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"La farmacia dei poveri", di Ettore Livini

La salute non ha prezzo. E i giganti della farmaceutica, dopo aver macinato profitti vendendo pillole e sciroppi (spesso a peso d’oro) ai ricchi del mondo, rischiano di vivere il loro Vietnam in quello che, ironia della sorte, doveva essere il nuovo Eldorado del farmaco: i paesi emergenti e quelli del Terzo mondo. Il via libera dell’India all’anti-cancro low-cost che farà concorrenza al Glivec della Novartis – prezzo 175 euro al mese contro i 2.600 del rivale “griffato” – è solo l’ultimo episodio. Davide si è ribellato a Golia. E dall’Indonesia alle Filippine, dal Brasile alla Thailandia fino all’Argentina, l’ex-Terzo Mondo ha ribaltato la logica: la salute, è vero, non ha prezzo. E visto che milioni di cittadini di questi paesi non hanno i soldi per pagare le medicine salva-vita (il 40% degli indiani vive con meno di 1,25 dollari al giorno) a metterceli d’ora in poi dovrà essere Asuon di sconti o rinunciando ai suoi preziosissimi brevetti. Con le buone o, come succede sempre più spesso, con le cattive.
Le regole del gioco
La questione etica che sta dietro a questo braccio di ferro, vecchia come il capitalismo, è semplice. L’industria – che sostiene di spendere circa 60 miliardi l’anno nella ricerca di nuove molecole – pretende che i suoi investimenti diano profitti. I paesi più poveri (o gli ex-poveri) – supportati da decine di Ong – sventolano la bandiera del diritto alla salute. Quella legge non scritta secondo cui – per dirla con Silvio Garattini, presidente dell’Istituto Mario Negri – «non si può negare una medicina fondamentale per ragioni di prezzo».
Come far convivere queste due esigenze opposte? Il mondo ha provato a dare una risposta con la Dichiarazione di Doha: i trattati del libero scambio del Wto riconoscono all’industria farmaceutica 20 anni di brevetto per i principi attivi che escono dai suoi laboratori di ricerca. Ma in casi particolari, nel nome della “difesa della salute pubblica” è consentito a singoli stati derogare a questa norma garantendo licenze per produrre farmaci-fotocopia in versione low-cost. Un diritto fatto valere con successo dal Sudafrica nel 2001 per fronteggiare l’Aids e persino dagli Stati Uniti quando lo stesso anno, in piena emergenza antrace, hanno minacciato la Bayer di dribblare il brevetto sul Ciproflaxin. Ottenendo dai tedeschi un super-sconto sulle forniture.
Chi vince e chi perde
Il quadro di regole scritto dal Wto ha dato però risultati in chiaroscuro.
Certo c’è stato qualche caso – come ad esempio quello dei farmaci per l’Aids – dove la “concertazione” tra aziende e paladini del diritto alle cure ha portato risultati importanti: l’Unitaid, nata sotto l’egida dell’Onu, ha ottenuto sconti fino all’80% sugli anti-Hiv da girare poi al Terzo Mondo («segno di come i prezzi di listino siano spropositati», dice Garattini).
A far davvero bingo però è stata Big Pharma: le primi cinque aziende del settore hanno guadagnato nel 2012 oltre 50 miliardi di dollari, qualcosa come 136 milioni al giorno. I colossi Usa hanno in cassa 100 miliardi di liquidità e
Novartis, prima dello smacco di New Delhi, ha gratificato senza batter ciglio il suo presidente dimissionario Daniel Vasella con una buonuscita (rifiutata dal manager) da 60 milioni. L’attività di lobby, 100 milioni di spesa l’anno solo negli Usa secondo i dati del Center for public integrity, ha difeso bene lo scudo dei brevetti. Di più: molte aziende grazie a operazioni di banale “alchimia chimica” – dicono i critici – hanno ottenuto l’estensione dei monopoli su «medicine di cui c’è in realtà un bisogno disperato per i pazienti più poveri» come dice Unni Karunakara, presidente di Medici senza frontiere.
«La verità è che inventare un farmaco ci costa tantissimo – replica Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria –. Oltre un miliardo di euro. E uno solo su 10 arriva sul mercato. Il brevetto è il paracadute che ci consente di continuare a scoprirne di nuovi e il mondo ne ha bisogno come il pane, visto che il 90% delle medicine è prodotto da privati».
La “guerra dei poveri”
Il vento però sembra ora essere girato. Brasile, India e Cina hanno iniziato a mettere in piedi una fiorente industria di farmaci low-cost, i cosiddetti generici, che costano un decimo degli “originali” di cui è scaduto il brevetto. Le Ong hanno imparato a muoversi tra i labirinti legali dei trattati sul libero commercio. E per Big Pharma sono iniziati i guai. A muovere le acque sono stati Brasile e Thailandia minacciando di concedere licenze straordinarie ai loro produttori per combattere il carofarmaci dell’Aids. Portando a casa buoni risultati: la Abbott, ad esempio, è stata costretta dalla sera alla mattina a dimezzare da 2.200 dollari a mille il prezzo di una dose annuale del suo Kaletra a Bangkok.
I primi successi hanno fatto scuola: Susilo Bambang Yudhoyono, presidente dell’Indonesia, ha appena approvato sette nuove licenze per bypassare i brevetti farmaceutici in caso di Aids (solo 23mila dei 70mila malati di Hiv a Jakarta possono permettersi le cure di cui hanno bisogno). Idem le Filippine. L’Argentina ha varato un giro di vite sul rilascio di nuovi brevetti. E la sentenza indiana contro Novartis ha alzato ulteriormente l’asticella per Big Pharma negando in sostanza l’allungamento di un brevetto perchè il nuovo anti-cancro della Novartis era solo una copia quasi identica al suo predecessore. «La soluzione è il dialogo – dice conciliante Scaccabarozzi – L’industria non va demonizzata. Il problema dell’accesso ai farmaci per le nazioni più povere c’è e molte aziende, ad esempio, hanno rinunciato ai loro brevetti per dare una mano ai paesi africani».
I timori di Big Pharma
Ai piani alti di Big Pharma, però, la rivolta di Davide contro Golia ha fatto scattare l’allarme rosso. Tra oggi e il 2016 scadranno brevetti su medicine che generano 200 miliardi di ricavi, le vere galline dalle uova d’oro dei loro conti. India e Cina – le nuove regine dei farmaci low cost – forniscono da sole già l’80% dei principi attivi utilizzati poi dai giganti di settore negli Usa. E i generici (l’unico prodotto alla portata dei malati dei paesi più poveri, non a caso grandi clienti della farmaceutica a basso costo di Nuova Delhi) arriveranno a rappresentare il 65% dei ricavi nelle nazioni emergenti.
«La decisione della Corte suprema indiana è una sconfitta per i malati e Novartis sarà cauta nei suoi investimenti in quest’area», ha detto a caldo Ranjiit Shahani, numero uno dell’azienda svizzera nel subcontinente. Peccato che il mondo stia cambiando. E che con i bilanci sanitari dei paesi più ricchi sotto pressione, nessuno dei giganti della farmaceutica possa davvero permettersi di snobbare, malgrado le sberle legali di questi giorni, l’Eldorado di Bric e dintorni che da oggi al 2016 saliranno dal 20 al 30% del mercato della salute mondiale.
«L’arroganza delle multinazionali » – copyright di Garattini – si trasformerà con realismo in quel «negoziato con tutti i singoli governi » auspicato da Scaccabarozzi. Tradotto in soldoni, Big Pharma modererà le sue pretese. E «molti malati dei paesi più poveri – come ha commentato Leena Menghaney, legale di Medici senza Frontiere dopo la sentenza indiana – potranno davvero dormire in futuro sonni più sereni».

