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"Il chiarimento che non si può rinviare", di Luigi La Spina

La Commissione Ue è allarmata: in Italia, le banche sono incapaci di sostenere la ripresa. Monti ha lanciato un monito sul rischio di far ripiombare il Paese nella crisi. Il presidente di Confindustria descrive una situazione economica drammatica, con pericoli di violente esplosioni sociali. Ormai tutti, da Napolitano al piccolo negoziante sull’orlo del fallimento, invocano un governo e si lamentano, giustamente, per i ritardi di una classe politica che, dopo le elezioni, non riesce ancora a formare un esecutivo che provveda a misure di politica economica urgenti e indispensabili.

Come oggi «La Stampa» documenta, l’ordinaria amministrazione alla quale è obbligato il governo Monti dimissionario, costringe l’Italia a un immobilismo ormai insopportabile. Sia per i limiti che prescrive all’iniziativa dell’esecutivo, sia, e forse con peggiori conseguenze, perché i responsabili degli uffici pubblici, senza attendibili previsioni sugli indirizzi del prossimo governo, preferiscono rinviare anche quei provvedimenti che, in realtà, potrebbero varare. Ecco perché è ormai evidente quanto siano false e pericolose quelle illusioni sulla possibilità che una nazione possa reggere senza un governo, fondate su strampalati confronti con esperienze come quelle che ha vissuto, in tutt’altra situazione, uno Stato come il Belgio.

Invocare l’arrivo di «un» governo, però, non basta. Quale governo? L’Italia non ha bisogno di un governo qualsiasi, ma del governo capace di affrontare i gravi problemi strutturali di una economia poco innovativa e inadeguata a sostenere la competitività internazionale, di riformare istituzioni non più adatte a una società che è molto cambiata negli ultimi decenni, di alleviare il peso di una politica invasiva e costosa. Per queste ragioni, non sono indifferenti le alleanze partitiche possibili e la costruzione di una maggioranza parlamentare non può limitarsi al raggiungimento di un traguardo numerico.

A questo proposito, forse non sarà così inutile, come la pensa anche qualche suo componente, quella commissione di saggi istituita dal presidente della Repubblica che ha sollevato tante critiche e tante troppo facili ironie. Innanzi tutto perché, invertendo l’ordine delle scelte sulle due più importanti cariche del nostro Stato, ha obbligato le forze politiche a cercare un ragionevole accordo sulla prima, quella per il Quirinale, foriero di un clima meno invelenito per trovare la seconda, quella per Palazzo Chigi. Poi, perché il lavoro che sarà offerto dai saggi alla meditazione di tutti potrebbe individuare davvero quel minimo programma comune sul quale si potranno dividere coloro che sono pronti a condividerlo e coloro che non lo sono.

Gli esempi di alleanze impossibili su temi fondamentali per il futuro del Paese sono numerosi e documentano come sia necessario un preventivo esame sulla diagnosi dei mali italiani e sulle terapie più efficaci per curarli. È difficile trovare un’intesa fra chi vuole l’abrogazione dell’Imu sulla prima casa e chi sostiene che, dopo questo provvedimento, l’Italia avrebbe bisogno di un’altra manovra correttiva. Fra chi crede necessario dotare l’Italia di una serie di infrastrutture moderne, più adeguate alla competizione sui mercati delle merci e chi preferirebbe un Paese disponibile alla cosiddetta «decrescita felice». O tra chi sollecita il ritiro dei nostri soldati dall’Afghanistan e chi ricorda che gli impegni internazionali dell’Italia devono essere mantenuti, pena l’ulteriore caduta del nostro ruolo e della nostra immagine nel mondo. Oppure tra chi ritiene indispensabile una riforma della legge sulla corruzione e, in generale, una profonda revisione del funzionamento di una giustizia che non tranquillizza gli investitori stranieri sulla convenienza del mercato italiano e chi, invece, pensa sia più importante puntare sulla separazione delle carriere e sulla responsabilità individuale dei magistrati. Per non parlare della condivisione indispensabile su principi fondamentali della democrazia rappresentativa e sul rispetto delle autonomie tra i poteri dello Stato. Ciò non vuol dire sanzionare l’impossibilità di un qualsiasi accordo, ma costringere le parti a un chiarimento sulle loro priorità e sui compromessi ai quali sarebbero disponibili.

In politica, quando si annunciano trattative impostate sui «criteri» o sul «metodo» per compiere una designazione a una carica pubblica si dice una bugia. Prima si cerca di trovare l’accordo su un nome e poi, alla luce dell’identikit del prescelto, si inventano i motivi che giustificano quella decisione. Speriamo che questo sistema non sia la regola per nominare il prossimo capo dello Stato. Ma sarebbe gravissimo per il futuro dell’Italia se la formazione del nuovo governo si fondasse sul gioco delle alleanze preferite dai partiti, o più convenienti per la sorte di alcuni loro leader, e non su un’intesa sulle cose da fare.

