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"Evasori: carcere e gogna sociale. Ma l’Italia frena", di Bianca Di Giovanni

Quando è stata annunciata l’Anagrafe tributaria Attilio Befera si è beccato il soprannome di «Grande Fratello». I più cattivi hanno evocato la «spectre», i più sottili hanno invocato la privacy. Nessuno, purtroppo, ha sottolineato quello che per gli esperti è ormai un dato assodato: tutte le organizzazioni internazionali, dall’Ocse all’Fmi, chiedono la costituzione di banche dati, flussi, incroci e stoccaggi di informazioni. Questa è l’unica strada per ingaggiare una vera lotta all’evasione. Una guerra che si sta facendo sempre più feroce, soprattutto dopo l’esplosione dei debiti pubblici di qua e di là dell’Atlantico. Lo Stato va in «rosso» mentre i forzieri dei paradisi fiscali si gonfiano, le frodi carosello (meccanismi fraudolenti dell’Iva attuali attraverso vari passaggi) si fanno sempre più sofisticate, le società off shore si moltiplicano. per questo in tutti i Paesi le armi anti-evasione stanno diventando sempre affilate, in qualche caso feroci. In Irlanda si è scelta la strada della gogna sul web, con tanto di nomi e cognomi degli evasori dati in pasto alla rete. I sacerdoti della privacy hanno mugugnato, ma quando sono arrivati i risultati sono stati ridotti al silenzio.
Negli Usa, altra cittadella del diritto alla privacy, si fa anche di più: ultimamente ha fatto la sua comparsa il termine «cospirazione» contro lo Stato per chi evade. Un’imputazione che omologa un evasore a una sorta di terrorista, in quanto privando lo Stato delle sue risorse mette a rischio l’interesse nazionale. Il sistema americano ha anche inasprito le pene, che prevedono il carcere per una durata media di 36 mesi. Vista così, è chiaro che il diritto alla privacy passa automaticamente in secondo piano: a prevalere è comunque l’interesse pubblico. D’altro canto in tempi di fiscal cliff (il baratro fiscale in cui l’amministrazione Obama si è ritrovata per colpa dei Repubblicani), Barack Obama non può consentire un tax gap a quota 450 miliardi di dollari. A tanto è arrivata nel 2012 la differenza tra le entrate attese e il gettito effettivo. In un decennio gli Usa hanno visto dissolversi circa tremila miliardi di dollari. Una commissione parlamentare che studia il fenomeno parla di circa mille miliardi l’anno di elusione, dirottati all’estero. Magari proprio da quei manager banchieri, che nonostante i subprime hanno compensi in crescita del 60%. Somme pesanti per uno Stato con un deficit di un trilione di dollari.
L’ordinamento americano ha pensato tuttavia di eliminare le agevolazioni fiscali sulle stock option per quelle società che trasferiscono ingenti capitali in paradisi fiscali. E in ogni caso chi elude o froda viene perseguito da un pool di «agenti speciali», circa 2.300, il cui compito è seguire i casi più complessi. Quello di scuola ha riguardato la banca svizzera Wegelin, un istituto bancario storico che è stato accusato da Washington di aver persuaso, assistito e consigliato centinaia di contribuenti nel trasferire i loro capitali su conti all’estero, con l’unico intento di evitare la morsa fiscale. Il danno per l’Erario è stato stimato in un miliardo e 200 milioni di dollari. Proprio la Wegelin è stata condannata anche per «cospirazione» contro lo Stato: una condanna esemplare. I dati della guerra fiscale americana sono durissimi: nel 2012 su 3.701 procedimenti, il 93% sono stati conclusi con una condanna al carcere. Nel decennio, su oltre 31.600 casi aperti da un nucleo speciale di intelligence, 29mila si sono chiusi con la detenzione.
Non che la rigorosa Germania se la cavi tanto meglio, quanto a compliance fiscale. Dopo decenni di retorica della disciplina, Berlino «scopre» un tesoretto di 215 miliardi di evasione fiscale, almeno stando a una stima de minimis. Anche i tedeschi scelgono la strada del carcere dall’estate scorsa: così l’evasione esce dalla categoria di reato minore, ed entra nel girone infernale della pena detentiva. Berlino aveva tentato la strada dell’intesa con la Svizzera, stoppata poi in Parlamento. Ci ha pensato la Corte federale a trovare quest’altra strada, molto meno amichevole della prima.
SLOGAN MINACCIOSI
Persino i britannici perdono il loro aplomb, e decidono di perseguire con tutti i mezzi i «furbetti» del fisco, con buona pace della City che si credeva al riparo del suo «schermo» di segretezza finanziaria. Tra le molteplici strategie messe in campo da Londra, anche quella di pubblicare online i volti, oltre all’identikit, degli evasori. Si è iniziato con i 32 maggiori evasori intercettati dal fisco di Sua Maestà, che dovranno scontare complessivamente 155 anni dietro le sbarre. Ma molto peggio per loro è la «pena» tecnologica, che li espone al «giudizio universale» della rete. Secondo gli esperti in questo modo le frodi carosello sull’Iva sono diminuite si un terzo. La strategia del fisco inglese è ad ampio raggio, e punta a seminare qualche preoccupazione tra i cittadini tentati di nascondere all’Erario il proprio reddito. Su cartelloni, banner, manifesti sui bus, gli slogan dell’Agenzia delle Entrate adombrano paurose minacce. «Ormai ci stiamo avvicinando ai redditi non dichiarati» si legge sotto la foto di una donna che fissa il lettore attraverso uno squarcio tagliato su un foglio di carta. Naturalmente Londra non rinuncia al politically correct. «Se hai riportato correttamente in dichiarazione i tuoi redditi si legge sotto lo slogan non hai nulla da temere».

