma certo potente, delle sue idee democratiche.

Roberto Ruffilli era stato uno degli esponenti di spicco del gruppo culturale e politico della Lega Democratica, insieme a Scoppola, Ardigò, Gorrieri, Elia, Giuntella, negli anni tra la morte di Aldo Moro e l’avvio del declino del partito della Democrazia cristiana. Fu quello un gruppo di eccezionale livello, intellettuale e morale, che riuscì a sciogliere la cultura del cattolicesimo democratico dal legame univoco con la Dc e aprì una lunga transizione conclusasi, forse, solo con la fondazione del Partito democratico. Certamente se la storia di questo partito è breve e recente, la sua preistoria è ben più lunga, perché affonda le sue radici in profondità nella precedente storia della Repubblica. Una di queste radici – e tra le più significative – fu quella della Lega Democratica.

In un momento come quello che stiamo vivendo, in cui la rivolta contro le caste politiche cresce e la rabbia sociale rischia di fare d’ogni erba un fascio, di desertificare la memoria storica, se non addirittura di far rinascere, in forme nuove, l’estremismo ideologico, è importante ricordare – con pazienza democratica e con ostinazione repubblicana – semplicemente le vicende oneste, limpide, buone degli eroi civili della nostra storia: di brave persone, cioè, come Roberto Ruffilli.

La comprensione – con una raffinatezza di riferimenti culturali aggiornatissima – delle difficoltà e delle contraddizioni del corso storico, in particolare della crisi dello Stato moderno, portava Ruffilli ad impegnarsi generosamente nella ricerca di soluzioni istituzionali all’altezza delle sfide e perciò valide intellettualmente e condivisibili politicamente. Molti di noi hanno imparato da lui o anche da lui la dignità e la responsabilità di una milizia intellettuale – dell’intellettuale come professione democratica – che non si mette in mostra, che non ha anzitutto ambizioni di carriera personale e tanto meno di tornaconto economico, ma che è esigentissima con se stessa sul piano della serietà dello studio e della ricerca, sul piano dei doveri di partecipazione civile nelle vicende della storia, nelle “cose penultime”, sul piano di un rigore etico personale intransigente, perfino severo, perché a misura di una coscienza di fede volta alle «cose ultime».

C’è un costume democratico – che è misura non minore della civiltà democratica di un Paese – che va vissuto e, senza iattanze ma anche senza timidezze, insegnato. Ruffilli e, con lui, molti degli esponenti della Lega Democratica sono stati, innanzi tutto, maestri in questo civile insegnamento. Essere cor- tesi e dialoganti, anche di fronte alla maleducazione e ai monologhi presuntuosi. Cercare con puntualità di approfondire ogni aspetto e ogni dettaglio, oltre ogni superficialità demagogica o velleitaria. Rispettare le altrui opinioni, anche quando queste offendono con arroganza. Usare mitezza comunicativa anche con chi esercita violenza verbale. Comprendere con serietà anche le ragioni dei comici-politici, ancorché i comici-politici prendono in giro le ragioni delle persone serie. Insomma essere comprensivi al massimo con tutti e severi al massimo con se stessi. Senza questa etica dell’intellettuale impegnato civilmente non si costruisce cultura politica democratica, ma ci si arrende all’anti-cultura e all’anti-democrazia.

Roberto Ruffilli ci ha insegnato a rimanere al nostro posto, costi quello che costi, come intellettuali, che non si vergognano di essere tali, e come democratici che sanno che la democrazia non è una facile condizione di comodo, ma una milizia esigente e a caro prezzo.

L’Unità 16.04.13