La Repubblica 03.04.13

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“DAVIDE SFIDA GOLIA IL POTERE DEI DIRITTI CONQUISTA LA SCENA”, STEFANO RODOTÀ

Forse la sentenza della Corte suprema dell’India aprirà gli occhi ai molti che, non soltanto in Italia, continuano a considerare l’accento posto sui diritti fondamentali un retaggio del passato, il principio di dignità della persona una ambigua nebulosa,ilriferimentoaibenicomunipoco più d’una infatuazione ideologica. Davanti ai giudici indiani si è manifestato ancora una volta un conflitto che accompagna la modernità, e che un presago Alexis de Tocqueville aveva descritto qualche mese prima della pubblicazione del
«Presto la lotta politica si svolgerà tra chi possiede e chi non possiede: il gran campo di battaglia sarà la proprietà». Ovviamente i termini di riferimento di quel conflitto, che a quel tempo aveva come oggetto la terra, sono assai cambiati, ma non la sua sostanza, che continua a vedere contrapposta la logica proprietaria a quelle non proprietarie. E il conflitto si è esteso all’immateriale, allaconoscenza,ed è divenuto più radicale in un mondo nel quale si vuol vedere nel mercato l’unica, vera legge “naturale”, che può fare a meno uesta impostazione è stata rovesciata. Proprio dai diritti fondamentali bisogna prendere le mosse e le regole giuridiche sono lo strumento al quale è affidata la loro concreta realizzazione. I diritti fondamentali non sono più un’astrazione, ma la manifestazione nel mondo dei bisogni primari d’ogni persona. Non a caso parliamo di diritti di cittadinanza, dalla salute all’istruzione e al lavoro, che devono accompagnare la persona in ogni momento e in ogni luogo in cui essa si trovi.
Da dove sono partiti i giudici indiani? Dal diritto alla salute, divenuto davvero «il più fondamentale dei diritti fondamentali», dunque un diritto che non può essere sacrificato alle compatibilità economiche, ma diviene esso stesso misura e criterio per la legittimità della logica di mercato. In esso s’intrecciano eguaglianza e dignità. Quando la possibilità della cura, alla quale si lega lo stesso rimanere in vita della persona, dipende dalle risorse finanziarie che ciascuno è in grado di investire, ecco rinascere la cittadinanza «censitaria »: ho tanti diritti quanti ne posso comprare sul mercato.
Si può accertare questa certificazione della diseguaglianza, soprattutto quando essa si converte nella negazione del diritto alla vita? La risposta negativa venuta dalla Corte suprema dell’India, legittimando la produzione di un farmaco a un prezzo enormemente inferiore a quello imposto dalla Novartis sulla base di una sua interpretazione dei diritti di brevetto, consente di rimuovere un ostacolo di fatto, il prezzo del farmaco, che impediva alle persone di accedere a quel che è necessario per la stessa sopravvivenza. Non ho adoperato a caso le parole “rimuovere” un ostacolo, che vengono dritte dall’articolo 3 della nostra Costituzione, che in tal modo conferma la sua lungimiranza e attualità. Un compito non a caso affidato alla Repubblica, anticipando così quello che, a livello internazionale, è stato via via definito come un obbligo degli Stati di mettere le persone in condizione di accedere ai farmaci necessari.
La decisione indiana, tecnicamente, ha alcune peculiarità, ma deve essere considerata come parte di un movimento che da anni si è mosso proprio in questa direzione, sfidando la logica delle società farmaceutiche, e che ha avuto manifestazioni assai significative in un notissimo intervento della Corte suprema sudafricana, nelle diverse pratiche adottate dai governi brasiliano, argentino, colombiano. Una linea, dunque, elaborata nei paesi di quel che si continua a indicare come il “Sud del mondo”, ma che ormai non può più essere considerata come espressione di condizioni del tutto autoctone, non trasferibili in una più larga dimensione mondiale. In quell’area, che si distende dall’America latina fino all’India e alla Thailandia, è venuta progressivamente emergendo una elaborazione culturale e politica che ha diretto riferimento alla vita materiale, che può essere definita come “costituzionalismo dei bisogni” e che ormai è destinata ad incontrarsi con il classico costituzionalismo dei diritti occidentale.