L’Unità 02.04.13

"Il Cavaliere vuole rovesciare il tavolo", di Carmelo Lopapa e Umberto Rosso

Una «manovra» del Colle. Per prendere tempo, trascinare tutto fino al 15 aprile, favorire l’intesa Pd-M5S per il nuovo inquilino del Quirinale. Eccolo, il fantasma che ossessiona le ultime notti di Arcore: l’elezione tra due settimane di un presidente della Repubblica «ostile », figlio dell’abbraccio «mortale » tra Bersani e Grillo, una prospettiva che nel fortino Pdl porta dritto ai nomi di Gustavo Zagrebelsky o a Stefano Rodotà, se non a Romano Prodi.
TIMORI e spettri che per ora non trovano riscontro nei fatti, il leader dei 5Stelle continua a bombardare e basta. Ma sono stati sufficienti nelle ultime 36 ore per convincere il Cavaliere a far saltare il tavolo delle commissioni alle quali il presidente della Repubblica Napolitano ha affidato il delicato compito di tessere la tela del dialogo tra le tre «minoranze» inconciliabili. Invece nei due giorni di festa parte il fuoco di fila Pdl che azzoppa la missione sul nascere. Proprio tra lo sconcerto e lo stupore dello stesso capo dello Stato. Non fosse altro perché Berlusconi, attraverso Gianni Letta, era stato avvisato per tempo, sabato mattina, di tutti i passaggi dell’operazione. Il nome di Gaetano Quagliariello non era stato concordato ma comunicato in anticipo sì, senza alcun veto dal fronte Pdl.
Dal Colle, assistono con sconcerto e stupore all’assalto del Pd ai “facilitatori”. Scorrono indietro il film dell’ultima convulsa, drammatica notte di consultazioni al Quirinale. Berlusconi che chiede a Napolitano di restare: il capo dello Stato aveva messo sul tavolo le dimissioni, per accelerare i tempi della sua successione e forse anche elezioni anticipate. L’assenso nella notte di Gianni Letta al nome di Quagliarello. Poi, il brusco cambio di rotta. La lettura? «Hanno vinto i falchi sulle colombe, la linea è stata rovesciata, attaccano i saggi ma in realtà la partita è sempre sul dopo-Napolitano». Per trovare la chiave di quel che si è scatenato nel centrodestra, dunque, bisogna tornare al tormentatissimo giro di colloqui di venerdì scorso. Napolitano non ha scelte, e tutti i suoi interlocutori lo sanno. La minaccia di dimissioni rientra. Sente Mario Draghi, sente anche il governatore Visco, lo sconsigliano caldamente, «ci sarebbero contraccolpi molti pesanti sui mercati ». E fa anche un altro calcolo: dimettendosi martedì 2 aprile, come pure aveva ipotizzato, secondo la Costituzione le elezioni per il successore cominciano 15 giorni dopo, Nessuna accelerazione, in pratica, rispetto all’iter normale. Lo spiega agli interlocutori al Colle: «Le mie dimissioni non risolvono. Come il governo istituzionale, non appoggiato nelle consultazioni. E non posso sciogliere le Camere.
Non resta che una sola strada: guadagnare tempo, rispetto ai mercati, per non continuare con questa immagine di stallo». E’ il sentiero che poi percorre, con l’inedita scelta dei “facilitatori”. Il senso e i limiti della missione dei “dieci” erano perciò chiari a tutti, anche al Pdl che oggi si “sorprende”: prendere un paio di settimane, arrivare fino all’avvio delle votazioni del nuovo capo dello Stato. Sarà lui, salvo un miracolo, a prendere in mano le redini della crisi di governo.
E invece eccolo, adesso, il Cavaliere sempre più di lotta, sempre più proiettato verso il voto in estate, consapevole tuttavia che lo spiraglio di giugno si è quasi irrimediabilmente chiuso. Ai suoi che lo chiamano per gli auguri pasquali confessa tutto lo scetticismo dopo l’iniziale, apparente apertura. «Quando in Italia non si sa cosa fare, si fa un tavolo, che puntualmente non approda a nulla», è la prima delle sue considerazioni. Perdita di tempo, tentativo «inutile», sono le usate per stroncare sul nascere la mission dei dieci. Alla quale Berlusconi impone già la dead line della fine della prossima settimana: dieci giorni di tempo, non di più. Poi, «o il Pd accetta il governo di larghe intese e un presidente della Repubblica condiviso o si va al voto in estate»: resta quella la sua bussola. Anche dopo che il Quirinale ha precisato, ridimensionato, la posizione di Berlusconi raccontano non sia cambiata: «Non ho alcuna fiducia che questa cosa serva a qualcosa, anzi, grossi dubbi. Probabilmente Napolitano lo ha fatto per paura che fallisse il tentativo di dar vita a un governo del presidente, per tutelarsi. Ma per noi non va bene». Non basta. «Accetteremo di discutere la legge elettorale solo in un contesto più ampio di riforma costituzionale». Condizioni quasi irrealizzabili in dieci giorni. Stamattina si insediano i saggi ma per Berlusconi è già una partenza a vuoto. E se non li stronca sul nascere, ritirando magari Quagliariello — come pure gli avevano chiesto con insistenza i “falchi” Brunetta, Verdini e Santanché — sarà solo per cercare di capire se il Pd nel frattempo si spacca e apre alle larghe intese. È l’unico motivo per il quale un Cavaliere sempre più distratto dalle sue carte giudiziarie concede qualche giorno di respiro e dunque credito alle colombe di casa, Gianni Letta, tessitore col Quirinale, Alfano, Schifani, Lupi. Oggi riunione del gruppo alla Camera per discutere il da farsi. Ma Berlusconi non ha alcuna voglia di «perdere tempo », ci sono le sentenze in arrivo.

La Repubblica 02.04.13

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“Fallito il ricatto, Pdl contro il Quirinale”, di Maria Galluzzo. I berlusconiani manovravano sul prossimo presidente ma il Colle li ha spiazzati. E adesso sparano sulle due commissioni. I dieci saggi si insediano questa mattina al Colle. Il primo gruppo di lavoro in materia economico-sociale ed europea si riunirà alle 11; un’ora dopo quello sui temi istituzionali.

Ma proprio mentre i dieci commissari iniziano il loro lavoro di ricognizione sull’impasse politica del paese, dopo una prima ondata di alto gradimento alla decisione del presidente Napolitano, con il passare delle ore crescono i dubbi, per usare un eufemismo, sulla strada intrapresa. Tanto che il Quirinale difende la sua decisione facendo sapere che «risulteranno evidenti sia il carattere assolutamente informale e il fine puramente ricognitivo dell’iniziativa assunta dal presidente della repubblica sia i limiti temporali, d’altronde ovvi, dell’attività dei due gruppi».

