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"Il M5S e quell'altezzosa voglia di non partecipare", di Giuseppe Grasso

Gli esponenti del M5S cominciano a farsi conoscere (o meglio riconoscere). Ieri, nel colloquio avuto con Bersani, ripreso in diretta streaming, un loro drappello ha espresso il suo no categorico a ogni tipo di appoggio. La cittadina Roberta Lombardi forse non sa che il Pd può essersi anche giocato la propria «credibilità» sulla ribalta della politica; ma il neonato Movimento di cui lei è portavoce – e su cui un terzo degli elettori italiani ha scommesso – dovrà tagliare il suo nastro, a un certo punto, se non vuole che la fiducia che gli è stata accordata possa sfuggirgli come sabbia tra le dita.
Non sapere non è una colpa. Diventa però difficile anche solo interloquire con chi è inconsapevole e crede di sapere mentre è vittima della più completa ignoranza. Sono stati i Cinque Stelle a voler andare in onda, e sembrava un nobile desiderio di trasparenza civica. In soli 31 minuti, invece, lo spettacolo si è fatto imbarazzante. Si è capito che non era un desiderio elevato. Era un bisogno, e di quelli più bassi e miseri, coatti, in stile Grande Fratello: l’esibizionismo degli impotenti. Bersani, seppur alla ricerca di un contatto, dinanzi all’equipollenza sciagurata che, con l’aria di chi la sa lunga, gli propina la Lombardi, sobbalza a tanta insensibilità verso un colloquio istituzionale: Nossignore! Non siamo a Ballarò di Floris. Si ribella il Presidente. La battuta è del tutto fuori luogo e non fa ridere nemmeno da casa.
La Lombardi, che ha scambiato questo importante appuntamento con la storia italiana per il gioco da tavola di una domenica uggiosa, sfodera oltre il suo improbabile talento da analista dei partiti: Voi politici siete tutti uguali! Anche Enrico Letta desiste: ha capito che non è aria di rispondere quando l’aria che tira è quella fetida della banalità del male. L’essere storditi dal successo può provocare di simili atteggiamenti – atteggiamenti che denotano, purtroppo, una scarsissima capacità di sostenere il risultato ottenuto alle urne. Il massimalismo, del resto, è una vecchia tara della sinistra radicale italiana che ha finito, col tempo, per rivelarsi perdente.
Vito Crimi, che sembra più possibilista, dà atto a Bersani della «bontà del suo impegno», ma poi lo incalza affermando che loro sono «la generazione che non ha mai visto programmi elettorali realizzati» e che, per questo motivo, si sentono «di dover respingere la responsabilità sull’eventuale non partecipazione al governo». Vaglieranno di volta in volta ogni «singolo provvedimento», vanno ripetendo da tempo i Cinque Stelle, e daranno il loro sostegno solo su «singole proposte condivisibili».
Intanto, senza una fiducia pur minima, è impossibile che un governo nel pieno delle sue funzioni possa nascere; e ciò non tanto per soddisfare questa conventicola o quella ma per il bene stesso del popolo italiano, che lo chiede con insistenza sempre più crescente. L’esecutivo ipotizzato da Bersani, probabilmente, non è il peggiore, nato com’è sotto nuovi auspici e la voglia di cambiare quella legge definita porcellum che grida vendetta. Ed è forse l’unico in grado di operare quel mutamento necessario tanto auspicato da Grillo.
L’intento destabilizzante del M5S è palese: prima fare tabula rasa di tutto l’establishment dei «padri puttanieri», poi ricostruire, sulle macerie della vecchia partitocrazia, una società molto simile a Utopia. Portare a casa il 100% dei consensi, come vagheggia Beppe Grillo, non ci sembra affatto politically correct. Riporta la mente a ideologie totalitarie che fanno rabbrividire. Nessuna volontà di occuparsi del governo del paese, nessun desiderio di affrontare la crisi e i problemi che lo attanagliano nell’immediato. Non sono loro che hanno creato i cassintegrati. Questo, in sostanza, il messaggio di chiusura dei cinque Stelle, stanchi di tanta monotona impunità e incaponiti in un veto pregiudiziale a ogni forma di esecutivo.
Però non si può continuare a raccontare la politica solo da quest’angolazione. Il Pd ne prenda atto e smetta di supplicare una fiducia in bianco a chi, reiteratamente, ha mostrato di non volerne sapere. Abbiamo ancora sotto gli occhi l’esempio dell’ultimo governo Prodi messo in scacco da Bertinotti e da Mastella. Se i Cinque Stelle avessero riflettuto, avrebbero fiutato l’occasione in qualche modo storica derivante dalla fiducia chiesta loro da Bersani. Avrebbero capito che sarebbe stata quella la carta vincente che il nostro Bel Paese si merita. È facile non sporcarsi le mani e trincerarsi dietro l’onorabilità del «nuovo»! Bersani – che pure ha fatto tanti errori di cui ora sta pagando il fio, sempre morbido e comprensivo con Monti – è comunque sceso a più miti consigli propugnando un esecutivo del «rinnovamento».
La supponenza e la voglia di sfondare potrebbero non premiare i cittadini del M5S alle prossime votazioni. Già se ne ha sentore nel web dove impazzano le critiche aspre degli elettori che reclamano un comportamento più costruttivo dei loro eletti e una partecipazione diretta nella gestione della cosa pubblica. Grillo gongola e lancia i suoi soliti improperi all’indirizzo dei partiti mentre gli esodati tradizionali e della scuola – caso paradigmatico di una più diffusa disperazione sociale figlia della riforma Fornero – fanno riecheggiare nelle piazze, come storni impazziti, il loro grido d’angoscia invocando equità sociale e rinascita economica.
Se è legittimo non credere nel Pd e nei partiti tradizionali, sul M5S si può solo scommettere, una passione, questa della scommessa, che tramuta lo stato in un ignobile sciacallo. Ai politici «impresentabili» e a quelli «non credibili» si aggiungono ora i grillini in-credibili, i quali, invece di mettersi al lavoro alacremente e di collaborare con il Pd, come è accaduto nella regione Sicilia, si stanno rivelando sempre più, con la delusione e il disappunto di molti, dei fanatici e inconcludenti venditori di fumo.

