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"Mistero triste a cinque stelle", di Gian Antonio Stella

Tutti nemici, moltissimo onore? Dopo avere espresso il loro disprezzo per tutti i partiti («Noi vogliamo una cosa nuova. Una iper-democrazia senza i partiti. Che non contempla i partiti»: Beppe Grillo), per tutti i giornalisti italiani («Mi stanno tutti sul c…»: il capogruppo al Senato Vito Crimi), per tutti gli accordi («Noi non faremo mai accordi coi partiti»: la capogruppo alla Camera Roberta Lombardi), nel mirino dei pentastellati sono finiti tutti gli intellettuali.
«Abbiamo sottolineato che nel nostro Movimento non ci sono intellettuali», ha spiegato come se rivendicasse l’assenza di ladri o stupratori il portavoce a Montecitorio Enrico Massimo Baroni raccontando dell’incontro all’ambasciata americana, «E quando loro hanno citato il nome di Fo abbiamo fatto notare che non è un intellettuale perché ha scritto Mistero Buffo dove dà voce alla gente comune». Tesi interessante perché escluderebbe dalla repellente categoria Charles Dickens (scrisse dei bassifondi londinesi) o Victor Hugo (si occupò di miserabili) lasciando però un dubbio: e Montale, Sciascia, Calvino? Gente da evitare?
Ora, che si possano attaccare molti intellettuali è legittimo. Fu durissimo, tra gli altri, Indro Montanelli ricordando che «la cultura italiana è nata nel Palazzo e alla mensa del Principe, laico o ecclesiastico che fosse e non poteva essere altrimenti visto che il principe era, in un paese di analfabeti e quindi senza pubblico mercato il suo unico committente». Ma da qui a fare di ogni erba un fascio, ne corre. E sarebbe troppo facile ricordare i precedenti agghiaccianti di chi a destra e a sinistra mostrò lo stesso spregio sommario per gli intellettuali in quanto tali.
Dice Beppe Grillo: «Ma noi siamo boy scout, senza di noi verrebbero avanti le camicie brune!». È vero. Ed è giusto dargliene atto, in questi momenti di sbandamento, con sollievo. C’è però un abuso di manicheismi, insulti e giudizi sommari, nei dintorni del leader genovese, che offusca le buone ragioni e mette inquietudine. Di qua i buoni, di là i cattivi. Di qua «quelli con noi», di là «quelli contro di noi». Tra i quali è facilissimo scivolare agli occhi dei più accigliati guardiani della rivoluzione grillina alla prima perplessità o ironia che lasci uno schizzetto (si pensi a Fiorello) non sui bersagli soliti ma sulla purezza adamantina del Movimento.
È rischioso giocare con la parola «tutti». Ed è rischioso scommettere, come sembra fare il M5S anche al di là delle volontà dei singoli eletti e di tanti elettori, sui fallimenti altrui. Alla larga dall’idea delle virtù magiche e salvifiche di una alleanza che tenga dentro tutti meno il Grande Intruso. Anzi, potrebbe essere perfino una scelta pessima. Ma il punto non è questo: è che fare il tifo perché tutto si impantani e i «nemici» siano costretti a mettersi tutti insieme in una ammucchiata «inciucista» nella convinzione che finirebbe poi in una rissa disastrosa alla quale il Paese si ribellerebbe chiedendo d’essere salvato al Movimento 5 Stelle, è una brutta scommessa. Già vista, purtroppo, nella nostra storia. Dove spesso quei partiti detestati dai grillini, in nome del «tanto peggio tanto meglio», hanno badato agli interessi di bottega prima che a quelli dell’Italia. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Vogliamo ricominciare?

Il Corriere della Sera 04.04.13

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“Perché Grillo non risponde a Marine Le Pen?” di Toni Jop