Le perplessità sul ruolo dei saggi – troppo vaghi i suoi compiti, indeterminati i tempi, per tacere che le donne non sono state previste – sono state respinte al mittente attraverso i tweet del portavoce del presidente, Pasquale Cascella: «Non sono generici “saggi” – scrive – ma personalità scelte con criteri oggettivi in funzione del lavoro già svolto e del ruolo ricoperto».

Ed ancora, rispondendo ad un utente che riportava le notizie di stampa secondo cui il numero uno della Bce avrebbe «convinto Napolitano a non rassegnare le dimissioni», Cascella precisa: «Per la verità è stato Napolitano a chiamare Dreghi (e altri) per approfondire la valutazione sulla situazione determinatasi».

La missione dei “saggi” appare tutta in salita. Le critiche più forti arrivano dal Pdl. Berlusconi è ad Arcore e non parla. A chi lo ha sentito per fargli gli auguri è sembrato determinato a far saltare il tavolo: «È una palude – sarebbe stato il suo discorso –, i nostri non capirebbero; è solo un modo per perdere tempo e tirare fuori il Pd dalle difficoltà interne».

E i suoi hanno rincarato la dose: Cicchitto fissa l’asticella temporale, il lavoro delle due commissioni dovrà durare al massimo dieci giorni. Alfano avverte che «la casa brucia e non sarebbero comprensibili altri rinvii e dilazioni». I saggi dunque, fa sapere il segretario del Pdl, svolgano le loro analisi in pochi giorni e poi si torni subito alle consultazioni del capo dello stato. In sintesi, o si va a un governo di larga coalizione o si torna a votare a giugno.

Ma specularmente anche Bersani, che anche ieri non si è espresso, appare molto freddo. A sentire i suoi, la linea resta quella dell’alternativa o governo del cambiamento o elezioni.

Tutti sanno però che nel partito esistono posizioni diverse e che anche nella maggioranza bersaniana è forte la posizione di chi ritiene che bisogna assecondare ogni sforzo per dare un governo al paese secondo le scelte del Quirinale. Non si sa ancora quando si terrà una riunione della direzione per fare nuovamente il punto della situazione, comunque non prima della settimana prossima.

In questo clima notevolmente raffreddatosi, in ogni caso i dieci saggi stamane si insediano a cospetto del presidente della repubblica.

E ci si chiede se al tavolo “istituzionale” (Onida, Violante, Quagliariello e Mauro), sarà possibile trovare un’intesa su un punto storicamente dolente, quello della riforma elettorale. Non si esclude che i partiti possano raggiungere un accordo di massima che potrebbe consentire al governo Monti di varare un decreto per sopprimere il Porcellum e spianare la strada ad un nuovo sistema, magari quel Mattarellum rilanciato a sorpresa da Grillo.

La Stampa 02.04.13

"Il ribaltone del Quirinale", di Claudio Sardo

Ci mancava solo l’inutile polemica sui saggi. È ovvio che non avranno il compito di sostituirsi al Parlamento, né di comporre una coalizione di governo, né di scrivere il programma del futuro presidente del Consiglio. I saggi non sono nulla di costituzionalmente rilevante. Giorgio Napolitano li ha chiamati come «facilitatori», di fronte alla paralisi tripolare, per offrire al suo successore qualche strumento utile al fine di dirimere una crisi politica così drammatica.