da www.tecnicadellascuola.it

"L’onorevole Lombardi e la cuoca di Lenin", di Angelo Baglioni e Tito Boeri

Il decreto per sanare i debiti della pubblica amministrazione con le imprese ha suscitato lo sdegno della capogruppo alla Camera del M5S. Chi vorrebbe essere esempio di rinnovamento non si è documentato e mostra presunzione nell’affrontare un problema dalla cui soluzione dipendono migliaia di posti di lavoro.

LE BANCHE E I DEBITI DELLA PA

Il termine “porcata” era stato sin qui riservato al nostro sistema elettorale. Da ieri è stato inopinatamente esteso al tardivo tentativo operato dal nostro Governo di saldare i debiti della pubblica amministrazione verso le imprese. La capogruppo alla Camera del M5S, Roberta Lombardi, ha urlato dal sito di Beppe Grillo e in un video la sua indignata opposizione alla “porcata di fine legislatura” e alla formazione della commissione parlamentare speciale per l’esame del provvedimento:

1) “I cittadini prendono un impegno per 40 miliardi di debito pubblico, di cui una parte (nessuno sa quanta) andrà direttamente alle banche e da questa generosa, ennesima, regalìa ci si aspetta che subito erogheranno prestiti e finanziamenti alle Pmi italiane”.

2) “Con questo decreto legge […] ci stiamo giocando tutto l’indebitamento che possiamo stanziare per la crescita per il 2013″.