Fino a questo momento, la notizia è che non c’è notizia. L’altro giorno, Grillo è stato raggiunto da un pressante invito condito da encomi sottoscritto dalla signora Marine Le Pen, leader della destra-destra francese. Chiedeva di essere chiamata, di parlare con lui. Perché molto li unisce: l’anti-europeismo, l’intrattabilità istituzionale, una certa orgogliosa purezza, una critica fondamentale, dotata di sentenza già bella e fatta, all’intero quadro politico. Di questa «letterina» profumata, sul blog di Grillo non c’è traccia. Magari non l’abbiamo vista. Come mai? Se è in qualche sottoscala, perché si è scelta una posizione tanto in ombra per una questione di politica internazionale che tocca il M5S? Marine Le Pen ha detto di condividere la scelta di Grillo di non accettare promiscuità con le forze corresponsabili dell’attuale stato di cose. E lui, da bravo, ieri ha ribadito il concetto giusto mentre i suoi parlamentari stavano valutando che pesci pigliare a proposito, anche, del governo. Se volevate vederci sostenere un esecutivo Pd, avete sbagliato, la prossima volta cercatevi un altro partito, così ha trasmesso in sostanza. La notizia è che Grillo non ha ancora fatto sapere la sua risposta a Marine Le Pen. O non lo ha fatto sapere fuori dal suo salottino, e sarebbe peggio. Come mai? Non merita risposte? Casaleggio non ha ancora trovato il tempo? Non è pronta la piattaforma web in cui i grillini dovrebbero esprimere la loro opinione?

L’Unità 04.04.13

"È l’ora di soluzioni chiare", di Francesco Manacorda

No, non è un buon segnale quello che arriva dal rinvio – si spera di pochissimi giorni – del Consiglio dei Ministri che ieri avrebbe dovuto approvare il decreto per sbloccare una parte dei crediti vantati dalle imprese nei confronti della Pubblica amministrazione.
Non lo è per almeno due motivi: il primo, e il più ovvio, è che su questa materia bollente ed essenziale non per lo sviluppo, ma per la sopravvivenza, di molte aziende non sono più ammissibili ulteriori ritardi, esitazioni o soluzioni pasticciate; il secondo motivo è che lo stop improvviso al decreto è stato determinato in buona sostanza dai dubbi espressi dalle stesse imprese sull’efficacia dei meccanismi previsti dal governo per i pagamenti. Sono loro che esaminando la bozza del testo in circolazione fino a ieri, si sono trovate davanti un meccanismo poco efficiente e hanno trasferito i loro dubbi all’esecutivo, che ha preferito rimandare il via libera al testo. Tra le critiche delle imprese un eccesso di burocrazia nelle procedure per i rimborsi e il fatto che in molti casi gli enti locali fossero non incentivati, ma addirittura disincentivati, a pagare i loro debiti. Questo perché, secondo la bozza, il Comune che per pagare i propri creditori avesse chiesto di attingere al fondo creato dal ministero dell’Economia si sarebbe poi visto restringere in maniera significativa negli anni successivi la possibilità di effettuare spese correnti o di indebitarsi per fare investimenti.

Dunque, quello che doveva essere un provvedimento fondamentale per rimettere in moto il Paese viene frenato appena prima della linea del traguardo proprio da quei soggetti che dovrebbero beneficiarne e che hanno invece la motivata convinzione che in questo modo si aprirebbero nuovi contenziosi e che quella certezza di cui le imprese hanno bisogno rischierebbe di svanire di nuovo. Tra le poche note positive c’è invece da prendere atto che la frenata del governo pare sancire anche la scomparsa di un’ipotesi – di sicuro recessiva – come l’aumento delle addizionali regionali dell’Irpef proprio per finanziare il rimborso dei debiti.

Adesso c’è solo da augurarsi che il rinvio serva per rendere lo strumento dei rimborsi un’arma efficace – senza soluzioni troppo arzigogolate – per fare fronte alla crisi e dare un puntello, uno almeno, per cercare di uscire dal pantano della recessione italiana. Non a caso di «misure urgenti» per sbloccare i pagamenti della Pubblica amministrazione aveva parlato tre settimane fa anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, proprio dopo aver ricevuto al Quirinale il numero uno di Confindustria Giorgio Squinzi che portava dati allarmanti e inequivocabili.