Sarebbe un grande risultato se il comitato riuscisse a definire un percorso condiviso per la Convenzione sulle riforme, con tempi ben scanditi e con un piano di lavoro finalizzato anche alla nuova legge elettorale e alle necessarie modifiche dei regolamenti parlamentari.
Ma il cuore della decisione del Capo dello Stato non sta nei saggi, bensì nel ribaltamento dell’ordine del giorno politico. Congelando la crisi, Napolitano ha stabilito di fatto che l’elezione del nuovo presidente della Repubblica precederà la formazione del nuovo governo. E questo cambia molte cose nelle strategie dei vari protagonisti. Il Pdl, ad esempio, ha fin qui bloccato il tentativo di Bersani, pretendendo come contropartita o un uomo di centrodestra sul Colle, o un salvacondotto per Berlusconi. Il leader del Pd si è opposto allo scambio, giustamente considerato «inaccettabile», ma non ha avuto la possibilità di superare l’ostacolo perché il potere di interdizione del Cavaliere è stato rafforzato dall’assoluta indisponibilità del Movimento Cinque stelle a giocare in qualche modo la partita del governo.
Ora questo ricatto potrebbe svanire. O cambiare segno. Perché l’anticipo dell’elezione del presidente della Repubblica pone il centrosinistra (che ha 480 grandi elettori sui 505 necessari per l’elezione) in una condizione di maggiore libertà. E non è un caso che Berlusconi sia andato su tutte le furie. Non sono certo i saggi a preoccuparlo, né i limiti «istituzionali» del loro mandato. Il Cavaliere voleva portare la trattativa per il governo al tavolo della trattativa per il presidente. E adesso grida che, se non ci sarà il governo prima della convocazione delle Camere in seduta comune, la legislatura si chiuderà inesorabilmente dopo l’insediamento del nuovo Capo dello Stato.
Ovviamente non è detto che la minaccia abbia corso. Ma, di certo, è una minaccia che oggi fa meno paura. Chissà se la richiesta, avanzata ieri da Alfano, di riprendere le consultazioni al Quirinale contenga una disponibilità a riconsiderare il «piano A» del Pd. Un piano A – va ricordato – che consiste in un governo sotto la responsabilità del centrosinistra (con otto punti di programma e l’apertura a «maggioranze variabili» in Parlamento) e in un secondo binario di riforme guidate dal Pdl, dalla Lega, dai Cinque stelle, cioè dalle forze che non faranno parte della compagine ministeriale.
Una cosa comunque pare inaccettabile per il Pd, per il centrosinistra e per i suoi elettori. Che si accantoni il piano A senza alcuna verifica parlamentare e si provi a discutere soltanto del piano B, come se gli elettori del centrosinistra fossero figli di un dio minore, come se alla Camera Pd e Sel non avessero la maggioranza assoluta dei seggi, come se tutti i Paesi europei – nessuno escluso – non fossero oggi guidati dal leader del partito che ha più parlamentari.
Questo è un pro-memoria valido anche per il presidente della Repubblica prossimo venturo. Giorgio Napolitano ha gestito questa prima fase della crisi con grande prudenza, senza pregiudicare le possibilità di Bersani (a cui ancora non è stato assegnato l’incarico), né le prerogative del suo successore (il quale, se vorrà, potrà anche ripartire da zero), né la libertà delle forze politiche e del Parlamento (quest’ultimo ancora non ha espresso un voto). Il Capo dello Stato ha cercato di battere la «via negoziale», la meno comprottente sul piano istituzionale per un presidente nel semestre bianco. Purtroppo questa strada non ha dato finora risultati. Il tripolarismo si è manifestato nelle forme di tre minoranze di blocco.
Il nuovo presidente della Repubblica dovrà avere le caratteristiche di un uomo di garanzia, fedele alla Costituzione ben prima del giuramento solenne, capace di rassicurare l’Europa e il mondo, ma anche di cogliere la forte domanda di innovazione politica e di orientarla verso la rigenerazione della democrazia e dei partiti. Un presidente non presidenzialista, ma in grado di portare finalmente il Paese fuori dalle macerie istituzionali della seconda Repubblica e, quindi, fino alle riforme promesse e mai attuate nell’ultimo ventennio. Non serve un presidente vendicatore, un presidente che divide. Serve un presidente con un largo apprezzamento tra le forze politiche e nel Paese. I mille grandi elettori avranno un compito importante, che dovranno svolgere senza faziosità, ma con coraggio e lungimiranza. Dietro le tante parole della crisi, c’è infatti un’Italia in bilico. Un’Italia che ha paura e nella quale cresce la sfiducia e diminuisce il lavoro. Bisogna ripartire. Il cambiamento è il solo atto possibile di responsabilità. Poi, il nuovo presidente dovrà ripagare la fiducia, imboccando finalmente la «via parlamentare» della crisi. L’ordinaria amministrazione di Monti non può durare a lungo, checché ne dica il costituzionalista Grillo. Si assuma il Parlamento la responsabilità di dire sì o no. Se non sarà capace di esprimere un governo, si tornerà al voto. Ma forse, davanti a un presidente con il potere di scioglimento delle Camere, qualcuno diventerà più ragionevole.

L’Unità 02.04.13

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“Aspettando il decreto sulle imprese, per Giovannini&co ecco le cose da fare”, di Raffaella Cascioli

Oggi i saggi al Quirinale da Napolitano: per le 11 sono attesi quelli che si occuperanno dei temi economico-sociali. Intanto la Camera è chiamata ad approvare la nota di variazione al Def. Domani il governo potrebbe varare il decreto sui debiti della pubblica amministrazione. Che l’emergenza economica sia in cima alla lista dei pensieri del presidente della Repubblica lo si è visto dalla scelta dei sei saggi che da oggi dovranno lavorare per indicare le riforme economico-sociali necessarie al paese. Che l’urgenza di nuovi provvedimenti da varare già domani da parte del governo dimissionario, chiamato ad agire al di là dell’ordinaria amministrazione, sia tale da bruciare le tappe in parlamento non c’è dubbio. Che la commissione speciale, l’unica ad essere formata sia alla camera che al senato, sarà chiamata a lavorare a pieno regime e, probabilmente in raccordo con i saggi del Presidente, pure.

Già perchè se a livello economico l’emergenza sociale, occupazionale e finanziaria è stata finora analizzata e sviscerata ma non ancora aggredita con provvedimenti ad hoc, quel che serve a questo punto è un governo che decida, un parlamento che approvi, un’amministrazione che sappia dare attuazione ai provvedimenti e vigilare che siano osservati. Il resto spetterà al mondo produttivo che aspetta solo di essere messo alla prova. Oggi l’aula della camera è chiamata a votare la risoluzione del relatore di maggioranza Marco Causi del Pd che, al termine delle sedute della Commissione speciale, è stato incaricato di riferire a Montecitorio affinchè sia dato il via libera alla nota di aggiornamento al Def.

Un atto propedeutico al varo del decreto operativo per il pagamento della prima tranche dei crediti pregressi vantati dalle imprese nei confronti della pubblica amministrazione. Se così fosse il consiglio dei ministri di domani potrà varare il provvedimento a cui sta lavorando in questi giorni il ministero dell’economia e che prevede l’erogazione di una prima tranche di 20 miliardi nella seconda metà del 2013 e una seconda sempre di 20 miliardi all’inizio del 2014. Rispetto ai 91 miliardi di debiti arretrati, contabilizzati di recente dalla Banca d’Italia, si tratterebbe di procedere al pagamento di una somma in grado di far lievitare il rapporto deficit-Pil dello 0,5% che si andrebbe ad aggiungere al 2,4% stimato dal governo così da mantenersi al di sotto della soglia del 3% e da non mettere a rischio la chiusura della procedura di infrazione per deficit eccessivo.

Una volta varato il decreto, Comuni e province potrebbero veder allentato il patto di stabilità interno con il pagamento di una quota dei 12 miliardi programmati per il 2013 a fronte dei 3 dello stato e di 5 miliardi delle regioni. È anche possibile che sempre mercoledì il governo decida di procedere al rinvio del pagamento della Tares, la nuova tassa sui rifiuti che rischia a luglio di creare più di un problema a bilanci di famiglie e imprese. «Mi aspetto uno stretto raccordo tra la Commissione speciale e i saggi – spiega a Europa il deputato del Pd Pier Paolo Baretta – Chiederò al presidente Giorgetti di riferire e di aprire un dialogo e confronto».