L’intervento della Corte suprema dell’India dà evidenza a questa nuova situazione e impone di riflettere su alcune sue caratteristiche. Di fronte al potere delle grandi imprese transnazionali, Big Pharma o Big Data che siano, si manifesta la nuova potenza dei diritti, che dà fondamento alla possibilità di esercitare controlli su poteri altrimenti ritenuti del tutto autoreferenziali, produttori esclusivi di diritto, affrancati da ogni responsabilità e controllo. Sono sempre più spesso le corti supreme dei diversi Stati a dare concretezza a questi controlli, sulla base di nuovi principi comuni, come la dignità della persona, e di specifiche leggi approvate grazie alla spinta di concrete lotte per i diritti (è il caso indiano). Non a caso si parla di una “global community of courts”, nella quale si riflette questo nuovo assetto dei poteri planetari.
Ma un punto essenziale è costituito dal modo in cui si stabiliscono le relazioni tra i diritti e i beni necessari per renderli effettivi. La sequenza è ormai chiara, e ci porta verso la individuazione delle caratteristiche di quei beni, che non possono essere accessibili solo attraverso la logica del mercato. Questi sono i beni “comuni”, tra i quali emerge con nettezza sempre maggiore la conoscenza, che non può essere “recintata” per impedirne l’utilizzazione diffusa, come accade con le pretese di estendere senza confini il brevetto e il diritto d’autore.

La Repubblica 03.04.13

"La Camera dei deputati taglia 8,5 milioni di spese l’anno", di Giuseppe Vittori

La Camera dei deputato inizia la sua cura dimagrante. Le decisioni prese ieri mattina dall’ufficio di presidenza prevedono il taglio del 30% delle indennità di carica (che spettano a circa 70 deputati tra componenti degli uffici di presidenza e presidenti di commissioni, giunte e comitati), per un risparmio di 1 milione di euro, e la riduzione del 25% per le spese per il personale delle segreterie dei titolari di incarico, per un totale di 4,3 milioni di euro, oltre che l’abolizione dei fondi di rappresentanza individuali per un totale di 250 mila euro.

A questo taglio di circa 5,5 milioni di euro annui, se ne aggiungono altri 3, ricavati dalla sforbiciata che già giovedì la nuova riunione dell’ufficio di presidenza, convocata alle 11, darà allo stanziamento annuale previsto come contributo unico per i gruppi parlamentari che sarà ridotto da 35,1 a 32 milioni di euro.

«Dalla data del mio insediamento alla Camera dei deputati – scrive la presidente Boldrini sulla sua pagina facebook – sono stati tagliati 500 mila euro al giorno. I risparmi già decisi, infatti, ammontano complessivamente a 8 milioni e mezzo di euro». Già la scorsa settimana, una riunione dell’ ufficio di presidenza aveva abolito l’uso degli alloggi di servizio e reso più rigoroso l’utilizzo delle dieci auto blu parcheggiate nel garage di Montecitorio. Tra le altre decisioni prese oggi figura invece la cancellazione delle spese telefoniche accessorie. Si è voluto dare, commenta la vicepresidente della Camera Marina Sereni, «un segno concreto di buona amministrazione e di buona politica»

Chi avrebbe voluto misure diverse (l’annullamento totale delle indennità di carica lasciando invariate le spese del personale di segreteria) ma si è detto comunque «soddisfatto» degli interventi di ieri è il vicepresidente grillino Luigi Di Maio che, così come i due segretari 5 Stelle Riccardo Fraccaro e Claudia Mannino, annuncia che rinuncerà a tutta l’indennità di carica: «Abbiamo anche precisato – spiega Di Maio su facebook – che avremmo preferito il taglio dell’indennità ai tagli sul personale delle segreterie in quanto uniche professionalità di supporto all’operato dell’incarico. Prossimo ufficio di presidenza – annuncia Di Maio – si continua con il trattamento economico di tutti i deputati».