Ma per far sì che l’arma dei rimborsi possa servire davvero a rimettere in moto l’economia c’è probabilmente ancora da fare anche a Bruxelles. Alla Commissione europea il premier Mario Monti ha dato assicurazione ufficiale che l’avvio dei pagamenti non porterà l’Italia a sforare la soglia del 2,9% del rapporto tra deficit pubblico e Pil. Con le regole attuali è giusto farlo. Ma forse è il caso di pensare se le regole attuali sono le più adatte per affrontare una situazione che ha dello straordinario: nel solo Paese del G7 dove (è l’Ocse a dirlo) nel primo trimestre del 2013 il Pil è sceso invece di salire, nell’Italia in cui – lo abbiamo raccontato ieri parlando della provincia di Savona – l’anticipo della cassa integrazione si estrae a sorte tra i lavoratori, i criteri di Maastricht rischiano sempre più di apparire come un vuoto feticcio. Attorno a noi ci sono esempi che vanno dalla Francia, dove la soglia del 3% viene sfondata con il benestare di Bruxelles, alla Spagna che spinge anch’essa il rimborso dei debiti della Pubblica amministrazione, ma con regole contabili che incidono assai meno sul deficit. Monti potrebbe giocare ancora la sua credibilità per cercare in Europa una soluzione più attenta alle esigenze italiane? Difficile pensarlo, visto che sulla futura maggioranza e sull’esecutivo, ammesso che ci sia, è ancora buio pesto. E anche questo, dunque, è un prezzo che paghiamo per l’ingovernabilità.

La Stampa 04.04.13

"Perché serve il governo politico", di Ruggiero Paladini

“Contrordine compagni”, di sarebbe detto un tempo. Ciò che sembrava semplice si mostra complicatissimo. Proviamo a mettere in ordine i tasselli. Partiamo dal fatto che le regole comunitarie di Eurostat stabiliscono che le somme dovute dalle amministrazioni pubbliche per fornitura di beni e servizi non entrano né nel conto economico (deficit), né in quello patrimoniale (debito). In condizioni normali dovrebbe essere un fondo che si rinnova con vecchie fatture che escono e nuove che entrano.
Anche nel mondo delle imprese questo fenomeno esiste come fatto fisiologico.
Ma nel nostro Paese il fenomeno, in particolare negli ultimi anni, diventa patologico: le somme lievitano fino a raggiungere, e forse superare, i 100 miliardi. Intanto il Paese affronta il secondo anno di recessione, con previsioni che già superano quella appena rivista (in peggio) dal ministero dell’Economia (-1,3%), e che indicano almeno un -1,8. Nel frattempo il credit crunch si stringe su famiglie e imprese.
Bene, perché non incominciare a pagare un po’ di debiti? Anche la Commissione europea sollecita l’Italia in questo senso, sulla base di una considerazione semplice: le regole di contabilità pubblica dicono che gli acquisti di beni e servizi di conto corrente vengono registrati come spesa e vanno a determinare il deficit della pubblica amministrazione, nel momento in cui diventano degli impegni, secondo criteri di competenza economica. Invece per quanto riguarda le spese per investimento, che impiegano molti anni per essere realizzate, è più logico che diventino spese iscritte a bilancio (e quindi deficit) secondo un criterio di cassa, cioè a mano a mano che l’opera procede.
Dunque saldare un debito per una fornitura di beni e servizi in conto corrente, inscritta a bilancio nel 2012 o prima ancora, non ha nessun effetto sul deficit del 2013. Ha solo un effetto sul debito, in quanto a fronte di questo pagamento l’ente pubblico si deve essere procurato i mezzi finanziari necessari. Saldare invece un debito per un’opera pubblica d’investimento, ancorché riferita a impegni di anni precedenti, fa aumentare sia il deficit 2013 che il debito. La composizione dei crediti delle imprese sembra essere, all’incirca, di un 80% di parte corrente e di un 20% di parte capitale. Pertanto saldare nell’arco di due anni una quarantina di miliardi fa aumentare il debito di oltre due punti di Pil, ma impatta sul deficit per soli otto miliardi. Poco male per il debito, visto che tanto dell’esistenza di questi miliardi di impegni non saldati sono al corrente tutti gli operatori finanziari, e quindi sono già assorbiti dal nostro spread. L’importante però, ammonisce l’ineffabile Oli Rehn, il guardiano dell’austerità teutonica, è di rimanere entro il 3% per quanto riguarda il deficit.