Un confronto che sarà tanto maggiore quanto più ci si avvicinerà alla presentazione del Def che entro i primi giorni di aprile dovrà essere discusso in parlamento. Di qui è possibile che i sei (Giovannini, Pitruzzella, Rossi, Giorgetti, Bubbico e Moavero) – che oggi si riuniranno alle 11 al Quirinale – interagiscano con il Tesoro per approntare Def e Piano delle riforme che saranno poi implementati dal parlamento.

da EuropaQuotidiano 02.04.13

"Paradosso Pizzarotti, un anno di rigore", di Fabio Pavesi

Nel Comune emiliano guidato dai grillini saranno i cittadini a pagare salato il conto della crisi: entrate tributarie su del 20% rispetto al 2012. Lacrime e sangue, altro che decrescita felice o il miraggio di arginare la caduta del Paese con slogan tanto accattivanti, tanto demagogici. A Parma, il Comune governato da quasi un anno dai grillini, saranno i cittadini a pagare salato il costo della crisi. A colpi di tasse alle stelle e rincari dei servizi pubblici. Un rigore teutonico, o meglio “montiano”, per tenere in piedi il bilancio della città. Un paradosso gigantesco per il Movimento 5 stelle che alla prova del governo veste i panni dello spietato tosatore.
Le entrate tributarie della città emiliana, cioè le tanto odiate tasse, saliranno quest’anno di 30 milioni di euro in un colpo solo. Un balzo all’insù di oltre il 20% rispetto al bilancio del 2012. E quei 168 milioni di entrate tributarie non sono episodiche. Il trend della pressione fiscale locale resterà su quei livelli fino a tutto il 2015. La parte del leone la farà la tanto vituperata Imu. L’imposta sulla casa, che i grillini osteggiano, porta nelle casse del comune quest’anno 84 milioni di euro, più di un quarto dell’intero bilancio. E il paradosso nel paradosso è che nel laboratorio di governo grillino l’aliquota sulla prima casa è ai massimi, allo 0,6%. Altro che aboliamo l’Imu! C’è. Si tiene e la si tiene al carico massimo. E che dire dell’Irpef locale. Da lì arrivano altri 25 milioni di euro con l’aliquota allo 0,8% non certo tra le più popolari.
Il rigore a Parma non risparmia davvero nessuno. Sono in forte aumento le rette dei servizi. Gli incassi dagli asili nido per il Comune salgono quest’anno a 3,9 milioni dai 3,4 milioni precedenti. Le mense per l’infanzia porteranno a entrate per 4,2 milioni contro i 3,3 milioni del 2012 (con un aumento del 30%). Dalle mense scolastiche sono previsti incassi per 5,1 milioni (+10% sul bilancio precedente). Per non parlare delle previsioni di incasso dalle multe previste dalla Giunta in rialzo del 9%. E che dire della tassa rifiuti? Anche qui non si scherza. Dal tributo sono attesi proventi per oltre 39 milioni e con la nuova Tares sono previsti incassi per 4 milioni aggiuntivi al costo del servizio per l’introduzione di un’aliquota dello 0,3% relativa ai servizi indivisibili. Come si vede un bilancio, quello del sindaco Federico Pizzarotti e della sua Giunta grillina, tutto all’insegna della stretta fiscale e del rigore assoluto. Un bagno di realpolitik che capovolge completamente le promesse elettorali e sul piano nazionale contraddice molte delle idee forti del movimento. L’Imu, la tanto odiata tassa, è il vero motore della Giunta. Altro che abolire il prelievo sulla prima casa, qui a Parma si spinge al massimo l’odiata tassa. Senza quegli 84 milioni di incasso verrebbe meno metà delle entrate correnti e il Comune vedrebbe aprirsi una voragine nei conti.
Certo Pizzarotti eredita una situazione pesante. Un Comune sull’orlo del crac con un debito complessivo derivante dallo sfascio delle partecipate che supera gli 800 milioni. E non va dimenticato che la gestione dissennata dell’ex sindaco Vignali, finito in manette, ha davvero portato il Comune sull’orlo del fallimento. Pizzarotti governa quindi all’insegna dell’emergenza. Ma delle tante promesse elettorali si è visto ben poco. A partire dai nodi dei dissesti delle società pubbliche che Pizzarotti ha ereditato, dalla STT che necessiterà nel 2013 di liquidità per 13 milioni; alla Spip indebitata da sola per 104 milioni.
Il Governo 5 Stelle si è trovato con le spalle al muro di fronte allo sfascio della precedente truffaldina gestione. Ma poco è stato fatto. Si pensi all’inceneritore fulcro della campagna elettorale all’insegna del non si fa. Quell’inceneritore invece si farà e in più pende sul Comune una causa per oltre 20 milioni da parte della società Iren per immotivata interruzione dei lavori. Il danno e ora anche la beffa.E che dire del Teatro Regio su cui in campagna elettorale Pizzarotti si era scagliato per la gestione poco trasparente e dispendiosa? Il cambio di rotta forse ci sarà, ma intanto il Comune ha dovuto aumentare di 900mila euro l’anno per i prossimi anni la quota di trasferimenti, pena il fallimento. Si dirà che quando si eredita un fardello gravoso come nel caso del Comune di Parma, la strada diventa stretta. Molto stretta. Ma Parma in fondo è come Roma. È lo specchio dell’Italia. Debito alle stelle, squilibri di bilancio. A Parma il Movimento 5 Stelle ha scelto la via dell’austerità e del rigore finanziario, tanto deprecato da Beppe Grillo. E un Governo nazionale dei Grillini farebbe come a Parma, cioè aumentando a dismisura la stretta fiscale e impoverendo i cittadini? O deciderebbe per aprire la strada al deficit di bilancio e allo sfascio dei conti pubblici pur di evitare la tosatura fiscale degli italiani? Parma insegna. Un conto sono le illusioni e gli slogan a effetto, un conto è la realtà. Dura e impietosa come a Parma.

Il Sole 24 Ore 02.04.13

"Il sostegno si mangia gli scatti", di Antimo Di Geronimo

I posti di sostegno si mangeranno gli scatti del 2012. La deroga al numero massimo di posti di sostegno attivabili in organico, disposta per effetto di una sentenza della Corte costituzionale, continuerà ad essere finanziata con i soldi destinati al merito. Ciò mette in forse il recupero del 2012 ai fini dei gradoni che avrebbero dovuto essere finanziati con questi fondi.