Dubbi vengono espressi dal coordinamento dei collaboratori parlamentari: «Questa proposta – denuncia il Co.co.parl – possiede due problematiche di fondo: una, in qualche modo, di natura etica e l’altra strutturale. Sul primo fronte, ci sembra francamente poco op- portuno considerare alla stessa stregua persone – anche piuttosto preparate – con telefoni, aerei o computer». Il secondo problema è che la stessa proposta «rischia di creare una toppa peggiore del buco, lasciando di fatto il destino del collaboratore al buon cuore del singolo deputato. Come rivoluzione, francamente, ci sembrerebbe davvero poca cosa».

La presidente Boldrini è intervenuta anche sui temi della crisi: «Stallo politico… diciamo che noi abbiamo chiesto ai gruppi parlamentari di dare i nomi per le commissioni, ma nel frattempo non stiamo con le mani in mano», così ha commentato la mancata nomina dei componenti delle commissioni permanenti. «La commissione speciale – ha spiegato – sta lavorando, così come l’ufficio di presidenza, perché se siamo riusciti a fare questi tagli (al budget di Montecitorio, ndr) è perché stiamo lavorando, quindi comunque stiamo procedendo bene».

l’Unità 03.04.13

"2 giovani su 3 sono pronti a emigrare e 1 su 4 a essere sottopagato", da La Tecnica della Scuola

Il 64% disposto a emigrare, il 25% a essere sottopagato,mentre per il 57,6% dei giovani italiani la legge Fornero è un disastro. Un’indagine del Centro di ricerche sociali su lavoro e nuove forme di occupazione rimarca la difficoltà dei giovani italiani. Il sondaggio, costruito attraverso la raccolta di dati con metodo ‘cawi’ (computer-assisted web interviewing), ha coinvolto 800 giovani tra i 18 e i 35 anni, per il 66% con una laurea di secondo livello, ed è stato realizzato in collaborazione con FondItalia, Fondo paritetico per la formazione continua, e seguito dai media partner Labitalia e ‘Walk on Job’. Dall’indagine emerge che il 12% degli intervistati sarebbe disposto ad accettare il non rispetto del contratto o l’abuso di un contratto atipico e il 2% sarebbe disposto a mettere da parte anche la sua integrità morale.
Dalla ricerca emerge, inoltre, un interesse per i giovani italiani verso l’estero e tra le mete più ambite figurano Francia, Svizzera e Inghilterra. “Forse – ha spiegato Tommaso Dilonardo, avvocato del lavoro e fondatore e presidente di ‘Work in Progress’ – ad essere poco flessibile è la stessa politica, incapace di interpretare i tempi e perciò di promulgare leggi efficaci, chiusa in un dibattito ideologico distante dalle reali esigenze lavorative dei giovani. La riforma Fornero, che per il 57,6% degli intervistati ha peggiorato la situazione, ha aumentato i costi per le imprese e il precariato per i lavoratori”. E riferisce il racconto di un’intervistata: “Nonostante abbia accettato di essere sottopagata, che i miei contratti non siano stati rispettati, abbia messo da parte la mia integrità morale, in Italia non ho comunque trovato lavoro, quindi sono andata a vivere decisamente lontano da casa e dall’Italia”.
E ai colloqui? Il 55% degli intervistati afferma di aver risposto a domande che riguardavano la sfera privata, prima fra tutte ‘Sei sposato/a? Convivi? Vivi con i tuoi genitori? Hai figli o hai intenzione di averne a breve? Mi parli dei componenti della sua famiglia, che lavoro fanno i tuoi genitori?’.
“Sono domande, rivolte soprattutto al genere femminile, che nascondono un pregiudizio – ha commentato Dilonardo – sulla effettiva capacità da parte delle donne di svolgere un ruolo di primo piano nella società. Il nostro questionario rivela che al 43,2% è stato chiesto se è sposato o convive; al 20,4% se ha figli o ha intenzione di averne a breve; a molti, infine, è stato chiesto anche il background dei loro genitori. Insomma, passa il tempo ma la società italiana cambia poco: sono domande che evidenziano un ritardo prima di tutto culturale; manca ancora, purtroppo, il concetto di merito, in un Paese dove l’ascensore sociale è sempre più immobile”.
“Il sondaggio mette in evidenza alcuni aspetti di cui noi di ‘Walk on Job’ abbiamo spesso sentore e che abbiamo analizzato in diverse inchieste: in particolare – ha precisato il direttore di ‘Walk on Job’ (magazine di attualità, università e mondo del lavoro), Cristina Maccarrone – ci stupisce (in negativo) che durante i colloqui si facciano certe domande sulla vita privata che non sono realmente finalizzate all’assunzione, violando la legge sulla privacy, oltre a continuare a discriminare le donne chiedendo loro se vogliono avere una famiglia, a breve o in futuro (che parliamo a fare di tasso di natalità basso se poi non le agevoliamo?), non mi sarei aspettata domande sul lavoro dei genitori o sulle persone con cui si vive, il che dimostra che il mondo del lavoro ha ancora molte cose da sistemare”.
Anche nell’ambito della formazione, i giovani dimostrano di avere le idee chiare su ciò che non funziona e sui cambiamenti che andrebbero prodotti. Infatti, dall’indagine emerge come, per il 73% dei giovani la scuola e l’università dovrebbero prevedere dei corsi o delle iniziative volte a favorire l’incontro dei giovani con il mercato del lavoro; tuttavia, i master specializzati non sono stati determinanti per trovare lavoro per il 31% degli intervistati.
Sempre secondo i dati ‘Work in Progress’, il 34% non si è ma iscritto a un corso di formazione perché crede che le aziende per prime dovrebbero provvedere a preoccuparsi della formazione delle risorse; inoltre, per il 31,6%, i costi dei corsi sono proibitivi. “La scuola dovrebbe fornire gli strumenti per il lavoro, non solo teoria o corsi dai nomi altisonanti. Ad esempio, impariamo a parlare l’inglese, a leggere il giornale, a usare Excel”, si legge fra i commenti.
E i giovani per cercare lavoro si affidano a Internet per il 71%, al secondo posto i siti aziendali, seguono con il 25% i social network (tra questi il più utilizzato è Linkedin). Ma i metodi più tradizionali continuano ad avere un ruolo determinante: si rivolgono agli sportelli del lavoro o agenzie interinali il 32,4% degli intervistati, mentre il 24,3% preferisce consultare gli annunci sul giornale.
“Che il primo mezzo per cercare lavoro sia Internet – ha concluso Dilonardo – è un dato interessante, ma se immaginiamo che, invece di doversi districare nel mare magnum di Internet, i giovani potessero godere delle potenzialità della rete gestita con la competenza e la sicurezza che potrebbe dare un servizio fornito dai centri per l’impiego, i giovani, e anche gli over 50 (dimenticati ma pure esistenti e anch’essi in difficoltà) potrebbero cogliere quelle opportunità (anche scarse, complicate, poco remunerate) che invece ora, nell’assenza della pubblica amministrazione, è più difficile e ‘pericoloso’ trovare. Dico ‘pericoloso’ perché un conto sarebbe una banca dati internazionale gestita dai centri per l’impiego, altro conto è Internet, tout court”.