La Stampa 11.04.13

"Il muro di Berna", di Paolo Berizzi

Alle sei della sera, nel vecchio quartiere della Matte dove un tempo c’erano gli artigiani, Rino, 56 anni, cameriere beneventano, osserva le acque dell’Aar che accarezzano la sua Berna. «E mo’, dunque, vogliono farci tornare a Surriento?». Così, pare. Gli svizzeri. «E che facciamo poi in Italia? Che fanno gli svizzeri senza di noi? Vogliono restare senza muscoli e cervello?». Chi mai avrebbe immaginato che centoventi anni dopo le valigie di cartone che partivano per l’America in cerca di fortuna, qui, molto più vicino di Little Italy, nei cantoni elvetici, nella capitale e più giù in Ticino, a cinque minuti dall’Italia, ci avrebbero paragonato a dei roditori in trasferta, oppure raffigurati nei panni tremendi di usurpatori di posti di lavoro? Rino è un piccolo pezzo di Italia che fa girare la
Svizzera. Col suo vassoio e i suoi tremila franchi di salario, per altro, non sarebbe nemmeno tra gli immigrati più “pericolosi”. Non genera dumping salariale, è venuto su e ha messo radici, nel senso che lavora, vive, guadagna e spende a Berna: come gli svizzeri. Nella Svizzera 2.0 ce l’hanno di più coi frontalieri: infatti i nazional-protezionisti dell’Udc, l’Unione democratica di centro che qui è partito di destra, i lavoratori “vai e vieni” italiani li hanno sbattuti sopra dei raffinati manifesti che nemmeno la Lega Nord delle origini (“Arrivano a milioni! Fuori dalle palle!”, con l’immagine degli immigrati versione formiche). Eccolo l’ultimo poster dell’Udc: il frontaliere in giacca e cravatta e telefonino in mano. Al suo fianco, un lavoratore svizzero in canottiera sporca e mutande con la scritta «Lavoro… siamo in mutande». Due anni fa erano stati ancora più delicati: l’impiegato italiano era un topo intento a sgranocchiare il formaggio svizzero. Uno scroccone con la coda. Danno i numeri gli svizzeri? Sì. Anche quelli delle casse edili e artigiane. E del terziario. Quest’ultimo settore, secondo i nuovi protezionisti elvetici in guerra contro l’immigrazione italiana e non solo italiana (anche tedesca, portoghese, spagnola, greca), sarebbe oggi cannibalizzato da 8mila frontalieri. “Extracomunitari” che ogni mattina varcano il confine di Como o Varese e la sera, dopo otto o dodici ore di lavoro, se ne tornano di qua senza scrupoli di coscienza, vergogna. Cinquantaseimila nel solo Ticino. Troppi, secondo gli esponenti di diversi partiti svizzeri. Le posizioni più radicali sono espresse ovviamente dalla Lega dei Ticinesi. Dice Lorenzo Quadri: «Le cifre parlano chiaro, nel nostro cantone i frontalieri sono un quarto della forza lavoro totale. Vuol dire concorrenza impari e dumping al ribasso dei salari. L’italiano, vivendo in Italia, dove il costo della vita è inferiore, può permettersi di accettare stipendi bassi. L’unica soluzione è uscire dalla libera circolazione dei lavoratori». È questo il punto. È il nodo che stringe la Svizzera, il suo conflitto interiore. Da una parte l’orgoglio di un’economia che tiene alla grande (se paragonata con la nostra e con quella dei Paesi che fanno le valigie per venire quassù), di un tasso di disoccupazione che non arriva al 3 per cento, di un volume di interscambio quotidianoconl’Unione europea di un miliardo di franchi. Dall’altra il fastidio, che sta diventando un’ossessione e facendo montare una campagna anti-immigrati, per l’ondata crescente di lavoratori stranieri che vengono a cercare (e lo ottengono quasi sempre) uno stipendio. In nome e grazie all’accordo sulla libera circolazione delle persone tra la Svizzera e l’Ue. L’anno scorso le porte — anche quelle delle aziende — si sono aperte per 55.430 stranieri provenienti dai Paesi dell’Ue-17 (permessi di soggiorno di lunga durata +4,6 per cento rispetto al 2011); altri 54.185 sono stati concessi da Berna agli immigrati in sosta breve (+5,7 per cento).
Perché se la stanno prendendo proprio con gli italiani? Semplice. Perché siamo quelli più vicini, arriviamo prima, e ci fermiamo di più. Nel 2012, dice l’Anagrafe della popolazione italiana residente all’estero (Aire), la crisi ha fatto esplodere l’emigrazione (+30,1 per cento). I connazionali partiti per la Svizzera in cerca di lavoro sono cresciuti del 50 per cento rispetto all’anno prima (8.906 contro i 5.318 del 2011 e i 3.500 del 2009). Più dei portoghesi e dei greci (12mila). Troppi, troppi e dunque da fermare. «Il popolo si è visto assalito da un giorno all’altro — ragiona Angelo Geninazzi, rappresentante di Economie Suisse, la Confindustria svizzera — . Finora ha sempre votato per la libera circolazione,adesso però dall’eventuale referendum potrebbe uscire un voto diverso».