Fermo restando il recupero del 2010 e del 2011 ormai a regime, visto anche l’accordo firmato di recente tra Aran e e sindacati che ha consentito il recupero. É quanto si evince dalla circolare sugli organici di quest’anno (n. 10 del 21 marzo scorso). Il ministero ha chiarito, inoltre, che i licei musicali non potranno avere più di una prima. E dunque, di fatto, gli istituti che sono stati attivati e che saranno attivati sul territorio saranno a numero chiuso. Anche per quest’anno, inoltre, resteranno in vigore le tabelle di confluenza delle classi di concorso, in attesa dell’emanazione del regolamento che fisserà la disciplina delle nuove classi di concorso. Regolamento che, nelle intenzioni del ministro uscente, avrebbe determinato una sorta di cristallizzazione dell’esistente al quale avrebbe fatto da contraltare un ampliamento della spendibilità delle abilitazioni che avrebbero dovuto essere conseguite frequentando i corsi del nuovo ordinamento universitario ( tirocinii formativi attivi e lauree quinquennali). Al momento, però, il processo si è arenato anche in forza delle critiche dei sindacati, che hanno messo in luce la disparità di trattamento tra docenti vecchi e nuovi. Ecco qualche dettaglio in più. L’amministrazione ha ricordato che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 80 del 22 febbraio 2010, ha cancellato la norma che fissava il tetto massimo di posti di sostegno (comprensivo delle deroghe) attivabili in organico di fatto a livello nazionale (tetto stabilito per evidenti problemi di contenimento della spesa pubblica). Ed ha espunto dall’ordinamento anche la norma relativa al graduale raggiungimento del rapporto nazionale di un docente ogni due alunni disabili. Secondo la Consulta, la scelta di sopprimere la deroga che consentiva di assumere insegnanti di sostegno a tempo determinato, non trova giustificazione nel nostro ordinamento. Ciò perché attraverso la deroga è reso effettivo il diritto fondamentale all’istruzione dei disabili gravi. Diritto evidentemente incomprimibile. Il ministero, dunque, ha chiarito che il limite massimo dei posti in organico di diritto fissato dalla legge (che non subirà ulteriori riduzioni) rimarrà in piedi. E i posti che mancano saranno riattivati in organico di fatto (cosiddetti posti in deroga). In ogni caso la dotazione di docenti di sostegno in organico di diritto è stata fissata in 63.348 posti, pari al numero di posti attivati in organico di diritto nell’anno scolastico 2010/2011. Resta il fatto, però, che i soldi per pagare gli stipendi dei docenti di sostegno da assumere in deroga ai limiti dell’organico di diritto continueranno ad essere attinti dai fondi per il merito accantonati per effetto del piano programmatico che ha ridotto l’organico di 135mila unità tra docenti e Ata. E dunque, il recupero dell’utilità del 2012, necessario a riportare indietro di un anno le lancette dell’orologio e recuperare pienamente i gradoni, sembrerebbe gravemente compromesso.

Musicali a numero chiuso

L’amministrazione centrale ha lasciato intendere inoltre che i licei musicali, che stanno andando molto bene su tutto il territorio nazionale in termini di numero di iscrizioni, non potranno accogliere tutti gli alunni che hanno fatto richiesta. Ciò è dovuto al fatto che per il prossimo anno non potrà essere autorizzata più di una prima classe per ogni liceo. E dunque, in buona sostanza, questi istituti sono da considerarsi a numero chiuso. Resta il fatto, però, che al momento questa restrizione non trova giustificazione in norme specifiche. E quindi potrebbe ingenerare un forte contenzioso.

Il problema della confluenza

Restano in vigore anche quest’anno le tabelle di confluenza delle classi di concorso, adottate per cercare di trovare una soluzione agli esuberi indotti dall’entrata a regime della riforma delle superiori. Quest’anno le tabelle si applicheranno anche alle classi quarte (le quinte andranno ad esaurimento seguendo il vecchio ordinamento). Il metodo è sempre lo stesso. I dirigenti scolastici dovranno anzitutto disporre il reimpiego dei docenti in soprannumero seguendo il criterio delle classi di concorso affini, cui sono informate le stesse tabelle. Qualora, invece, non fosse necessario ricollocare eventuali soprannumerari, l’assegnazione di eventuali ore eccedenti alle varie classi di concorso indicate nelle tabelle sarà effettata dal collegio dei docenti.

da ItaliaOggi 02.04.13

"Scuola, pensionamenti dimezzati", di Alessia Campione

Invecchiano i docenti dietro la cattedra, ma invecchiano anche i precari in attesa di una stabilizzazione che ritarda sempre di più. La legge Fornero che allunga l’età lavorativa sia per gli uomini che per le donne riduce il turn-over degli insegnanti del cinquanta per cento nelle classi italiane. E secondo i sindacati, a questo punto, sono a rischio anche tutte le 11.542 assunzioni del concorso dei docenti bandito lo scorso autunno.

L’ALLARME

L’allarme dei sindacati è scattato di fronte ai dati sulle domande di pensionamento del personale della scuola, diffusi dal Ministero dell’Istruzione. Dati provvisori (ciascuna domanda è al vaglio ministeriale) e che potrebbero subire qualche piccolissima variazione, ma che comunque confermano che il quadro dell’occupazione si è ridotto drasticamente. I docenti che andranno in pensione da settembre sono 10.009, mentre nello scorso anno scolastico sono stati 21.112. Sono di 3.343 unità le uscite del personale Ata, contro i 5.336 dell’anno precedente. Il maggior numero di pensionamenti nelle scuole superiori dove sono state presentate 3.187 domande. Poco meno nella scuola primaria con 3.090 richieste. A seguire le richieste di riposo nella scuola media (2.439) e nella materna (1.293). Tra il personale tecnico ausiliario (gli Ata), a lasciare il posto sono soprattutto i collaboratori scolastici (2.180 domande) e gli assistenti amministrativi (756).