Andando al di là del linguaggio colorito, i dubbi espressi dall’onorevole Lombardi sono due, se capiamo bene. Primo, parte dei fondi andrebbero a beneficio delle banche e non delle imprese. Secondo, con questo provvedimento l’Italia si giocherebbe tutta la flessibilità concessa dalla Commissione UE nella gestione dei saldi di finanza pubblica, poiché il rapporto deficit/Pil salirebbe di mezzo punto percentuale, dal 2,4 al 2,9 per cento.
Entrambi i dubbi sono infondati. Bastava un minimo di attenzione e di documentazione per rendersene conto.
Sul primo, bisogna leggere i documenti e guardare ai numeri prima di parlare. Come spiega la nota di variazione del Documento di economia e finanza, “una parte dei pagamenti alle imprese confluirà immediatamente al settore creditizio, in quanto una quota del portafoglio di debiti risulta già ceduto (pro solvendo o pro soluto) alle banche”. In altre parole, bisogna rimborsare le banche perché i debiti della Pa di cui si parla sono in parte stati già ceduti dalle imprese alle banche. Ora, non si vede in nome di quale principio bisognerebbe penalizzare proprio quelle (poche) banche che hanno in (rarissime occasioni) accettato di anticipare alle imprese i loro crediti verso la pubblica amministrazione. Perché negare il diritto a queste banche di essere rimborsate? Di che regalia si tratta se hanno anticipato i fondi alle imprese? Dopotutto sono le banche (e non lo Stato) che in condizioni normali dovrebbero fornire liquidità alle aziende.
I numeri ci dicono, inoltre, che l’ammontare di debiti Pa ceduti alle banche, tramite la procedura di certificazione già introdotta dal Governo Monti, è irrisorio rispetto al totale dei debiti: lo stesso ministro Passera ammetteva nel febbraio scorso che si tratta di tre milioni (a fronte di richieste di certificazione per 45 milioni), che evidentemente sono una briciola rispetto ai 40 miliardi del provvedimento in discussione ora. Quindi agitare il populismo di maniera contro le banche sembra completamente fuori luogo in questo caso. Si dà semmai una scusa alle banche per continuare a non erogare credito alle imprese.

LA QUESTIONE DEL DISAVANZO

Sul secondo punto, bisogna ricordare che la flessibilità concessa dalla UE è legata solo a interventi straordinari legati alla restituzione di debiti pregressi: non può essere utilizzata in altre (peraltro imprecisate) direzioni. Il fatto è che questa operazione ha effetti soprattutto sul debito (sullo stock) più che sui disavanzi annuali (sui flussi). L’aumento di questi ultimi è legato unicamente alla parte che riguarda le spese in conto capitale (per esempio investimenti in infrastrutture) perché nei conti nazionali italiani la spesa in conto capitale viene registrata in termini di cassa e non di competenza (ESA95 lo consente).
Opporsi oggi all’intervento serve a rafforzare le posizioni più oltranziste in seno alla Bce e nell’Eurogruppo, che non vorrebbero concedere neanche questa possibilità al nostro paese. Bisogna infatti ricordare che per il 2013 il Governo Berlusconi si era impegnato al raggiungimento dell’obiettivo del bilancio in pareggio, aggiustato per il ciclo. Pertanto non ci sono margini per altri interventi che aumentino il disavanzo.
Infine, bene ricordare che fornire liquidità alle imprese in un momento in cui sono private di accesso al credito, nel mezzo di una crisi finanziaria, è la cosa più utile che si possa fare per rilanciare l’economia.
Le argomentazioni grilline sono quindi del tutto pretestuose. Sarebbe un vero peccato se esse, grazie anche alla convergenza di qualche parte del Pd (si vedano le dichiarazione di ieri di Stefano Fassina) facessero saltare un provvedimento da molti ritenuto vitale in questo momento per le imprese.
Lenin sosteneva che anche una cuoca avrebbe potuto fare il capo dello Stato. Ma le cuoche raramente sono talmente presuntuose da ritenersi in grado di sapere tutto. Guardano il ricettario e, quando vogliono innovare, sperimentano su di sé o con pochi conoscenti prima di proporre il nuovo piatto al vasto pubblico. La capogruppo M5S invece ci preannuncia uno stile di rappresentanza nelle istituzioni in cui l’urlo precede qualsiasi ragionamento e consultazione. Conta la velocità di esecuzione più che l’apprendimento. E’ un deja vu. Altro che nuova politica! Ne ha almeno parlato coi suoi colleghi di partito? Sorprendente se chi teorizza la democrazia diretta su Internet non si consulta almeno con coloro a nome dei quali prende la parola.