Il governo, che a differenza di Francia e Spagna non si è mosso per vedere di ottenere un rinvio nel folle obbligo di equilibrio strutturale già entro quest’anno, finalmente si muove e prepara un provvedimento, che la Commissione speciale della Camera approva addirittura all’unanimità (ebbene sì, malgrado la capogruppo grillina avesse definito la cosa una «porcata di fine legislatura»), rinunziando ad allargare il discorso su temi caldi come l’aumento dell’Iva a luglio, gli esodati, il rifinanziamento della cassa integrazione, la Tares, ecc.
È a questo punto che le cose si complicano; la maggior parte dei debiti sono delle Regioni (sanità soprattutto) e degli enti locali. Se l’ente ha in cassa le somme, può procedere, ma che fare in caso contrario? Il Tesoro deve anticipare le somme e vuole avere certezza di avere i soldi indietro. Sembra che al ministero dell’Economia avessero pensato anche ad anticipare gli aumenti dell’addizionale Irpef regionale, che scatteranno l’anno prossimo, a quest’anno; forse volevano imitare l’atteggiamento della Troika con Cipro.
Non proprio una brillante figura per il governo dei tecnici. Avrebbero potuto muoversi ben prima, invece di finire in questi pasticci. Ma per contrattare, con molta energia con la Commissione (e quindi con Angela Merkel), ci vuole un governo politico a tutti gli effetti.

L’Unità 04.04.13

I parlamentari Pd del cratere costituiscono il “gruppo terremoto”

E’ formato dai modenesi Ghizzoni e Vaccari insieme agli emiliani Bratti, Marchi e Broglia. Una struttura di lavoro informale, ma del tutto inedita: cinque parlamentari emiliani del Pd eletti nella zona del cratere hanno dato vita al cosiddetto “gruppo terremoto”. Già lunedì prossimo i modenesi Ghizzoni e Vaccari, il ferrarese Bratti, il reggiano Marchi e il bolognese Broglia avranno un primo incontro in Regione. Molte delle richieste presentate dal “tavolo di crisi” costituito dalle associazioni imprenditoriali locali modenesi sono già nella loro agenda, a cominciare dalla proroga dello stato di emergenza fino alla fine dell’anno e dalla revisione degli studi di settore.

Puntano a essere una sorta di “struttura di collegamento”, seppure informale, tra le istanze che arrivano dal territorio e le sedi istituzionali deputate a dare delle risposte, ovvero Parlamento e Regione. Cinque parlamentari Pd eletti nella zona del cratere hanno dato vita al cosiddetto “gruppo terremoto” che proprio lunedì prossimo avrà un primo incontro presso la sede della Regione Emilia-Romagna. A comporre questa struttura di lavoro del tutto inedita sono cinque parlamentari che, per esperienze passate e competenze specifiche, meglio possono raccogliere esigenze e problemi della ricostruzione post-sisma: si tratta dei modenesi Manuela Ghizzoni e Stefano Vaccari, del ferrarese Alessandro Bratti, del reggiano Maino Marchi e del bolognese Claudio Broglia. Molte delle richieste presentate dal cosiddetto “tavolo di crisi” costituito dalle associazioni di categoria del mondo imprenditoriale e cooperativo locale fanno parte del pacchetto di impegni su cui il “gruppo terremoto” intende lavorare. “E’ indispensabile ottenere la proroga dello stato di emergenza fino alla fine del 2013 – confermano la deputata Manuela Ghizzoni e il senatore Stefano Vaccari – così come la revisione degli studi di settore. Le imprese e i cittadini devono, inoltre, essere messi in condizione di avere un più facile accesso al credito così come i Comuni devono poter contare sull’allentamento del Patto di stabilità. In particolare, le amministrazioni locali hanno necessità di poter derogare ai limiti imposti agli straordinari del personale assunto e di poter assumere altro personale per accelerare tutte le pratiche connesse alla ricostruzione. Infine – concludono Ghizzoni e Vaccari – è necessario introdurre un meccanismo di fiscalità di vantaggio, come quello introdotto nel giugno scorso a L’Aquila, destinato alle imprese di piccola e micro dimensione”. La costituzione del “gruppo terremoto” non toglie nulla, naturalmente, all’impegno comune sui temi della ricostruzione proprio di tutti i parlamentari Pd eletti nel modenese. Già all’indomani della consultazione elettorale si era tenuto un incontro con gli amministratori locali della zona del cratere. Un nuovo incontro, voluto dal Partito democratico, è in programma per la serata di venerdì 5 aprile a Camposanto. Il legame con la parte della provincia colpita dal sisma rimane saldo e continuato nel tempo.