LE ACCUSE

La Flc-Cgil, che accusa il ministero di aver dato i dati sui pensionamenti in ritardo per non aver avuto il coraggio di rivelare «gli effetti disastrosi della riforma Fornero», sostiene che non solo ci saranno meno assunzioni, ma che «perfino l’attuale concorso rischia di non avere posti sufficienti». E riguardo al concorso annunciato nelle scorse settimane dal ministro Francesco Profumo per questa primavera: «Altro che nuovo concorso!». Marcello Pacifico, presidente nazionale dell’Anife: «Sono dati così allarmanti da poter pregiudicare persino le assunzioni del concorso in fase di espletamento. E meglio non parlare del nuovo! Questi dati aumentano il precariato, allontanano le nuove generazioni degli insegnanti e allontanano l’Italia dalla media Ocse».
L’ETÀ MEDIA
Tra le conseguenze della riforma Fornero, in effetti, non ci sarebbe solo l’aumento del precariato storico della scuola (160mila stando agli ultimi dati della Funzione Pubblica). Ma anche quella inevitabile di alzare l’età media del personale. Esasperando una caratteristica della scuola italiana che è stata già stigmatizzata dal rapporto Ocse sull’Educazione del 2012. In 19 su 32 dei Paesi dell’Ocse il 60% dei docenti di scuola secondaria ha almeno 40 anni, mentre in Italia sono oltre il 70% (ma anche Germania e Austria superano questa soglia). I giovanissimi, i docenti sotto i 30, in Italia sono solo lo 0,5%, mentre la media Ocse nella primaria arriva al 14%.

Il Messaggero 02.04.13

"Questo paese indeciso a tutto", di Ilvo Diamanti

Non è piaciuta la scelta del Presidente Napolitano, dopo il tentativo di Bersani – senza esito – di formare un governo. L’istituzione di due commissioni di Saggi. Non è piaciuta. Ai principali partiti. (Non solo e non tanto per ragioni di “pari opportunità). Come la ri-legittimazione del governo Monti.
Così, per la prima volta dopo il voto, fra le tre principali formazioni presenti in Parlamento, c’è accordo. Nel disaccordo. Contro la decisione del Presidente. Che, effettivamente, allunga questa fase “eccezionale”, per qualsiasi democrazia. Visto che l’Italia, da quasi un anno e mezzo, è governata da un gruppo di “tecnici”, non eletti, ma nominati dal Presidente. Sostenuti, fino a sei mesi fa, da una maggioranza eterogenea. Per necessità. E per emergenza. Per l’impossibilità di trovare una maggioranza parlamentare intorno a un governo. Per la necessità di affrontare l’emergenza economica e politica, interna e globale. E di rispondere agli impegni, di fronte alle autorità finanziarie e alle istituzioni internazionali.
Oggi, però, abbiamo un Parlamento rinnovato. Profondamente. Per l’ingresso di nuovi parlamentari. E di una nuova forza politica: il M5S. Che ha occupato uno spazio molto ampio. Nei consensi e nei seggi. Nel dibattito politico e presso l’opinione pubblica. Tuttavia, le condizioni che avevano determinato – quasi imposto – l’incarico al governo tecnico non sembrano cambiate.
La crisi economica nazionale e internazionale: si è fatta più seria. Grave. Dopo le elezioni, il clima sociale interno è avvelenato. Mentre all’esterno, si respira un sentimento di scetticismo diffuso nei confronti dei nuovi e vecchi attori della scena politica italiana. Monti, l’unico di cui si fidassero i “mercati” e i leader internazionali, dopo l’avventura elettorale, è divenuto, anch’egli, poco credibile. Anzi: in-credibile.
Peraltro, nessuna fra le possibili soluzioni proposte dalle maggiori forze politiche rappresentate in Parlamento, oggi, appare effettivamente praticabile.
Il Centrosinistra, guidato da Bersani, – o meglio: Bersani, alla guida del Centrosinistra – avrebbe voluto, comunque, verificare l’esistenza di una maggioranza parlamentare, intorno alle sue proposte. Contava, cioè, di conquistare il sostegno di una parte dei senatori del M5S, in dissenso con le indicazioni di Grillo. Com’è avvenuto in occasione dell’elezione di Pietro Grasso a Presidente.
Operazione rischiosa. Perché, se anche avesse funzionato, avrebbe restituito una maggioranza precaria, sempre in bilico. Marchiata dal “tradimento”, come non esiterebbe a gridare Grillo. Affiancato da Berlusconi e dal PdL.
Il Centrosinistra, d’altronde, non ha alcuna intenzione di intraprendere, nuovamente, la Grande Coalizione. Che, invece, piacerebbe al PdL. Soprattutto a Berlusconi. Per uscire dall’angolo e condizionare l’agenda futura. Ma piacerebbe, ancor più, a Grillo e al M5S. Che potrebbero rilanciare la loro strategia di successo, in questa fase. La rivolta contro la partitocrazia e la classe politica. Contro il PdL e il PdLmenoL.
Elezioni a breve termine – inevitabili in un clima di confusione politica e parlamentare – avrebbero un esito imprevedibile.
Ma piacciono molto al M5S. Favorito da questo clima impolitico, amplificato dalla crisi della politica. Piacciono anche al PdL. Perché la “mancata vittoria” e l’incapacità di formare un governo farebbero del Pd il principale capro espiatorio, in caso di elezioni imm ediate.
Come se, paradossalmente, avesse governato — male – senza neppure governare. E gli altri avessero fatto opposizione – anche in assenza di un governo.
Con questa legge elettorale, tuttavia, difficilmente – e parlo in modo prudenziale – qualcuno riuscirebbe a conquistare la maggioranza dei seggi al Parlamento.
D’altra parte, perché mai questo Parlamento – appena eletto – dovrebbe varare una nuova legge elettorale, in fretta e furia, senza aver quasi cominciato la legislatura, se non vi è riuscito il precedente, con cinque anni a disposizione?
Infine, come potrebbe, come avrebbe potuto, il Presidente Napolitano, assumere una decisione vincolante per il prossimo futuro, proprio ora che è in uscita? Nominando – e imponendo al successore – un solo Saggio? Cioè, un altro Tecnico, super partes, a capo di un “governo di scopo”? Di durata com unque non breve? Per questo, a mio avviso, la scelta di nominare le Commissioni di Saggi è risultata inevitabile. Perché è una nondecisione.
Una in-dec isione. Che riflette e sottolinea l’im-potenza di questo Parlamento, caratterizzato
dall’irruzione di un non-partito. Di questo Paese. Privo di Autorità riconosciute e legittimate. Per prima, quella “paterna”, come ha suggerito Eugenio Scalfari, una settimana fa. Un Paese, dove, per utilizzare un’efficace metafora di Barbara Spinelli, il “trono è vuoto”. Ovvero: “il posto di comando è vacante”. Ed è questa la Questione. Che fatichiamo ad accettare. Noi, italiani, siamo diventati, ormai, un Paese di minoranze. Politiche. Irriducibili. Ciascuna incapace di imporsi sulle altre. Ciascuna gelosa del proprio potere di veto. Sugli altri. Indisponibile, per questo, ad accettare leggi che consentano a qualcuno di governare sugli altri. Per questo è tanto difficile modificare la legge elettorale, il Porcellum. E ci teniamo, quasi unici al mondo, un sistema bicamerale perfetto, che pone sullo stesso piano le due Camere, peraltro elette con leggi elettorali diverse. Rendendo complicata ogni scelta. Ogni maggioranza.
Così, Napolitano ha applicato l’unica soluzione possibile in un Paese eternamente in-deciso, come il nostro. Ha fatto ricorso a quella che il filosofo John Perry ha definito la “procrastinazione strutturata”. Cioè, l’arte di rinviare a domani ciò che “dovremmo” fare oggi stesso. Ma in modo, appunto, “strutturato”. Programmando “altre” cose utili. Ma meno importanti. Per prendere tempo. Perché più tempo “potrebbe” favorire il dialogo, far emergere soluzioni. Oggi non ancora visibili. Potrebbe. Ma potrebbe anche avvenire il contrario. Nuove divisioni e fratture. Più profonde e drammatiche. Fino a rendere inequivocabile quel che ancora non è abbastanza chiaro. A tutti. Che un Paese im-potente e senza autorità, senza padri né governi: non può durare a lungo. Non è uno Stato, ma uno “stato”. Un participio passato.
Rendersene conto, prenderne atto, costituirebbe la premessa di un cambiamento reale. Se i Saggi sono davvero tali, possono provare a spiegarlo. Al Parlamento e ai cittadini. In un modo esemplare. Per non concedere alibi a nessuno: lascino al più presto il Parlamento, i partiti – e i cittadini – da soli. Di fronte alle loro responsabilità.