Sono tanti i segnali. I Cantoni si stanno chiudendo a riccio, e a Berna il Consiglio federale si sta adeguando. Come?Lo ha stabilito l’Ufficio federale delle migrazioni (Ufm). «Se tra giugno 2012 e il 31 maggio 2013 i permessi di soggiorno concessidallaSvizzerasuperassero almeno del 10 per cento la media annuale delle autorizzazioni rilasciate nel corso dei tre anni precedenti — spiega Sibylle Siegwart — la Svizzera invocherà la clausola di salvaguardia» (già attivata l’anno scorso ma solo nei confronti degli otto Paesi dell’Europa dell’est membri dell’Ue, la cosiddetta Ue-8). La restrizione estesa ai vecchi Stati membri dell’Ue-17 (tra cui Italia, Cipro e Malta) consentirebbe a Berna, secondo quanto stabiliscono gli accordi con Bruxelles, di contingentare gli arrivi. Già a maggio il tetto dei flussi potrebbe essere superato: i lavoratori-invasori sono avvisati.
Volendola vedere anche come una questione di democrazia e di diritti, non tira una bella aria. La stura al partito dei protezionisti elvetici — che mette insieme sullo stesso fronte la Lega, il Partito liberale radicale e anche il Partito popolare democratico — l’ha data la campagna elettorale in vista delle comunali di Lugano, Mendrisio e Terre di Pedemonte. Siamo in Ticino. «Sono slogan beceri provocatori e offensivi nei confronti dei frontalieri e degli immigrati in genere », tuona la deputata comasca del Pd Chiara Braga. La replica arriva da Fulvio Pelli, già presidente dei liberali radicali. «La gente non ne può più e adesso inizia a reagire, gli stranieri portano via il lavoro agli svizzeri. Con tutte le conseguenze del caso: dumping
con ribasso sui salari, bolle immobiliari, torsione degli equilibri sociali». Pensare che la tanto invocata o maledetta clausola di salvaguardia potrebbe, e sarebbe una beffa, persino non bastare a placare il malpancismo. «Il nostro partito la appoggia, ma l’efficacia reale è molto discutibile. E la clausola non si applica ai frontalieri».
La mina che si nasconde sotto il terreno fa tremare i polsi a molti, in primis a quei volponi degli imprenditori. Se Berna decidesse di forzare la mano e serrare gli accessi, a Bruxelles non la prenderebbero benissimo. Uno scontro frontale Svizzera-Ue avrebbe conseguenze inimmaginabili per l’economia elvetica: altro che dumping salariale
e frontalieri sudati in giacca e cravatta. Vale la pena di rischiare? Fabio Regazzi, deputato del Partito
popolare democratico, essendo anche imprenditore metalmeccanico si discosta dalla linea del partito. «La libera circolazione aiuta l’economia ed è anche grazie ai lavoratori stranieri, ai quali la Svizzera ha sempre offerto opportunità, che riusciamo a essere competitivi e in controtendenza rispetto alla crisi e alla disoccupazione di altri Paesi».
Qualche giorno fa Libera Tv, canale di informazione vicino alla Lega fondata dal defunto Bignasca, il Bossi ticinese che odiava gli italiani, ha lanciato una petizione popolare a difesa del lavoro svizzero e contro l’incubo frontaliero. Centinaia di firme raccolte in poche ore. L’Udc segue a ruota e lancia una controffensiva se possibile anche più decisa. Avanti di questo passo la neo xenofobia elvetica potrebbe portare a un suffragio: immigrati, dentro o fuori.
Per secoli la Svizzera fu un Paese d’emigrazione. Di identiche valigie di cartone, di giovani spazzacamini che partivano e andavano ad “annerirsi” in Italia, come racconta
Die schwarzen Bruder (“I fratelli neri”), il romanzo popolare di Lisa Tetzner. Dalla Svizzera all’Italia. Adesso la ruota è girata e la memoria si accorcia. È proprio cambiata l’aria. Quella di oggi è «fetida e odora di un vecchio e inutile protezionismo — scrive Libero D’Agostino sul settimanale ticinese Il Caffé. Perché il frontaliero va bene se ha le unghie nere e la tuta sporca di grasso; è un affronto, invece, se si presenta in giacca e cravatta. Così abbiamo smesso di immaginare il futuro». È sera, Rino il cameriere è già in sala col vassoio: non è in mutande e nemmeno in giacca e cravatta, indossa gilet e papillon, sta semplicemente facendo il suo mestiere.