"Aziende, in 52 mila non ce la fanno un terzo chiude per mancati rimborsi", di Valentina Conte

“Serve un segnale forte. C’è un senso di disperazione che sta affliggendo tanti imprenditori”. La mancanza di speranza arriva sul tavolo di una politica in stallo. E lo fa con un appello forte di Giorgio Squinzi. Ieri il presidente di Confindustria ha ricordato a tutti – saggi, partiti, Parlamento – che le imprese hanno il fiato corto, gli imprenditori sono allo stremo, il Paese allo sbando. “Il senso di disperazione” degli imprenditori in crisi di liquidità per i ritardi nei pagamenti della Pubblica amministrazione chiede che “le ragioni delle imprese vengano riconosciute”, ha ripetuto Squinzi. Basta “false promesse”, ha rincarato il presidente di turno di Rete Imprese Italia, Carlo Sangalli, deluso dallo slittamento del decreto. La crisi peggiora, ordinativi e fatturato a gennaio sono crollati del 3,4% rispetto al 2012, il credito erogato alle imprese si è assottigliato ancora del 2,5%, Pil e consumi non rialzeranno la testa neanche quest’anno. Così le imprese muoiono.
IMPRESE fallite per crediti. Imprenditori suicidi. Altri disperati a caccia di prestiti per pagare il fisco. La crisi sta uccidendo le piccole e medie aziende italiane, fiaccando le grandi, mettendo a dura prova chi esporta e ancora resiste allo tsunami. Il calo del fatturato, la contrazione degli ordini, l’aumento vertiginoso delle tasse, ma anche il
credit crunch, i rubinetti sempre più chiusi delle banche, hanno costretto al fallimento 52 mila e 539 imprese dall’inizio della crisi, nel disastroso quinquennio 2008-2012. Di queste 15 mila e 170, secondo i calcoli della Cgia di Mestre, sono morte a causa di pagamenti mancati o ritardati. E dunque fallite per crediti, soprattutto dello Stato, lasciando senza posto 60 mila persone.
IL PARADOSSO
La linfa del credito non scorre. La Pubblica amministrazione non onora le fatture. Il sistema inceppato ora rischia il collasso. Per Bankitalia lo Stato deve 91 miliardi alle aziende italiane per lavori eseguiti e mai remunerati,
di cui 21 nel solo comparto delle costruzioni, ormai devastato dalla crisi. Secondo l’Ance i disoccupati del settore sono 550 mila con l’indotto. Un conto già vecchio, questo dei crediti della P.a., perché fermo al 31 dicembre 2011, forse salito nel frattempo già a 100 miliardi. Se in Europa, calcola Intrum Justitia, un quarto delle imprese fallite chiude proprio a causa dei ritardi nei pagamenti, per l’Italia questa soglia era al 30% tra 2008 e 2010, salita al 31% nel biennio successivo. Quasi un terzo dunque delle aziende non sopravvive perché ha lavorato gratis. Un fallimento su tre condanna chi ha come cliente lo Stato. Un paradosso.
I SUICIDI
L’ultimo suicidio, due giorni fa a Lipari. Edoardo Bongiorno, 60 anni, figlio del partigiano che fece innamorare Edda Ciano, la figlia di Mussolini, si è sparato
furgoncino con cui andava a prendere i clienti al traghetto per portarli al suo albergo, il celebre Hotel Oriente. Nel biglietto lasciato sul sedile parla dei debiti che lo hanno distrutto «fisicamente, moralmente psicologicamente». Nello stesso giorno altri due alberghi storici delle Eolie, Le Sables Noires e l’Eolian Hotel a Vulcano, annunciano la chiusura. Più a Nord, un altro imprenditore sessantenne ferrarese decide pure lui di farla finita: «Senza lavoro non c’è speranza, senza speranza non c’è voglia di vivere». Nel 2012 ben 89 imprenditori, sull’orlo del fallimento, schiacciati dai debiti, arresi, hanno scelto il suicidio. Quasi 8 al mese.
I DISPERATI
«Molti stanno perdendo il lume della ragione, lo sconforto e l’esasperazione li stanno spingendo a gesti sconsiderati », ammette Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia di Mestre. « Moltissimi piccoli imprenditori stanno chiedendo soldi per pagare le tasse e i contributi, perché i committenti non li pagano o lo fanno con ritardi spaventosi. Una situazione che sta degenerando di settimana in settimana, spingendo verso il fallimento moltissime imprese, non per debiti ma per crediti ». Sono gli «imprenditori disperati» di cui ieri ha parlato anche il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi. Allarmato per il ritardo con cui il governo Monti cerca di mettere una toppa alla falla dell’inevaso della Pubblica amministrazione. Gli imprenditori e le imprese muoiono, il Consiglio dei ministri salta e il decreto con i soldi non arriva.