La Tecnica della Scuola 03.04.13

"La lotta e il compromesso", di Alfredo Reichlin

Comincio ricordando a me stesso che, dopotutto, la differenza tra destra e sinistra esiste. Non meravigliamoci delle difficoltà che ha incontrato l’iniziativa di Bersani. Erano oggettive ma avrebbe avviato una grande svolta riformista. La gente l’ha capito? Io vedo zone di vera e propria disperazione e urgenze estreme di intervento, e vedo gente anche nostra molto disorientata. È difficile parlare di politica. L’argomento è: non interessano le vostre dispute, fate qualche cosa per noi.

Forse non siamo riusciti a rendere del tutto evidente che quella di Bersani non era solo l’unica proposta di governo possibile. Era la sola credibile, se le riforme vogliamo fare sul serio. Gira e rigira il problema resta sempre questo. È positiva la decisione di Napolitano di affidare a un gruppo di cosidetti «saggi» il compito non di sostituirsi alla sovranità del Parlamento ma di facilitare il confronto politico sul merito, sulle cose, i programmi, i bisogni del Paese. È una decisione saggia, evita il rischio di trascinare subito il Paese in una nuova rissa elettorale, senza modificare il «porcellum» che, come si è visto, condanna l’Italia all’impotenza. Il rischio è di fare la fine della repubblica di Weimar che, di elezione in elezione aprì la strada a Hitler. Stiamo attenti a come discutiamo tra noi. In questo momento la cosa più importan- te è tenere saldo e unito questo nostro partito il quale resta più che mai l’ossatura della Repubblica, la sua maggiore risorsa per non finire ai margini dell’Europa. Discuteremo ma io resto convinto che, nella sostanza, la linea seguita finora pagherà.

Ma che cosa pagherà? Questo è il punto. Pagherà per la ragione che quella di Bersani non era solo la richiesta dell’incarico di governo (siamo arrivati primi, quindi spetta a noi). Era di più. Era di più anche di un elenco programmatico. Era l’assunzione della responsabilità di proporre al Paese, a tutto il Paese (ai grillini come alla destra) un nuovo patto repubblicano, un pari diritto di cittadinanza. Voglio essere più chiaro. È evidente che non possiamo accettare un governo di coalizione che ridurrebbe le forze riformatrici all’impotenza e a subire i giochi di potere di Berlusconi. Sono d’accordo. Penso però che il nostro «no» è tanto più forte se si accompagna a ciò che questo Paese disperato chiede alla politica: un’idea unitaria e una guida. Io credo che non era solo per tattica che Bersani aveva offerto al segretario del Pdl Alfano di presiedere una commissione la quale, al fianco del governo di centro-sinistra, doveva occuparsi della riforma dello Stato, cioè della Casa di tutti.