La Repubblica 11.04.13

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“Essere ostili è da ignoranti per il Paese sono una risorsa”, di ANAIS GINORI

«Il problema non è l’ostilità di alcuni, ma l’ignoranza diffusa ». Lo scrittore Andrea Fazioli commenta così l’allarme della Svizzera per l’incremento di italiani che arrivano ogni giorno in cerca di lavoro. Fazioli, 35 anni, vive a Bellinzona ed è un popolare autore di romanzi noir, tra cui “Come rapinare una banca svizzera” e, l’ultimo, “Uno splendido inganno”, tutti pubblicati da Guanda.
La crisi economica sta provocando un nuovo afflusso di italiani nel Canton Ticino?
«Chiariamo subito una cosa. Le polemiche sono nate soprattutto per i lavoratori frontalieri. Si tratta principalmente di italiani del Nord che fanno avanti e indietro, anche ogni giorno, per cogliere opportunità professionali o anche solo fare lo stesso lavoro ma meglio remunerati».
I dati però registrano un notevole incremento negli ultimi mesi di emigranti e di questi “pendolari”.
«È sbagliato parlare di “invasione”, ma è chiaro che alla fine anche questi numeri possono incidere su un cantone come il nostro, in cui risiedono appena 350mila abitanti».
Il dibattito politico svizzero verte su possibili limitazioni all’ingresso di stranieri.
Lei sarebbe d’accordo?
«La verità è che il sistema economico svizzero ha bisogno di questi frontalieri, non solo italiani, che ricoprono spesso mansioni altamente qualificate. Io conosco per esempio ingegneri, medici, dirigenti di banca che vengono dall’Italia e fanno una vita da pendolari. Solo in alcuni settori, come l’edilizia, si può porre un problema di concorrenza con i lavoratori locali. Su questo certamente si
possono rinegoziare gli accordi bilaterali ma senza toni allarmistici».
E dunque come spiega i manifesti xenofobi in cui gli italiani vengono rappresentati come topi?
«È l’espressione di una minoranza. La Svizzera ha una lunga tradizione di tolleranza e accoglienza, con diverse comunità linguistiche. A parte sporadiche eccezioni, i frontalieri sono visti in maniera positiva. Più che alcune, isolate manifestazioni di xenofobia, mi preoccuperei dell’ignoranza che circonda questa realtà. Penso, ad esempio, che la Svizzera italiana potrebbe guadagnare molto da uno scambio culturale con questi lavoratori: anziché considerarli solo come una semplice forza lavoro dovremmo vederli come parte del nostro tessuto sociale. Questo vale in entrambi i sensi. Anche l’Italia dovrebbe interrogarsi su altre forme di italianità fuori dai confini nazionali».
Lei che rapporto ha con l’Italia?
«Sono un perfetto esempio di integrazione. È la lingua con cui scrivo, il mio editore è italiano. Come docente organizzo dei laboratori di scrittura creativa sia in Italia che in Svizzera, mettendo a confronto le due culture. Potrei presentarmi come un lavoratore frontaliero, nel senso inverso. E non sono l’unico caso. Anzi, sono sempre più convinto che il nostro destino sia incontrarci, mischiare le diverse identità. Noi di Lugano siamo meridionali per gli svizzeri di lingua tedesca, mentre gli italiani di Varese ci vedono come dei freddi settentrionali, un estremo Nord. Eppure spero che ci renderemo conto che essere di frontiera non è un limite, ma una grande fortuna. A me ha insegnato ad avere un doppio sguardo sulla realtà».