da www.lavoce.info

"Crollano ancora consumi e fatturato. La recessione italiana è senza fine", di Valentina Conte

Il 2013 è diventato dall´anno della ripresa a quello delle stime da rivedere in fretta. E tutte al ribasso. A gennaio secondo le rilevazioni Istat le vendite al dettaglio sono calate del 3 per cento. Palazzo Chigi la chiama «notevole debolezza». Le agenzie di rating la usano per minacciare declassamenti. Il Paese la subisce come una guerra. Ma il punto è che la recessione non molla. Anzi rialza la testa anche in questo 2013, l´anno della luce in fondo al tunnel, diventato l´anno delle stime da rivedere in fretta. E tutte al ribasso.
Il governo Monti l´ha scritto in una relazione che ha inviato qualche giorno fa al Parlamento, in previsione del nuovo Def, il Documento di economia e finanza da presentare entro il 10 aprile. «L´attuale fase è ancora contrassegnata da una notevole debolezza». Tradotto, il Pil scenderà ancora: -1,3% (dopo il -2,4% del 2012) anziché -0,2% che l´esecutivo prevedeva appena sei mesi fa. Sintomo di un quadro deteriorato, lo stesso sul tavolo di Moody´s, che potrebbe costare all´Italia l´ingresso nei Paesi spazzatura, quelli da cui non comprare un´auto usata, figurarsi i titoli del debito pubblico.
Ieri l´Istat ha confermato gli scricchiolii più sinistri. Nel mese di gennaio le vendite al dettaglio sono precipitate del 3% sull´anno: -3,5% quelle dei negozi, -2,3% nella grande distribuzione. I consumi crollano, gli italiani «non hanno i soldi nemmeno per comprare il cibo, l´acquisto di frutta è a -11,3%», lamenta Coldiretti. «Uno scenario desolante», per Confesercenti. Senza parlare dell´industria. Sempre a gennaio, dice l´Istat, il fatturato delle aziende è diminuito del 3,4% e gli ordinativi del 3,3% rispetto all´anno prima. Passato gramo, futuro molto nero. Bisogna «far ripartire più rapidamente la domanda», si allarma il governo. Eppure il decreto per sbloccare i 40 miliardi di debiti dello Stato verso le aziende, ossigeno puro, non c´è ancora. E quando ci sarà, porterà il rapporto tra deficit e Pil al 2,9% nel 2013, anno del (fu) pareggio di bilancio, forse a rischio. L´Europa che una settimana fa avallava, ora è in fibrillazione.
Il quadro macroeconomico italiano è dei peggiori. Tre milioni di disoccupati, mezzo milione in più in dodici mesi (l´11,7% a gennaio, ma il 38,7% tra i giovani). Otto milioni di poveri. E quasi sette milioni in “grave deprivazione”, li definisce l´Istat, a un passo dal bisogno. Mille aziende che chiudono al giorno (365 mila nel 2012, dati Unioncamere). La produttività oramai in caduta libera (-2,8% nel quarto trimestre 2012, dopo il -3% del terzo, calcola la Commissione europea). Cuneo fiscale al top (47,6% nel 2012, sesto Paese sui 34 dell´Ocse). E quindi troppe tasse sul lavoro, buste paga magre, aziende che non assumono oppure offrono posti mal retribuiti, precari, in nero. Il tasso di occupazione italiano (a gennaio al 56,3%) è tra i più critici e bassi del Continente. Meno della metà delle donne lavora (46,8%). E chi ha un impiego si impoverisce, visto che tra il 2007 e il 2011 (dati Istat) il potere d´acquisto delle famiglie italiane è dimagrito di cinque punti. La luce nel tunnel si sposta sempre più in fondo.