Purtroppo il risultato elettorale non è mai stato discusso seriamente in tutta la sua gravità. Quel risultato non registrava solo una oscillazione di consensi grandissima (almeno 15 milioni di voti cambiavano bandiera) rivelava in tutta la sua pericolosità una vera e propria crisi di legittimità di tutto il sistema politico democratico.

Era più che un voto di protesta. Esprimeva una rabbia. Portava alla luce qualcosa di più profondo dell’antipolitica: una rottura di quei legami non solo economici ma storici, sociali e territoriali che garantiscono l’unità e quindi la forza di un Paese. Era questo il tema più profondo che Bersani aveva messo sul tappeto. Io ho sentito l’eco di quella grande questione che assillò anche le mie passioni giovanili e che ci induceva a guardare anche oltre il vecchio confine della sinistra. Parlo della ispirazione nazionale della sinistra italiana. Gramsci. La sua polemica contro la meschinità di una classe dirigente oscillante tra il fascismo e il falso liberismo del «salotto buono» milanese che non ha mai avuto una visione complessiva dell’Italia e che non si è mai fatta carico dell’interesse generale. Insomma il fatto che spettava alla sinistra scrivere una nuova pagina del Risorgimento affrontando lei i grandi problemi irrisolti.

Non voglio interpretare troppo Bersani. Non mi nascondo debolezze ed errori. Dico anzi che una grande politica, se c’è, non va sussurrata ma va proclamata con forza ed orgoglio. Aggiungo che non bisognava dare la sensazione che la proposta era solo un modo per rincorrere i grillini. Tutt’altro era il senso della parola d’ordine decisa alla unanimità della direzione del Pd, quella secondo cui non si può più governare senza cambiare, senza fare quelle grandi riforme anche della politica, e anche delle istituzioni sempre rinviate o negate. Ma cambiare – torno al punto – significa porre il Paese di fronte a una sfida di governo capace di ri- mettere in discussione il suo vecchio modo di essere: l’Italia delle rendite, delle consorterie, delle illegalità diffuse, del «capitalismo delle relazioni», e anche – diciamolo – del settarismo della sinistra. Sbaglierò, ma io la nostra iniziativa politica l’ho vista così. Non come il solito elenco di riforme che bisognerebbe fare ma come, finalmente, guardare in faccia il più difficile dei nostri problemi: quello che fa dell’Italia un Paese diverso e più fragile della Francia, della Germania, dell’Inghilterra e di tanti altri.

Uno strano Paese il nostro dove manca quella che è la condizione essenziale per fare grandi riforme nella normalità e senza scatenare rivolte. Parlo della reciproca legittimazione tra la destra e la sinistra. Dove per legittimimazione intendo che la destra deve smetterla di considerare la sinistra come un incubo comunista e la sinistra di considerare la destra come una minaccia di tipo fascista. E quando accenno a questa storia non ignoro le responsabilità di vecchi comunisti come me. Certo, conosco l’obiezione. La «impresentabilità» di un personaggio come Berlusconi. Ma a questa persona non si concede niente. Al contrario, si offre a tutto quel mondo della destra che esiste e che non può non esistere e che è formato da tante persone serie, il terreno per liberarsi da problemi che con la politica vera non c’entrano niente.

Dunque, la partita del cambiamento non è affatto finita. Essa richiede da parte del Pd una visione più ampia del Paese e non una divisione tra correnti. Spero che non ci faremo del male da soli.

L’Unità 03.04.13

"Unica via d'uscita", di Pier Luigi Bersani,

Pier Luigi Bersani, nel corso della conferenza stampa tenuta questo pomeriggio davanti ai giornalisti nella sede Pd, ha confermato che le proposte politiche portate aventi durante l’incarico del Presidente della Repubblica rimangono ferme.
“Il messaggio che viene dal Paese è di allarme, c’è un’esigenza evidente di cambiamento. Il Paese chiede una guida perché ha dei problemi, ma ha bisogno di fiducia e di segnali di cambiamento. All’inizio delle consultazioni che mi sono state affidate abbiamo lavorato sulla scorta di quanto approvato dalla nostra Direzione: il tutto partendo dalle condizioni reali per il Paese. Una condizione che mi preoccupa profondamente. Ci vuole un’esigenza di cambiamento. Il Paese chiede una guida perché ha problemi, ma manca di fiducia e ha bisogno di cambiamenti”.

C’è una “profonda preoccupazione per la situazione reale del Paese dal punto di vista economico e sociale”. Lo sottolinea Pier Luigi Bersani in conferenza stampa, osservando che “dall’inizio delle consultazioni abbiamo lavorato sulla scorta delle indicazioni approvate dalla nostra direzione, partendo anche se la cosa può apparire esoterica, dalle condizioni reali del paese”.