La Repubblica 11.04.13

"Le buone ragioni di Confindustria", di Guglielmo Epifani

Il forte richiamo di Squinzi, il Presidente di Confindustria, è assolutamente fondato e condivisibile. Fare presto, assicurare al Paese un governo in grado di restituire fiducia a lavoratori e imprese, e in grado di far valere le nostre ragioni in Europa contro una linea di puro rigore, rappresenta un’esigenza primaria e indifferibile. Anche perché tutti i dati sono lo spec- chio di una condizione drammatica che ogni giorno presenta un conto pesantissimo e intollerabile. Dall’andamento della produzione industriale e dell’occupazione a quella del calo di consumi e redditi apparentemente senza fine la situazione del nostro Paese si aggrava. Il silenzio e la partecipazione con cui ieri la Camera dei deputati ha ricordato i suicidi di Civitanova Marche e l’uccisione di Perugia, esprimono un sentimento che ha bisogno di responsabilità e di scelte conseguenti. L’idea che a tutto questo si possa rispondere con il ricorso ad elezioni anticipate, o anche solo con un clima di permanente campagna elettorale, è davvero irresponsabile. Anche gli ultimi dati sulla condizione del Mezzogiorno, presentati ieri, e che dicono di 300mila posti di lavoro persi e di una caduta del Pil nell’ultimo anno di oltre tre punti, confermano che non ci può essere sottovalutazione alcuna della situazione. La stessa restituzione dei crediti delle imprese è sì una scelta importante, capace di mettere in circolo risorse dovute tamponando una partita lasciata troppo a lungo aperta, ma al tempo stesso va garantita la rapidità dell’operazione riducendo i troppi nodi burocratici che ne possono frenare l’effetto positivo per l’intero sistema economico produttivo. Mentre non può più aspettare un intervento altrettanto urgente per il rifinanziamento degli ammortizzatori sociali e della Cassa integrazione in deroga. Ci vuole, dunque, al più presto un governo. Squinzi dice fatto da uomini di buona volontà. Il problema non è solo quello di avere la volontà giusta, ma soprattutto avere un governo in grado di sapere e potere affrontare la straordinarietà dell’emergenza sociale ed economica, operare i cambiamenti necessari, e per questa strada risollevare il Paese dalla sua caduta, che è anche assenza di fiducia e di speranza. Per questo, ciò che normalmente viene definito come governissimo in realtà costituirebbe una soluzione fragilissima e inconcludente, mentre quello che apparentemente può essere visto come un meno, un governo più piccolo, ma più omogeneo, di alto profilo per competenze e capacità, può essere la soluzione giusta, accompagnato da una sede parlamentare incaricata di completare una volta per tutte la infinita transizione della nostra democrazia. Questa è la responsabilità che serve, e la buona volontà necessaria. Il metodo non può che essere quello della condivisione, del dialogo e del rispetto reciproco, come si è cominciato a fare nell’incontro sui criteri del nuovo presidente della Repubblica. È vero che la strada è stretta, ma è anche quella obbligata. Per questo però occorre che anche nel campo progressista si capisca che la vera partita non è tra dialogo e non dialogo, tra intesa e non intesa, ma tra quale dialogo e quale intesa. È la qualità e la trasparenza dell’intesa che, alla fine, può determinare un risultato o un altro al tema del governo, dal quale non si sfugge ora come non si sfuggirà dopo.

L’Unità 11.04.13

"Cassa integrazione record ma si devono trovare i fondi per finanziarla", di Roberto Giovannini

Il tempo passa, il governo non c’è, e le «pratiche» da sbrogliare in campo economico si stanno moltiplicando in modo sempre più preoccupante. Parliamo di questioni della massima importanza, in alcuni casi letteralmente vitali, se pensiamo al già evidente imminente esaurimento delle risorse per la cassa integrazione in deroga. Quella che riguarda i settori produttivi che fino a qualche anno fa non erano «coperti» da alcun ammortizzatore sociale, e che non viene finanziata da contributi di aziende e lavoratori. Una realtà che riguarda molte decine di migliaia di persone: si può stimare che siano difesi nel reddito e nel posto di lavoro grazie a questo strumento circa 100mila lavoratori.

Per questo strumento di tutela che per molti osservatori non è peraltro nemmeno adeguato, come importo, a garantire a una famiglia un tenore di vita decente – le risorse a suo tempo stanziate sembrano ormai esaurite. Che la situazione da questo punto di vista sia drammatica lo testimoniano gli allarmi sempre più disperati lanciati da sindacati e autorità in tante Regioni. In Liguria, tanto per fare un esempio, sono circa 10.000 i lavoratori garantiti dalla Cig in deroga. Ma per loro, dicono le organizzazioni sindacali, ci sono soltanto 18 milioni invece dei 50 che sarebbero necessari. Identica situazione critica c’è in Lombardia – il governatore Roberto Maroni ipotizza servano 300 milioni – nelle Marche e anche in Piemonte. Solo per citare qualche caso.

Non è chiaro quando finiranno i fondi. Né c’è accordo neanche su quanto servirà trovare in qualche piega del bilancio pubblico per assicurare gli assegni «in deroga»: gli artigiani della Cna parlano di almeno un miliardo, altre stime dicono due miliardi. Forse di più, come afferma l’ex ministro del Lavoro di Prodi Cesare Damiano. Quel che è certo è che Cgil, Cisl e Uil hanno indetto per il prossimo 16 aprile una manifestazione nazionale per chiedere a governo e Parlamento di trovare risorse ulteriori. Un’impresa non facile né scontata, vista la situazione sempre delicatissima dei conti pubblici e delle casse dello Stato.