La Repubblica 02.04.13

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QUELLE COMMISSIONI AL MASCHILE”, di CHIARA SARACENO

Con la sua decisione di congelare il governo Monti e contestualmente istituire due commissioni di esperti, il presidente Napolitano rischia di avallare la posizione di Grillo sulla non necessità di formare un nuovo governo e ignorare di fatto la metà dei cittadini italiani — le donne — cui ha fatto esplicitamente capire di non ritenere che ve ne sia nemmeno una con le competenze necessarie per concorrere alla soluzione dei problemi urgenti del Paese.
È probabile che, salvo le dimissioni anticipate, che per altro avrebbero aperto un altro vuoto istituzionale in una situazione politica già ampiamente precaria, la scelta di congelare il governo Monti fosse in qualche modo obbligata. Anche se certamente questo governo, e in particolare il suo presidente, nulla abbiano fatto negli ultimi mesi per meritarsi questo supplemento di fiducia, al contrario.
Può anche darsi che la scelta un po’ irrituale di due super-commissioni del Presidente siano state intese come un’ultima chance offerta al Parlamento e ai partiti per trovare una soluzione (vedi legge elettorale) consensuale per arrivare in tempi rapidi a nuove elezioni, non appena ci sarà un nuovo presidente. Una sorta di camera di compensazione, dove negoziare al riparo dal costante flusso di dichiarazioni e contro-dichiarazioni, tweet, Facebook e comparsate televisive, che ormai, più che impedire inciuci, impediscono qualsiasi discussione franca, qualsiasi possibilità di verificare ed eventualmente rivedere le proprie posizioni senza essere immediatamente esposti a qualche gogna mediatica.
Ma se questo era l’intento, meglio chiedere ai partiti di formare una commissione paritetica, con un mandato univoco e preciso, impegnandosi ad accoglierne le proposte,
visto che sarà comunque il Parlamento a doverle approvare. Di proposte più o meno ragionevoli fatte da commissioni di esperti cui non ha fatto seguito nessuna decisione congruente è lastricata la storia della Repubblica. In questo caso poi, il mandato delle due commissioni sembra addirittura quello di disegnare i contorni di un programma di governo, cosa non solo irrituale e problematica dal punto di vista istituzionale, ma senza speranza. Tanto più che a comporle sono state chiamate persone e figure istituzionali che, salvo due, tre eccezioni (il presidente dell’Istat Giovannini, l’ex presidente della Corte Costituzionale Onida, il componente del direttorio della Banca d’Italia Rossi), hanno individualmente e/o istituzionalmente una storia di fallimenti, cambi di campo, errori gravi, proprio sui temi su cui dovrebbero proporre soluzioni.
Insomma, non si tratta davvero né di esperti super partes né di esperti, pur di parte, che abbiano dato grande prova di sé.
Rimane, allora, l’amara constatazione che, in una scelta di valore più simbolico che pratico — dare un segnale che il presidente della Repubblica intende lavorare per il bene del paese fino all’ultimo minuto del suo mandato — il messaggio più chiaro, più esplicito e senza possibilità di fraintendimenti, che Napolitano ha mandato al Paese è che le donne come soggetti capaci e competenti non esistono, non nelle prime file almeno. Non hanno il curriculum e non si consente loro di farselo. È un messaggio che riguarda, ovviamente, le donne. Ma riguarda anche gli uomini, così incapaci di guardare al di fuori da loro stessi da continuare pervicacemente ad affidarsi come possibili salvatori della patria a quegli stessi che hanno contribuito ad affondarla.

La Repubblica 02.04.13