“Noi siamo per la corresponsabilità istituzionale. Ci siamo messi all’opera per dare una risposta: governabilità, cambiamento e corresponsabilità. Noi partiamo dall’esigenza di una corresponsabilità tra le forze politiche e parlamentari, il problema è come realizzarla: chiudendo la politica in un fortino? Facendo un cosiddetto noi, Pdl, Scelta civica? Sarebbe una risposta sbagliata. A Berlusconi ricordo – aggiunge Bersani – che abbiamo avuto l’esperienza del governo Monti. Abbiamo già visto l’impasse che si e’ creata”.

“Ci siamo trovati di fronte a un disimpegno conclamato dei 5 stelle che ha avuto otto milioni di elettori e a quanto pare intende metterli in frigorifero. I cinque stelle siamo qui a interpretarli, tra dichiarazioni e smentite, però il dato di fondo è che c’è un 25% del Parlamento che ha voluto partecipare alla vita parlamentare, ma non vuole renderla effettiva perché la vita parlamentare parte dalla fondazione del governo”.

“Il presidente della Repubblica ha fatto quello che doveva e poteva fare: garantire all’Europa e all’Italia una continuità istituzionale”

“Guardate meglio la nostra proposta che tiene assieme l’esigenza di dar voti a un governo che cambia e l’avvio esigibile e certo di un percorso riforma di costituzionale”.

“Chi ha maggior ruolo in Parlamento si incarica della responsabilità di un governo che avvii la legislatura e dichiari le cose essenziali che si possono fare sul fronte sociale”, di pari passo si avvia “un meccanismo inedito che dopo 15 anni di delusioni consegna in un tempo certo la riforma della seconda parte della Costituzione.
Nella nostra idea la maggior responsabilità e visibilità nella conduzione della Convenzione deve toccare a chi non partecipa direttamente alla funzione di governo. Si avvia così la legislatura. Abbiamo proposto questo schema a tutte le forze politiche perché quelle più simili a noi possono partecipare alla formazione del governo e le altre non impediscano la partenza del governo”.

“Noi accompagniamo questa strada ma con fermezza ribadiamo il nostro punto di vista: affiniamo e discutiamo la posizione ma quella del doppio registro, governo di cambiamento e convenzione per le riforme, è secondo noi l’unica pista. Se Bersani serve c’è, se Bersani fosse un ostacolo su questa strada Bersani è a disposizione perché prima c’è l’Italia”

Per la presidenza della Repubblica ci vuole “una soluzione di larga o larghissima convergenza. Qualche volta prendetemi in parola. Noi siamo in modo ligio fedeli alla costituzione che chiama tutti noi a lavorare, onestamente, per una soluzione che sia di larga o larghissima convergenza parlamentare. Noi, fino a prova contraria, lavoriamo così”.

“La destra accetta questo schema che proponiamo purché questo schema sia bilanciato sulla scelta del presidente della Repubblica e non nel senso di una soluzione condivisa di varie forze parlamentari ma nel senso che la destra designa il presidente e noi lo votiamo”.

www.partitodemocratico.it

"Def, firma anche il Movimento 5 Stelle. Risoluzione unica, precedenza alle imprese", da repubblica.it

In aula alla Camera è stata depositata un’unica risoluzione che impegna il governo nell’emanare il decreto legge per il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione in favore delle imprese e a “graduare il flusso dei pagamenti accordando priorità a quello che le imprese non hanno ancora ceduto al sistema creditizio”. Il documento è stato firmato da Pd, M5s, Pdl, Lega, Sel, Cd e Sc. Già nelle bozze circolatein mattinata emergeva la priorità assegnata alle imprese: a ciò si aggiunge anche l’idea di allentare ilpatto di stabilità interno per consentire immediata liquidità a regioni ed enti locali. Nella stessa direzione va l’istituzione del “fondo per assicurare la liquidità di pagamenti certi liquidi ed esigibili” destinato alle amministrazioni locali con scarse risorse in cassa con una con una dotazione di 3 miliardi di euro per il 2013 e di 5 miliardi per il 2014. Tra i vari punti dei quali si chiede l’impegno del governo c’è anche la richiesta della “costruzione di un vero bilancio federale”. La risoluzione si occupa nel dettaglio in particolare delle misure legate ai pagamenti della Pa.

Al Senato, Il M5s ha ritirato la sua risoluzione sulla relazione del governo e quindi l’unico testo che sarà sottoposto al voto dell’Aula del Senato è quello unitario. La risoluzione, che ha come prima firma quella di Filippo Bubbico, presidente della Commissione speciale, ha ottenuto il parere favorevole del governo.

Il provvedimento, annunciato nelle scorse settimane dal premier, Mario Monti, e dal ministro delle Finanze, Vittorio Grilli, prevede che tra 2013 e 2014 vengano sbloccate due tranche da 20 miliardi ciascuna per rimborsare le imprese che hanno all’attivo dei crediti nei confronti della Pubblica amministrazione. L’operazione ha suscitato non poche polemiche e qualche dubbio a livello internazionale. Sulla scorta dei 40 miliardi sbloccati – infatti – il deficit del bilancio pubblico è stato rivisto in rialzo al 2,9%nell’aggiornamento del Def ed è così partito un valzer di dichiarazioni con Bruxelles per capire se l’Italia uscirà o meno dalla procedura di infrazione comunitaria che riguarda proprio il rispetto dei parametri di finanza pubblica.