Ma non è quella della cassa integrazione in deroga l’unica «pratica» irrisolta che rischia di avvelenare lo scorcio finale del governo Monti. E mettere in gravissima difficoltà tanti cittadini. C’è ad esempio il caso degli 80mila lavoratori precari con contratti a tempo determinato per i quali a suo tempo il governo riuscì a individuare risorse (o piuttosto, come dicono alcuni osservatori, decise di stringere deliberatamente i cordoni della borsa) che permetterebbero di tenerli in attività soltanto fino al 31 luglio prossimo. A parte il fatto che di fatto queste persone svolgono mansioni spesso in dispensabili per il funzionamento di molti servizi pubblici, sembra piuttosto improbabile (e certamente molto poco popolare) che in una situazione tanto grave sul versante dell’occupazione si voglia davvero mettere in mezzo alla strada dalla mattina del primo agosto 80mila italiani.

Scadrà invece il 30 giugno – a meno di trovare e stanziare nuove risorse aggiuntive – la importante detrazione del 55 per cento per chi effettua investimenti per la riqualificazione energetica degli immobili. Superata questa scadenza (più volte prorogata) l’incentivo avrà termine, e resterà a disposizione soltanto il bonus per le ristrutturazioni edilizie. Eppure questa misura complessivamente ha registrato un grande successo: secondo i dati dell’Enea (aggiornati però soltanto al 2011) 280.700 pratiche totali, investimenti complessivi superiori a 3, 3 miliardi di euro, valore degli importi portati in detrazione di oltre 1,8 miliardi, un risparmio energetico superiore a 1.435 Gwh/anno e ben 305 kt/anno di CO2 (il gas serra responsabile del riscaldamento globale) non emessa in atmosfera. Infine, rischiano di restare appesi alla crisi politica anche i contratti di servizio tra lo Stato e FS, Anas e Poste.

La Stampa 11.04.13

Baruffi, Ghizzoni e Kyenge “Rifinanziare la cassa in deroga”

I parlamentari modenesi del Pd Davide Baruffi, Manuela Ghizzoni e Cécile Kyenge hanno firmato una mozione che impegna il Governo a rifinanziare al più presto gli ammortizzatori sociali in deroga. Come da più parti denunciato, con le risorse attualmente disponibili si riuscirà a coprire le richieste dei lavoratori delle aziende in crisi solo fino alla fine del mese di maggio.
Un impegno concreto a sostegno del lavoro e dell’occupazione: i parlamentari modenesi del Pd Davide Baruffi, Manuela Ghizzoni e Cécile Kyenge hanno firmato una mozione che impegna il Governo “ad assumere ogni iniziativa utile, anche con carattere d’urgenza, per assicurare la copertura finanziaria per il ricorso agli ammortizzatori sociali in deroga necessari per tutto l’anno 2013”. Come denunciato da Regioni e sindacati, la situazione si sta facendo drammatica: con le risorse disponibili si arriverà a coprire le richieste solo fino alla fine del mese di maggio. “Quella che si prospetta è una vera e propria emergenza sociale – scrivono i deputati modenesi del Pd insieme al capogruppo Pd alla Camera Roberto Speranza e all’ex ministro del lavoro Cesare Damiano – Gli ammortizzatori sociali in deroga sono indispensabili per attenuare le drammatiche conseguenze sull’occupazione provocate dal protrarsi della crisi economica”. Le stime dell’Unione europea parlano anche per il 2013 di un calo del Pil dell’1 per cento, soltanto nel 2014 la timida inversione di tendenza con una crescita dello 0,8%. Il numero dei disoccupati è arrivato ormai ai 3 milioni di persone e aumenta con una cadenza che si aggira sulle 100mila unità al mese. “In questo quadro – concludono i parlamentari modenesi del Pd Baruffi, Ghizzoni e Kyenge – bisogna assolutamente assicurare le risorse finanziarie destinate ad uno degli strumenti in mano alle Regioni che si sono dimostrati, in questi ultimi anni, più efficaci. Occorre venire in soccorso alle famiglie per cercare di attenuare il peso che grava su di loro di una recessione troppo prolungata. Il Parlamento sta lavorando e noi assicuriamo il nostro massimo impegno su temi di così vasta portata”.