La Repubblica 28.03.13

VALENTINA CONTE

"Lo scrivano di Melville e quel no dei grillini", di Valeria Viganò

C’è chi dice no. No, io non ci sto. No, io non ci sto.E’ presto detto, è presto fatto Basta dire no. Il valore del no è un valore assoluto. Il no è contro per principio. Può anche fregarsene dei contesti, è un’idea di per sé. Questo devono aver pensato gli uomini e le donne a stelle paladini della protesta contro un assoluto malaffare sul quale il compromesso non si può giustamente aprire. Nessun compromesso. Bartleby lo scrivano, eccelsa creatura di Melville, rispondeva a ogni richiesta con un «preferirei di no» certamente più aggraziato ma altrettanto definitivo. Come Gianni Celati sostiene nella stupenda prefazione al racconto di Melville, vi è un fondo di indifferenza in una simile risposta, una non appartenenza, un isolamento. Di un uomo che mette in atto il rifiuto costante e ripetuto come unica azione e manifestazione di libero arbitrio. Ma se Bartleby, invece di uno scrivano a cui, come sottoposto, non resta che ubbidire o, come fa lui, decidere se eseguire il compito oppure no, fosse stato un capoufficio, o meglio ancora il direttore generale, gli sarebbe stato possibile rispondere con un diniego al suo compito da assolvere? Avrebbe potuto esimersi dal suo dovere e responsabilità? Chi dice no alla protervia corrotta, alla disonestà, ai mali orrendi di questo Paese vecchio e triste ha stramaledettamente ragione. E siamo con lui, come cittadini e italiani. Ma chi non è un semplice scrivano e assurge al ruolo di rappresentante di milioni di persone (semplici cittadini e italiani), viene per questo pagato (speriamo il giusto e non più lautamente) è obbligato per ruolo e potere, non solo a negare ma a proporre un’alternativa, un incontro sull’alternativa, un dialogo sull’alternativa. Perché l’alternativa possa farsi realtà. L’assoluto contenuto nel no si scontra con il relativismo che appartiene a qualsiasi comunità degli uomini e delle donne. Il Parlamento è una di queste. Sedersi su uno scranno così nobile non vuol dire battere i piedi e chiudersi in se stessi, producendo un solo mono-tono, una sillaba, due lettere tanto drammatiche. Il no può diventare la sferzata necessaria ma non uno sdegno vuoto. Il no non deve essere portatore di idee dittatoriali ma l’etica imprescindibile davanti alle nefandezze. Un’etica che abita gli esseri umani come senso di giustizia senza essere giustizieri. Noi non ci saremmo aspettati da Bartleby qualcosa che non aveva, non potevamo pretendere altro che la sua incredibile originalità. Ma da qualcuno che è diventato molto di più di Bartleby e ha in mano le sorti di una intera nazione sì, pretendiamo di più. Pretendiamo una coscienza, una preparazione, una conoscenza che vada oltre un no, che non smetta come Bartleby di scrivere perché banalmente non vuole e resti fermo ore a guardare un muro in una nuova rivolta senza parole. Hai voluto la bicicletta e adesso pedala. Bartleby la bicicletta non la voleva, preferiva andare a piedi. Chi la vuole e la ottiene deve pedalare di gran lena, e soprattutto avere una meta che non sia un’isola solitaria. Per quello ci vuole una barca, che rischia di affondare insieme al transatlantico, perché l’isola è un miraggio, è l’Isola Che Non C’è.