Sul fronte interno, il M5s in particolare e il Pd avevano richiesto che venisse data priorità alle imprese rispetto che alle banche nell’assegnazione dei rimborsi. Ben presto Grilli aveva spiegato che sarebbe stato seguito un simile criterio. In effetti, secondo le stime di Bankitalia, dei 90 miliardi di crediti delle imprese nei confronti della Pa a fine 2011, ben il 10% era stato trasferito alle banche per ricevere in cambio liquidità.

Nel corso della discussione in Aula, il sottosegretario all’Economia, Vieri Ceriani, aveva dichiarato: “Siamo ora in condizioni di guardare a dei provvedimenti che indubbiamente avranno effetti espansivi sull’economia, in un quadro generale di rispetto delle regole che presiedono al finanziamento e all’andamento della finanza pubblica nel quadro europeo, ma che utilizzano margini di flessibilità che fino a poco tempo fa erano preclusi”.

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"L’analfabetismo di ritorno fa male anche alla democrazia", di Fabrizia Giuliani

Nell’era della comunicazione in tempo reale, della democrazia digitale, del chi non sa o si ferma è perduto, i dati sull’analfabetismo di ritorno emersi dall’indagine All -Adult Litercyand LifeSkills – promossa dall’Ocse, aiutano a capire le radici della crisi politica italiana più di molti editoriali delle ultime settimane.
La ricerca conferma ciò che già da tempo si sa: più di due terzi della popolazione non è in grado di leggere e capire a fondo ciò che legge, solo il 20% degli italiani comprende il senso di un testo complicato dalla presenza di subordinate, cifre o grafici. Oltre le frasi elementari, l’italiano, per gli italiani, è una lingua in gran parte straniera, e i numeri, oltre le operazioni semplici, sono per molti un continente sconosciuto. Se la regressione delle competenze è un fenomeno che attraversa tutti i Paesi in quanti ricordano i residui alogenici o le irregolarità delle desinenze del latino usciti dai licei? in Italia la qualità e la quantità di questo arretramento ha avuto conseguenze catastrofiche, come da tempo afferma e argomenta De Mauro.
La dealfabetizzazione caratteristica dei Paesi più ricchi si somma da noi alla passata mancata scolarità, propria di un Paese segnato da un processo di modernizzazione senza sviluppo, come scriveva Franco De Felice. Questo nuovo analfabetismo ha caratteristiche inedite: chi oggi legge senza capire, non sempre ne è consapevole, mentre chi ieri firmava segnando era invece ben conscio della propria condizione, lottava per conoscere o per consentire ai propri figli di farlo. I nuovi analfabeti sono lontani dai cliché per età, appartenenza sociale e abitudine. Molti di essi hanno redditi elevati, accedono alla rete e usano i social network. Non sono dunque solo gli anziani privati delle opportunità, ma anche i giovani che stentano a trovarle, a sviluppare nel lavoro le conoscenze acquisite a scuola e all’università. Non stupisce che questo massiccio «analfabetismo funzionale» non venga vissuto, collettivamente ed individualmente, come problema. Gli inciampi dati da ciò che non si sa vengono superati delegando alle risorse tecnologiche. La rete aiuta ad orientarsi, offre appigli immediati e soprattutto semplifica. Il tempo necessario alla fatica della conoscenza fatica del corpo e della mente è respinto: superfluo rispetto alle necessità del qui e ora. Stupisce invece come quest’ordine di considerazioni da porre accanto alla verifica sul calo delle immatricolazioni, sui giovani con laurea ma senza lavoro, sul numero di libri e giornali letti in Italia resti sostanzialmente fuori dal ragionamento politico. Il nuovo analfabetismo non è un fenomeno circoscritto. Pesa nella formazione della vita associata, nella costruzione del senso comune, della cultura e della lingua. Condiziona le forme della comunicazione e della politica. Riduce la lingua all’osso e combatte l’argomentazione. Non capire cosa si legge significa essere privi degli strumenti per orientarsi in una società complessa, del controllo sulle decisioni pubbliche e sulle deliberazioni; in altre parole ancora, vuol dire affidarsi. Leggere senza capire vuol dire spesso comunicare senza ragionare.
Sta qui una parte cruciale della nostra crisi democratica, e da qui si dovrebbe partire, oggi, per distinguere tra le risposte doverose alle istanze di cambiamento e le illusioni regressive di un «nuovo» senza volto. La politica non può rassegnarsi allo spirito e alla lingua del tempo: ciò che oggi i cittadini richiedono, se si ha l’attenzione di considerare non solo le grida e i blog più seguiti, è un atto di responsabilità e di scelta. Combattere l’analfabetismo funzionale non vuol dire solo un robusto e finanziato programma per la scuola e l’università, vuol dire combattere il dileggio verso le forme strutturate e reali della vita associata, le istituzioni, l’informazione. La casta non c’entra: è in gioco il rifiuto per il dialogo, la mediazione tra diversi, il senso del limite, l’accordo senza il quale non c’è, prima ancora di ogni equilibrio politico, assetto civile che tenga.

l’Unità 02.04.13