"La grande alleanza europea anti evasori", di Roberto Bagnoli

Per contrastare l’evasione fiscale che ogni anno costa all’Europa oltre mille miliardi di euro, i cinque Paesi più importanti di eurolandia (Germania, Francia, Italia, Gran Bretagna e Spagna) stanno lavorando a un progetto pilota per stanare i furbi rafforzando lo scambio di informazioni. Se ne parlava nei giorni scorsi quando il portavoce della Commissione Olivier Bailly aveva invitato gli stati membri ad affrontare la questione soprattutto dopo la scandalo-inchiesta sui paradisi fiscali fatta da The international consortium of investigative journalists. Ora è ufficiale: i cinque ministri dell’Economia dei rispettivi Paesi hanno inviato una lettera alla Commissione per illustrare il progetto.
Se avrà successo potrà costituire una boccata d’ossigeno ai malandati conti pubblici europei. Oggi, tra l’altro, il Consiglio dei ministri italiano affronterà la definizione del Def (Documento di economia e finanza) che potrebbe certificare un debito pubblico al 130% dopo l’operazione sblocca debiti, mentre il sottosegretario all’Economia Gianfranco Polillo ammonisce che un’eventuale abolizione della Tares costerebbe 1 miliardo di euro di minori entrate.
Le proposte dei cinque Paesi sul fisco si basano sulla «trasparenza» in linea con il modello applicato nel recente negoziato con gli Usa dove prevale l’ impegno a combattere l’evasione cercando un impatto minimo sull’economia. L’accordo tra le 5 nazioni big e la lettera a Bruxelles dimostrano la volontà di accelerare dopo che la Commissione — nel dicembre scorso — aveva invitato tutti gli Stati membri a raggiungere intese comuni per stilare una lista dei paradisi fiscali e rafforzare quelle sulla doppia imposizione tra i Paesi per evitare scappatoie giuridiche che possano favorire l’evasione. Il commissario alla fiscalità Algirdas Semeta ha accolto con grande favore l’iniziativa dei big five i quali nella loro missiva hanno invitato «gli altri Stati membri ad unirsi in modo che la Ue diventi leader nel promuovere un sistema globale di scambio automatico di informazioni». Un dossier del Tax research London ha dimostrato che l’evasione a tre cifre non è una anomalia solo italiana. Secondo l’istituto di ricerca inglese (che ha realizzato lo studio per il gruppo della Sinistra al Parlamento europeo) l’Italia evade 180 miliardi di euro all’anno, seguita dalla Germania con 158, dalla Francia con 120 miliardi, dalla Gran Bretagna con 74 e dalla Spagna con 72. Se si aggiungono gli altri 22 Paesi si fa presto a raggiungere la somma di mille miliardi di euro denunciati giovedì scorso dalla Commissione.
La scoperta di questa evasione collettiva ha colpito soprattutto la Germania che pensava di esserne fuori. E ha cercato di rimediare cercando per prima un accordo con la Svizzera per tassare al 25% i capitali esportati illegalmente ma senza trovare consenso in Parlamento. Però qualcosa si è mosso: la Corte di giustizia ha stabilito che per le frodi fiscali di oltre 1 milione di euro, scatta il penale, quindi la prigione. Così non è in Italia dove il reato di evasione è punito con sanzioni amministrative, va nel penale solo quando ci sono aggravanti come la falsificazione di documenti, la bancarotta, associazione a delinquere, eccetera.

Il Corriere della Sera 10.04.13

"Il compito del traghettatore", di Alfredo Reichlin

La lotta per impedire al Pd di governare (ricordiamo che si tratta del primo partito, che ha la maggioranza assoluta alla Camera ed è primo anche al Senato benché al di sotto, per non molti voti, della maggioranza necessaria) è aspra ma tuttora aperta. I giornali commentano il precedente del ’76. Anche allora emerse dalle elezioni una situazione di ingovernabilità. Pci e Dc ebbero più o meno gli stessi voti e ciò provocò, come ora, uno stallo. Il rischio fu su- perato dal «coraggio» delle «larghe intese», cioè dal coraggio di Enrico Berlinguer, il quale pur di evitare al Paese il trauma di un ritorno alle elezioni accettò che Giulio Andreotti formasse il governo, mentre il Pci garantiva l’astensione. Il cosiddetto governo delle «non fiducia». Ecco la «piccola» differenza da oggi. Sta nel fatto che le parti si sono invertite. Oggi è Berlusconi che non ha il coraggio e il senso di responsabilità che ebbe Berlinguer.