L’Unità 28.03.13

"L’asse tra Grillo e il Cavaliere a dispetto dell’Italia" di Pietro Spataro

La commedia degli insulti e i giochi di potere si incrociano. Un inedito asse tra Grillo e Berlusconi sembra sbarrare al tentativo di Bersani: il vaffanculo del comico si unisce ai veti del Cavaliere e insieme rischiano di mandare all’aria l’impegno per un governo di cambiamento. Se nelle prossime ore, prima che Bersani salga al Quirinale, non dovesse aprirsi uno spiraglio l’Italia precipiterebbe in una fase turbolenta e pericolosa.
Non solo perché il tempo non gioca a favore e le trattative per un nuovo esecutivo ci renderebbero fragili e indifesi in una situazione finanziaria già terremotata. Ma anche perché, è inutile girarci attorno, un’altra soluzione tecnica sarebbe la soluzione peggiore quando servono scelte politiche chiare e il coraggio di osare. Una «soluzione greca» ci getterebbe dentro un vortice pericoloso. L’esempio di Atene, con il dramma di una crisi economica incontrollabile e di una condizione sociale insostenibile, solo a citarlo fa venire i brividi. Ora starà alla saggezza e all’equilibrio di Napolitano trovare, nelle condizioni date, la via d’uscita migliore. Non è semplice, perché la ferita che rischia di aprirsi non sarà facile da rimarginare e sicuramente non è compatibile con alcuna ipotesi di governissimo che si basi su un patto tra il Pd e il Pdl. Siamo a un passaggio ad alto rischio. E in questa confusa fase politica ci sono state forze che hanno giocato al tanto peggio tanto meglio. Lo ha fatto Grillo che ha preso l’enorme consenso ricevuto dagli italiani e lo ha usato, tra insulti e ingiurie, come una clava. Se durante la campagna elettorale le sue volgarità potevano far sorridere qualcuno, oggi appaiono quel che sono: la dimostrazione che a Grillo dell’Italia non gliene importa nulla. In preda a un ossessivo «vaffanculismo» sta impedendo ogni possibile soluzione. Perché, in fondo, è sulle macerie che il comico genovese spera di prosperare. E perché, alla fine, dall’alto di un Suv, dei milioni di reddito e delle ville adagiate sulle dune non si capisce davvero la vita dei pensionati, dei precari o degli esodati che gli sembrano solo personaggi in cerca di autore per uno show di successo. Ma qui non siamo al Bagaglino e la commedia dell’ingiuria rischia di trasformarsi in una tragedia.
Non a caso nella parabola della demagogia ha incontrato una destra che resta prigioniera di Berlusconi. Anche il Cavaliere, rimanendo nell’ombra, sta guidando il suo partito avendo cura solo dei suoi interessi personali. Preferisce non misurarsi con la sfida di una convenzione per le riforme che potrebbe essere l’occasione di un vero cambiamento istituzionale e si chiude nel suo bunker pensando solo al nuovo capo dello Stato. Se le cose dovessero andare male potrà vendersi il successo di aver fatto cadere Bersani con la speranza di un governo che diventerebbe davvero il trionfo dell’ingovernabilità.
Sarebbe un brutto epilogo. Certo, i margini sono stretti ma la buona politica, nelle condizioni più avverse, spesso riesce a trovare la spinta che sembra impossibile. Aspettiamo che Bersani salga al Quirinale e speriamo che le porte non siano tutte chiuse. Nel caso contrario serviranno, soprattutto nel Pd, nervi saldi per gestire una nuova fase senza cedimenti e con la consapevolezza di essere comunque il primo partito. Tutto servirà nei prossimi giorni, tranne un partito diviso.