La Repubblica 04.04.13

"Il rogo che brucia i candidati per il Quirinale", di Concita De Gregorio

Veleno, pugnale o franchi tiratori. È così che si uccide un candidato sicuro. Lo spiegò Donat Cattin ai suoi il giorno in cui decisero di far fuori Leone in favore di Saragat, era il 1964 e moltissimi dei parlamentari oggi eletti alla Camera non erano ancora nati. “Moro mi ha detto di usare mezzi tecnici. Io di mezzi tecnici conosco solo questi tre”. Sono passati cinquant’anni e siccome nessun candidato è mai stato eliminato col veleno e col pugnale si può star sicuri di quale sia l’arma letale, ancora oggi: i cecchini dell’aula. Lo sanno bene tutti quanti, chi non lo sa – chi ancora pensa che sarebbe bellissimo eleggere al Colle un’alta e nobile personalità libera, una donna o persino un uomo di cultura e di pensiero – sarà bene che si affretti al ripasso.
C’È UNA ragione semplice per cui il candidato ufficiale, concordato, condiviso alla vigilia non è stato mai eletto, con due sole eccezioni, al Quirinale: quella ragione si chiama voto segreto.
Dal decalogo delle non-regole di Giulio Andreotti (“Non ci sono regole, ci sono solo errori da non fare”): “Il candidato ufficiale non viene eletto mai o quasi mai perché nel voto segreto c’è la reazione dei peones contro le segreterie di partito”. Contro le segreterie quando c’erano i partiti, contro gli interessi ora che ci sono questi, contro un leader prepotente, contro uno sgarbo ricevuto
anni prima, contro un processo subito in conto d’altri, contro un collega che ti ha rubato il seggio o la fidanzata quando avevate vent’anni e ora che ne avete sessanta il rancore è ancora tutto lì, armato di truppe di devoti reclutate nei decenni. D’Alema, Amato, Marini e tutti i reduci delle antiche stagioni facciano i loro conti, ripensino alle loro biografie.
“Temo che possano incontrare più dissenso a casa loro che altrove”, osserva Cirino Pomicino. “Avvantaggiato, in questo caso, è chi una ‘casa propria’ non l’ha più”. Intende Amato, certo. E’ un’opinione avveduta. Sa bene, il vecchio Cirino, che si possono mettere in campo tutte le strategie più raffinate, lavorare alle intese giorno e notte. Si può stabilire, poniamo oggi, che il lavorìo sotterraneo fra Pdl e Pd per raggiungere una candidatura condivisa converga infine sui nomi che fin dal principio Silvio Berlusconi ha messo in campo per evitare che si ripeta ciò che accadde per la prima volta con Napolitano, cioè che sia il centrosinistra da solo a votare il suo candidato. Potrebbe, anche questa volta dopo il terzo scrutinio — quando basteranno i 504 voti della maggioranza semplice — il centrosinistra potrebbe. Tuttavia la partita è delicatissima, c’è un governo da fare, una fiducia da trovare: l’intesa sul Quirinale è la posta grande, il resto ne deriva. Amato o D’Alema, ha detto Berlusconi al Pd. In subordine si scaldi Marini. Ma non basta, quand’anche si stringesse l’accordo: non basterebbe.
Come mai, ci si deve chiedere, nessuna altissima personalità della cultura è stata mai eletta al Quirinale? Perché rinunciò Benedetto Croce, scrivendo a Nenni no grazie, perché non fu mai Toscanini? Perché nessun leader di partito, nessun potente, nessun padre della Patria? Non sono stati eletti Nenni, De Gasperi, Moro, Andreotti, Fanfani, Spadolini, La Malfa, neppure Forlani né De Mita. Non-regola andreottiana numero tre: “Al Quirinale non può andare un leader di partito, né tanto meno di corrente”.