Non si esce da questa crisi senza un serio discorso di verità. E a me la verità sembra la seguente. Da un lato, per risolvere i drammatici problemi che massacrano il Paese, servono larghe intese (il Pd da solo non ce la può fare). E serve quindi tra destra e sinistra un reciproco riconoscimento. Dall’altro lato però la condizione è che la gente ritrovi un minimo di fiducia nella politica e che quindi non pensi che quattro signori si sono messi d’accordo tra loro per spartirsi il potere e risolvere i propri problemi personali. Il mondo, non solo nostro, ha un bisogno assoluto di giustizia. Se vede solo «un inciucio» è la fine.

Questa è la semplice verità. La politica sta perdendo tempo? Sì, certo. Ma sta perdendo tempo a fronte di che cosa? Cresce in me una profonda indignazione quando misuro la distanza tra il racconto miserabile della politica quale emerge da quasi tutti i «media» (merda più merda, con aggiunta di merda) e la realtà. La realtà di un Paese (uso le parole di Guido Rossi sul Sole 24 ore) che «degrada in pericolo- se disuguaglianze, nella disoccupazione, nella ignoranza, nella povertà e nella disperazione, come i casi di cronaca dimostrano». Mi indigna la grande menzogna che il Pd stia perdendo tempo per le ambizioni di Bersani.

Bersani sta semplicemente cercando di fermare questa deriva. Sta quindi tenendo ferma la necessità di fare non un governo qualsiasi, ma uno capace di avviare sul serio qualche riforma. Ridare speranza, dire che si cambia pagina e si avvia finalmente un cambiamento. Non è chiaro? Perfino i cardinali ha no sentito la necessità di dire alt a questo spaventoso saccheggio di lavoro e di ricchezza reale, eleggendo un Papa col nome del poverello di Assisi. Ecco l’oggetto vero dello scontro. Bisogna dirlo con la semplicità e la chiarezza necessari. È evidente che, se non si parla così, la gente non capisce nulla delle dispute sul governo.

Noi siamo, ormai con tutta evidenza, di fronte non a una semplice crisi di governo ma a un passaggio d’epoca. Lo dico perché non si può ragionare di politica prescindendo dalla enorme novità di una situazione che travalica le vecchie regole del parlamentarismo e che presenta rischi enormi, e pericoli incombenti, insieme a opportunità nuove. Io leggo così anche le vicende del Pd. So anch’io che il vecchio equilibrio su cui si reggeva il Pd, e che in sostanza era il patto tra i vecchi soci fondatori (la sinistra Dc e la componente riformista e nazionale del Pci) non basta più. So bene che bisogna cambiare. I giovani hanno ragione. Ma allora si facciano avanti. Si guardino intorno. Gli altri partiti stanno molto peggio di noi oppure sono scomparsi. Non hanno retto al grande trapasso che è in corso anche nelle vecchie strutture parlamentari. La destra è spappolata, resta una grande forza perché i poteri dominanti, sia economici che culturali (i giornali, le tv) esistono, e contano molto, ma anche perché si regge sul potere proprietario di un miliardario.

Ma andiamo avanti. La Lega si è dimezzata. Il partito di centro attorno a Monti è fallito. Aggiungiamo l’esistenza di un partito teleguidato da un comico e da un signore che si chiama Casaleggio. E ancora il fatto che in gran parte del Mezzogiorno le libertà politiche e di voto sono condizionate pesantemente da organizzazioni criminali. Questo è il panorama. È drammatico. Significa che la democrazia parlamentare è davvero a rischio. Spero che si capisca perché mi ostino a difendere il solo partito esistente: il Pd. E lo consideri – piaccia o no – il presidio relativamente più forte della democrazia repubblicana. An- cora domenica 100mila persone sono andate a votare a Roma per le primarie con cui il Pd ha scelto il suo candidato sindaco di Roma. «Sciacquatevi la bocca», amici del Corriere della Sera. Quale partito conserva in Italia questa forza che è esattamente la nobiltà della politica, ciò che ci legittima a guidare il governo, e che si chiam partecipazione e democrazia?

Ma, in realtà è proprio questo lo scandalo. È il fatto che non siamo tutti uguali che spiega la violenza con cui certe forze ci attaccano, ci denigrano, ci dileggiano. E quindi capisco. Capisco tanti errori e debolezze, ma capisco anche il peso delle responsabilità che gravano oggi sulle spalle del segretario del Pd. Perciò è al centro di tutti gli attacchi. Pier Luigi Bersani è uno degli uomini migliori che girano per l’Italia. Ma non mi interessa tanto la sua persona, quanto il ruolo che svolge. Io non sono un conservatore. Credo che bisogna fare grandi cambiamenti. Ma per farli ci vuole oggi un traghettatore. Dopo il Pd c’è lo sfascio. Spetta quindi al segretario del Pd, proprio in quanto segretario, traghettarci oltre questa palude. Senza di che ogni compromesso diventa più difficile.

L’Unità 10.04.13