L’Unità 28.03.13

"Libri digitali, aspra polemica editori-Profumo", da Tuttoscuola

L’Aie, Associazione italiana editori, alza ulteriormente il tiro contro il decreto ministeriale che dispone di adottare dall’anno scolastico 2014-2015 solo libri nella versione digitale o mista. Una nota dell’associazione definisce il provvedimento “dannoso e inapplicabile” perché non tiene conto della “insufficienza infrastrutturale delle scuole (banda larga, WiFi, dotazioni tecnologiche…), rappresentata, con dati e confronti molto eloquenti, poche settimane fa dall’indagine dell’Ocse” e ignora le “pesanti ripercussioni sui bilanci delle famiglie, sulle quali si vogliono far ricadere i costi di acquisto delle attrezzature tecnologiche (pc, portatili, tablet…), quelli della loro manutenzione e quelli di connessione, che nelle altre esperienze europee e degli altri paesi a ovest e a est dell’Europa sono solitamente affrontate con consistenti finanziamenti pubblici”.

Ben diverso il punto di vista del titolare di viale Trastevere, riflesso nel decreto, secondo cui nel caso in cui l’intera dotazione libraria sia composta esclusivamente da libri in versione digitale la sforbiciata ai tetti di spesa arriverebbe al 30% e i risparmi ottenuti potrebbero essere utilizzati dalle scuole per dotare gli studenti dei supporti tecnologici necessari (tablet, PC/portatili).

A parere degli editori invece le intenzioni del Ministero “sembrano frutto della sola determinazione di voler favorire l’acquisto di tablet e pc e non poggiano su alcuna seria e documentata validazione di carattere pedagogico e culturale”, né tengono conto delle “possibili ricadute sulla salute di bambini e adolescenti esposti a un uso massiccio di devices tecnologici”.

Secca la replica del ministro Profumo, che sulla necessità di innovare non ha dubbi. “Pensare che tutto debba essere messo a disposizione dalla scuola è utopia, serve invece un lavoro di squadra. Insomma se uno studente ha un tablet lo porti pure a scuola, come fosse un libro, e lo usi per studiare” aveva detto alcuni giorni fa. E difende il decreto contestato: “Grazie a questi provvedimenti gli studenti avranno la possibilità di utilizzare anche a scuola, e per obiettivi didattici, strumenti che già utilizzano diffusamente a casa, migliorando il livello delle competenze digitali dell’intera popolazione italiana”.

La maggiore incognita che grava sulla concreta attuazione del decreto nei tempi previsti appare peraltro quella relativa alla formazione dei docenti: un’operazione che dovrebbe coinvolgere centinaia di migliaia di insegnanti già nell’anno scolastico 2013-2014, e che richiederebbe una azione sinergica tra Ministero e case editrici.

da TUttoscuola 28.03.13

"Le anime perse dell'università. L’università italiana alla ricerca di maestri", Pier Luigi Celli

Mentre il mondo cerca strade nuove e le culture meno occidentali si affermano, noi ci balocchiamo difensivamente intorno ai temi del valore degli h-index, facciamo guerre di posizione sul numero e la qualità delle pubblicazioni in riviste più o meno reputate, pensiamo di risolvere i problemi della valutazione approntando qualche chilo di questionari la cui compilazione demenziale demanda il compito a quelli stessi che dovrebbero essere valutati. Ci sono istituzioni che leggono in ritardo i mutamenti nelle società tentando forme di adattamento incrementale, e altre che pensano di affrontarli irrigidendo burocraticamente gli stimoli all’innovazione, inquadrandoli strumentalmente, lavorando solo sulle componenti interne tradizionali in ottica di aggiornamento. Fino a estenuarne la valenza salvifica in assenza di coraggio e passione. L’università sembra dispiegare nelle ricorrenti riforme una volontà minimizzatrice che esalta l’apparente razionalizzazione degli strumenti gestionali, finalizzati alla conservazione del potere accademico interno nel momento in cui tutto si flessibilizza, crescono le autonomie, vanno in crisi le barricate che facevano della politica l’ultimo rifugio della conservazione.