E perché mai? Perché in un altro tempo, un tempo diverso da questo, la politica dei partiti era più importante del Colle e lo manovrava. Perché servivano uomini in fondo grati. Il Quirinale non aveva tanto peso quando a decidere la politica erano le segreterie. De Gasperi non volle andarci mai: “Al Quirinale mi sentirei già morto”. E però le cose sono cambiate almeno due volte: la prima con Scalfaro, eletto all’alba di Tangentopoli. Una mutazione genetica, quella del ‘92’94. La scomparsa delle culture di riferimento dei grandi partiti della tradizione europea (socialisti, cattolici, liberali, verdi) sostituita dal programmismo e dal leaderismo. Un leader, un programma. È così che inizia il trasformismo parlamentare, sconosciuto o quasi nei primi 40 anni di vita della Repubblica. La seconda rivoluzione oggi: ora che la politica si scrive (anche) sul web e che il leaderismo si trasforma in settarismo dal sapore, in qualche caso, autoritario. Ora che c’è nebbia e nessuno vede più l’orizzonte, ora che il Quirinale rischia di diventare l’ultima trincea su cui si arroccano i vecchi poteri. Se ci riescono ancora, se possono. Se il tempo nuovo si distrae e non fa in tempo a decifrare i geroglifici delle vecchie regole. O non-regole, peggio.
E’ il più indecifrabile dei giochi, questo. E’ una palude di sabbie mobili da cui compaiono mostri mai visti prima. Le ragioni di una caduta o di un’ascesa non sono mai quelle che sembrano. Raccontano che Fanfani, per esempio, non arrivò mai al Colle “anche perché si temeva molto la moglie, donna quanto mai energica e paladina di buone cause, dispensatrice di premi”. Una concausa, certo, ma ci fu anche questa: troppi premi da dare, troppo protagonismo difficile da disinnescare. Racconta anche Gaetano Gifuni, per molti anni segretario generale del Senato e poi del Quirinale con Scalfaro e con Ciampi, che chi chiuse la partita su Saragat fu Moro e lo fece ad una condizione mai sin qui censita: che richiamasse in servizio alla segreteria generale il barone Picella, detto ‘baron glacèe’, uomo freddissimo e di grande sapienza istituzionale in cui Moro riponeva la massima fiducia, cerniera essenziale nel caso di ascesa di un socialdemocratico al Colle. Poi certo, hanno pesato le faide, i risentimenti, i calcoli, le ingenuità. Andreotti: “Merzagora pensava di essere eletto perché pranzava spesso col comunista Scoccimarro. Aveva confuso la cortesia con i voti”. Merzagora, bruciato in tre giorni: “Mi fecero giocare a mosca cieca. Vennero in delegazione alle dieci di sera a garantirmi voti che non avevano. La notte mi affondarono”. E’ sempre la notte, che affonda.
Morì di notte la candidatura di Sforza, “cacciatore di gonnelle in attività”. Per Pertini Giancarlo Pajetta telefonò di notte a Zaccagnini: “Ricorda che mi hai dato la tua parola di partigiano”. Ricordo, rispose lui. Morì tre volte quella di Fanfani e fu lì che si perfezionò il controllo dei franchi tiratori, l’arma letale: si controllavano i cecchini facendo scrivere loro il nome a penna rossa o a matita, a qualcuno si chiese di anteporre un titolo, certi dovevano scrivere professore, altri senatore, altri ancora presidente. Si potevano contare, così.
Quarta e quinta non-regola: giocare d’anticipo, disinnescare gli avversari. Di Pertini dicevano che era vecchio, aveva 82 anni. Lui chiamò i cronisti e dettò alle agenzie: “Mio fratello è morto a 94, mio padre ha superato i novanta e anche mia madre, a 90, è morta perché è caduta dalla sedia”. Bisogna poi saper organizzare una fronda, come ha spiegato bene Ciriaco De Mita ripercorrendo l’elezione di Cossiga, unico insieme a Ciampi a passare al primo scrutinio. Fu una resa dei conti in casa Dc appoggiata dall’opposizione,
ma in segreto e proprio all’ultimo minuto. Serve qualcuno che lavori per te facendo finta di lavorare contro. Serve qualcuno che ti avvisi quando è il momento di sfilarsi: Andreotti aveva avvisato Fanfani, “non farti buggerare”. Fanfani, con le stesse parole, aveva avvisato Nenni. Contro Fanfani e per Gronchi si era schierato Pertini, complice l’eterno Andreotti. Fanfani però ci aveva sperato fino all’ultimo, fino a quanto gli toccò leggere su una scheda “nano maledetto non sarai mai eletto”. Era lì, in piedi, accanto al presidente della Camera. I suoi lo avevano avvertito: lascia perdere, è una trappola. Era vero, ma vai a sapere di chi ti puoi fidare. Certo non degli amici, questo è sicuro.

La Repubblica 04.04.13