Mentre il mondo cerca strade nuove e le culture meno occidentali si affermano, noi ci balocchiamo difensivamente intorno ai temi del valore degli h-index, facciamo guerre di posizione sul numero e la qualità delle pubblicazioni in riviste più o meno reputate, pensiamo di risolvere i problemi della valutazione approntando qualche chilo di questionari la cui compilazione demenziale demanda il compito a quelli stessi che dovrebbero essere valutati. Ci sfugge che l’università dovrebbe avere un ordine delle priorità diversamente articolato. L’istituzione ha un core business: gli studenti e il loro destino, in un mondo in cui gli sconvolgimenti epocali imprimono accelerazioni impensate mettendo a rischio modalità collaudate di insegnamento, vecchie certezze organizzative e la tradizionale linea di confine tra ciò che sta dentro il sistema di trasmissione scientifica e quel che avviene all’esterno. Ciò dovrebbe portare a riflettere che la semplice ripulitura degli strumenti tradizionali, l’adeguamento meccanico, l’affermazione reiterata di interessi corporativi, seppur sottoposti a maquillage, non aiutano ad affrontare la natura della missione che bisognerebbe affrontare.

Che è quella di aiutare gli studenti non solo a imparare le materie in piani di studio mal articolati a tutela di professori a cui bisogna garantire un corso, ma a sperimentare le condizioni nuove che si troveranno ad affrontare. I saperi al lavoro richiedono la valutazione di altri impegni oltre a quelli dell’aula, di una diversa cura degli interessi complessi in gioco. Non si può pretendere di capire come operare nel durante senza includere nella visione il prima e il dopo, come fosse possibile costruire un ponte non avendo attenzione ai piloni. La nostra cultura, rispetto alla ricchezza della domanda di competenza che esprime un mercato del lavoro in evoluzione, sembra asfittica, ripiegata a tutelare assetti disciplinari rigidi, inquadrata in regole burocratiche che nessuno riesce più a comprendere. Anche perché se non si apre la scatola legittimando il confronto, liberando le forze in campo, riportando la valutazione nelle mani di chi è destinatario del servizio (studenti, famiglie) e di quanti (imprese, organismi di rappresentanza, associazioni professionali) dovranno beneficiare del prodotto formato, il rischio di obsolescenza di quanto si va preparando è prevedibile.

C’è un derivato di quest’impostazione arretrata: la cultura autoriferita del sistema universitario, con i suoi modelli di segmentazione dei saperi e la tutela delle reti di trasmissione e cooptazione dei ruoli di potere accademici, oltre a essere divergente rispetto a come va il mondo inculca negli allievi una dimensione individualizzata dei percorsi di carriera, giocata sulla mediazione della materia e dell’esame, avulsa da percorsi relazionali e da stimoli che dovrebbero alimentare il tessuto connettivo degli anni di studio. Le nostre università stentano a definirsi un mondo con quello che il termine include: vita, interessi da cui trarre saperi complementari, esercizio di responsabilità operative, terreno di sviluppo di idee e costruzione di progetti. Ciò che aiuterebbe a familiarizzarsi con i problemi a cui gli studenti vanno incontro. È illusorio immaginare che la comprensione del mondo passi solo attraverso la trasmissione di conoscenze. Serve un supplemento crescente di esperienze multiple, anticipate, che evidenzino la diversa disponibilità dell’istituzione e dei suoi interpreti, non più sacerdoti di materie arcane o di tecnologie salvifiche ma disponibili a interpretare se stessi.

Il nuovo mondo ha bisogno di una figura antica, il maestro. Che si prende cura, consente di sbagliare, alimenta la curiosità e la voglia di provare. Qualcuno che ha il gusto e la passione di creare una discendenza. Quanto tutto questo abbia da spartire con la cultura universitaria è un bell’esercizio di discernimento. Ma, forse, è anche per questo che oggi, se non ripensiamo l’istituzione in funzione delle sue vere finalità e delle nuove sfide, avendo il coraggio di dire quello che è riforma fasulla e bisogni veri, continueremo ad alimentare una cultura perdente. Con la responsabilità di rafforzare un ossimoro: quello di flessibilizzare le teste utilizzando una struttura di trasmissione inflessibile.

da Affari e Finanze 28.03.13